Sentenza n. 177 del 2010

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SENTENZA N. 177

ANNO 2010

[ELG:COLLEGIO]

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Francesco                    AMIRANTE                                    Presidente

-           Ugo                             DE SIERVO                                      Giudice

-           Paolo                           MADDALENA                                       “

-           Alfio                            FINOCCHIARO                                     “

-           Alfonso                       QUARANTA                                           “

-           Franco                         GALLO                                                    “

-           Luigi                            MAZZELLA                                            “

-           Gaetano                       SILVESTRI                                             “

-           Sabino                         CASSESE                                                “

-           Maria Rita                   SAULLE                                                  “

-           Giuseppe                     TESAURO                                               “

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                       “

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     “

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          “

-           Paolo                           GROSSI                                                   “

[ELG:PREMESSA]

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale di La Spezia nel procedimento penale a carico di P. A. G. ed altri, con ordinanza del 16 luglio 2009, iscritta al n. 274 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Udito nella camera di consiglio del 14 aprile 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.

[ELG:FATTO]

Ritenuto in fatto

1. — Il Tribunale di La Spezia, in composizione collegiale, con ordinanza depositata in data 16 luglio 2009, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24, 25 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare al giudizio, quale componente del tribunale in composizione collegiale, del giudice che, in precedenza investito del giudizio direttissimo conseguente ad arresto in flagranza di reato per lo stesso fatto nei confronti delle stesse persone, all’esito del giudizio di convalida e di applicazione di misura cautelare personale, abbia diversamente qualificato il reato originariamente contestato e, sulla base di tale diversa qualificazione, abbia dichiarato il proprio difetto di cognizione in favore del tribunale collegiale.

Il rimettente riferisce che, a seguito dell’arresto in flagranza di P. A. G., B. A. e P. I. C., per il reato di furto aggravato in concorso, previsto dagli articoli 110, 624, 625, nn. 2, 5 e 7, del codice penale, il Tribunale di La Spezia, in composizione monocratica, era stato investito del procedimento a carico dei predetti imputati con rito direttissimo, ai sensi degli artt. 449 e 558 cod. proc. pen.

Il giudice a quo pone in evidenza che, nel corso del giudizio di convalida e di applicazione delle misure cautelari richieste nei confronti degli arrestati, il giudice monocratico, con ordinanza del 13 luglio 2009, convalidato l’arresto, aveva applicato la misura della custodia cautelare in carcere e, ravvisata la diversa qualificazione giuridica del fatto, ovvero, non più furto aggravato in concorso, ma rapina impropria aggravata in concorso, aveva dichiarato, ai sensi dell’art. 33-septies cod. proc. pen., il proprio difetto di cognizione in favore del Tribunale in composizione collegiale, disponendo la restituzione degli atti al pubblico ministero.

Il giudice a quo indica le ragioni per le quali il giudice monocratico aveva ravvisato una diversa qualificazione giuridica del fatto; in particolare, quest’ultimo aveva considerato che la condotta tenuta da B. A., a seguito dell’azione furtiva, consistita nell’ingaggiare una colluttazione con il carabiniere C., dopo essersi dato alla fuga, inducesse a ravvisare gli estremi del reato di rapina impropria, anziché quello di furto pluriaggravato a lui contestato in concorso con gli altri arrestati.

Inoltre, richiamando alcune pronunzie della Corte di cassazione in tema di concorso “anomalo”, secondo cui può essere ritenuto prevedibile sviluppo dell’azione inerente ad un furto l’uso eventuale di violenza o minaccia, che, se realizzato, fa progredire la sottrazione della cosa mobile altrui in rapina impropria, il giudice monocratico aveva ritenuto che analogo titolo di reato dovesse essere ascritto agli altri due compartecipi, ai sensi dell’art. 116 cod. pen. Il medesimo giudice, poi, aveva prospettato come configurabile l’aggravante prevista dall’art. 628, comma 3, n. 1, cod. pen., poiché il reato era stato commesso da più persone riunite.

Il Tribunale rimettente riferisce, infine, che il pubblico ministero, ricevuti gli atti, aveva disposto che si procedesse nelle forme del rito direttissimo nei confronti dei tre arrestati, i quali erano stati presentati innanzi al medesimo tribunale.

Il collegio rileva, dunque, che uno dei propri componenti è lo stesso giudice monocratico - persona fisica avanti al quale si è tenuto il primo giudizio direttissimo nella fase della convalida e dell’applicazione di misure cautelari.

Il giudice a quo, pur non ignorando il consolidato orientamento della Corte costituzionale, secondo cui non sussiste l’incompatibilità del giudice, che abbia convalidato l’arresto e che, all’atto della convalida, abbia applicato una misura cautelare, a partecipare al successivo giudizio direttissimo, osserva che la questione nella specie è differente ed, al riguardo, richiama la sentenza n. 177 del 1996, nonché le ordinanze n. 90 del 2004, nn. 316 e 284 del 1996 della Corte.

In particolare, il rimettente sottolinea che, nella fattispecie in esame, il giudice monocratico, in origine investito del giudizio, ha ex officio delibato la questione in termini di inquadramento del fatto per cui si procede in altra, diversa e più gravemente sanzionata ipotesi di reato; ritiene, inoltre, che «la valutazione incidentale del giudice monocratico in tema di corretta qualificazione del fatto reato, essendo scesa al merito delle risultanze di fatto rinvenienti dal fascicolo e dallo stesso specificamente indicate a sostegno della propria declaratoria di difetto di attribuzione, non possa assimilarsi all’ipotesi menzionata nella citata sentenza n. 177 del 1996».

 Il rimettente, infatti, pone in evidenza che la Corte, nella sentenza ora citata, ha affermato che «non è prefigurabile una menomazione dell’imparzialità del giudice il quale adotta decisioni, anche incidentali, preordinate al giudizio di cui è legittimamente investito rispetto ad esso», mentre, nel caso di specie, si verserebbe in una situazione diversa «e ciò proprio perché, nel suo giudizio, il giudice monocratico ha ravvisato – sulla base di una diversa qualificazione del fatto – l’illegittimità dell’attribuzione ad esso giudice del giudizio de quo. Ed a tanto ha provveduto in base alla delibazione in fatto e in diritto delle emergenze procedimentali nei termini sopra evidenziati».

Il rimettente, inoltre, evidenzia una disparità di trattamento con le situazioni oggetto delle sentenze nn. 455 e 453 del 1994 e n. 399 del 1992, con le quali la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34 cod. proc. pen. in alcune ipotesi in cui vi è stato un pregresso intervento del giudice, in tema di qualificazione giuridica del fatto.

Da tali pronunzie il giudice a quo ritiene di poter desumere che «il Giudice delle Leggi abbia inteso affermare il principio secondo il quale deve ritenersi incompatibile a giudicare in ordine al medesimo fatto, a prescindere dal suo ruolo nel giudizio, il giudice che abbia effettuato una precedente valutazione in base agli atti, all’esito della quale egli abbia ritenuto il fatto inquadrabile in reato diverso da quello contestato; ovvero abbia manifestato il proprio giudizio in ordine alla sua qualificazione giuridica in termini diversi rispetto a quelli oggetto di imputazione o di prospettazione delle parti; o comunque, abbia precedentemente formulato valutazioni cadenti sulla stessa res iudicanda, specie se in vista di una decisione».

Ciò posto, il Tribunale afferma che la disposizione censurata si pone in contrasto, in primo luogo, con l’art. 3 Cost., in quanto non assicura parità di trattamento normativo con situazioni simili, quali, appunto, quelle oggetto delle pronunzie della Corte nn. 455 e 453 del 1994 e n. 399 del 1992, in assenza di ragionevoli motivi che giustifichino la differenza di statuizioni; in tali pronunzie la Corte ha, infatti, ravvisato l’incompatibilità alla funzione del giudizio nei casi in cui il giudice abbia, in uno stadio anteriore al procedimento, espresso una valutazione nel merito della stessa materia processuale riguardante il medesimo incolpato.

Inoltre, ad avviso del rimettente, la disposizione impugnata contrasta con gli artt. 24, 25 e 111 Cost. poiché pone l’imputato nelle condizioni di non potere pienamente esercitare i propri diritti difensivi al cospetto di un organo giudicante che, per avere in precedenza espresso una valutazione incidente sullo stesso oggetto dell’imputazione al punto da determinarne la modificazione, viene a trovarsi in posizione incompatibile con l’imparzialità e terzietà richieste al giudice, essendosi, comunque, formato un convincimento sul merito dell’azione penale.

In particolare, il rimettente afferma che l’avere espresso il proprio convincimento sull’inquadramento del fatto attribuito, concludendo per la configurabilità di un’ipotesi di reato più grave e comprensiva di una condotta di violenza successiva e distinta rispetto a quella furtiva, in origine contestata, attribuita ad uno dei compartecipi, ma giudicata riferibile anche agli altri due concorrenti ai sensi dell’art. 116 cod. pen., «sembra configurare un’ipotesi di pre-giudizio del giudice ­ monocratico inizialmente investito del rito direttissimo, tale da inficiarne, quanto meno sul piano potenziale, l’imparzialità».

Il collegio, inoltre, ritiene rilevante il dubbio di costituzionalità prospettato in quanto un’eventuale pronunzia di illegittimità costituzionale della norma censurata imporrebbe al giudice di astenersi dal partecipare al giudizio, quale componente dell’organo collegiale, con conseguente designazione di un altro magistrato che non versi in condizione di incompatibilità; in tal modo, ad avviso del giudice a quo, si eliminerebbero i pregiudizi derivanti dal vulnus all’imparzialità e terzietà del collegio investito del processo.

[ELG:DIRITTO]

Considerato in diritto

1.— Il Tribunale di La Spezia, in composizione collegiale, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 24, 25 e 111 della Costituzione, dell’articolo 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare al giudizio, quale componente del Tribunale in composizione collegiale, del giudice che, in precedenza investito del giudizio direttissimo conseguente ad arresto in flagranza di reato per lo stesso fatto nei confronti delle stesse persone, all’esito del giudizio di convalida e di applicazione di misura cautelare personale, abbia diversamente qualificato il reato originariamente contestato e, sulla base di tale diversa qualificazione, abbia dichiarato il proprio difetto di cognizione in favore del Tribunale collegiale.

Il rimettente riferisce che, a seguito dell’arresto in flagranza di tre persone, per il reato di furto aggravato in concorso, ai sensi degli articoli 110, 624, 625, nn. 2, 5 e 7, del codice penale, il Tribunale di La Spezia, in composizione monocratica, era stato investito del procedimento a carico dei predetti imputati con rito direttissimo, ai sensi degli artt. 449 e 558 cod. proc. pen.

Nel corso del giudizio di convalida e di applicazione delle misure cautelari, il giudice monocratico convalidava l’arresto, applicava la misura della custodia cautelare in carcere e, ravvisato il diverso e più grave reato di rapina impropria aggravata in concorso, dichiarava il proprio difetto di cognizione, ai sensi dell’art. 33-septies cod. proc. pen., in favore del tribunale in composizione collegiale, disponendo la restituzione degli atti al pubblico ministero. Ciò perché, a suo avviso, la condotta tenuta da uno degli imputati, a seguito dell’azione furtiva consistita nell’ingaggiare una colluttazione con un carabiniere, dopo essersi dato alla fuga, integrava gli estremi del reato di rapina impropria. Inoltre, aveva statuito che analogo titolo di reato dovesse essere ascritto agli altri due compartecipi, ai sensi dell’art. 116 cod. pen.; infine, aveva configurato l’aggravante prevista dall’art. 628, comma terzo, n. 1, cod. pen., poiché il reato era stato commesso da più persone riunite.

Pertanto i tre arrestati erano stati presentati, nelle forme del rito direttissimo, innanzi al Tribunale in composizione collegiale, tra i cui componenti vi era lo stesso giudice monocratico - persona fisica che aveva convalidato l’arresto, applicato la misura cautelare e che, avendo ravvisato una diversa e più grave qualificazione giuridica del fatto, aveva dichiarato il proprio difetto di cognizione, ai sensi dell’art. 33-septies cod. proc. pen.

Il giudice a quo, pur non ignorando il consolidato orientamento della Corte costituzionale, secondo cui non sussiste l’incompatibilità del giudice che abbia convalidato l’arresto e che, all’atto della convalida, abbia applicato una misura cautelare, a partecipare al successivo giudizio direttissimo, osserva come il caso, nella specie, sia diverso in quanto il giudice monocratico, in origine investito del giudizio, ha ex officio delibato la questione in termini di inquadramento del fatto per cui si procede in altra, diversa e più gravemente sanzionata ipotesi di reato.

Ravvisa, quindi, la violazione degli artt. 24, 25 e 111 Cost., in quanto il giudice monocratico avrebbe espresso una valutazione nel merito del thema decidendi, delibando in fatto ed in diritto le emergenze procedimentali. Ritiene sussistente, inoltre, la violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento in relazione ad altre ipotesi assimilabili a quella in esame, di cui alle sentenze di questa Corte nn. 455 e 453 del 1994 e n. 399 del 1992.

Il rimettente, infine, motiva in modo plausibile sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza.

2. — La questione non è fondata.

Si deve osservare che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, le norme sulla incompatibilità del giudice, derivante da atti compiuti nel procedimento, sono poste a tutela dei valori costituzionali della terzietà e della imparzialità della giurisdizione, «risultando finalizzate ad evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla forza della prevenzione – ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o mantenere un atteggiamento già assunto – scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda» (sentenza n. 224 del 2001).

In particolare, l’imparzialità del giudice, ponendosi quale espressione del principio del giusto processo, è perciò «connaturata all’essenza della giurisdizione e richiede che la funzione di giudicare sia assegnata a un soggetto “terzo”, non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto ma anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia da decidere, formatesi in diverse fasi del giudizio in occasioni di funzioni decisorie ch’egli sia stato chiamato a svolgere in precedenza» (sentenza n. 155 del 1996).

La Corte, soffermandosi sui presupposti della incompatibilità endoprocessuale, ha statuito che «[…] il presupposto di ogni incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadono sulla medesima res judicanda.[…] In secondo luogo – per quanto l'architettura del nuovo rito penale richieda che le conoscenze probatorie del giudice si formino nella fase del dibattimento – rilevante ai fini della incompatibilità non è la semplice “conoscenza” di atti anteriormente compiuti, riguardanti il processo: l'incompatibilità sorge quando il giudice sia stato chiamato a compiere una “valutazione” di essi, al fine di una decisione.[…] In terzo luogo, non tutte le valutazioni anzidette danno luogo a un pregiudizio rilevante ma solo quelle "non formali, di contenuto", cosicché le condizioni dell'incompatibilità si determinano quando il giudice si sia pronunciato su aspetti che riguardano il merito dell'ipotesi d'accusa, ma non anche quando abbia preso determinazioni soltanto in ordine allo svolgimento del processo, sia pure in seguito a una valutazione delle risultanze processuali […]» (sentenza n. 131 del 1996).

Ciò premesso, va rilevato che nel giudizio a quo la più grave qualificazione giuridica attribuita dal giudice monocratico al fatto, in sede di convalida dell’arresto ed applicazione di misura cautelare, come riferito dallo stesso rimettente, è avvenuta sulla base «di una valutazione incidentale del giudice monocratico», che non è scesa nel merito delle risultanze processuali.

Invero, alla luce degli anzidetti principi, la diversa e più grave qualificazione giuridica del fatto, fondata soltanto sulla valutazione degli atti del fascicolo, effettuata in sede di udienza di convalida e di applicazione di misura cautelare e, quindi, basata sul medesimo materiale processuale utilizzato per formulare l’originaria imputazione e per richiedere la misura restrittiva della libertà personale, non è di per sé idonea ad integrare il carattere di una valutazione non formale, ma di contenuto, come indicato nella sentenza da ultimo citata.

Detta qualificazione, in quanto posta in essere allo stato degli atti, si è risolta in una valutazione astratta delle risultanze processuali che, dunque, non ha implicato «valutazioni contenutistiche della consistenza dell’ipotesi accusatoria» (sentenza n. 401 del 1991).

Il dato che il rappresentante della pubblica accusa abbia omesso di considerare l’elemento della violenza, risultante dagli atti processuali anche nella disponibilità del giudice monocratico, trascurando di contestare il più grave reato di rapina impropria e così lasciando al giudice il potere di attribuire al fatto un nomen iuris diverso in base al principio iura novit curia, non integra una situazione idonea a pregiudicare la successiva fase del giudizio.

Nel caso di specie, pertanto, nessuna menomazione dell’imparzialità del giudice può essere ravvisata in relazione alla valutazione degli atti del processo da cui è derivata la diversa qualificazione giuridica del fatto, in quanto essa non ha riguardato il merito dell’accusa, ma è consistita nel ricondurre il caso concreto nella fattispecie astratta di cui all’art. 628, commi secondo e terzo, n. 1, cod. pen.

La questione sollevata dal Tribunale di La Spezia non è fondata anche con riferimento all’asserita violazione dell’art. 3 Cost.

Il giudice a quo afferma che la mancata previsione della causa di incompatibilità indicata viola il principio di uguaglianza in quanto non vi sarebbe «parità di trattamento normativo» con altre situazioni simili, cioè quelle oggetto delle sentenze della Corte nn. 455 e 453 del 1994 e n. 399 del 1992, che hanno introdotto nuove ipotesi di incompatibilità alla funzione del giudizio.

Ebbene, è agevole rilevare che le situazioni esaminate nelle pronunzie ora citate e quelle oggetto della questione sollevata dal suddetto Tribunale non sono omogenee.

Ciò che accomuna le richiamate situazioni a quella oggetto del presente scrutinio di legittimità costituzionale, ad avviso del rimettente, è il fatto che si tratta di ipotesi in cui il giudice, in uno stadio anteriore del procedimento, si sia espresso sulla qualificazione giuridica del fatto.

Si deve, al contrario, rilevare che nelle tre pronunzie sopra indicate le situazioni idonee a pregiudicare l’imparzialità concernono casi in cui il giudice ha adottato decisioni attinenti al merito dell’accusa ed intervenute all’esito di una valutazione complessiva dei dati probatori raccolti in dibattimento (sentenza n. 455 del 1994); o ancora, assunte a seguito di una valutazione complessiva delle indagini preliminari che ha comportato il rigetto della domanda di oblazione o di applicazione di pena concordata (sentenze n. 453 del 1994 e n. 399 del 1992).

In questi casi ciò che ha condotto a ravvisare la situazione di incompatibilità non è stata la valutazione sulla diversa qualificazione giuridica, quanto piuttosto il fatto che tale diversa qualificazione è derivata da un apprezzamento approfondito di elementi concernenti il merito dell’accusa; ovvero, perché il magistrato ha compiuto «una piena delibazione del merito della regiudicanda, con la conseguenza che un dibattimento bis non può non essere attribuito alla cognizione di altro soggetto, a garanzia della imparzialità e serenità di giudizio» (sentenza n. 400 del 2008).

Nella sentenza da ultimo citata, infatti, la Corte ha affermato la sussistenza della incompatibilità alla trattazione dell’udienza preliminare del giudice che abbia ordinato, all’esito di precedente dibattimento, riguardante lo stesso fatto storico a carico del medesimo imputato, la trasmissione degli atti al pubblico ministero a norma dell’art. 521, comma 2, cod. proc. pen. Anche in tale caso, dunque, diversamente da quello in esame, l’intervento del giudice sulla qualificazione del fatto è avvenuto all’esito di una approfondita valutazione degli elementi concernenti il merito dell’accusa.

[ELG:DISPOSITIVO]

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 34, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, 25 e 111 della Costituzione dal Tribunale di La Spezia, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 maggio 2010.

[ELG:FIRME]

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2010.