SENTENZA
N. 182
ANNO
2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME
DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI
Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto
Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale
dell’art. 1 del decreto
legislativo 1° dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni legislative statali
anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in
vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246), voce n.
1266 dell’Allegato 1, promosso dal Tribunale ordinario di Sondrio nel
procedimento vertente tra la Società Agricola Melavì
- società cooperativa e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS),
con ordinanza
del 6 aprile 2017, iscritta al n. 138 del registro ordinanze 2017 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale,
dell’anno 2017.
Visti gli atti di
costituzione della Società Agricola Melavì - società
cooperativa e dell’INPS;
udito nella udienza
pubblica dell’8 maggio 2018 il Giudice relatore Franco Modugno;
uditi gli avvocati Oronzo
Mazzotta per la Società Agricola Melavì - società
cooperativa e Antonino Sgroi per l’INPS.
Ritenuto
in fatto
1.– Con ordinanza del 6 aprile 2017 (r.o. n. 138 del 2017), il Tribunale ordinario di Sondrio ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto legislativo 1°
dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio
1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma
dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246), nella parte in cui,
alla voce n. 1266 dell’Allegato 1, dichiara la permanente vigenza dell’art. 8
della legge 25 luglio 1952, n. 991 (Provvedimenti in favore dei territori
montani).
Il giudice rimettente riferisce di essere
chiamato a pronunciarsi sulla domanda della Società Agricola Melavì - società cooperativa «di accertamento del proprio
diritto a beneficiare dell’esenzione dal pagamento dei contributi», secondo
quanto previsto dall’art. 8 della legge n. 991 del 1952, con la conseguente
condanna dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) a restituirle,
nei limiti della prescrizione, le somme versate a tale titolo.
Il giudice a quo precisa che i fatti sono
pacifici tra le parti.
La parte attrice – la quale gestisce un’azienda
agricola in un territorio classificato come montano, avvalendosi di personale
avente la qualifica di operaio occupato a tempo determinato o indeterminato –
sostiene che la norma che dispone l’esenzione dal pagamento dei contributi
agricoli non sia mai stata oggetto di abrogazione, né espressa né tacita. La
fondatezza di tale tesi troverebbe riscontro nell’art. 1 del d.lgs. n. 179 del
2009, il quale, diretto a individuare le norme pubblicate anteriormente al 1°
gennaio 1970 di cui è indispensabile la permanenza in vigore, all’Allegato 1,
voce n. 1266, ha esplicitamente indicato il richiamato art. 8 della legge n.
991 del 1952. Circostanza, questa, che non potrebbe essere superata «a mezzo di
una mera disapplicazione della norma avente forza di legge», come invece
avrebbe fatto la Corte di cassazione, sezione lavoro, con le sentenze 22 agosto
2013, n. 1920 (recte: 19420) e 20 aprile 2016, n.
7976, potendo il giudice comune semmai sollevare questione di legittimità
costituzionale della citata disposizione del decreto legislativo.
L’INPS chiede il rigetto della domanda
sostenendo, al contrario, che il citato art. 8 sia stato tacitamente abrogato,
come è stato ritenuto, in particolare, dalla già richiamata giurisprudenza di
legittimità.
1.1.– Ciò premesso, il giudice di Sondrio rileva
che, ai fini della decisione della controversia, occorre verificare, innanzitutto,
se l’art. 8 della legge n. 991 del 1952 sia ancora in vigore. A tal proposito,
ritiene di aderire al percorso argomentativo proposto dalla Corte di cassazione
nella richiamata sentenza del 2013, trascritto e fatto integralmente proprio
nell’ordinanza di rimessione.
I passaggi rilevanti del complesso excursus
normativo – ampiamente svolto dal giudice della nomofilachia e riferito
nell’ordinanza di rimessione – sono i seguenti: 1) l’art. 8 della legge n. 991
del 1952, rubricato «Agevolazioni fiscali», aveva un duplice contenuto: per un
verso, prevedeva agevolazioni fiscali per i territori montani, identificati
come tali in virtù dell’art. 1 della medesima legge e del richiamo al decreto
legislativo del Capo provvisorio dello Stato 7 gennaio 1947, n. 12
(Modificazioni al decreto legislativo Presidenziale 27 giugno 1946, n. 98,
concernente l’esenzione dalla imposta fondiaria e sul reddito agrario per i
terreni montani); per un altro, prevedeva l’esenzione dal pagamento dei
contributi agricoli unificati per i terreni situati a quota non inferiore ai
700 metri sul livello del mare; 2) gli artt. 58 e 68 del decreto del Presidente
della Repubblica 29 gennaio 1958, n. 645 (Approvazione del testo unico delle
leggi sulle imposte dirette), dettando una nuova disciplina in materia, hanno
tacitamente abrogato l’art. 8 per la parte relativa alle agevolazioni fiscali;
3) la legge 3 dicembre 1971, n. 1102 (Nuove norme sullo sviluppo della
montagna), istituiva le Comunità montane e, al suo art. 12, quinto comma, espressamente
stabiliva che «le agevolazioni fiscali di cui all’articolo 8 della legge 25
luglio 1952, n. 991, sono estese all’intero territorio montano»; 4) gli artt. 7
e 8 del decreto-legge 23 dicembre 1977, n. 942 (Provvedimenti in materia
previdenziale), convertito, con modificazioni, nella legge 27 febbraio 1978, n.
41, per un verso, con disposizione d’interpretazione autentica, hanno
confermato l’esenzione contributiva in discorso per le sole imprese con terreni
ubicati ad una altitudine non inferiore ai 700 metri sul livello del mare e,
per un altro, hanno ridotto del 40 per cento i contributi previdenziali ed
assistenziali dovuti per i lavoratori agricoli dipendenti nei territori montani
al di sotto dei 700 metri di altitudine; 5) la Corte costituzionale, con la sentenza n. 370 del
1985, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 della legge
n. 991 del 1952, nonché degli artt. 7 e 8 del decreto-legge n. 942 del 1977,
nella parte in cui non prevedevano l’esenzione dal pagamento dei contributi
unificati agricoli anche per i terreni compresi in territori montani ubicati ad
altitudine inferiore ai 700 metri sul livello del mare; 6) a fini fiscali, una
nuova definizione di territori montani, più ampia delle precedenti, veniva
dettata dall’art. 9 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre
1973, n. 601 (Disciplina delle agevolazioni tributarie); 7) l’art. 9, comma 5,
della legge 11 marzo 1988, n. 67, recante «Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 1988)», pone una
generale disciplina di sgravi contributivi per le imprese agricole in territori
montani; da allora in avanti, si è fatto riferimento, ai fini delle agevolazioni
contributive in favore di datori di lavoro agricolo operanti nei territori
montani, all’individuazione di questi ultimi dettata dall’art. 9 del d.P.R. n.
601 del 1973; 8) gli artt. 28 e 29 della legge 8 giugno 1990, n. 142
(Ordinamento delle autonomie locali), successivamente abrogati dal decreto
legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento
degli enti locali), hanno disposto l’abrogazione, tra gli altri, degli artt. 1
e 14, secondo comma, della legge n. 991 del 1952, nonché degli artt. 3, 4, 5 e
7 della legge n. 1102 del 1971; 9) l’art. 11, comma 27, della legge 24 dicembre
1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), ha sostituito il
comma 5 dell’art. 9 della legge n. 67 del 1988, rideterminando la quota di
sgravio contributivo spettante ai datori di lavoro aventi sedi ed operanti nei
comuni montani, con riferimento ai lavoratori dipendenti assunti a tempo
indeterminato o determinato; 10) l’art. 18 della legge 31 gennaio 1994, n. 97
(Nuove disposizioni per le zone montane), ha previsto un esonero previdenziale
totale per le assunzioni a tempo parziale da parte delle imprese e dei datori
di lavoro aventi sedi ed operanti nei comuni montani; regime, questo, che
sarebbe coerente con quello di sgravi contributivi configurato dall’art. 9
della legge n. 67 del 1988, mentre sarebbe del tutto incompatibile con la
sopravvivenza del regime generale di esenzione contributiva previsto dall’art.
8 della legge n. 991 del 1952: ciò perché non avrebbe senso una norma diretta a
prevedere una particolare ipotesi di esenzione per le assunzioni a tempo
parziale, ove il regime generale fosse quello dell’esenzione dal pagamento dei
contributi agricoli; 11) in epoca più recente, con l’art. 01 del decreto-legge
10 gennaio 2006, n. 2 (Interventi urgenti per i settori dell’agricoltura,
dell’agroindustria, della pesca, nonché in materia di fiscalità d’impresa),
convertito, con modificazioni, in legge 11 marzo 2006, n. 81, è stato
introdotto un incremento – fino al 75 per cento – dello sgravio contributivo
per i territori montani particolarmente svantaggiati, con richiamo della legge
n. 67 del 1988; 12) tale regime è stato oggetto di diverse proroghe, fino al 31
luglio 2010 (ad opera dell’art. 1-ter, comma 1, del decreto-legge 3 novembre
2008, n. 171, recante «Misure urgenti per il rilancio competitivo del settore
agroalimentare», convertito, con modificazioni, in legge 30 dicembre 2008, n.
205; dell’art. 8-octies del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, recante
«Misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi, nonché
disposizioni in materia di produzione lattiera e rateizzazione del debito nel
settore lattiero-caseario», convertito, con modificazioni, in legge 9 aprile
2009, n. 33; dell’art. 2, comma 49, della legge 23 dicembre 2009, n. 191,
recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato (legge finanziaria 2010)»); 13) infine, l’art. 1, comma 45, della
legge 13 dicembre 2010, n. 220, recante «Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2011)», ha
ripristinato gli sgravi contributivi, eliminando le pregresse scadenze per
usufruire del maggior beneficio.
Alla luce di tale evoluzione normativa, la Corte
di cassazione, nella citata sentenza n. 19420 del 2016, ha affermato che l’art.
8 della legge n. 991 del 1952 «non può che rientrare tra le disposizioni
tacitamente o implicitamente abrogate» o, ad ogni modo, tra le disposizioni
che, prima dell’emanazione del d.lgs. n. 179 del 2009, «avevano esaurito la
loro funzione o erano comunque obsolete». La disposizione di delega sulla cui
base è stato adottato tale decreto legislativo (art. 14, comma 14, della legge
28 novembre 2005, n. 246, recante «Semplificazione e riassetto normativo per
l’anno 2005», quale risultante dalla sostituzione ad opera dell’art. 4, comma
1, della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante «Disposizioni per lo sviluppo
economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo
civile») espressamente escludeva, tuttavia, che potessero individuarsi quali
disposizioni la cui permanenza in vigore è indispensabile disposizioni, per
l’appunto, «oggetto di abrogazione tacita o implicita» (lettera a) o che
avessero «esaurito la loro funzione o [fossero] prive di effettivo contenuto
normativo o [fossero] comunque obsolete» (lettera b). Secondo il giudice della
nomofilachia, conseguentemente, l’inclusione del citato art. 8 tra le norme
"salvate” «si deve considerare tamquam non esset, frutto di un lapsus calami, sulla base di una
interpretazione rispettosa dell’art. 15 preleggi e costituzionalmente
orientata, nel senso della coerenza e ragionevolezza dell’ordinamento (art. 3
Cost.), del rispetto dei principi e criteri direttivi della legge di delega
(art. 76 Cost.), alla luce anche dell’art. 44 Cost., comma 2». Conclusione,
questa, che sarebbe avvalorata dalle affermazioni della giurisprudenza
costituzionale sul d.lgs. n. 179 del 2009, in base alle quali tale atto
normativo avrebbe una «funzione meramente ricognitiva» e sarebbe «sprovvisto di
una propria e autonoma forza precettiva o, se si vuole, di quel carattere
innovativo che si suole considerare proprio degli atti normativi», potendo
soltanto confermare la vigenza di norme che non l’avessero già perduta (sentenza n. 346 del
2010; nello stesso senso è richiamata anche la sentenza n. 80 del
2012).
1.2.– Il giudice rimettente, dopo aver osservato
che analoghe argomentazioni sono state riproposte anche dalla sentenza della
Corte di cassazione, sezione lavoro, n. 7976 del 2016, condivide, della
giurisprudenza di legittimità, la conclusione circa l’avvenuta abrogazione
tacita dell’art. 8 della legge n. 991 del 1952.
Dissente, invece, quanto alla possibilità di
considerare quale lapsus calami l’inserimento di quest’ultimo articolo tra le
disposizioni "salvate” dal d.lgs. n. 179 del 2009. Se è vero che il citato art.
8 non era più «norma vigente del nostro ordinamento giuridico» e, pertanto, il
Governo non aveva «alcun potere di farla rivivere», si sarebbe, allora,
«dinanzi a un’attività normativa sfornita di copertura costituzionale posta in
essere dal legislatore delegato», che non consente al giudice ordinario «la
disapplicazione tout court della norma in questione, avente valore formale di
legge fino alla sua rimozione dal nostro ordinamento giuridico, cui è abilitata
la sola Corte costituzionale».
La norma del decreto legislativo, pertanto,
sarebbe di necessitata applicazione nel giudizio a quo, in quanto impedirebbe
il rigetto della domanda giudiziale, cui il giudice rimettente riterrebbe di
pervenire in considerazione della pregressa abrogazione tacita dell’art. 8
della legge n. 991 del 1952: di qui la rilevanza delle questioni di legittimità
costituzionale. La loro non manifesta infondatezza, per violazione degli artt.
3 e 76 Cost., si desumerebbe da quanto già argomentato.
2.– Con atto depositato il 30 ottobre 2017, si è
costituito in giudizio l’INPS, parte convenuta nel giudizio a quo, contestando
«la rilevanza, l’ammissibilità e la fondatezza» delle sollevate questioni di
legittimità costituzionale.
La difesa dell’INPS puntualizza, innanzitutto, i
fatti della controversia. In particolare, rileva che la società agricola
attrice aveva assolto per tempo agli oneri contributivi in favore degli operai
agricoli utilizzati, fruendo dello sgravio contributivo parziale di cui
all’art. 9 della legge n. 67 del 1988, e che, pertanto, chiedendo ora
l’applicazione dell’art. 8 della legge n. 991 del 1952, viene a pretendere la
restituzione del solo differenziale contributivo, non avendo mai pagato la
contribuzione in misura ordinaria.
Ripercorsa, poi, l’ordinanza di rimessione,
l’INPS ritiene che le questioni di legittimità siano inammissibili, in quanto
sarebbe carente la motivazione circa la violazione di entrambi i parametri
costituzionali evocati. Il giudice rimettente si sarebbe limitato a confutare,
«con giudizi di valore e non giuridici, il percorso argomentativo che ha
utilizzato il giudice della nomofilachia», senza però esporre le ragioni che
non gli consentirebbero di «disapplicare una disposizione di legge che afferma
l’esistenza e l’efficienza nell’ordinamento giuridico di una disposizione che
non è più in essere». Il giudice a quo, inoltre, avrebbe dimostrato di far
propria la soluzione della Corte di cassazione, ritenendo soltanto di non
poterla applicare se non dopo l’annullamento della norma censurata da parte
della Corte costituzionale: dovrebbe allora spiegare «quali siano i motivi
giuridici sottesi allo svolgimento di un’attività normativa sfornita di
copertura costituzionale che però, per non essere applicata dai giudici di
merito, necessita sempre e comunque di una declaratoria di illegittimità
costituzionale».
3.– Con atto depositato il 30 ottobre 2017, si è
altresì costituita in giudizio la Società agricola Melavì
- società cooperativa, parte attrice nel giudizio a quo, chiedendo che sia
dichiarata l’inammissibilità o l’infondatezza delle sollevate questioni di
legittimità costituzionale.
Sinteticamente ripercorsi i fatti di causa, e
messo in luce in particolare come la mancata abrogazione dell’art. 8 della
legge n. 991 del 1952 sia «sancita per tabulas» dal
decreto legislativo n. 179 del 2009, la difesa della parte privata contesta sia
la premessa del ragionamento del giudice rimettente (ossia, l’intervenuta
abrogazione del citato art. 8), «sia le conseguenze trattene sul significato
sistematico» del richiamato decreto legislativo.
3.1.– Per quanto riguarda la mancata abrogazione
tacita, la parte privata rileva che la legge n. 991 del 1952 è stata sì oggetto
di numerosi interventi normativi, ma che questi mai hanno interessato l’art. 8,
di modo che è rimasta immutata la previsione della totale esenzione
contributiva: le leggi successive nel tempo che hanno interessato i territori
montani, infatti, hanno provveduto ad abrogare esplicitamente le precedenti
norme, ove contrastanti, dal che dovrebbe dedursi che il citato art. 8 «non è
stato oggetto di abrogazione nemmeno implicita». Tale ricostruzione troverebbe
conforto nella sentenza
n. 254 del 1989 della Corte costituzionale: in tale decisione, resa
quand’era già vigente l’art. 9 della legge n. 67 del 1988, espressamente
richiamato dall’allora giudice rimettente, si afferma che «per i terreni
compresi in territori montani ubicati ad altitudine superiore ai settecento
metri sussiste normativamente l’esenzione dal pagamento dei contributi
unificati».
L’abrogazione tacita, del resto, presupporrebbe
«un evidente contrasto tra norme e non [potrebbe] essere neppure applicata in
casi (…) dubbi». In questa prospettiva, la giurisprudenza ordinaria e
amministrativa sottopone a «rigorosi limiti la verifica del requisito della
"incompatibilità”» (si richiamano le sentenze del Consiglio di Stato, sezione
quinta, 2 settembre 2013, n. 4337, e della Corte di cassazione, sezione lavoro,
10 agosto 1998, n. 7840).
La legge n. 67 del 1988 non introdurrebbe
neppure una nuova disciplina della materia, come al contrario prospettano la
giurisprudenza di legittimità e il giudice rimettente, affermando che essa ha
per oggetto tutti i territori montani e tutte le qualifiche dei dipendenti. In
particolare, la giurisprudenza di legittimità non avrebbe tenuto conto della
«necessaria distinzione tra le varie categorie di dipendenti precisata dal
legislatore nelle due disposizioni»: la legge n. 991 del 1952, infatti, si applicherebbe
soltanto agli operai che svolgevano l’attività nei territori montani, in quanto
«categoria maggiormente penalizzata dalla particolare situazione di quel
territorio»; per le altre categorie di lavoratori, che erano già soggette a
contribuzione, la legge n. 67 del 1988 ha invece introdotto le agevolazioni.
D’altro canto – osserva ancora la difesa della
parte privata – seguendo la prospettazione dell’INPS dovrebbe concludersi che
il legislatore del 1988 aveva introdotto una agevolazione estesa anche a chi
allora beneficiava dell’esenzione totale: difficile però immaginare «che una
misura definita come una agevolazione in realtà possa essere interpretata come
introduzione ex novo di un obbligo contributivo».
Inoltre, la legge n. 67 del 1988 avrebbe
stabilito per tutto il territorio nazionale i parametri per la delimitazione
delle aree svantaggiate, determinando i relativi livelli contributivi per la
generalità dei dipendenti. L’agevolazione contributiva contestualmente
prevista, pertanto, doveva applicarsi a tutti i dipendenti operanti in tali
territori, non anche agli operai che prestavano la manodopera in territori
montani, tanto più che la circostanza che un’azienda agricola ricada
contemporaneamente in una zona svantaggiata e in un territorio montano non
influisce sul godimento dei benefici riconosciuti dalla legge (si richiama la
sentenza della Corte di cassazione, sezione lavoro, 26 marzo 1998, n. 3199).
La difesa della società agricola assume, dunque,
che, non essendo stato implicitamente abrogato l’art. 8 della legge n. 991 del
1952, le questioni di legittimità costituzionale debbono considerarsi
inammissibili.
3.2.– Ad ogni modo, la circostanza che il
legislatore si sia esplicitamente pronunciato per la vigenza di un testo
normativo dovrebbe di per sé escludere l’abrogazione tacita, poiché il contesto
valutativo si rivela «non molto dissimile da quello usualmente valorizzato con
riferimento all’interpretazione autentica proveniente, per l’appunto, dal
legislatore».
La difesa della parte privata critica
severamente, pertanto, la giurisprudenza di legittimità richiamata dal giudice
a quo, rilevando come per parlare coerentemente di lapsus calami dovrebbe
dimostrarsi che il riferimento all’art. 8 della legge n. 991 del 1952 fosse
sicuramente non voluto dal legislatore.
In senso contrario, invece, militerebbe
innanzitutto il fatto che, attraverso le deleghe di cui all’art. 14 della legge
n. 246 del 2005, il legislatore ha posto in essere un meccanismo di
semplificazione della legislazione, cui il Governo ha dato corso attraverso una
complessa attività di consultazione dei ministeri interessati, sfociata prima
nel d.lgs. n. 179 del 2009 e poi nel relativo decreto legislativo correttivo 13
dicembre 2010, n. 213 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 1°
dicembre 2009, n. 179, recante disposizioni legislative statali anteriori al 1°
gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore).
Sarebbe irrealistico, dunque, considerare quale lapsus calami l’inserimento
dell’art. 8 della legge n. 991 del 1952 tra le disposizioni sottratte
all’abrogazione delle norme antecedenti al 1° gennaio 1970, quando, tutto al
contrario, la scelta di tale inserimento «non può che ritenersi indicativa di
una chiara, precisa ed inequivocabile presa di posizione in ordine all’assoluta
importanza della permanenza in vigore della disciplina ivi prevista».
A riprova di tali affermazioni, si rileva che
l’attività d’individuazione, da parte del Governo, delle disposizioni da
confermare in vigore sarebbe stata svolta in modo «preciso e accurato», tanto
che non tutte le leggi – e tra queste la n. 991 del 1952 – sono state "salvate”
per intero, ma spesso solo in alcuni articoli. Il «Governo-legislatore»,
pertanto, avrebbe dapprima rilevato la mancata abrogazione tacita del citato
art. 8 e poi, inserendolo tra le disposizioni da sottrarre al generalizzato
effetto abrogativo previsto dalla legge di delega, ne avrebbe confermato la
vigenza, ulteriormente confermata con l’adozione del d.lgs. n. 213 del 2010.
La scelta consapevole del legislatore delegato –
coerente con «la finalità fondamentale di semplificazione» che, secondo quanto
affermato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 80 del
2012, costituiva la ratio della delega – emergerebbe altresì dalla lettura
di tutte le norme e degli atti parlamentari che hanno avuto per oggetto il
d.lgs. n. 179 del 2009 e che sono intervenuti in tema di semplificazione
normativa.
La difesa della parte privata, infine, osserva
come le affermazioni della Corte di cassazione sarebbero gravemente lesive del
principio della separazione dei poteri, poiché determinerebbero «una sorta di
abrogazione giurisprudenziale della disposizione che contiene una dichiarazione
espressa di vigenza, che si pone quasi nei termini di una interpretazione
autentica, come tale immodificabile in sede giurisprudenziale». Una «indiretta
conferma» di tale assunto sarebbe rinvenibile nella sentenza n. 5 del
2014 della Corte costituzionale, la quale avrebbe affermato che il Governo
non potrebbe novamente esercitare la delega abrogando
una legge considerata indispensabile, dovendo eventualmente provvedervi il legislatore:
e se non può farlo il Governo, neppure può farlo il giudice rimettente.
In ragione di tutte queste argomentazioni, la
parte privata reputa pertanto, in subordine, infondate le questioni di
legittimità costituzionale, non ravvisando alcuna violazione degli artt. 3 e 76
Cost. da parte della disposizione censurata.
4.– In data 16 aprile 2018, la Società agricola Melavì - società cooperativa ha depositato una memoria
illustrativa, con la quale insiste per la dichiarazione di inammissibilità o
infondatezza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, ribadendo
gli argomenti già utilizzati nell’atto di costituzione.
La difesa della parte privata, in particolare,
mette in rilievo il «paradosso» che ambedue le parti del giudizio a quo concordano
sulla infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale, argomentata
tuttavia in base a opposti presupposti: secondo l’INPS, la norma di cui
all’art. 8 della legge n. 991 del 1952 sarebbe stata «implicitamente espunta
dall’ordinamento per effetto dell’interpretazione (abrogatrice)
del sistema fornita dal giudice di legittimità», di modo che l’eventuale
declaratoria di incostituzionalità sarebbe inutiliter
data; al contrario, secondo essa parte privata il giudice non potrebbe
disapplicare una norma legislativa, dovendo invece «prendere atto che la parola
chiara ed esplicita del legislatore non può che fare aggio su qualsivoglia
interpretazione sistematica e/o percorso argomentativo in chiave di implicita
abrogazione».
Si sarebbe, dunque, dinanzi all’«ennesimo
conflitto» tra giudice e legislatore, simile a quello che si verifica allorché
il legislatore adotti una disposizione di interpretazione autentica, superando
quella fornita dalla giurisprudenza. Né varrebbe sostenere, come hanno fatto la
Corte di cassazione e l’INPS, che il d.lgs. n. 179 del 2009 ha carattere
meramente ricognitivo, non essendo chiaro – secondo la parte privata – il senso
di tali espressioni, visto che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 346 del
2010, ha già affermato che tale decreto legislativo conferma «la
persistente e immutata» efficacia delle disposizioni "salvate”.
Il giudice rimettente, sotto questo specifico profilo,
moverebbe invece dal corretto presupposto secondo cui l’applicazione del
disposto legislativo sarebbe doverosa, rifiutando l’idea del lapsus calami del
legislatore; sol che si tratterebbe, a suo dire, di attività normativa sfornita
di copertura costituzionale.
5.– In data 19 aprile 2018, fuori termine, ha
depositato una memoria illustrativa anche l’INPS.
Considerato
in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Sondrio dubita, in
riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione, della legittimità costituzionale
dell’art. 1 del decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni
legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene
indispensabile la permanenza in vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28
novembre 2005, n. 246), nella parte in cui, alla voce n. 1266 dell’Allegato 1,
dichiara la permanente vigenza dell’art. 8 della legge 25 luglio 1952, n. 991
(Provvedimenti in favore dei territori montani).
Il giudice rimettente è chiamato a pronunciarsi su
una domanda, proposta da una società agricola operante in territorio montano,
«di accertamento del proprio diritto a beneficiare dell’esenzione dal pagamento
dei contributi», secondo quanto previsto dall’art. 8 della legge n. 991 del
1952. Disposizione, quest’ultima, la cui permanenza in vigore è stata ritenuta
indispensabile dalla norma censurata.
Il giudice a quo rileva che l’art. 14, comma 14,
della legge 28 novembre 2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per
l’anno 2005) – nel testo risultante dalla sostituzione ad opera dell’art. 4,
comma 1, della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo
economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo
civile) – aveva delegato l’esecutivo ad adottare decreti legislativi che
individuassero le disposizioni legislative statali, pubblicate anteriormente al
1° gennaio 1970, anche successivamente modificate, delle quali si riteneva
indispensabile la permanenza in vigore, nel rispetto, tra gli altri, dei
seguenti principi e criteri direttivi: «esclusione delle disposizioni oggetto
di abrogazione tacita o implicita» e «esclusione delle disposizioni che abbiano
esaurito la loro funzione o siano prive di effettivo contenuto normativo o
siano comunque obsolete» (rispettivamente, lettere a e b della disposizione
delegante).
Il richiamato art. 8 della legge n. 991 del
1952, tuttavia, doveva considerarsi – a parere del Tribunale ordinario di
Sondrio – implicitamente abrogato. A tale conclusione il giudice rimettente
giunge sulla base dell’articolato percorso argomentativo, che espressamente fa
proprio, svolto dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione,
sezione lavoro, sentenze 22 agosto 2013, n. 19420 e 20 aprile 2016, n. 7976).
Allo stesso tempo, il giudice a quo dissente da
altra parte del decisum della Corte di cassazione. In
specie, non condivide l’affermazione del giudice di legittimità – fondata su di
una supposta «funzione meramente ricognitiva» del d.lgs. n. 179 del 2009 –
stando alla quale l’inclusione del citato art. 8 tra le norme "salvate”
dovrebbe ritenersi «tamquam non esset,
frutto di un lapsus calami, sulla base di una interpretazione rispettosa
dell’art. 15 preleggi e costituzionalmente orientata, nel senso della coerenza
e ragionevolezza dell’ordinamento (art. 3 Cost.), del rispetto dei principi e
criteri direttivi della legge di delega (art. 76 Cost.), alla luce anche
dell’art. 44 Cost., comma 2». L’inserimento del richiamato art. 8 tra le
disposizioni delle quali si riteneva indispensabile la permanenza in vigore
sarebbe invece, secondo il Tribunale ordinario di Sondrio, «un’attività
normativa sfornita di copertura costituzionale posta in essere dal legislatore
delegato», la quale non può determinare la disapplicazione ad opera del giudice
ordinario della norma censurata, ma soltanto l’annullamento di quest’ultima da
parte della Corte costituzionale.
Di qui, nella prospettiva del giudice
rimettente, la necessità di sollevare le questioni di legittimità
costituzionale. La norma impugnata, infatti, per un verso sarebbe di
indispensabile applicazione nel giudizio a quo, in quanto impedirebbe il
rigetto della domanda della parte attrice, al quale il Tribunale altrimenti
perverrebbe in ragione della pregressa abrogazione tacita dell’art. 8 della legge
n. 991 del 1952; per un altro, sarebbe stata adottata in contrasto con i
principi e criteri direttivi posti dall’art. 14, comma 14, lettere a) e b),
della legge di delega n. 246 del 2005.
2.– Preliminarmente, deve essere dichiarata
inammissibile, perché del tutto priva di motivazione in punto di non manifesta
infondatezza, la questione di legittimità sollevata in relazione all’art. 3
Cost.
La struttura della motivazione dell’ordinanza di
rimessione, invero, è tutta volta a denunciare l’eccesso di delega in cui
sarebbe incorso il Governo con l’adozione della norma impugnata.
In questo contesto, l’art. 3 Cost. è fugacemente
evocato in due sole occasioni. Una prima, allorché è richiamato il passaggio
argomentativo della giurisprudenza di legittimità – dal quale il rimettente,
peraltro, espressamente dissente – in base al quale la norma impugnata, secondo
una interpretazione costituzionalmente conforme che garantisca coerenza e
ragionevolezza dell’ordinamento, dovrebbe considerarsi «tamquam
non esset». Una seconda, nella parte finale
dell’ordinanza di rimessione, quando il giudice a quo afferma che la non
manifesta infondatezza (anche) per la violazione del canone di ragionevolezza
si desume dalle argomentazioni in precedenza addotte.
Si tratta, dunque, di apodittici richiami del
parametro costituzionale, non accompagnati dall’indicazione delle ragioni circa
la sua asserita violazione, necessariamente diverse da quelle che fondano il
dubbio di legittimità costituzionale in relazione all’art. 76 Cost.
3.– Non sono fondate, invece, le eccezioni di
inammissibilità proposte da entrambe le parti costituite.
3.1.– Secondo l’Istituto Nazionale per la
Previdenza Sociale (INPS), sarebbe carente anche la motivazione circa la
presunta violazione dell’art. 76 Cost. Il giudice rimettente si sarebbe
limitato a confutare il percorso argomentativo della Corte di cassazione, senza
tuttavia dar conto delle ragioni che non gli consentirebbero di disapplicare la
norma censurata, che conferma la vigenza di «una disposizione che non è più in
essere».
Va invece rilevato, in senso contrario, che il
Tribunale di Sondrio ha senza dubbio ben argomentato il lamentato vizio di
eccesso di delega, risultando chiarissime le ragioni le quali, da un lato, lo
inducono a ritenere che la norma impugnata sia stata adottata in contrasto con
i principi e criteri direttivi posti dalla relativa legge di delega e,
dall’altro, gli impediscono di disapplicarla, rendendo invece necessario
l’incidente di costituzionalità.
3.2.– A parere della Società agricola Melavì - società cooperativa, parte attrice nel giudizio a
quo, le questioni di legittimità costituzionale dovrebbero considerarsi
inammissibili in quanto non sarebbe mai stato oggetto di abrogazione implicita
l’art. 8 della legge n. 991 del 1952, sicché il giudice rimettente dovrebbe
farne senz’altro applicazione.
Nell’odierno caso all’attenzione di questa
Corte, tuttavia, la valutazione sull’avvenuta abrogazione implicita, o non, del
richiamato art. 8 attiene al merito e non all’ammissibilità della questione di
legittimità. Il giudice rimettente, infatti, lamenta che la norma impugnata
abbia confermato la vigenza di tale art. 8, così ponendosi in contrasto con i
principi e criteri direttivi della delega, ai sensi dei quali il Governo non
poteva ritenere indispensabile la permanenza in vigore di disposizioni oggetto
di abrogazione tacita o implicita, o che avessero esaurito la loro funzione o
che, comunque sia, fossero prive di effettivo contenuto normativo od obsolete.
Vagliare se l’art. 8 della legge n. 991 del 1952 fosse stato già implicitamente
abrogato è, dunque, attività valutativa imprescindibile per effettuare il
sindacato sul contrasto, o non, della norma impugnata con l’art. 76 Cost.
4.– Ancora in via preliminare, deve affermarsi
che è corretto l’operato del giudice rimettente, il quale ha ritenuto, in ciò
dissentendo dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, di non poter
considerare «tamquam non esset»
la norma impugnata e, conseguentemente, ha sollevato l’odierna questione di
legittimità costituzionale.
Una compiuta motivazione sul punto non può
prescindere, anche in ragione degli argomenti di segno diverso spesi dalla
giurisprudenza di legittimità, dalla ricostruzione del quadro normativo entro
il quale si inserisce la delega attuata con l’impugnato art. 1 del d.lgs. n.
179 del 2009.
4.1.– Il legislatore, con l’art. 14, comma 14,
della legge n. 246 del 2005, aveva delegato il Governo ad adottare «decreti
legislativi che [individuassero] le disposizioni legislative statali,
pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970, anche se modificate con
provvedimenti successivi, delle quali si [riteneva] indispensabile la
permanenza in vigore». Trattasi della delega nota come "salva-leggi”.
La qualificazione di "salva-leggi” si deve alla
circostanza che il successivo comma 14-ter – introdotto dall’art. 4, comma 1,
lettera a), della legge n. 69 del 2009 – prevede che, «decorso un anno dalla
scadenza del termine di cui al comma 14, ovvero del maggior termine previsto
dall’ultimo periodo del comma 22, tutte le disposizioni legislative statali non
comprese nei decreti legislativi di cui al comma 14, anche se modificate con
provvedimenti successivi, sono abrogate» (cosiddetta clausola ghigliottina).
All’operatività della clausola ghigliottina,
pertanto, il legislatore delegante sottraeva le disposizioni pubblicate
anteriormente al 1° gennaio 1970 che il Governo avesse ritenuto di "salvare”
perché indispensabili, nel rispetto dei principi e criteri direttivi posti dal
medesimo art. 14, comma 14: per quel che qui rileva, trattandosi delle norme
interposte evocate dal giudice rimettente, si era escluso che potessero essere
"salvate” le disposizioni già tacitamente o implicitamente abrogate, nonché le
disposizioni che avessero esaurito la loro funzione o che fossero prive di
effettivo contenuto normativo o, comunque sia, obsolete.
Il legislatore delegante, poi, parimente
sottraeva all’operatività della clausola ghigliottina, secondo quanto disposto
dal comma 17 del medesimo art. 14, le disposizioni rientranti in determinati
ambiti materiali (cosiddetti settori esclusi): in relazione a questi ultimi,
pertanto, il legislatore delegante provvedeva direttamente, senza che fosse
necessario l’intervento del legislatore delegato, a delimitare l’efficacia
della futura abrogazione generalizzata.
Il richiamato art. 14, comma 14, inoltre,
prevedeva, alla lettera e), che il Governo organizzasse le disposizioni da
mantenere in vigore «per settori omogenei o per materie, secondo il contenuto
precettivo di esse». Similmente, il successivo comma 15 disponeva: «i decreti
legislativi di cui al comma 14 provvedono altresì alla semplificazione o al
riassetto della materia che ne è oggetto, nel rispetto dei princìpi e criteri
direttivi di cui all’articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive
modificazioni, anche al fine di armonizzare le disposizioni mantenute in vigore
con quelle pubblicate successivamente alla data del 1° gennaio 1970».
Infine, il comma 18 dell’art. 14 della legge n.
246 del 2005 – come modificato dall’art. 13 della legge 4 marzo 2009, n. 15
(Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro
pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché
disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale
dell’economia e del lavoro e alla Corte dei conti) – aveva ulteriormente
previsto che: «[e]ntro due anni dalla data di entrata
in vigore dei decreti legislativi di cui al comma 14, [potessero] essere
emanate, con uno o più decreti legislativi, disposizioni integrative, di
riassetto o correttive, esclusivamente nel rispetto dei princìpi e criteri
direttivi di cui al comma 15 […]».
In attuazione della delega prevista dal più
volte citato art. 14, comma 14, il Governo ha adottato il d.lgs. n. 179 del
2009 (cosiddetto decreto legislativo salva-leggi), il cui art. 1 è oggetto
della odierna questione di legittimità costituzionale, senza tuttavia procedere
né alla «organizzazione delle disposizioni da mantenere in vigore per settori
omogenei o per materie, secondo il contenuto precettivo di ciascuna di esse»
(art. 14, comma 14, lettera e), né all’attuazione della delega «alla
semplificazione o al riassetto della materia» (art. 14, comma 15). Il Governo,
pertanto, ha deciso, nell’ambito della discrezionalità affidatagli dal
legislatore delegante (sentenza n. 41 del
1975), di limitarsi ad individuare le disposizioni la cui permanenza in
vigore è stata ritenuta indispensabile, così sottraendole all’operatività della
clausola ghigliottina.
Il legislatore delegato, poi, ha adottato – in
attuazione di quanto consentitogli dall’art. 14, comma 18, della legge n. 246
del 2005 – il decreto legislativo 13 dicembre 2010, n. 213 (Modifiche ed
integrazioni al decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179, recante
disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si
ritiene indispensabile la permanenza in vigore).
4.2.– Questo essendo il quadro normativo entro
cui si colloca la norma impugnata, deve escludersi che il d.lgs. n. 179 del
2009 sia meramente ricognitivo, come invece ritenuto dalla giurisprudenza di
legittimità richiamata dal giudice rimettente, con orientamento peraltro
ribadito anche da Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 22 marzo 2018,
n. 7214.
4.3.– Come si è già detto, il d.lgs. n. 179 del
2009 ha anche la funzione, di primaria rilevanza, di delimitare la portata
della clausola ghigliottina, la quale ha determinato l’abrogazione
generalizzata di tutte le disposizioni pubblicate anteriormente al 1° gennaio
1970, fatta eccezione per quelle comprese nei cosiddetti settori esclusi di cui
all’art. 14, comma 17, della legge n. 246 del 2005, e per quelle, appunto,
"salvate” dal Governo con l’adozione del decreto legislativo de quo (e con il
d.lgs. n. 213 del 2010). Altrimenti detto, il decreto legislativo "salva-leggi”
ha necessariamente valenza anche normativa, perché limita e circoscrive il
generalizzato effetto abrogante della clausola ghigliottina: ove il Governo non
avesse esercitato la delega "salva-leggi”, tutte le disposizioni pubblicate
anteriormente al 1° gennaio 1970, salvo quelle ricomprese nei cosiddetti
settori esclusi, dovrebbero oggi considerarsi abrogate per opera dell’art. 14,
comma 14-ter, della legge n. 246 del 2005.
4.4.– Non depongono in senso contrario – come
invece ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità – le sentenze n. 80 del 2012
e n. 346 del
2010 di questa Corte.
La prima delle due richiamate pronunce, invero,
in nessuna sua parte prende posizione sulla natura ricognitiva o non del d.lgs.
n. 179 del 2009, essendo allora oggetto dello scrutinio di legittimità
costituzionale, d’altro canto, l’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 23
maggio 2011, n. 79 (Codice della normativa statale in tema di ordinamento e
mercato del turismo, a norma dell’art. 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246,
nonché attuazione della direttiva 2008/122/CE, relativa ai contratti di
multiproprietà, contratti relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine,
contratti di rivendita e scambio).
Non vale in senso contrario osservare che nella sentenza n. 346 del
2010 questa Corte ha in effetti rilevato che il decreto legislativo
"salva-leggi” ha «funzione meramente ricognitiva» in relazione alla fattispecie
ivi esaminata. Tale affermazione, infatti, deve essere riguardata non
isolatamente, ma alla luce delle questioni di legittimità costituzionale allora
sollevate, nonché di altre affermazioni rese nella complessiva motivazione di
quella pronuncia.
Questa Corte era chiamata a decidere un ricorso
della Provincia autonoma di Bolzano con il quale si lamentava che il d.lgs. n.
179 del 2009 avesse mantenuto in vigore il regio decreto 29 marzo 1923, n. 800
che determina la lezione ufficiale dei nomi dei comuni e di altre località dei
territori annessi, convertito nella legge 17 aprile 1925, n. 473. Secondo la
Provincia ricorrente, tale atto normativo era stato già oggetto di abrogazione
per opera del decreto-legge 22 dicembre 2008, n. 200 (Misure urgenti in materia
di semplificazione normativa), convertito, con modificazioni, nella legge 18
febbraio 2009, n. 9, sicché la sua "salvezza” per mano del decreto legislativo
"salva-leggi” ne avrebbe determinato la reviviscenza, così violando una
pluralità di parametri costituzionali e, in particolare, la competenza
esclusiva in materia di toponomastica attribuita alla Provincia autonoma dalle
norme dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol
(decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670).
Le questioni furono dichiarate inammissibili.
Si rilevò, infatti, che l’effetto abrogativo di
cui all’art. 2, comma 1, del d.l. n. 200 del 2008, in
relazione al r.d. n. 800 del 1923, non si era mai
prodotto. Il citato art. 2, comma 1, prevedeva che l’abrogazione delle
disposizioni elencate nell’Allegato 1 al medesimo decreto-legge avesse luogo a
far data dal 16 dicembre 2009; il d.lgs. n. 179 del 2009, dal canto suo, è
entrato in vigore il 15 dicembre 2009 e, all’art. 1, comma 2, ha espressamente
sottratto all’effetto abrogativo del d.l. n. 200 del
2008 le disposizioni di cui all’Allegato 2 al medesimo decreto legislativo, tra
le quali è ricompreso, appunto, il r.d. n. 800 del
1923. Conseguentemente, quest’ultimo non era mai stato oggetto d’abrogazione e,
dunque, il decreto legislativo "salva-leggi” «lungi dal determinar[ne] la
"reintroduzione” o la "reviviscenza” nell’ordinamento […] ha semplicemente
consentito di vederne confermata la vigenza, sull’ovvio presupposto […] che
esso non l’avesse perduta e che, perciò, altrettanto evidentemente, non avesse
necessità di riacquistarla» (sentenza n. 346 del
2010).
Si aggiunse, inoltre, che il decreto legislativo
"salva-leggi”, «nell’individuare le disposizioni da mantenere in vigore, non ridetermin[a] né in alcun modo corregg[e]
le relative discipline, limitandosi a confermare, peraltro indirettamente –
attraverso, cioè, la mera individuazione di atti da "salvare” –, la persistente
e immutata loro efficacia» (sentenza n. 346 del
2010).
Questa Corte, pertanto, ebbe soltanto a
escludere che con il decreto legislativo "salva-leggi” fossero state
"reintrodotte” disposizioni in ipotesi lesive della competenza della ricorrente
in materia di toponomastica, così come negò – in un passaggio pure richiamato
dalla giurisprudenza di legittimità – che tale decreto potesse considerarsi
dotato di «una propria e autonoma forza precettiva o, se si preferisce, di quel
carattere innovativo che si suole considerare proprio degli atti normativi» (sentenza n. 346 del
2010), in quanto l’unico compito ad esso attribuito dal legislatore
delegante era quello di "salvare” dall’abrogazione, sottraendole alla portata
della clausola ghigliottina, le disposizioni la cui permanenza in vigore era
dal Governo ritenuta indispensabile.
D’altra parte, la funzione normativa in
questione – come invero si è già rilevato nella sentenza n. 346 del
2010 – non è certo quella di introdurre nell’ordinamento giuridico norme
"nuove”, ma quella di confermare la «persistente e immutata» efficacia di altre
disposizioni, sottraendole all’effetto abrogativo generalizzato della clausola
ghigliottina e, così, conservandone la vigenza.
4.5.– Una volta riconosciuto che il d.lgs. n.
179 del 2009 ha forza legislativa – perché, giova ribadirlo, conferma, con la
forza della legge, la vigenza di disposizioni che altrimenti sarebbero state
abrogate per opera dell’art. 14, comma 14-ter, della legge n. 246 del 2005 –
ove si ritenga che la "salvezza” di disposizioni pubblicate anteriormente al 1°
gennaio 1970 sia avvenuta in contrasto con i principi e criteri direttivi della
disposizione delegante, il supposto vizio di eccesso di delega, lungi dal
consentire una mera disapplicazione della norma posta dal decreto legislativo
"salva-leggi”, non può non determinare l’incidente di costituzionalità (implicitamente,
in questi termini, anche la sentenza n. 5 del
2014, la quale ha scrutinato e dichiarato costituzionalmente illegittimo
l’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, nella parte in cui modificava il d.lgs. n.
179 del 2009, espungendo dalle norme mantenute in vigore il decreto legislativo
14 febbraio 1948, n. 43, recante «Divieto delle associazioni di carattere
militare»).
5.– Nel merito, la questione è fondata.
5.1.– Questa Corte ha costantemente riconosciuto
che «il contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto, oltre
che del dato testuale, di una lettura sistematica delle disposizioni che la
prevedono, anche alla luce del contesto normativo nel quale essa si inserisce,
nonché della ratio e delle finalità che la ispirano» (sentenza n. 104 del
2017). In questa prospettiva, i principi e criteri direttivi posti dal
legislatore delegante costituiscono non solo la base e il limite delle
disposizioni delegate, «ma strumenti per l’interpretazione della loro portata»
(sentenza n. 250
del 2016). Le disposizioni del decreto delegato, quindi, vanno lette, ove
possibile, nel significato compatibile con detti principi e criteri, «i quali a
loro volta vanno interpretati avendo riguardo alla ratio della legge delega per
verificare se la norma delegata sia con questa coerente» (sentenza n. 229 del
2014). La discrezionalità del legislatore delegato, «il quale è chiamato a
sviluppare, e non solo ad eseguire, le previsioni della legge di delega» (sentenza n. 104 del
2017), deve essere inquadrata, dunque, entro questa cornice unitaria
emergente dalla delega interpretata in chiave anche sistematica e teleologica.
Nel caso di specie, fine dichiarato del pur
complesso reticolo di deleghe di cui all’art. 14 della legge n. 246 del 2005
era quello «di realizzare una generale semplificazione del sistema normativo
statale» (sentenza
n. 80 del 2012), mediante, da un lato, l’abrogazione dei soli atti
normativi primari oramai superati o inutili, nonché, dall’altro,
l’organizzazione, per settori omogenei o per materie, l’armonizzazione e il
riassetto degli atti normativi primari ritenuti ancora indispensabili. L’esito di
tali interventi avrebbe dovuto restituire, nell’intenzione del delegante, un
quadro normativo complessivo ispirato alla conoscibilità e alla certezza del
diritto primario vigente.
5.2.– In questa cornice vanno collocati i
principi e criteri direttivi posti dall’art. 14, comma 14, della legge n. 246
del 2005 e, in particolare, quello di cui alla lettera a), in base al quale il
Governo non poteva (né doveva) prevedere la permanenza in vigore delle
«disposizioni oggetto di abrogazione tacita o implicita».
Va rilevato, innanzitutto, che tale principio e
criterio direttivo è logicamente e coerentemente correlato a finalità e oggetto
della delega: se il legislatore delegante è voluto intervenire per eliminare le
norme primarie pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970 ancora vigenti,
sebbene oramai non indispensabili, sarebbe stato intimamente contraddittorio
prevedere o ammettere che il legislatore delegato potesse decidere di "salvare”
dall’abrogazione generalizzata norme già implicitamente abrogate, ovverosia
norme già non più vigenti, perché incompatibili con norme ad esse successive.
Allo stesso tempo, non può disconoscersi che –
se le forme paradigmatiche nelle quali è possibile l’abrogazione, positivamente
previste dall’art. 15 delle disposizioni preliminari al codice civile, sono
espressive di uno stesso fenomeno e istituto giuridico, uno ed unico essendo
l’effetto che da esse si genera – l’abrogazione tacita o implicita si distingue
da quella espressa o per nuova disciplina della materia in modo particolarmente
significativo. In tale forma di abrogazione, infatti, non esistendo
dichiarazione normativa ufficiale che accerti l’antinomia e vincoli tutti gli
operatori giuridici, il contributo offerto dall’interprete nel riconoscimento e
nella determinazione dell’effetto abrogativo, non sempre di pronta e agevole
percezione, è particolarmente rilevante, comportando spesso incertezza ed
opinabilità nelle soluzioni e conseguente possibilità di esiti interpretativi
difformi ed opposti.
Il legislatore delegante, con il principio e
criterio direttivo di cui all’art. 14, comma 14, lettera a), della legge n. 246
del 2005, ha chiamato, pertanto, il Governo – nell’attività di ricognizione,
prima, e di eventuale "salvezza”, poi, delle disposizioni legislative pubblicate
anteriormente al 1° gennaio 1970 e ancora vigenti – a una reiterata
valutazione, volta a volta, circa la compatibilità, o non, delle norme da
"salvare” con norme successive, per escluderne la già avvenuta abrogazione
tacita.
5.3.– Nel caso oggi sottoposto all’esame di
questa Corte, tuttavia, non può nutrirsi alcun dubbio sull’avvenuta abrogazione
tacita, antecedentemente all’emanazione del d.lgs. n. 179 del 2009, dell’art. 8
della legge n. 991 del 1952, come ha già riscontrato la Corte di cassazione, dapprima
con la sentenza n. 19420 del 2013, e poi con la sentenza n. 7976 del 2016 e con
l’ordinanza n. 7214 del 2018.
I passaggi davvero essenziali del percorso
argomentativo del giudice di legittimità – più ampiamente esposti nel Ritenuto
in fatto (punto 1.1.)– sono i seguenti: 1) il citato art. 8 aveva un duplice
contenuto, prevedendo, da un lato, agevolazioni fiscali per i territori montani
e, dall’altro, l’esenzione dal pagamento dei contributi agricoli unificati «per
i terreni situati ad una altitudine non inferiore ai 700 metri sul livello del
mare»; 2) gli artt. 58 e 68 del decreto del Presidente della Repubblica 29
gennaio 1958, n. 645 (Approvazione del testo unico delle leggi sulle imposte
dirette), dettando una nuova disciplina in materia, avevano tacitamente
abrogato il richiamato art. 8 per la parte relativa alle agevolazioni fiscali;
3) questa Corte, con la sentenza n. 370 del
1985, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del medesimo art. 8
nella parte in cui non prevedeva l’esenzione dal pagamento dei contributi
unificati in agricoltura anche per i terreni compresi in territori montani
ubicati ad altitudine inferiore ai 700 metri sul livello del mare; 4) l’art. 9,
comma 5, della legge 11 marzo 1988, n. 67, recante «Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria
1988)» – anche nel testo frutto della sostituzione ad opera dell’art. 11 della
legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica) –
reca una generale disciplina di sgravi contributivi per le imprese agricole in
territori montani, la quale ha implicitamente sostituito l’esenzione di cui
all’art. 8 della legge n. 991 del 1952 con tale sistema di sgravi contributivi.
5.4.– La conclusione cui è giunto il giudice
della nomofilachia deve essere, per questa parte, integralmente condivisa.
Sussiste, in effetti, assoluta incompatibilità
tra le norme ricavabili, per un verso, dall’art. 8 della legge n. 991 del 1952
e, per un altro, dall’art. 9, comma 5, legge n. 67 del 1988: per una medesima
fattispecie – i contributi dovuti dai datori di lavoro agricolo – le due norme
pongono conseguenze giuridiche inconciliabili, tali che l’applicazione dell’una
non può che comportare la non applicazione dell’altra.
La norma risalente al 1952 prevedeva, infatti,
un regime di esenzione totale dal pagamento di tali contributi a favore dei
datori di lavoro agricolo operanti in territori montani (senza che più
rilevasse, all’indomani della sentenza n. 370 del
1985 di questa Corte, la quota altimetrica del territorio montano). La più
recente norma del 1988, anche nel testo risultante dalla sostituzione ad opera
dell’art. 11 della legge n. 537 del 1993, ha introdotto, invece, una disciplina
non di esenzione, ma in base alla quale «i premi ed i contributi relativi alle
gestioni previdenziali ed assistenziali, dovuti dai datori di lavoro agricolo
per il proprio personale dipendente, occupato a tempo indeterminato e a tempo
determinato nei territori montani», sono fissati in misura ridotta rispetto a
quella ordinaria.
Né coglie nel segno la Società agricola Melavì - società cooperativa quando sostiene che la richiamata
giurisprudenza di legittimità non avrebbe tenuto conto della «necessaria
distinzione tra le varie categorie di dipendenti precisata dal legislatore
nelle due disposizioni». Nella prospettiva della parte privata, l’art. 8 della
legge n. 991 del 1952 troverebbe applicazione soltanto in relazione agli operai
che svolgevano l’attività nei territori montani, in quanto «categoria
maggiormente penalizzata dalla particolare situazione di quel territorio»,
mentre per le altre categorie di lavoratori, che erano già soggette a
contribuzione, l’art. 9, comma 5, della legge n. 67 del 1988 avrebbe introdotto
il sistema di sgravi contributivi. Il richiamato art. 8, tuttavia,
contrariamente a quanto sostenuto dalla società agricola, prevedeva l’esenzione
dal pagamento dei contributi unificati in agricoltura non in riferimento ai
soli operai, ma a tutto il personale dipendente delle imprese operanti in
territori montani; l’art. 9, comma 5, della legge n. 67 del 1988, a sua volta,
si riferisce ai contributi dovuti dai datori di lavoro agricolo per il
personale dipendente nei territori montani, senza fare alcuna distinzione tra
categorie di lavoratori, ma anzi espressamente precisando che il regime di
favore vale per il personale occupato tanto a tempo determinato quanto a tempo
indeterminato.
6.– Deve concludersi che, al momento
dell’adozione da parte del Governo del decreto legislativo "salva-leggi”,
l’art. 8 della legge n. 991 del 1952 era già stato oggetto di abrogazione
implicita, sicché la norma impugnata nel presente giudizio, che lo esclude
dalla portata dell’effetto abrogativo di cui all’art. 14, comma 14-ter, della
legge n. 246 del 2005, si pone in contrasto con l’art. 14, comma 14, lettera
a), della medesima legge ed è viziata, conseguentemente, per eccesso di delega.
Va quindi dichiarata l’illegittimità
costituzionale, per violazione dell’art. 76 Cost., dell’art. 1 del d.lgs. n.
179 del 2009, nella parte in cui dichiara, alla voce n. 1266 dell’Allegato 1,
l’indispensabile permanenza in vigore dell’art. 8 della legge n. 991 del 1952,
per quanto riguarda l’esenzione del pagamento dei contributi unificati in
agricoltura.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto legislativo
1° dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni legislative statali anteriori al 1°
gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma
dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246), nella parte in cui
dichiara, alla voce n. 1266 dell’Allegato 1, l’indispensabile permanenza in
vigore dell’art. 8 della legge 25 luglio 1952, n. 991 (Provvedimenti in favore
dei territori montani), quanto all’esenzione dal pagamento dei contributi
unificati in agricoltura.
2) dichiara
inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.lgs.
n. 179 del 2009, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal
Tribunale ordinario di Sondrio con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 maggio 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 4 ottobre 2018.