SENTENZA N. 64
ANNO 2022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giuliano AMATO;
Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, promossi dal Tribunale ordinario di Spoleto, con ordinanza del 7 gennaio 2020, e dal Tribunale ordinario di Palermo, con ordinanza del 14 gennaio 2021, iscritte, rispettivamente, al n. 93 del registro ordinanze 2020 e al n. 75 del registro ordinanze 2021 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2020 e n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2021.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 26 gennaio 2022 il Giudice relatore Franco Modugno;
deliberato nella camera di consiglio del 26 gennaio 2022.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 7 gennaio 2020 (r. o. n. 93 del 2020), il Tribunale ordinario di Spoleto, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare e/o procedere al (successivo) giudizio (ordinario) del Giudice del dibattimento che ha rigettato la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato».
1.1.– Il giudice a quo riferisce di essere investito del processo nei confronti di una persona imputata del reato di cui all’art. 635, secondo comma, del codice penale, per avere, mediante l’utilizzazione di mazzetta edile, danneggiato e reso inservibile un distributore di sigarette posto davanti a una tabaccheria.
Alla prima udienza, l’imputato ha chiesto, a mezzo del suo difensore munito di procura speciale, la sospensione del procedimento con messa alla prova.
Il giudice rimettente – pur ritenendo sussistenti le condizioni generali per l’accesso a tale rito (limite di pena e mancanza di condizioni ostative) – ha respinto la richiesta a fronte del dissenso espresso dalla persona offesa, dei precedenti penali dell’imputato, della relazione di indagine sociale effettuata dall’ufficio di esecuzione penale esterna e dei contenuti del programma di trattamento elaborato, che non prevedeva alcun intervento a favore dell’offeso.
Di seguito a ciò, il difensore dell’imputato ha eccepito l’incompatibilità del rimettente rispetto all’ulteriore corso del giudizio, prospettando l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede una tale incompatibilità.
1.2.– Ad avviso del giudice a quo, le questioni di legittimità costituzionale prospettate dalla difesa sarebbero rilevanti – risultando la loro decisione preliminare a ogni altro provvedimento inerente al successivo corso del processo – e, al tempo stesso, non manifestamente infondate.
Al riguardo, il rimettente rileva come, in sede di decisione sull’ammissione dell’imputato alla prova, il giudice eserciti penetranti poteri cognitivi e valutativi sulla res iudicanda.
L’art. 464-quater, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce, infatti, che il giudice si pronuncia con ordinanza sulla richiesta di messa alla prova, sempre che non debba pronunciare sentenza di proscioglimento immediato dell’imputato a norma dell’art. 129 cod. proc. pen.: il che implicherebbe un sia pur sommario giudizio positivo sulle circostanze indicate da tale disposizione (ossia che il fatto sussista, che l’imputato lo abbia commesso, che il fatto costituisca reato e sia previsto dalla legge come reato, che il reato risulti procedibile e non estinto).
Essendo, d’altro canto, illogico ammettere alla prova un imputato che appaia innocente, o che risulti non punibile per altra ragione, sarebbe giocoforza ritenere che il giudice debba valutare, in prima battuta, i presupposti della sua colpevolezza, con una verifica che – come riconosciuto da questa Corte (è citata la sentenza n. 131 del 2019) – si estende persino alla correttezza della qualificazione giuridica attribuita al fatto dal pubblico ministero.
Che la commissione di un reato ad opera dell’imputato sia alla base della sospensione del procedimento con messa alla prova troverebbe, del resto, indiretta conferma nelle disposizioni dell’art. 168-quater cod. pen. (secondo il quale la sospensione viene revocata se l’imputato, durante il periodo della prova, commette un «nuovo delitto» non colposo, o un «reato» della stessa indole di quello per cui si procede), dell’art. 464-quater, comma 3, cod. proc. pen. (ove si stabilisce che la sospensione viene concessa se il giudice ritiene che l’imputato si asterrà dal «commettere ulteriori reati»), nonché dell’art. 464-septies cod. proc. pen., che ricollega all’esito positivo della prova la pronuncia di una sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato (il che presupporrebbe che un reato sia stato commesso).
Riguardo, poi, ai poteri discrezionali esercitabili nella fase di ammissione alla prova, l’art. 464-quater, comma 3, cod. proc. pen. richiede al giudice di accertare, in base ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen., l’idoneità del programma di trattamento proposto e l’assenza del pericolo di recidiva. Il riferimento ai criteri stabiliti dal codice penale per la determinazione della pena in concreto comporta, quindi, che il giudice debba tenere conto della gravità del reato e della capacità a delinquere dell’imputato.
Di particolare rilievo risulterebbe, inoltre, l’individuazione della base conoscitiva dalla quale il giudice può attingere elementi utili ai fini della decisione.
Di là dalla sicura possibilità di fare largo uso di quanto contenuto nel fascicolo per il dibattimento, l’art. 464-bis, comma 5, cod. proc. pen. riconosce al giudice un potere istruttorio – sia pur limitato ai soli casi necessari – consentendogli di acquisire informazioni sulle condizioni di vita dell’imputato, salvo il dovere di portare gli elementi raccolti a conoscenza delle parti del processo.
Secondo quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 91 del 2018, d’altro canto, il giudice può anche acquisire e prendere in esame gli atti di indagine preliminare contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, fermo restando l’obbligo di restituirli all’organo dell’accusa nel caso di rigetto della richiesta. Ciò, sulla base di una applicazione analogica dell’art. 135 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale): disposizione concernente l’ipotesi della richiesta di applicazione della pena rinnovata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, ma da reputare estensibile alla procedura in esame sul rilievo che anche in tal caso il dibattimento viene evitato.
1.3.– Alla luce di quanto precede, dovrebbe quindi concludersi che il giudice chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di ammissione alla prova compie un accertamento ampio e non meramente formale sul fatto di reato per cui si procede e sulla persona stessa dell’imputato: con la conseguenza che la decisione sul punto non potrebbe ritenersi meramente procedurale e interlocutoria. Nel caso di mancato accoglimento della richiesta, la pronuncia assumerebbe, anzi, il carattere di provvedimento che definisce una fase processuale – quella degli atti introduttivi al dibattimento – con valutazioni di merito sulla fondatezza dell’ipotesi accusatoria.
Tale conclusione si concilierebbe appieno con la natura ibrida dell’istituto, il quale si caratterizza per una fisionomia sostanziale unita a una intrinseca dimensione processuale, così da configurarsi come nuovo rito speciale alternativo al dibattimento. Si tratterebbe, in specie, di un procedimento in tutto equiparabile all’applicazione della pena su richiesta delle parti «per la predominante base consensuale», posto che, in entrambi i casi, l’imputato, in cambio dell’ottenimento di benefici sanzionatori, non contesta l’accusa, rinunciando al pieno esercizio del diritto di difesa.
1.4.– Tutto ciò indurrebbe a ritenere che, nell’ipotesi di rigetto della richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, il giudice debba divenire incompatibile rispetto all’ulteriore corso del giudizio di merito.
La mancata previsione di tale ipotesi di incompatibilità violerebbe il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), per l’evidente disparità di trattamento che si realizzerebbe fra situazioni analoghe, non essendovi alcuna ragione per differenziare la disciplina del caso in esame da quella prevista per i «paritetici» casi contemplati espressamente dall’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., o per quelli similari ad essi aggiunti nel corso del tempo per effetto di pronunce di questa Corte.
Risulterebbe vulnerato, altresì, l’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto «le conseguenze negative dipendenti dalla scelta del rito speciale si tradurrebbero in ripercussioni pregiudizievoli inerenti ad una modalità di esercizio dello stesso diritto di difesa».
Apparirebbero compromesse, infine, l’imparzialità e la terzietà del giudice, che rappresentano, ai sensi dell’art. 111, secondo comma, Cost., uno dei cardini del giusto processo, giacché il processo che prosegua con l’apertura del dibattimento davanti allo stesso magistrato che ha rigettato la richiesta di messa alla prova sarebbe inevitabilmente condizionato dalle valutazioni – negative per la posizione dell’imputato – precedentemente formulate da tale magistrato.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate.
2.1.– Nell’atto di intervento, la difesa statale ripercorre preliminarmente l’evoluzione giurisprudenziale e legislativa della norma sottoposta a scrutinio, ricordando come, alla luce dei principi affermati da questa Corte, la previsione dell’incompatibilità si renda costituzionalmente necessaria ove ricorrano le seguenti condizioni: a) il giudice deve essere stato chiamato a compiere una valutazione strumentale all’assunzione di una decisione, non essendo sufficiente la mera conoscenza di atti anteriormente compiuti; b) deve trattarsi di una decisione “di contenuto”, implicante, cioè, valutazioni che attengono al merito dell’accusa, e non già al mero svolgimento del processo; c) la precedente valutazione deve collocarsi in una diversa fase del processo, essendo del tutto ragionevole che, all’interno di ciascuna delle fasi, resti preservata l’esigenza di globalità e continuità.
2.2.– Ciò premesso, ad avviso della difesa dello Stato le questioni sarebbero inammissibili per erroneità del presupposto interpretativo e omessa sperimentazione di un’interpretazione conforme a Costituzione della norma censurata.
I dubbi di legittimità costituzionale espressi dal giudice a quo trovano, infatti, la loro premessa fondante nell’assunto per cui il giudice, nel decidere sulla richiesta di ammissione alla prova, opererebbe valutazioni di merito sulla fondatezza dell’ipotesi accusatoria.
L’opzione interpretativa privilegiata dal rimettente non troverebbe, tuttavia, conferma nella giurisprudenza di legittimità, la quale ha escluso, in più occasioni, che il rigetto della richiesta di messa alla prova possa determinare l’incompatibilità del giudice a partecipare al giudizio che prosegue nelle forme ordinarie, trattandosi di decisione adottata nella medesima fase processuale e che non implica, altresì, una valutazione sul merito dell’accusa, ma esclusivamente una delibazione sull’inesistenza di cause di proscioglimento immediato ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., nonché una verifica dell’idoneità del programma di trattamento e una prognosi favorevole riguardo all’inesistenza del pericolo di recidiva (sono citate Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 9-24 luglio 2019, n. 33260 e sezione terza penale, sentenza 20 gennaio 2016-11 aprile 2016, n. 14750).
2.3.– Tali rilievi dimostrerebbero, comunque sia, la non fondatezza nel merito delle questioni.
In primo luogo, infatti, l’ordinanza di rigetto della richiesta di messa alla prova è assunta nella medesima fase del processo, ovvero quella dibattimentale, e ha il solo effetto di impedire all’imputato l’accesso al rito speciale, determinando così la prosecuzione del giudizio.
In secondo luogo, poi, l’ambito valutativo del giudice è delineato dall’art. 464-quater cod. proc. pen., consistendo nella verifica dell’inesistenza di cause di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. e dell’idoneità del programma di trattamento sulla base dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., nonché nella formulazione di una prognosi positiva riguardo all’assenza del pericolo di recidiva. Per consolidata giurisprudenza di legittimità, riguardo al primo profilo, l’apprezzamento richiesto al giudice sarebbe limitato all’accertamento dell’inesistenza di cause di proscioglimento immediato e funzionale all’ulteriore svolgimento del procedimento: il che escluderebbe che il giudice fondi il suo giudizio su valutazioni di merito. Neppure il secondo profilo sul quale deve vertere la valutazione del giudice concernerebbe, peraltro, il merito dell’ipotesi accusatoria, concentrandosi piuttosto sulla «dimensione “personale”» dell’imputato.
Anche questa Corte avrebbe, del resto, riconosciuto che nell’istituto in esame manca un’attribuzione di colpevolezza: nei confronti dell’imputato e su sua richiesta, viene disposto, in difetto di un formale accertamento di responsabilità, un trattamento alternativo alla pena che sarebbe stata applicata in caso di eventuale condanna (è citata la sentenza n. 91 del 2018).
Esulerebbe, quindi, dalla decisione del giudice ogni apprezzamento che possa pregiudicare la sua imparzialità e terzietà nel processo, con conseguente insussistenza dei vulnera costituzionali prospettati dal giudice a quo.
Per quanto attiene, in modo particolare, all’asserita violazione dell’art. 24, secondo comma, Cost., in disparte ogni considerazione sull’asserita equiparabilità dell’istituto in esame al patteggiamento – che andrebbe in realtà esclusa, alla luce di quanto affermato da questa Corte nella citata sentenza n. 91 del 2018 – l’Avvocatura dello Stato rileva che la scelta del rito, in quanto tale, non reca alcun vulnus al diritto di difesa, poiché, se l’imputato ritiene di avere elementi per dimostrare la propria innocenza, non è obbligato a richiedere la messa alla prova. Il rigetto della richiesta non implicherebbe, a sua volta, alcuna compressione del diritto in parola, che l’imputato potrà esercitare pienamente nel corso del dibattimento disciplinato dal rito ordinario.
3.– Con ordinanza del 14 gennaio 2021 (r. o. n. 75 del 2021), il Tribunale ordinario di Palermo, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., analoghe questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a procedere nel giudizio [del] giudice del dibattimento che ha rigettato la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato».
3.1.– Il rimettente riferisce di essere investito del processo nei confronti di una persona imputata del reato previsto dall’art. 590-bis, commi primo e quinto, numero 2), cod. pen.
Riferisce, altresì, che il difensore munito di procura speciale ha chiesto la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato.
Anche in questo caso, il giudice a quo – pur ritenendo sussistenti le condizioni per l’applicazione dell’istituto – ha rigettato la richiesta a fronte del dissenso espresso dalla persona offesa e della circostanza che l’imputato aveva rifiutato qualsiasi iniziativa risarcitoria nei confronti di quest’ultima, la quale aveva subito lesioni gravi senza conseguire alcun ristoro.
Di seguito a ciò, il difensore ha eccepito l’incompatibilità del giudice, prospettando l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. nella parte in cui non la prevede nel caso considerato.
3.2.– Richiamando l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Spoleto, sopra indicata, il giudice a quo reputa le questioni non manifestamente infondate.
Il rimettente rileva che, nel decidere sulla richiesta di ammissione alla prova, il giudice deve valutare «i presupposti della colpevolezza in tutti i suoi elementi costitutivi», tenendo conto della gravità del reato e della capacità a delinquere dell’imputato.
La decisione non potrebbe essere, pertanto, qualificata come meramente procedurale e, anzi, nel caso di rigetto della richiesta, essa implicherebbe una valutazione di merito sulla fondatezza dell’impianto accusatorio, potendo essere paragonata alla pronuncia sulla richiesta di applicazione della pena.
Alla luce di ciò, la mancata previsione dell’incompatibilità del giudice nell’ipotesi in esame genererebbe seri dubbi sulla legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., apparendo violati l’art. 3 Cost., «per disparità di trattamento in situazioni analoghe»; l’art. 24, secondo comma, Cost., «che inerisce il diritto di difesa riconosciuto a tutti i cittadini»; e, infine, l’art. 111, secondo comma, Cost., «in quanto il processo si svolgerebbe dinanzi al giudice che ha già espresso delle valutazioni negative sull’imputato con la compromissione dell’imparzialità e terzietà dello stesso».
4.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate.
4.1.– In via preliminare, la difesa statale eccepisce l’inammissibilità delle questioni per difetto di motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza.
Nel sollevare le questioni, il giudice a quo si sarebbe limitato, infatti, a richiamare la precedente ordinanza di rimessione del Tribunale di Spoleto, accompagnando tale richiamo con una succinta motivazione esclusivamente in punto di non manifesta infondatezza: motivazione che non espliciterebbe in modo adeguato le ragioni del ritenuto contrasto della norma con ciascuno dei parametri costituzionali evocati.
Il rimettente non avrebbe speso, d’altra parte, neppure una parola a dimostrazione della rilevanza delle questioni.
4.2. – Per il resto, l’Avvocatura dello Stato svolge difese identiche a quelle prospettate in relazione all’ordinanza iscritta al n. 93 del r. o. 2020.
Considerato in diritto
1.– Con due ordinanze di rimessione sostanzialmente analoghe, i Tribunali ordinari di Spoleto e di Palermo, in composizione monocratica, dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice del dibattimento che ha rigettato la richiesta dell’imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova non possa partecipare al giudizio che prosegue nelle forme ordinarie.
Ad avviso dei rimettenti, la mancata previsione dell’incompatibilità del giudice nel caso considerato implicherebbe la violazione dell’art. 3 della Costituzione, per contrasto con il principio di eguaglianza. Non vi sarebbe, infatti, ragione per differenziare il caso in esame da quelli espressamente previsti dalla norma censurata o a essi aggiunti per effetto di pronunce di questa Corte, posto che, nel decidere sulla richiesta di ammissione alla prova, il giudice esprimerebbe valutazioni di merito in ordine alla fondatezza dell’ipotesi di accusa e sulla stessa persona dell’imputato.
Sarebbero violati, altresì, gli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., giacché il processo che prosegua in sede dibattimentale davanti allo stesso magistrato che ha rigettato la richiesta di messa alla prova sarebbe inevitabilmente condizionato dalle valutazioni – negative per la posizione dell’imputato – precedentemente espresse da tale magistrato per la formazione del proprio convincimento, con conseguente lesione del diritto di difesa dell’imputato e dei principi di imparzialità e terzietà del giudice.
2.– Le due ordinanze di rimessione sollevano questioni sostanzialmente identiche, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.
3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in entrambi i giudizi a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate dal Tribunale di Palermo per difetto di motivazione, sia sulla rilevanza, sia sulla non manifesta infondatezza.
Nel proporre i quesiti, il giudice a quo si sarebbe limitato, infatti, a richiamare la precedente ordinanza di rimessione del Tribunale di Spoleto, accompagnando tale richiamo con una succinta motivazione esclusivamente in punto di non manifesta infondatezza: motivazione che non espliciterebbe in modo adeguato le ragioni del ritenuto contrasto della norma con i parametri costituzionali evocati. Il rimettente non avrebbe speso, d’altra parte, neppure una parola a dimostrazione della rilevanza delle questioni.
L’eccezione non è fondata.
Pur in assenza di affermazioni espresse sul punto da parte del giudice rimettente, la rilevanza delle questioni emerge in modo immediato dalla descrizione della vicenda concreta contenuta nell’ordinanza di rimessione, ove si riferisce che il giudice a quo ha rigettato la richiesta dell’imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova per ragioni non meramente formali e che si trova ora di fronte all’eccezione del difensore di incompatibilità a proseguire la trattazione del giudizio nelle forme ordinarie.
Quanto, poi, alla motivazione sulla non manifesta infondatezza, non si è nella specie al cospetto di un’ipotesi di motivazione per relationem ad altra ordinanza di rimessione, inammissibile secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenza n. 170 del 2015, ordinanze n. 64 e n. 19 del 2018).
Il giudice a quo richiama, a tal riguardo, l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Spoleto e ripercorre poi – sinteticamente, ma in termini, comunque sia, di sufficiente comprensibilità – le argomentazioni da essa poste a fondamento dei dubbi di legittimità costituzionale, mostrando con ciò di condividerle e di farle proprie: il che basta a rendere le questioni ammissibili (ex plurimis, con riguardo a fattispecie analoghe, sentenze n. 92 del 2021, n. 214 del 2019 e n. 88 del 2018).
4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito, per altro verso, l’inammissibilità delle questioni sollevate da entrambi i rimettenti per erroneo presupposto interpretativo e omessa sperimentazione dell’interpretazione conforme a Costituzione.
Rileva la difesa dello Stato che i dubbi di legittimità costituzionale prospettati poggiano sull’assunto per cui il giudice, nel decidere sulla richiesta di ammissione alla prova, opererebbe valutazioni di merito sulla fondatezza dell’ipotesi di accusa: opzione interpretativa, questa, che non troverebbe, tuttavia, conforto nella giurisprudenza di legittimità, espressasi in senso contrario.
Anche tale eccezione non è fondata.
Il Tribunale di Spoleto (la cui impostatura è fatta propria dal Tribunale di Palermo) ha motivato infatti ampiamente, sulla scorta di ripetuti riferimenti al dato normativo e a pronunce di questa Corte, il proprio assunto per cui, con il rigetto della richiesta di messa alla prova, il giudice esprimerebbe un apprezzamento di merito in ordine alla responsabilità dell’imputato. A fronte di ciò – e salvo quanto si osserverà tra breve, riguardo al fatto che non è questo, in realtà, il profilo decisivo ai fini della risoluzione degli odierni incidenti di legittimità costituzionale – la condivisibilità del presupposto interpretativo dei rimettenti è questione che attiene, comunque sia, al merito, e non all’ammissibilità (ex plurimis, sentenze n. 230, n. 158 e n. 50 del 2020).
5.– Se pure dunque ammissibili, nel merito le questioni non sono tuttavia fondate.
5.1.– Per costante giurisprudenza di questa Corte, le norme sulla incompatibilità del giudice, derivante da atti compiuti nel procedimento, sono poste a tutela dei valori della terzietà e della imparzialità della giurisdizione, presidiati dagli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., risultando finalizzate a evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla forza della prevenzione – ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto – scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda (ex plurimis, sentenze n. 16 e n. 7 del 2022, n. 183 del 2013, n. 153 del 2012, n. 177 del 2010 e n. 224 del 2001).
L’imparzialità del giudice richiede, in specie, che «la funzione del giudicare sia assegnata a un soggetto “terzo”, non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto ma anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia da decidere, formatesi in diverse fasi del giudizio in occasione di funzioni decisorie ch’egli sia stato chiamato a svolgere in precedenza» (sentenza n. 155 del 1996).
In quest’ottica, l’art. 34 cod. proc. pen. – dopo aver regolato, al comma 1, la cosiddetta incompatibilità “verticale”, determinata dall’articolazione e dalla consecutio dei diversi gradi di giudizio – si occupa, al comma 2 (oggi censurato), della cosiddetta incompatibilità “orizzontale”, attinente alla relazione tra la fase del giudizio e quella che immediatamente la precede.
La disposizione, costruita secondo la tecnica della casistica tassativa («[n]on può partecipare al giudizio il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare o ha disposto il giudizio immediato o ha emesso decreto penale di condanna o ha deciso sull’impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere»), è stata notoriamente oggetto, nel corso del tempo, di numerose declaratorie di illegittimità costituzionale di tipo additivo, che hanno dilatato significativamente l’elenco delle ipotesi di operatività dell’istituto.
In tale contesto, questa Corte ha da tempo chiarito come la previsione dell’incompatibilità del giudice debba ritenersi costituzionalmente necessaria nel concorso di quattro condizioni (sentenze n. 16 del 2022, n. 153 del 2012 e n. 131 del 1996).
In primo luogo, presupposto di ogni incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadono sulla medesima res iudicanda.
In secondo luogo – benché l’architettura del nuovo rito penale richieda, in linea di principio, che le conoscenze probatorie del giudice si formino nella fase del dibattimento – non basta a generare l’incompatibilità la semplice conoscenza di atti anteriormente compiuti, ma occorre che il giudice sia stato chiamato a compiere una valutazione di essi, strumentale all’assunzione di una decisione.
In terzo luogo, tale decisione deve avere natura non “formale”, ma “di contenuto”: essa deve comportare, cioè, valutazioni che attengono al merito dell’ipotesi di accusa, e non già al mero svolgimento del processo.
Da ultimo (e soprattutto, per quanto qui rileva), affinché insorga l’incompatibilità, è necessario che la precedente valutazione si collochi in una diversa fase del procedimento.
La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, costante, a partire almeno dal 1996, nel ritenere del tutto ragionevole che, all’interno di ciascuna delle fasi – intese come sequenze ordinate di atti che possono implicare apprezzamenti incidentali, anche di merito, su quanto in esse risulti, prodromici alla decisione conclusiva –, resti, in ogni caso, preservata l’esigenza di continuità e di globalità, venendosi altrimenti a determinare una assurda frammentazione del procedimento, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere (ex plurimis, sentenze n. 7 del 2022, n. 66 del 2019, n. 18 del 2017, n. 153 del 2012, n. 177 e n. 131 del 1996; ordinanze n. 76 del 2007, n. 123 e n. 90 del 2004, n. 370 del 2000, n. 232 del 1999). In questi casi, «il provvedimento non costituisce anticipazione di un giudizio che deve essere instaurato, ma, al contrario, si inserisce nel giudizio del quale il giudice è già correttamente investito senza che ne possa essere spogliato: anzi è la competenza ad adottare il provvedimento dal quale si vorrebbe far derivare l’incompatibilità che presuppone la competenza per il giudizio di merito e si giustifica in ragione di essa» (sentenza n. 177 del 1996).
5.2.– Alla luce dei principi ora ricordati, le censure dei giudici a quibus non possono essere condivise.
Con le questioni sollevate, i rimettenti vorrebbero far sì che il giudice del dibattimento che – prima della dichiarazione di apertura di questo (costituente, ai sensi dell’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., il termine ultimo per la richiesta di accesso al rito alternativo nei procedimenti a citazione diretta, quali i giudizi a quibus) – abbia rigettato la richiesta dell’imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova, divenga incompatibile a trattare il giudizio che prosegue nelle forme ordinarie.
A tali fini, i giudici a quibus annettono decisivo rilievo alla circostanza che, a loro avviso, il rigetto della richiesta di messa alla prova implicherebbe, sotto un complesso di profili, una approfondita valutazione sul merito della res iudicanda: assunto contestato dall’Avvocatura generale dello Stato, facendo leva su pronunce della giurisprudenza di legittimità pervenute ad opposta conclusione (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 9-24 luglio 2019, n. 33260; Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 20 gennaio 2016-11 aprile 2016, n. 14750).
Valida o meno che sia la loro tesi, i rimettenti non tengono conto, tuttavia, di un particolare essenziale: che, cioè, il provvedimento cui intenderebbero annettere efficacia pregiudicante si colloca, non già in una fase processuale precedente e distinta, ma nella stessa fase – quella dibattimentale – rispetto alla quale l’invocato effetto pregiudicante dovrebbe dispiegarsi; il che esclude in radice, alla luce della ricordata, costante giurisprudenza di questa Corte, la configurabilità di una situazione di incompatibilità costituzionalmente necessaria.
Il Tribunale di Spoleto – pur senza fare alcun cenno all’orientamento di questa Corte sul punto – sostiene, in verità, in un passaggio dell’ordinanza di rimessione, che il rigetto della richiesta di messa alla prova assumerebbe il carattere di provvedimento che definisce «una delicata fase […] quale è quella degli atti introduttivi al dibattimento». Quella degli atti introduttivi (artt. 484 e seguenti cod. proc. pen.) non è, però, una autonoma fase processuale, ma una semplice “sub-fase” (al pari di quelle dell’istruzione dibattimentale, della discussione finale e della deliberazione) dell’unitaria fase del dibattimento: onde non può costituire utile termine di riferimento ai fini che qui interessano (con riguardo a distinto contesto, ordinanza n. 90 del 2004).
Del principio di non configurabilità di una incompatibilità “endofasica” questa Corte ha già fatto, d’altra parte, disparate applicazioni, anche rispetto a ipotesi del tutto analoghe a quella oggi in esame: concernenti, cioè, decisioni negative su richieste di ammissione a riti speciali, o a forme alternative di definizione del procedimento, assunte dal giudice del dibattimento in sede di atti introduttivi. Sono state dichiarate, infatti, manifestamente infondate, per la ragione indicata, questioni volte a introdurre l’incompatibilità a esercitare le funzioni di giudice del dibattimento nei confronti del giudice che – in considerazione della permanenza delle conseguenze dannose o pericolose del reato e della ritenuta gravità del fatto – abbia respinto la richiesta di oblazione cosiddetta discrezionale, presentata dall’imputato prima della dichiarazione di apertura del dibattimento ai sensi dell’art. 162-bis del codice penale (ordinanze n. 370 del 2000 e n. 232 del 1999); o l’incompatibilità a partecipare al giudizio del giudice che, prima dell’apertura del dibattimento, si sia pronunciato (negandola) in ordine all’idoneità della condotta riparatoria dedotta dall’imputato ai fini del proscioglimento per estinzione del reato ai sensi dell’art. 35 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468) (ordinanza n. 76 del 2007); ovvero, ancora, l’incompatibilità del giudice dibattimentale che abbia respinto in limine la richiesta di giudizio abbreviato condizionato all’assunzione di determinati mezzi di prova (ordinanza n. 433 del 2006).
Non significativo è l’unico precedente di segno contrario, rappresentato dalla sentenza n. 186 del 1992, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. nella parte in cui non prevedeva l’incompatibilità a partecipare al giudizio del giudice del dibattimento che abbia rigettato la richiesta di applicazione di pena concordata ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. Tale pronuncia si colloca, infatti, temporalmente a monte delle sentenze n. 177 e n. 131 del 1996, con le quali questa Corte ha puntualizzato in modo definitivo i presupposti dell’incompatibilità costituzionalmente rilevante, e in particolare quello della diversità di fase: tanto che, solo pochi anni dopo, le conclusioni della sentenza relativa al patteggiamento sono state espressamente qualificate come «superate» dalla successiva evoluzione della giurisprudenza costituzionale (ordinanza n. 232 del 1999).
6.– Alla luce delle considerazioni che precedono, le questioni vanno dichiarate, quindi, non fondate.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Spoleto e dal Tribunale ordinario di Palermo con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 gennaio 2022.
F.to:
Giuliano AMATO, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 10 marzo 2022.