SENTENZA N. 158
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Marta CARTABIA;
Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 20 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), «come risultante dagli interventi apportati dall’art. 1, comma 87» [rectius comma 87, lettera a)], della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020) e dall’art. 1, comma 1084, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), promosso dalla Corte di cassazione, sezione quinta civile, nel procedimento vertente tra la Saint Gobain Distribuzione srl a socio unico e l’Agenzia delle entrate, con ordinanza del 23 settembre 2019, iscritta al n. 212 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti l’atto di costituzione della Saint Gobain Distribuzione srl a socio unico, nonché l’atto di intervento delle società Total E&P Italia spa e Mitsui E&P Italia A srl e del Presidente del Consiglio dei ministri;
uditi il Giudice relatore Luca Antonini e gli avvocati Antonio Tomassini e Andrea Di Dio per la Saint Gobain Distribuzione srl a socio unico, Massimo Luciani per la Total E&P Italia spa e la Mitsui E&P Italia A srl, e l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri, nell’udienza pubblica del 10 giugno 2020, svolta, ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettere a) e d), in collegamento da remoto, su richiesta degli avvocati Antonio Tomassini, Andrea Di Dio, Massimo Luciani e Alberto Mula pervenute in data 14, 20, 27 e 29 maggio 2020;
deliberato nella camera di consiglio del 10 giugno 2020.
1.– La Corte di cassazione, sezione quinta civile, con ordinanza del 23 settembre 2019, n. 23549 (reg. ord. n. 212 del 2019), ha sollevato d’ufficio, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 20 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), così «come risultante dagli interventi apportati dall’art. 1, comma 87» [rectius comma 87, lettera a)], della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020) e dall’art. 1, comma 1084, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), nella parte in cui dispone che, nell’applicare l’imposta di registro «secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, "prescindendo da quelli extratestuali e degli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”».
1.1.– Il rimettente riferisce, in punto di fatto, che le questioni sono sorte nel corso di un giudizio promosso dalla Saint Gobain Distribuzione srl (SGD srl) – incorporante la Di Trani srl – avverso l’avviso di liquidazione per imposta proporzionale di registro emesso dall’Agenzia delle entrate a seguito di «riqualificazione giuridica ex art. 20, decreto del Presidente della Repubblica n. 131/1986, in termini di cessione di azienda, della seguente operazione»: a) costituzione di una società a responsabilità limitata a socio unico (cosiddetta newcompany o newco) da parte della Di Trani srl (poi incorporata dalla SGD srl); b) successiva delibera di aumento di capitale della newco, da liberarsi mediante conferimento in natura di tre rami di azienda; c) conferimento nella newco del proprio ramo d’azienda da parte della Di Trani srl (socio unico della conferitaria, poi incorporata dalla SGD srl) e dei rami di azienda da parte di altre due società a responsabilità limitata, con conseguente loro acquisizione di quote di partecipazione nella newco; d) cessione alla SGD srl delle quote di partecipazione così acquisite nella newco da parte delle due suddette società conferenti.
Il rimettente, premesso che il giudizio avverso il suddetto avviso di liquidazione si era concluso in senso favorevole all’Agenzia delle entrate sia in primo che in secondo grado, precisa che il ricorso per cassazione presentato dalla SGD srl era articolato in quattro motivi: a) violazione e falsa applicazione dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 per riqualificazione di atti esterni a quello presentato alla registrazione; b) violazione della medesima disposizione in quanto l’operazione posta in essere rispondeva a reali esigenze di riorganizzazione aziendale attraverso atti soggettivamente, oggettivamente e finalisticamente distinti e autonomi; c) violazione di legge con riguardo al principio del contraddittorio di cui agli artt. 6 e 12 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), 24 della legge 7 gennaio 1929, n. 4 (Norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie), e 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), non essendo stato l’avviso di liquidazione preceduto né da verbale di constatazione, né dall’instaurazione del contraddittorio preventivo; d) violazione del principio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 del codice civile. La Corte di cassazione infine precisa che la SGD srl, con successiva memoria illustrativa, ha invocato lo ius superveniens costituito dai citati artt. 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017 e 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018.
Ciò premesso, il giudice a quo: a) ricorda che il dato normativo posto a base dell’impugnato avviso di liquidazione è costituito dal previgente art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, ai sensi del quale «[l]’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente»; b) precisa che, per effetto del citato art. 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017, il menzionato art. 20 «trova oggi una più circoscritta definizione»; c) dà atto che la disposizione del 2017 è stata interpretata – con «un monolitico orientamento» della Corte di cassazione – come norma innovativa, non interpretativa, e conseguentemente priva di efficacia retroattiva; d) rileva che il legislatore è da ultimo intervenuto con il già citato art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018, stabilendo che «[l]’articolo 1, comma 87, lettera a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205, costituisce interpretazione autentica dell’articolo 20, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131», così attribuendogli efficacia retroattiva.
Pertanto, ad avviso del rimettente, tale «nuova e più ristretta» formulazione del citato art. 20 porrebbe rilevanti e non manifestamente infondate questioni di legittimità costituzionale.
1.2.– In punto di rilevanza, la Corte di cassazione rimettente, dopo aver illustrato analiticamente le ragioni per le quali non ritiene «potenzialmente assorbenti» i sopra illustrati motivi di gravame, diversi dalla questione interpretativa del menzionato art. 20, conclude che non è possibile decidere la controversia senza fare applicazione della norma denunciata, in quanto retroattiva.
1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo, ritiene sussistenti «dubbi di incompatibilità del "nuovo” art. 20 con quanto prescritto dagli articoli 3 e 53 della Costituzione».
Osserva il rimettente che la giurisprudenza della Corte di cassazione, nell’interpretare la disciplina in esame, ha costantemente valorizzato il principio «imprescindibile ed anche storicamente radicato» della prevalenza della sostanza sulla forma, che imporrebbe di qualificare l’atto secondo parametri di tipo sostanzialistico, e non nominalistico o di apparenza. Ad avviso del rimettente proprio tale principio «comporta la necessaria considerazione anche di elementi esterni all’atto e, in particolare, anche di elementi desumibili da atti eventualmente collegati con quello presentato alla registrazione», in senso opposto a «quanto oggi portato dall’attuale formulazione dell’art. 20».
Dopo aver segnalato, quale «unica voce dissonante», la sentenza della Corte di cassazione, sezione quinta civile, 27 gennaio 2017, n. 2054, il giudice a quo ripercorre i passaggi essenziali del menzionato «vastissimo e del tutto consolidato» orientamento giurisprudenziale di legittimità:
a) la natura di "imposta d’atto” propria dell’imposta di registro, confermata dalla formulazione dell’art. 1 del d.P.R. n. 131 del 1986, relativo all’oggetto dell’imposta, «non osta alla valorizzazione complessiva di elementi interpretativi esterni e di collegamento negoziale», poiché per «atto presentato alla registrazione» deve intendersi l’insieme delle previsioni negoziali preordinate alla regolazione unitaria degli effetti giuridici derivanti dai vari negozi collegati;
b) il recupero di elementi negoziali esterni e collegati all’atto presentato alla registrazione risponde all’esigenza di evidenziare la «causa reale di tale atto […] che, per sua natura, non può essere lasciata alla discrezionalità delle parti contribuenti né a quello che le parti abbiano dichiarato»;
c) tale «processo di riqualificazione» discende dal richiamo degli istituti civilistici generali della «causa concreta» del contratto e del «collegamento negoziale», per cui, «pur conservando una loro causa autonoma, i diversi contratti legati dal loro collegamento funzionale sono finalizzati ad un unico regolamento dei reciproci interessi»;
d) il riferimento testuale del censurato art. 20 agli «effetti giuridici» dell’atto non preclude che si attribuisca rilevanza a quello «scopo economico unitario» raggiunto dalle parti attraverso la combinazione e il coordinamento degli effetti giuridici dei singoli atti, così disvelandone l’«intrinseca natura»; peraltro, posto che la riqualificazione tributaria del contratto «lascia comunque intatta la validità e l’efficacia del contratto stesso e dello schema negoziale liberamente prescelto dalle parti, risolvendosi unicamente nell’applicazione della disciplina impositiva più appropriata», nessuna menomazione, ai sensi dell’art. 41 Cost., è rilevabile in relazione alla «libera iniziativa economica» e all’«autonomia negoziale delle parti».
Ciò premesso, il rimettente, ricordata l’ampia casistica giurisprudenziale in tema di riqualificazione dell’atto presentato alla registrazione, illustra i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, come risultante dalle menzionate modifiche normative, con riferimento agli artt. 3 e 53 Cost.
1.3.1.– Avuto riguardo al parametro di cui all’art. 53 Cost., il giudice a quo osserva che l’interpretazione del censurato art. 20 seguita dal prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità è «imposta dal criterio generale dell’interpretazione costituzionalmente conforme», in relazione al rispetto dell’effettività dell’imposizione.
Per il rimettente, infatti, il tributo di registro «non è più (se non in minima parte)» una tassa con funzione corrispettiva del servizio di registrazione, assumendo i connotati di un’imposta il cui presupposto è rivelatore di una determinata forza economica, indice di capacità contributiva proprio in ragione del «contenuto reale» e della «natura sottostante» dell’atto.
Nell’ordinanza di rimessione viene richiamato l’indirizzo consolidato di questa Corte, per cui rientra nella discrezionalità del legislatore la determinazione dei singoli fatti espressivi della capacità contributiva, al fine di concludere che «nel caso di specie il dubbio verte proprio sul corretto esercizio della discrezionalità legislativa». E infatti, per effetto del censurato art. 20, viene in dubbio la «"coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico”», in quanto «l’esenzione del collegamento negoziale dall’opera di qualificazione giuridica dell’atto produce l’effetto pratico di sottrarre ad imposizione una tipica manifestazione di capacità contributiva», senza che tale effetto sia riconducibile ad altri principi di rango costituzionale.
1.3.2.– Avuto riguardo al parametro di cui all’art. 3 Cost., secondo il rimettente, la norma censurata «provoca ripercussioni anche sul principio di uguaglianza, dal momento che a pari manifestazioni di forza economica (e quindi di capacità contributiva) non possono corrispondere imposizioni di diversa entità». Più precisamente, non sarebbe ragionevole che una disparità di imposizione dipenda dalla circostanza che le parti abbiano stabilito di realizzare il proprio assetto di interessi con un solo atto negoziale «piuttosto che con più atti collegati». L’esclusione, tramite il censurato art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, della rilevanza interpretativa del collegamento negoziale ai fini dell’applicazione dell’imposta, legittimerebbe quindi un trattamento non omogeneo delle due situazioni prese a comparazione.
1.4.– Il rimettente afferma che non è dirimente l’eventuale obiezione per cui l’amministrazione finanziaria, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000, potrebbe contestare il collegamento negoziale quando questo sia sintomatico di abuso del diritto (per reprimere l’elusione fiscale) e «non anche di semplice qualificazione giuridica dell’atto». Il rimettente, dopo aver precisato che il citato art. 10-bis è sopravvenuto all’avviso di liquidazione opposto, riconosce che, sul tema della rinvenibilità della funzione antielusiva direttamente nel censurato art. 20, «l’orientamento di legittimità è stato, all’analisi diacronica, effettivamente oscillante». Tuttavia, lo stesso rimettente conclude l’esame dei suoi precedenti osservando che, da ultimo, la propria giurisprudenza si è consolidata nel senso della «indifferenza dell’art. 20 all’abuso del diritto e all’elusione fiscale», tanto che le due disposizioni operano su piani distinti, in quanto «l’espressa inclusione nell’art. 10-bis, comma 2, lettera a), legge n. 212/2000 della fattispecie di collegamento negoziale (invece mancante nella struttura testuale dell’art. 20)», da un lato consente, «previa l’osservanza delle tutele procedimentali contenute nella legge», all’amministrazione finanziaria di disconoscere gli effetti degli atti collegati in quanto elusivi e, come tali, privi di sostanza economica diversa dal mero risparmio d’imposta; dall’altro, però, non esclude che il collegamento negoziale continui a rilevare – al di fuori da considerazioni antielusive – «sul piano obiettivo della mera qualificazione giuridica», ai sensi dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986.
1.5.– Per le suesposte argomentazioni, il rimettente afferma, infine, che non è prospettabile un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata, sia per l’inequivoca «lettera, ratio e contesto di emanazione», sia perché essa «dovrebbe alternativamente identificarsi proprio con quella così espulsa dall’ordinamento», ancorché costantemente adottata dalla giurisprudenza di legittimità.
2.– Con atto depositato in data 16 dicembre 2019, sono intervenute la Total E&P Italia spa e Mitsui E&P Italia A srl, estranee al giudizio principale.
2.1.– A sostegno dell’ammissibilità dell’intervento le società richiamano la giurisprudenza di questa Corte in cui questo è stato consentito anche a soggetti terzi, purché «titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di censura (sentenze n. 98 e n. 13 del 2019, n. 180 del 2018)» (vengono citate l’ordinanza n. 204 del 2019, la sentenza n. 13 del 2019 e l’ordinanza dibattimentale 5 marzo 2019, allegata alla sentenza n. 141 del 2019).
Le società ritengono di essere titolari di una posizione differenziata e legittimante l’intervento in quanto parti in un altro giudizio attualmente pendente in Corte di cassazione (in attesa di udienza di trattazione), al quale la norma censurata si applicherebbe unicamente in ragione della sua dichiarata natura interpretativa e, conseguentemente, retroattiva, cosicché l’eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale inciderebbe su quel diverso giudizio, senza lasciar loro alcuna possibilità di difesa nel giudizio di costituzionalità.
2.2.– Le società intervenienti, premesse diverse ragioni di inammissibilità delle questioni, nel merito ne deducono l’infondatezza ritenendo che la norma denunciata rientri nell’ambito dell’ampia discrezionalità che questa stessa Corte ha riconosciuto al legislatore nell’individuazione degli indici rivelatori di ricchezza, forza economica e, quindi, di capacità contributiva, non avendo le caratteristiche di una norma derogatoria o agevolativa, bensì di accertamento del presupposto d’imposta.
Ad avviso delle intervenienti, quanto sopra comporta l’infondatezza delle censure formulate dal rimettente, ciò anche considerando che, ogniqualvolta sorga l’esigenza di una rideterminazione d’imposta sulla base di più atti, dovranno essere applicate le garanzie sostanziali e procedimentali imposte dalla disciplina generale antiabuso di cui all’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000.
3.– Con atto depositato il 17 dicembre 2019, si è costituita la contribuente SGD srl a socio unico (incorporante, come già accennato, la Di Trani srl), chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto delle questioni di legittimità costituzionale.
3.1.– Preliminarmente la società eccepisce la manifesta inammissibilità delle questioni prospettate dalla Corte di cassazione in ragione della non corretta o implausibile motivazione in ordine alla rilevanza della questione, in quanto essa è incentrata sull’«addotta esistenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità su (una delle varie) letture interpretative dell’art. 20 D.P.R. 131/86 nella versione pre-vigente alle modifiche normative», oggetto dell’odierna censura. Ad avviso della contribuente il rimettente, a sostegno della rilevanza, avrebbe dovuto argomentare non solo la compatibilità di tale orientamento con la disposizione censurata, ma anche che esso – pur consolidato nella giurisprudenza di legittimità – fosse l’unico imposto dalla Costituzione. Ciò a maggior ragione trattandosi di un orientamento «invero avversato dalla unanime dottrina […] e da parte della giurisprudenza, sia della stessa Cassazione – cfr. in particolare sent. 2054/2017 – sia, soprattutto, di merito».
3.2.– Ad avviso della parte privata, il rimettente si limita a sostenere l’irragionevolezza (senza motivare un’eventuale manifesta irragionevolezza, arbitrarietà o irrazionalità) della normativa denunciata, rientrante invece nel perimetro della discrezionalità legislativa. In particolare, con gli interventi normativi del 2017 e 2018, il legislatore, mediante una norma di interpretazione autentica e in attuazione del canone della certezza giuridica, avrebbe «semplicemente chiarito (circostanza invero già ricavabile dalla natura e dalla storia dell’imposta del registro) che l’accertamento dell’effettiva operazione negoziale valorizzando lo scopo economico o la causa reale trova spazio solamente nell’ambito delle norme anti-elusive».
3.3.– La contribuente argomenta, inoltre, le ragioni per le quali, a suo avviso, sarebbe «del tutto erronea e fuorviante» l’affermazione del rimettente per cui, in materia tributaria, il principio della prevalenza della sostanza sulla forma sarebbe «imprescindibile ed anche storicamente radicato».
Sul punto la società osserva: a) quanto al profilo della imprescindibilità, che (eccettuate alcune specifiche ed eccezionali ipotesi introdotte nell’ambito dell’imposizione sui redditi, anche a seguito dell’adeguamento della disciplina nazionale ai cosiddetti principi contabili internazionali) non solo la "prevalenza della sostanza sulla forma” non costituisce un principio della materia tributaria, ma un suo affermarsi nei termini auspicati dal rimettente sovvertirebbe le fonti del diritto, sostituendole «con un diritto vivente del caso singolo e del (mutevole) precedente giurisprudenziale»; b) quanto al profilo del radicamento storico, che il principio affermato dal rimettente è stato espressamente superato dall’evoluzione normativa, poiché, a fronte di un originario e generico riferimento, negli antecedenti normativi (art. 7 della legge 21 aprile 1862, n. 585, recante «Sulla tassa di Registro», trasfuso nell’art. 8 del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3269, recante «Approvazione del testo di legge del registro»), agli «effetti degli atti», si è successivamente specificato (con l’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986) il rilievo dei soli «effetti giuridici» degli stessi, con ciò espungendo la tesi dell’interpretazione economica degli atti prospettata nel vigore della disciplina anteriore.
Sotto un distinto profilo la società contesta la tesi del rimettente per cui la valorizzazione del collegamento negoziale sarebbe attuazione del menzionato principio della "prevalenza della sostanza sulla forma”, al fine dell’individuazione della "causa reale” del singolo atto, poiché essa è contraddetta dalla stessa natura di "imposta d’atto” del tributo di registro e comporta, in violazione dell’art. 53 Cost., la tassazione della «capacità contributiva reddituale due volte, con le imposte sul reddito e […] con l’imposta di registro».
3.4.– Ad avviso della contribuente, pertanto, la questione prospettata dal rimettente in riferimento all’art. 53 Cost. non sarebbe fondata, poiché finalizzata a eludere l’intervento interpretativo del legislatore, in contrasto con il criterio di tassatività e predeterminazione normativa che, in forza dell’art. 23 Cost., caratterizza il diritto tributario.
Parimenti non fondata sarebbe la questione prospettata in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento. Osserva, infatti, la parte privata che laddove è la disciplina dell’imposta di registro a non parificare le fattispecie, prevedendo per alcune la tassazione proporzionale e per altre quella in misura fissa, il contribuente sarebbe libero di scegliere come far circolare un complesso aziendale senza che possa ritenersi violato il canone dell’uguaglianza.
3.5.– La contribuente osserva, inoltre, che la disciplina dell’imposizione indiretta sui conferimenti di azienda e sul trasferimento di partecipazioni è regolata dalla direttiva 2008/7/CE del Consiglio, del 12 febbraio 2008, concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali. Pertanto, la tassazione proporzionale dei conferimenti di azienda seguiti dalla cessione della partecipazione nella società conferitaria – in adesione alla tesi del rimettente – si porrebbe in contrasto con l’art. 5 della menzionata direttiva che vieta di assoggettare a forme di imposizione indiretta le operazioni di costituzione di una società di capitali e quelle di aumento del capitale sociale mediante conferimento di beni.
3.6.– La parte privata precisa, poi, che la riqualificazione – prospettata dal rimettente – come cessione di azienda o di beni, della cessione di una partecipazione di controllo, anche se preceduta dal conferimento di azienda o di beni, sembra muovere dal presupposto interpretativo del disconoscimento dell’esistenza della società o ente partecipato come autonomo soggetto giuridico: ciò in contrasto sia con gli artt. 2332 e 2523 del codice civile, sia con l’art. 12 della direttiva 2009/101/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 settembre 2009, intesa a coordinare, per renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle società a mente dell’articolo 48, secondo comma, del trattato per proteggere gli interessi dei soci e dei terzi (ora trasfuso nell’art. 11 della direttiva UE 2017/1132 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2017, relativa ad alcuni aspetti di diritto societario).
3.7.– La società costituita contesta, infine, alla Corte di cassazione rimettente l’utilizzo indistinto, nelle argomentazioni svolte (con riferimento ai propri precedenti giurisprudenziali), dei termini «atto» e «operazione», frutto di una contaminazione tra categorie di riferimento tra tributi diretti e indiretti e, di conseguenza, regole giuridiche di interpretazione dei singoli atti (ovverosia il censurato art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986) e regole antiabuso (attualmente disciplinate all’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000).
In questa prospettiva, ad avviso della contribuente, gli interventi legislativi del 2017 e 2018 in relazione al citato art. 20 sarebbero giustificati da superiori esigenze di certezza del diritto e di unitarietà dell’ordinamento. In particolare, con riferimento a questo ultimo profilo la società ricorda che l’art. 176, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, recante «Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi» (TUIR) riconoscerebbe espressamente piena legittimità all’operazione di conferimento di azienda in nuova società e successiva cessione a terzi di tale società, per concludere che una riqualificazione della medesima fattispecie, operata in forza del menzionato art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, si porrebbe in contrasto proprio con il principio di unitarietà dell’ordinamento, oltre che con il canone di ragionevolezza.
3.8.– La società costituita, da ultimo, contesta la svalutazione operata dal rimettente della disciplina antiabuso del citato art. 10-bis della legge n. 212 del 2000 in materia di imposta di registro, pur nell’attuale vigenza dell’espresso richiamo operato dall’art. 53-bis del d.P.R. n. 131 del 1986 alla disciplina generale antiabuso sopra indicata. Nel nuovo e coerente assetto normativo, risultante all’esito degli interventi del 2017 e del 2018, «le sequenze negoziali possono essere eventualmente riqualificate soltanto se siano integrati i presupposti dell’abuso del diritto» e, pertanto, il percorso interpretativo prospettato dal rimettente, che prima accomuna e poi allontana il censurato art. 20 e le regole antiabuso apparirebbe – ad avviso della parte privata – debole e contraddittorio.
4.– Con atto depositato il 17 dicembre 2019, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.
4.1.– L’Avvocatura eccepisce preliminarmente l’inammissibilità delle questioni perché il rimettente non avrebbe sufficientemente argomentato le ragioni per le quali non riterrebbe possibile pervenire a un’interpretazione costituzionalmente conforme del censurato art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, come successivamente modificato, nella parte in cui prevede che l’applicazione dell’imposta debba prescindere dagli elementi extratestuali e dagli atti collegati a quello presentato per la registrazione.
Ad avviso della difesa dello Stato, il significato alquanto ampio, attribuito dalla Corte di cassazione alle locuzioni utilizzate dal legislatore nell’intervento normativo del 2017, non sarebbe l’unico possibile, potendosi pervenire a «un significato più restrittivo, idoneo a superare i dubbi di costituzionalità sollevati».
A sostegno di tale interpretazione adeguatrice l’Avvocatura osserva che il significato della locuzione «elementi extratestuali» non dovrebbe essere individuato in modo astratto, dovendosi fare riferimento a categorie concettuali proprie dei settori normativi di riferimento, nella specie il diritto civile e il diritto tributario (e più precisamente la disciplina dell’imposta di registro).
Con riferimento al diritto civile – ad avviso della difesa erariale – detta locuzione rileva secondo le norme che disciplinano i modi e le forme di esercizio dell’autonomia privata (artt. 1321, 1346 e 1325 cod. civ.) e l’interpretazione del negozio giuridico (art. 1362 cod. civ.), che valorizza il comportamento successivo delle parti, con ciò includendo la valutazione degli elementi extratestuali.
Quanto alla disciplina dell’imposta di registro, osserva l’Avvocatura, essa sottopone al tributo non l’«atto-documento», ma l’«atto-negozio», dalla cui corretta qualificazione giuridica potrebbe dipendere l’assoggettamento a un differente tributo (in caso di alternatività con l’IVA) o ad aliquota inferiore di registro.
Peraltro, ad avviso della difesa statale, la formula del censurato art. 20 costituisce (fin dalla sua originaria introduzione nell’ordinamento postunitario) attuazione del principio di prevalenza della sostanza sulla forma, «mantenuto inalterato anche da parte del legislatore del 2017 (legge di bilancio 2018) che, pur avendo limitato il riferimento agli "effetti giuridici dell’atto sottoposto a registrazione”, di fatto ha mantenuto l’aggancio della tassazione alla "sostanza” rispetto alla "forma apparente”».
La difesa erariale insiste dunque per la dichiarazione di inammissibilità delle questioni, stante la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme della norma denunciata – non esplorata dal rimettente – per cui gli elementi extratestuali esclusi ai fini della valutazione degli effetti giuridici degli atti sarebbero «tutti quegli atti o fatti che siano completamente "extravaganti” rispetto alla volontà e agli effetti immediatamente desumibili dall’interpretazione dell’atto formulata ai sensi dell’art. 1362 e ss. c.c.». Pertanto, l’Avvocatura conclude nel senso che la zona di irrilevanza degli elementi extratestuali dovrebbe coincidere con l’individuazione degli «interna corporis della volontà delle parti, a contenuto meramente economico e non giuridicamente rilevante». Ad analoghe considerazioni dovrebbe giungersi con riferimento ai negozi collegati, laddove – all’esame del giudice di merito – il collegamento non sia frutto dell’autonomia negoziale, ma «occasionato da fattori causali eteronomi rispetto alla volontà delle parti».
Ancora in punto di inammissibilità per omessa esauriente indagine sulla possibilità di un’interpretazione alternativa a quella posta a fondamento dell’ordinanza di rimessione, l’Avvocatura osserva che, proprio nella prospettiva affermata nella giurisprudenza di legittimità (a tal fine richiamata in atti) di una lettura dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 da effettuarsi alla luce del principio di capacità contributiva, la rilevanza degli elementi esterni all’atto presentato alla registrazione deve intendersi addirittura necessitata.
Di ciò ne sarebbero prova una serie di principi richiamati dallo stesso giudice rimettente: a) il principio per cui l’atto presentato alla registrazione non si identifica con l’atto-documento, ma con l’atto-negozio (dando così rilievo alle previsioni negoziali preordinate, mediante collegamento, ad una regolazione unitaria degli effetti giuridici); b) il principio della prevalenza della sostanza sulla forma; c) il principio secondo cui «solo la considerazione di elementi meta-testuali e di collegamento negoziale individua e misura l’effettiva capacità contributiva sottesa ex art. 53 Cost., all’atto presentato alla registrazione»; d) il principio per cui la valorizzazione degli elementi negoziali esterni e collegati all’atto presentato alla registrazione risponde all’esigenza di evidenziare la causa concreta e reale dell’atto oggetto di imposizione, «che, per sua natura, non può essere lasciata alla discrezionalità delle parti contribuenti»; e) il principio della indisponibilità della qualificazione contrattuale ai fini fiscali.
In altri termini, afferma l’Avvocatura, proprio in ragione dei numerosi e sopra richiamati principi, la Corte di cassazione rimettente avrebbe dovuto più approfonditamente indagare «se da tali argomenti non possano scaturire utili criteri ermeneutici volti a superare sul piano interpretativo i prospettati dubbi di costituzionalità».
4.2.– Nel merito, quanto alle ragioni della manifesta infondatezza o comunque infondatezza delle questioni sollevate, la difesa statale pone in evidenza gli interventi normativi che, con riferimento al censurato art. 20, si sono succeduti nel 2017 e nel 2018, al fine di sottolineare che, nell’intenzione del legislatore, «il collegamento negoziale volontario […] risulta rilevante ai fini dell’imposta di registro, salve le ipotesi espressamente previste, solo nell’ambito dell’accertamento antielusivo». Per effetto dell’art. 1, comma 87, lettere a) e b), della legge n. 205 del 2017, il collegamento negoziale privo di valide ragioni economiche e finalizzato a un risparmio di imposta indebito dovrà essere contestato dall’amministrazione finanziaria dopo essere stato oggetto di un contraddittorio endoprocedimentale, pena la nullità dell’atto impositivo.
In altri termini, ad avviso dell’Avvocatura, il principio di prevalenza della sostanza sulla forma andrebbe salvaguardato non già attraverso un’applicazione estensiva dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, ma attraverso l’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000, espressamente richiamato dall’art. 53-bis del d.P.R. n. 131 del 1986, che impone a carico dell’amministrazione finanziaria la prova dell’abuso del diritto a prescindere dalla qualificazione formale dell’atto.
In questa prospettiva, secondo la difesa dello Stato, l’art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018 costituirebbe una conferma della natura di interpretazione autentica dell’intervento normativo del 2017. Pur dando atto che la Corte di cassazione ne aveva affermato la natura innovativa e anche al di là dell’autoqualificazione normativa in termini di interpretazione autentica, l’Avvocatura ritiene che l’art. 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017 abbia effettivamente portata interpretativa.
Per quanto «potrebbero esservi fenomeni rilevanti sotto il profilo della capacità contributiva che potrebbero sfuggire a tassazione (il che potrebbe avvenire qualora non vi fossero i presupposti dell’abuso del diritto)», secondo l’Avvocatura, la scelta operata dal legislatore del 2017 non è né arbitraria, né manifestamente irragionevole, in quanto la coerenza del sistema impositivo resterebbe adeguatamente tutelata dall’applicazione della disciplina antiabusiva di cui al menzionato art. 10-bis della legge n. 212 del 2000, senza che si verifichi alcuna violazione degli invocati parametri costituzionali.
5.– Successivamente, in data 19 maggio 2020, le società intervenienti hanno presentato memoria, sostanzialmente ribadendo le già proposte argomentazioni e precisando, nel merito, che la stessa giurisprudenza di legittimità – da ultimo, Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 10 marzo 2020, n. 6790 – avrebbe nuovamente affermato la funzione antielusiva dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986.
6.– In data 20 maggio 2020 la SGD srl ha presentato memoria insistendo per la dichiarazione di infondatezza delle questioni, in quanto basate sull’asserita e indimostrata immanenza nell’ordinamento giuridico di un principio di prevalenza della sostanza sulla forma.
7.– In pari data anche l’Avvocatura generale ha presentato memoria.
La difesa dello Stato, dopo aver confutato gli argomenti spesi dalla parte privata costituita, insiste per l’inammissibilità delle questioni sollevate, adducendo la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme precisando che questa sarebbe ulteriormente avvalorata: a) dalla natura interpretativa dell’intervento normativo di cui all’art. 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017, confermato dall’art. 1, comma 1087, della legge n. 145 del 2018, che dimostrerebbe la volontà del legislatore di collocarsi nel solco della previgente interpretazione dell’art. 20 raggiunta dal diritto vivente; b) dalla tecnica normativa utilizzata, che nel mantenere intatto la prima parte della disposizione («secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente»), avrebbe confermato il principio della prevalenza della sostanza sulla forma, rispetto al quale coordinare nei termini sopra descritti la preclusione della considerazione degli elementi extratestuali e degli atti collegati.
In subordine, conferma la richiesta di dichiarazione di non fondatezza o manifesta infondatezza.
Osserva inoltre l’Avvocatura che del tutto inconferenti sarebbero gli argomenti spesi dalla parte privata con riguardo sia all’art. 5 della direttiva 2008/7/CE, sia all’art. 176, comma 3, TUIR, in quanto del tutto estranei al presente giudizio di costituzionalità e relativi ad aspetti che toccano unicamente il merito, nel giudizio a quo, delle questioni.
Da ultimo, la difesa statale eccepisce l’inammissibilità dell’intervento della Total E&P Italia spa e Mitsui E&P Italia A srl, in quanto prive di un interesse differenziato ed incidente sul medesimo rapporto sostanziale del giudizio principale.
8.− Con ordinanza dibattimentale del 10 giugno 2020, che si allega, è stato dichiarato inammissibile l’intervento spiegato delle società Total E&P Italia spa e Mitsui E&P Italia A srl, in quanto relativo a soggetti estranei al giudizio principale e privi di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio.
1.– La Corte di cassazione, sezione quinta civile, con ordinanza del 23 settembre 2019 (reg. ord. n. 212 del 2019), ha sollevato d’ufficio, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 20 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), così «come risultante dagli interventi apportati dall’art. 1, comma 87» [rectius comma 87, lettera a)], della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020) e dall’art. 1, comma 1084, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), nella parte in cui dispone che, nell’applicare l’imposta di registro «secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, "prescindendo da quelli extratestuali e degli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”».
La Corte di cassazione rimettente, dopo aver illustrato analiticamente le ragioni per le quali non ritiene «potenzialmente assorbenti» i motivi di gravame, diversi dalla questione relativa alla portata del menzionato art. 20, conclude che, per effetto dell’art. 1, comma 1084, della legge n. 145 del 2018, a norma del quale «[l]’articolo 1, comma 87, lettera a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205, costituisce interpretazione autentica dell’articolo 20, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131», non è possibile decidere la controversia senza fare applicazione della norma denunciata.
Ciò premesso, secondo il giudice a quo tale «nuova e più ristretta» formulazione del citato art. 20 sarebbe lesiva:
a) dell’art. 53 Cost., sotto il profilo dell’effettività dell’imposizione, in quanto – in contrasto con il principio «imprescindibile ed anche storicamente radicato» della prevalenza della sostanza sulla forma – «l’esenzione del collegamento negoziale dall’opera di qualificazione giuridica dell’atto produce l’effetto pratico di sottrarre ad imposizione una tipica manifestazione di capacità contributiva»;
b) dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’eguaglianza e ragionevolezza, dal momento che «a pari manifestazioni di forza economica (e quindi di capacità contributiva) non possano corrispondere imposizioni di diversa entità […] a seconda che […] le parti abbiano stabilito di realizzare il proprio assetto di interessi con un solo atto negoziale piuttosto che con più atti collegati», non essendo il collegamento negoziale un indice di diversificazione di fattispecie legittimante un trattamento non omogeneo delle situazioni prese a comparazione.
2.− Va preliminarmente ribadita l’ordinanza dibattimentale del 10 giugno 2020, con cui è stato dichiarato inammissibile l’intervento spiegato dalle società Total E&P Italia spa e Mitsui E&P Italia A srl, in quanto relativo a soggetti estranei al giudizio principale e privi di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio.
3.− La Saint Gobain Distribuzione srl a socio unico, costituita in giudizio, ha eccepito la manifesta inammissibilità delle questioni prospettate dal rimettente in ragione della non corretta o implausibile motivazione in ordine alla rilevanza delle questioni stesse in quanto esse sarebbero incentrate sull’«addotta esistenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità su (una delle varie) letture interpretative dell’art. 20 D.P.R. 131/86 nella versione pre-vigente alle modifiche normative», oggetto dell’odierna censura. Ad avviso della parte privata, il rimettente, a sostegno della rilevanza, avrebbe dovuto argomentare non solo la compatibilità di tale orientamento con la disposizione censurata, ma anche che esso – pur consolidato nella giurisprudenza di legittimità – fosse l’unico imposto dalla Costituzione. Ciò a maggior ragione trattandosi di un orientamento «invero avversato dalla unanime dottrina […] e da parte della giurisprudenza, sia della stessa Cassazione – cfr. in particolare sent. 2054/2017 – sia, soprattutto, di merito».
L’eccezione non è fondata.
La Corte di cassazione rimettente, infatti, ha adeguatamente motivato la rilevanza sia precisando che la norma – in quanto dichiaratamente interpretativa e, quindi, con «portata retroattiva» – si applica al giudizio a quo, sia richiamando il tenore letterale delle disposizioni oggetto delle questioni. Ciò è sufficiente per riconoscere l’ammissibilità delle questioni, ogni ulteriore considerazione restando riservata all’esame del merito.
4.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sotto un distinto profilo.
Ad avviso della difesa statale il rimettente non avrebbe sufficientemente argomentato le ragioni per le quali non sarebbe possibile pervenire a un’interpretazione costituzionalmente conforme del censurato art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, nella parte in cui prevede che l’applicazione dell’imposta debba prescindere dagli elementi extratestuali e dagli atti collegati a quello presentato per la registrazione.
In particolare, la difesa dello Stato sostiene che il divieto di far ricorso a elementi extratestuali o desumibili da atti collegati, avrebbe solo il significato di escludere la rilevanza degli elementi "fuori contesto” o "extravaganti” «rispetto alla volontà e agli effetti immediatamente desumibili» dall’atto da registrare, perché a questo non fanno alcun riferimento o comunque non incidono sui suoi effetti.
L’eccezione è manifestamente infondata.
L’Avvocatura non considera che il rimettente ha espressamente escluso la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme della norma censurata «per lettera, ratio e contesto di emanazione», considerandola «assolutamente inequivoca ed invalicabile nel prescrivere l’estromissione degli elementi extratestuali e degli atti collegati dall’opera di qualificazione negoziale».
Tale argomentazione del rimettente rende ammissibili le questioni, perché, come ribadito anche di recente da questa Corte, «[a] fronte di adeguata motivazione circa l’impedimento ad un’interpretazione costituzionalmente compatibile, dovuto specificamente al "tenore letterale della disposizione”, […] "la possibilità di un’ulteriore interpretazione alternativa, che il giudice a quo non ha ritenuto di fare propria, non riveste alcun significativo rilievo ai fini del rispetto delle regole del processo costituzionale, in quanto la verifica dell’esistenza e della legittimità di tale ulteriore interpretazione è questione che attiene al merito della controversia, e non alla sua ammissibilità” (sentenza n. 221 del 2015)» (sentenza n. 217 del 2019).
Ne segue che anche la suddetta eccezione sollevata dalla difesa dello Stato attiene al merito dell’interpretazione della disposizione censurata e non all’ammissibilità delle questioni.
5.– Nel merito, le questioni inerenti alla violazione degli artt. 53 e 3 Cost. non sono fondate.
5.1.– L’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, nell’attuale formulazione censurata, dispone che, nell’applicare l’imposta di registro secondo l’intrinseca natura e secondo gli effetti giuridici dell’atto da registrare, indipendentemente dal titolo o dalla forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso (intesi quali effetti giuridici del negozio veicolato in un documento), prescindendo da quelli «extratestuali e dagli atti a esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi».
5.1.1.– Anche il rimettente muove da questa interpretazione letterale della norma censurata: tuttavia ritiene che essa comporti la denunciata violazione degli artt. 53 e 3 Cost. perché la preclusione della valutazione degli elementi extratestuali e degli atti collegati sarebbe in contrasto con il principio di prevalenza della sostanza economica sulla forma giuridica, principio che afferma essere implicato da detti parametri nonché «imprescindibile e […] storicamente radicato» nell’ordinamento tributario in genere e nella disciplina dell’imposta di registro in particolare.
Più precisamente, il giudice a quo oppone, alla novella censurata, l’interpretazione del previgente art. 20 del testo unico quale prospettata dal «vastissimo e del tutto consolidato» orientamento giurisprudenziale di legittimità, secondo cui:
a) la natura di "imposta d’atto” propria dell’imposta di registro, confermata dalla formulazione dell’art. 1 del d.P.R. n. 131 del 1986, relativo all’oggetto dell’imposta, «non osta alla valorizzazione complessiva di elementi interpretativi esterni e di collegamento negoziale», poiché per «atto presentato alla registrazione» deve intendersi l’insieme delle previsioni negoziali preordinate alla regolazione unitaria degli effetti giuridici derivanti dai vari negozi collegati;
b) il recupero di elementi negoziali esterni e collegati all’atto presentato alla registrazione risponde all’esigenza di evidenziare la «causa reale di tale atto […] che, per sua natura, non può essere lasciata alla discrezionalità delle parti contribuenti né a quello che le parti abbiano dichiarato»;
c) tale «processo di riqualificazione» discende dal richiamo degli istituti civilistici generali della «causa concreta» del contratto e del «collegamento negoziale», per cui, «pur conservando una loro causa autonoma, i diversi contratti legati dal loro collegamento funzionale sono finalizzati ad un unico regolamento dei reciproci interessi»;
d) il riferimento testuale del censurato art. 20 agli «effetti giuridici» dell’atto non preclude che si attribuisca rilevanza a quello «scopo economico unitario» raggiunto dalle parti attraverso la combinazione e il coordinamento degli effetti giuridici dei singoli atti, così disvelandone l’«intrinseca natura»; peraltro, posto che la riqualificazione del contratto ai fini tributari «lascia comunque intatta la validità e l’efficacia del contratto stesso e dello schema negoziale liberamente prescelto dalle parti, risolvendosi unicamente nell’applicazione della disciplina impositiva più appropriata», nessuna menomazione, ai sensi dell’art. 41 Cost., è rilevabile in relazione alla «libera iniziativa economica» e all’«autonomia negoziale delle parti»;
e) «l’espressa inclusione nell’art. 10-bis, comma 2, lettera a), legge n. 212/2000 della fattispecie di collegamento negoziale (invece mancante nella struttura testuale dell’art. 20)» non esclude che il collegamento negoziale continui a rilevare – al di fuori da considerazioni antielusive – «sul piano obiettivo della mera qualificazione giuridica», ai sensi dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986.
5.1.2.– Il rimettente afferma, dunque, che nell’art. 20 il termine «atto» presentato alla registrazione va inteso come negozio complessivo, anche se non interamente espresso in un unico documento, e che per la sua interpretazione debbono necessariamente utilizzarsi tutti gli elementi extratestuali reperibili dall’interprete, compresi gli atti collegati contenuti in distinti documenti (ancorché non enunciati, né menzionati nell’atto presentato alla registrazione). Nella prospettazione del giudice a quo, questa interpretazione – esito della consolidata giurisprudenza di legittimità alla stregua della previgente formulazione dell’art. 20 – costituisce un dato necessitato in base alla Costituzione, cosicché «il dubbio verte proprio sul corretto esercizio della discrezionalità legislativa e sulla corretta applicazione delle scelte del legislatore tributario».
5.1.3.– Tale interpretazione evolutiva, cui la giurisprudenza della Corte di cassazione è pervenuta circa la rilevanza della causa concreta del negozio ai fini della tassazione di registro, tuttavia, non equivale a priori a un’interpretazione costituzionalmente necessitata, come invece ritiene il rimettente.
In proposito deve essere innanzitutto sottolineato che, se certamente esula dal sindacato di questa Corte ogni valutazione circa la correttezza in sé della suddetta interpretazione evolutiva del previgente art. 20 fornita dalla Corte di cassazione in funzione nomofilattica, è invece compito di questa Corte costituzionale stabilire se detta interpretazione sia l’unica consentita dai predetti parametri costituzionali e, quindi, se l’esclusione dalla rilevanza interpretativa degli elementi extratestuali e degli atti collegati, disposta dal legislatore con i menzionati interventi normativi del 2017 e 2018, si ponga in contrasto con i medesimi parametri.
5.2.– Nella specie, ad avviso di questa Corte, proprio muovendo dall’interpretazione del giudice a quo circa il significato da attribuire agli interventi legislativi del 2017 e del 2018, che hanno condotto all’attuale formulazione della norma censurata, è possibile ritenere compatibili con la Costituzione anche nozioni diverse, rispetto a quelle utilizzate dal rimettente, di «atto presentato alla registrazione» e di «effetti giuridici», in relazione alle quali considerare la capacità contributiva, tenendo conto dell’individuazione delle voci in tariffa distintamente stabilite dal testo unico dell’imposta di registro.
Tali possibili diverse nozioni, convalidate dalla novella censurata, riguardano lo stesso presupposto d’imposta individuato dall’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, che deve essere vagliato alla luce della disciplina del tributo nel suo complesso.
Va però preliminarmente ribadito che il senso fatto palese dal significato proprio delle parole della disposizione denunciata (secondo la loro connessione), i correlativi lavori preparatori (in particolare la relazione illustrativa all’art. 1, comma 87, della legge n. 205 del 2017) e tutti i comuni criteri ermeneutici (in particolare, quello sistematico) convergono univocamente nel far ritenere la disposizione oggetto delle questioni come intesa a imporre che, nell’interpretare l’atto presentato a registrazione, si debba prescindere dagli elementi «extratestuali e dagli atti ad esso collegati», salvo quanto disposto dagli articoli successivi del medesimo d.P.R. n. 131 del 1986.
Non può perciò essere accolta l’"interpretazione adeguatrice” prospettata dall’Avvocatura generale dello Stato nei suoi diversi scritti difensivi, secondo cui il divieto di far ricorso a elementi extratestuali o desumibili da atti collegati, avrebbe solo il significato di escludere la rilevanza degli elementi "fuori contesto” o "extravaganti” (cioè privi di riferimenti all’atto da registrare o con effetti non incidenti su questo), nonché di quelli sussumibili nell’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente); interpretazione che confermerebbe – sempre secondo la difesa dello Stato – quella del previgente art. 20 del testo unico fornita dal prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità.
In particolare, deve osservarsi che: a) la lettera delle disposizioni censurate non pone la incerta distinzione, nell’àmbito degli elementi extratestuali, tra quelli "fuori contesto” o all’"interno del contesto”; b) l’«interpretazione adeguatrice», ove comportasse la sostanziale conferma dell’originaria interpretazione dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 fornita dalla prevalente giurisprudenza della Corte di cassazione, si risolverebbe in un’arbitraria e illogica interpretatio abrogans delle disposizioni censurate.
5.2.1.– In proposito è opportuno precisare che lo stesso rimettente dà conto che le questioni attengono a temi con radici storiche ben risalenti nel diritto tributario.
L’originaria disciplina (art. 7 della legge 21 aprile 1862, n. 585, recante «Sulla tassa di Registro») disponeva, infatti, che «[l]a tassa è applicata secondo la intrinseca natura degli atti e dei contratti, e non secondo la loro forma apparente» (poi trasfusa nell’art. 8 del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3269, recante «Approvazione del testo di legge di registro»). Già questa formulazione aveva sollecitato, a partire dai primi decenni del Novecento, un vivacissimo dibattito tra chi sosteneva fermamente la necessità di una considerazione della sostanza economica sottostante all’attività giuridica espressa negli atti e chi invece la negava in radice, propendendo a favore di un criterio di tassazione fondato sugli effetti giuridici (seppur potenziali e oggettivizzati) degli schemi negoziali utilizzati.
Il legislatore sembrò, anni dopo, chiudere quel dibattito – che si era riflesso anche nella giurisprudenza – quando, con la riforma tributaria si inserì, con il decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 634 (Disciplina dell’imposta di registro), all’art. 19 relativo all’«interpretazione degli atti», l’esplicito riferimento agli «effetti giuridici», espressione poi recepita dall’attuale testo unico all’art. 20.
Tuttavia, dopo alcuni decenni, soprattutto col diffondersi della prospettiva del contrasto all’abuso del diritto, nella giurisprudenza di legittimità è riemersa un’interpretazione sostanzialista che si è, invero, sviluppata in modo complesso. In particolare, dapprima – e il rimettente ne dà conto – consolidandosi nel sostenere la natura antielusiva dell’art. 20 e, successivamente (con l’introduzione dell’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000 recante la disciplina sostanziale e procedimentale per l’accertamento dell’abuso del diritto e dell’elusione d’imposta), convergendo sull’affermazione che l’art. 20 detta una regola meramente interpretativa e non antielusiva, ma tale da consentire in ogni caso di individuare la «reale operazione economica» perseguita dalle parti, in ragione del principio della prevalenza della sostanza sulla forma.
Ciò, comunque, non ha impedito l’insorgere di un isolato contrasto nella giurisprudenza di legittimità, quando si è affermato – in difformità dall’orientamento prevalente – che la riqualificazione «non può travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici» (Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 27 gennaio 2017, n. 2054, successivamente richiamata dalla Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 15 gennaio 2019, n. 722, quest’ultima a sua volta ripresa dalla Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 10 marzo 2020, n. 6790, dove peraltro riaffiora la natura antielusiva dell’art. 20).
Anche in conseguenza di tale contrasto (la citata sentenza della Corte di cassazione n. 2054 del 2017 è menzionata nella relazione illustrativa all’art. 1, comma 87, della legge n. 205 del 2017), il legislatore tributario è intervenuto sull’art. 20 stabilendo espressamente – in sostanziale adesione alla giurisprudenza minoritaria della Corte di cassazione – che, nell’interpretare l’atto presentato a registrazione, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, si debba prescindere dagli elementi «extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi».
5.2.2.– A ben vedere, tale presa di posizione del legislatore, nel confermare la tassazione isolata del negozio veicolato dall’atto presentato alla registrazione secondo gli effetti giuridici da esso desumibili, si mostra coerente con i principi ispiratori della disciplina dell’imposta di registro e, in particolare, con la natura di "imposta d’atto” storicamente riconosciuta al tributo di registro dopo la sostanziale evoluzione da tassa a imposta.
Per quanto possa apparire, de iure condendo, in parte obsoleta rispetto all’evoluzione delle tecniche contrattuali, tale natura non risulta superata dal legislatore positivo tenuto conto dell’attuale impianto sistematico della disciplina sostanziale e procedimentale dell’imposta di registro.
In tale contesto, il censurato intervento normativo appare finalizzato a ricondurre il citato art. 20 all’interno del suo alveo originario, dove l’interpretazione, in linea con le specificità del diritto tributario, risulta circoscritta agli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione (ovverossia al gestum, rilevante secondo la tipizzazione stabilita dalle voci indicate nella tariffa allegata al testo unico), senza che possano essere svolte indagini circa effetti ulteriori, salvo che ciò sia espressamente stabilito dalla stessa disciplina del testo unico.
Mette conto, infatti, precisare che, proprio la clausola finale del censurato art. 20 «salvo quanto disposto dagli articoli successivi» concorre ad avvalorare la suddetta valenza sistematica dell’intervento legislativo del 2017 nell’assetto della disciplina del tributo. Invero, per effetto della novella, le ipotesi riconducibili all’accezione restrittiva generale della nozione di «atto» presentato alla registrazione sono individuabili solo al di fuori di quelle, espressamente regolate dallo stesso testo unico, che ammettono la rilevanza degli effetti di separati atti o fatti collegati o, in altri termini, di vicende rientranti nel complessivo programma di azione costituito da un precedente negozio, che incideranno sul regime fiscale di quest’ultimo o comporteranno trattamenti d’imposta diversificati.
5.2.3.– Pertanto, il legislatore, con la denunciata norma ha inteso, attraverso un esercizio non manifestamente arbitrario della propria discrezionalità, riaffermare la natura di "imposta d’atto” dell’imposta di registro, precisando l’oggetto dell’imposizione in coerenza con la struttura di un prelievo sugli effetti giuridici dell’atto presentato per la registrazione, senza che assumano rilievo gli elementi extratestuali e gli atti collegati privi di qualsiasi nesso testuale con l’atto medesimo, salvo le ipotesi espressamente regolate dal testo unico. In tal modo risulta rispettata la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, coerenza sulla cui verifica verte il giudizio di legittimità costituzionale (su tale esigenza, ex multis, sentenze n. 10 del 2015, n. 116 del 2013, n. 223 del 2012 e n. 111 del 1997).
Ne consegue che le questioni prospettate con riferimento agli artt. 3 e 53 Cost. sono non fondate, in quanto si basano sull’assunto del rimettente che, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, i fatti espressivi della capacità contributiva, indicati negli effetti giuridici desumibili, anche aliunde, dalla causa concreta del negozio contenuto nell’atto presentato per la registrazione, sono i soli costituzionalmente compatibili con gli evocati parametri.
È proprio tale assunto che non può essere accolto: tali parametri, infatti, sul piano della legittimità costituzionale non si oppongono in modo assoluto a una diversa concretizzazione da parte legislatore dei principi di capacità contributiva e, conseguentemente, di eguaglianza tributaria, che sia diretta (come stabilito dalla norma censurata) a identificare i presupposti impostivi nei soli effetti giuridici desumibili dal negozio contenuto nell’atto presentato per la registrazione, senza alcun rilievo di elementi tratti aliunde, «salvo quanto disposto dagli articoli successivi» dello stesso testo unico.
In tal modo, del resto, il criterio di qualificazione e di sussunzione in via interpretativa risulta omogeneo a quello della tipizzazione, secondo le regole del testo unico e in ragione degli effetti giuridici dei singoli atti distintamente individuati dal legislatore nelle relative voci di tariffa ad esso allegata.
5.2.4.– Non varrebbe, infine, obiettare che la normativa di cui si discute, escludendo (salvo per le ipotesi espressamente regolate dal testo unico) la rilevanza interpretativa sia di elementi extratestuali, sia del collegamento negoziale, potrebbe favorire l’ottenimento di indebiti vantaggi fiscali sottraendo all’imposizione, in violazione degli evocati parametri costituzionali, «l’effettiva ricchezza imponibile».
In proposito va sottolineato che detta sottrazione potrebbe rilevare sotto il profilo dell’abuso del diritto. Tuttavia lo stesso rimettente esclude decisamente (indicando a sostegno «l’indirizzo più recente» della giurisprudenza di legittimità) che l’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 abbia una specifica funzione antielusiva e nel percorso motivazionale dell’ordinanza di rimessione non si sofferma sull’esistenza e applicabilità in concreto delle singole discipline antiabuso anteriori all’introduzione nell’ordinamento – sopravvenuta rispetto alla fattispecie oggetto del giudizio a quo – della esplicita clausola generale di cui all’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000 (espressamente richiamato per il sistema dell’imposta di registro dall’attuale formulazione dell’art. 53-bis del d.P.R. n. 131 del 1986).
Una volta constatato, per quanto sopra detto, che non è manifestamente arbitrario che il legislatore abbia ribadito la ratio dell’imposta di registro in sostanziale conformità alla sua origine storica di "imposta d’atto” nei sensi sopra precisati, in caso di collegamento negoziale, qui può solo osservarsi, sul piano costituzionale, che l’interpretazione evolutiva, patrocinata dal rimettente, di detto art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, incentrata sulla nozione di "causa reale”, provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, quantomeno a partire dall’introduzione dell’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000. Infatti, consentirebbe all’amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di «indebiti» vantaggi fiscali e di operazioni «prive di sostanza economica», precludendo di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale (invece pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione europea).
5.2.5.– In conclusione, la disciplina censurata non si pone in contrasto né con il principio di capacità contributiva, né con quelli di ragionevolezza ed eguaglianza tributaria, con conseguente non fondatezza delle sollevate questioni.
Resta ovviamente riservato alla discrezionalità del legislatore provvedere – compatibilmente con le coordinate stabilite dal diritto dell’Unione europea – a un eventuale aggiornamento della disciplina dell’imposta di registro che tenga conto della complessità delle moderne tecniche contrattuali e dell’attuale stato di evoluzione tecnologica, con riguardo, in particolare, sia al sistema di registrazione degli atti notarili, sia a quello di gestione della documentazione da parte degli uffici amministrativi finanziari.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 20 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), come modificato dall’art. 1, comma 87, lettera a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), e dall’art. 1, comma 1084, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), sollevate dalla Corte di cassazione, sezione quinta civile, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 giugno 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Luca ANTONINI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 luglio 2020.
Allegati: