Sentenza n. 401 del 1991

 

 CONSULTA ONLINE 

 

SENTENZA N. 401

ANNO 1991

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Dott. Aldo CORASANITI                                         Presidente

Prof. Giuseppe BORZELLINO                                   Giudice

Dott. Francesco GRECO                                                 “

Prof. Gabriele PESCATORE                                           “

Avv. Ugo SPAGNOLI                                                    “

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA                               “

Prof. Antonio BALDASSARRE                                     “

Prof. Vincenzo CAIANIELLO                                       “

Avv. Mauro FERRI                                                         “

Prof. Luigi MENGONI                                                    “

Prof. Enzo CHELI                                                           “

Dott. Renato GRANATA                                                “

Prof. Giuliano VASSALLI                                              “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma secondo, del codice di procedura penale promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa l'11 dicembre 1990 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di Vagheggi Paolo, iscritta al n. 184 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell'anno 1991;

2) ordinanza emessa il 19 febbraio 1991 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di La Spezia nel procedimento penale a carico di Nicora Caterina, iscritta al n. 287 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell'anno 1991;

3) ordinanza emessa il 5 marzo 1991 dalla Corte d'appello di Brescia nel procedimento penale a carico di Olivari Claudio Evaristo ed altro, iscritta al n. 315 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell'anno 1991;

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 10 luglio 1991 il Giudice relatore Ugo Spagnoli;

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con ordinanza dell'11 dicembre 1990, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma ha sollevato, su eccezione della difesa, questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, secondo comma, del codice di procedura penale, per contrasto con la direttiva di cui al n. 67 dell'art. 2 della legge delega n. 81 del 1987 e, perciò, con gli artt. 76 e 77 Cost., "nella parte in cui detta disposizione non prevede che non possa partecipare alla successiva udienza preliminare il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale, che abbia ordinato al P.M., ai sensi dell'art. 409, 5° co, del codice, di formulare l'imputazione".

L'ordinanza prende le mosse dalla sentenza di questa Corte n. 496 del 1990, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della medesima norma nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al successivo giudizio abbreviato il giudice per le indagini preliminari presso la Pretura che abbia emesso l'ordinanza di cui all'art. 554, secondo comma, del medesimo codice. Sottolinea, in particolare, che a tale decisione la Corte è pervenuta considerando che "il regime delle incompatibilità indicato nella delega risponde, invero, all'esigenza di evitare che la valutazione di merito del giudice possa essere (o possa ritenersi che sia) condizionata dallo svolgimento di determinate attività nelle precedenti fasi del procedimento o dalla previa conoscenza dei relativi atti processuali"; e che "respingendo la richiesta di archiviazione ed ordinando, conseguentemente, di formulare l'imputazione, il giudice per le indagini preliminari compie infatti una valutazione non formale, ma di contenuto, dei risultati delle indagini preliminari e della sussistenza delle condizioni necessarie per l'assoggettare l'imputato al giudizio di merito".

Queste stesse ragioni, ad avviso del giudice rimettente, valgono a far ritenere che non debba poter partecipare all'udienza preliminare il giudice delle indagini preliminari presso il tribunale che abbia in precedenza ordinato di formulare l'imputazione, dato che con ciò egli ha già espresso la propria valutazione sui risultati acquisiti nella fase delle indagini preliminari ed implicitamente, ma inequivocabilmente, anche sulla sussistenza delle condizioni necessarie per disporre il rinvio a giudizio dell'imputato.

1.1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.

L'Avvocatura rileva che, nella direttiva n. 67, l'incompatibilità è riferita solo al giudice del dibattimento e sussiste solo per il compimento di taluni atti tipici costituiti dalle decisioni "conclusive" che il giudice per le indagini preliminari assume dopo l'esercizio dell'azione penale. L'art. 34, secondo comma, ha ampliato l'ambito dell'incompatibilità considerato nella delega, riferendola a qualsiasi "giudizio"; e la Corte, nella citata sentenza, si è mantenuta in questo solco, estendendola al giudizio abbreviato ma tenendo fermo che essa può venire in considerazione solo rispetto alla funzione di "giudizio".

Il giudice remittente muove perciò, secondo l'Avvocatura, da una premessa errata, in quanto non considera che l'udienza preliminare ha una funzione squisitamente processuale e non può essere assimilata ad una fase qualificabile come "giudizio", dato che in essa il giudice non è chiamato a pronunciarsi sulla colpevolezza o meno dell'imputato, ma solo a delibare la fondatezza dell'accusa secondo un parametro rigorosamente circoscritto alla non manifesta superfluità del dibattimento.

Perciò, l'ordine di formulare l'imputazione, se può essere assimilato - come ha fatto la Corte - al provvedimento conclusivo dell'udienza preliminare ai fini dell'incompatibilità riferita al successivo giudizio, non può valere - invertendo l'ordine del ragionamento - come atto idoneo a precludere al medesimo giudice la celebrazione di una udienza destinata unicamente a vagliare la necessità del giudizio. Non conta, ad avviso dell'Avvocatura, che dopo l'imputazione "coatta" l'esito dell'udienza possa ritenersi prevedibile; conta, invece, che rispetto al sistema della delega sarebbe antinomica un'incompatibilità interna alla fase, per di più fondata su un malinteso appello alla "terzietà" del giudice.

2. - L'art. 34, secondo comma, del codice è stato impugnato, in riferimento allo stesso parametro, con ordinanza del 19 febbraio 1991, anche dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di La Spezia, nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al successivo giudizio abbreviato - cui si era nella specie dato ingresso - il giudice per le indagini preliminari che abbia in precedenza ordinato di formulare l'imputazione ai sensi dell'art. 409, comma quinto, del codice.

Trattasi - rileva il giudice rimettente - di un caso analogo a quello già deciso, in relazione al procedimento pretorile, con la citata sentenza n. 496 del 1990, per il quale dovrebbero perciò valere le medesime ragioni di incostituzionalità.

2.1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenendo nel predetto giudizio, si è riportato alle conclusioni riassunte sub 1.1.-.

3. - Nel corso di un procedimento penale a carico di Olivari Claudio Evaristo ed altro, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Brescia, dopo aver convalidato il fermo e disposto la misura cautelare della custodia in carcere, ordinava, su richiesta del pubblico ministero, che si procedesse con giudizio immediato: indi, su richiesta dell'imputato e col consenso del pubblico ministero, disponeva procedersi con rito abbreviato. All'udienza, la difesa proponeva istanza di ricusazione, sostenendo che detto giudice versava nella situazione d'incompatibilità di cui all'art. 34, secondo comma, del codice di rito: ma l'istanza veniva rigettata.

Avverso la successiva sentenza di condanna, gli imputati proponevano appello, deducendone la nullità in forza della sentenza di questa Corte n. 496 del 1990.

Con ordinanza del 5 marzo 1991, la Corte d'appello di Brescia, pur premettendo che da quest'ultima pronuncia - fondata tra l'altro sulla necessaria distinzione tra funzioni requirenti e giudicanti di cui alla direttiva n. 103 della legge delega - non può inferirsi l'incostituzionalità della diversa situazione qui considerata, ha sollevato, in riferimento agli artt. 25 e 101 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, secondo comma, cod. proc. pen., "nella parte in cui non prevede che al giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale che ha disposto il giudizio immediato sia inibito di partecipare al giudizio abbreviato successivamente disposto, su richiesta dell'imputato e con il consenso del p.m.".

Nel disporre il giudizio immediato - osserva la Corte rimettente - il giudice per le indagini preliminari opera una scelta tra le due soluzioni offertegli dall'art. 455, che univocamente dimostra che egli condivide la valutazione del pubblico ministero circa l'evidenza della prova della responsabilità dell'imputato, presupposto di detto giudizio. Perciò, il fatto che lo stesso giudice passi poi a decidere con giudizio abbreviato - caratterizzato dal divieto di acquisizione di ulteriori prove - menomerebbe la garanzia di imparzialità ed indipendenza sottesa agli invocati disposti costituzionali, i quali richiedono che il giudice sia assolutamente libero da convincimenti formatisi prima o fuori dal processo e non possa ritenersi condizionato, neppure presuntivamente, da una pregressa valutazione del merito.

3.1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, ha chiesto che la predetta questione sia dichiarata infondata.

Ad avviso dell'Avvocatura, la scelta tra rinvio a giudizio e restituzione degli atti al pubblico ministero demandata al giudice per le indagini preliminari, ai fini del promovimento o meno del giudizio immediato, è di natura puramente procedimentale, dato che il requisito dell'"evidenza" non riguarda la prova della responsabilità dell'imputato (valutazione, questa, rimessa al giudice competente a decidere nel merito), ma solo la concludenza delle indagini compiute dal pubblico ministero, in mancanza della quale il fumus di fondatezza dell'accusa va verificato nel contraddittorio delle parti. Esula perciò, qualsiasi "pregiudizio" in ordine alla responsabilità.

D'altra parte, l'incompatibilità a partecipare al giudizio dibattimentale prevista dalla norma impugnata in capo al giudice che ha disposto il giudizio immediato si ricollega, secondo l'Avvocatura, non ad una pregressa valutazione del merito ma al fatto che il giudice, avendo preso cognizione degli atti di indagine, non è in grado di valutare le prove scaturenti dal dibattimento in assenza di condizionamenti derivanti dalle suddette diverse fonti di conoscenza: condizione, questa, che è invece irrilevante ai fini del giudizio abbreviato, che è fondato sugli atti di indagine preliminare.

 

Considerato in diritto

 

1. - I tre giudizi investono, pur se sotto profili diversi, la medesima disposizione di legge. Essi vanno pertanto riuniti e decisi con un'unica sentenza.

2. - Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma dubita che l'art. 34, secondo comma, del codice di procedura penale contrasti con la direttiva di cui al n. 67 dell'art. 2 della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81 - e, perciò, con gli artt. 76 e 77 Cost. - nella parte in cui non prevede l'incompatibilità a partecipare all'udienza preliminare del giudice per le indagini preliminari presso il tribunale che abbia ordinato al pubblico ministero di formulare l'imputazione, ai sensi dell'art. 409, quinto comma, dello stesso codice: incompatibilità che dovrebbe discendere dall'avere egli già espresso, in tal modo, la propria valutazione sui risultati delle indagini preliminari e quindi anche - implicitamente, ma inequivocabilmente - sulla sussistenza delle condizioni necessarie per disporre l'invio a giudizio.

La questione non è fondata.

3. - Con l'art. 34, secondo comma, del codice, il legislatore delegato si è limitato a riprodurre i tre casi di incompatibilità a partecipare al giudizio espressamente indicati nella citata direttiva n. 67 (prima parte, secondo periodo), e cioè l'avere il giudice emesso il provvedimento conclusivo dell'udienza preliminare o disposto il giudizio immediato o emesso il decreto penale di condanna; aggiungendovi solo, "per identità di ratio" (Relazione al progetto preliminare, pag. 19), quello della decisione sull'impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere.

Tali casi presentano alcuni caratteri comuni, che valgono a definire nel suo nucleo sostanziale la situazione in presenza della quale il legislatore delegante ha ritenuto che la previsione dell'incompatibilità fosse necessario presidio del valore dell'imparzialità del giudice.

Innanzitutto, l'incompatibilità ha rilievo solo rispetto al "giudizio", cioè rispetto alla decisione sul merito della regiudicanda, e non anche a decisioni assunte ad altri fini.

Inoltre, occorre che il giudice abbia previamente compiuto, sulla base dei risultati complessivi delle indagini preliminari (eventualmente integrati da quelli acquisiti all'udienza preliminare), una valutazione contenutistica della consistenza dell'ipotesi accusatoria, finalizzata al controllo sulla legittimità dell'esercizio dell'azione penale e del passaggio alla fase del giudizio (eventuale, nel caso del decreto penale di condanna).

Nella fattispecie qui considerata, ricorre indubbiamente il secondo di tali requisiti, dato che - come già si è rilevato nella sentenza n. 496 del 1990 - ordinando di formulare l'imputazione il giudice per le indagini preliminari compie "una valutazione non formale, ma di contenuto, dei risultati" di queste "e della sussistenza delle condizioni necessarie per assoggettare l'imputato al giudizio di merito", ed anzi "dà ex officio l'impulso determinante alla procedura che condurrà all'emanazione di una sentenza"; non ricorre, invece, il primo, dato che il termine di raffronto non è la decisione di merito ma un'ulteriore decisione processuale, finalizzata ad accertare la legittimità della domanda di giudizio (cfr. sentenza n. 64 del 1991).

L'eventualità che chi ha ordinato di formulare l'imputazione si orienti per il rinvio a giudizio non esplica invece alcun rilievo, dato che il legislatore delegante ha ritenuto - in accordo, del resto, con la tradizionale configurazione dell'istituto in questione - che il pericolo di prevenzione del giudice andasse considerato solo rispetto al "giudizio" vero e proprio.

Ritenere che ciò basti a radicare l'incompatibilità sarebbe, anzi, in contraddizione con la scelta - rispondente a razionali motivi di economia processuale - della "concentrazione, ove possibile, in capo allo stesso giudice .. di tutti i provvedimenti relativi allo stesso procedimento" (direttiva n. 40, ultima parte, dell'art. 2 della legge delega).

4. - Fondata è, invece, la censura che - sempre in riferimento alla direttiva n. 67 e, quindi, agli artt. 76 e 77 Cost. - muove all'art. 34, secondo comma, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di La Spezia (r.o. n. 287 del 1991), nella parte in cui non prevede che il giudice per le indagini preliminari che abbia ordinato di formulare l'imputazione ai sensi dell'art. 409, quinto comma, del codice di rito non possa partecipare al successivo giudizio abbreviato.

Si tratta, infatti, di una fattispecie del tutto analoga a quella considerata nella citata sentenza n. 496 del 1990; e la circostanza che nel procedimento davanti al Tribunale (art. 409) - a differenza che in quello davanti al Pretore (art. 554) - l'ordine di formulare l'imputazione segua ad una procedura camerale è, all'evidenza, irrilevante ai fini del riconoscimento dell'incompatibilità.

Di conseguenza poiché con l'ordine di cui all'art. 409, quinto comma, il giudice per le indagini preliminari compie una valutazione contenutistica dei risultati di queste e dà anzi ex officio l'impulso determinante alla procedura che condurrà all'emanazione di una sentenza, l'art. 34, secondo comma, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che il giudice che ha emanato tale ordine non possa partecipare al successivo giudizio abbreviato.

5. - L'art. 34, secondo comma è, altresì, impugnato dalla Corte d'appello di Brescia (r.o. n. 315 del 1991) nella parte in cui non prevede che sia inibita la partecipazione al giudizio abbreviato del giudice per le indagini preliminari che ha disposto il giudizio immediato (artt. 455 e 458 cod. proc. pen.): ciò che, a suo avviso, contrasta con le garanzie di imparzialità e di indipendenza sottese ai disposti degli artt. 25 e 101 della Costituzione, dato che il giudizio reso nel rito abbreviato potrebbe ritenersi condizionato dalla valutazione circa l'"evidenza" della prova già effettuata ai fini dell'introduzione del giudizio immediato.

Poiché la norma impugnata già prevede che non possa "partecipare al giudizio il giudice che .. ha disposto il giudizio immediato", la questione muove, evidentemente, dall'implicito presupposto che per "giudizio" debba intendersi il solo giudizio che si estrinseca nel dibattimento.

Tale interpretazione non può però essere condivisa, in quanto contraddetta sia dalla lettera che dalla ratio della disposizione.

Sotto il primo profilo, è da rilevare che la locuzione "giudizio" è di per sé tale da ricomprendere qualsiasi tipo di giudizio, cioè ogni processo che in base ad un esame delle prove pervenga ad una decisione di merito, compreso quello che si svolge con il rito abbreviato. Anzi, la circostanza che tale ampia locuzione sia stata adottata in luogo di quella restrittiva ("divieto di esercitare le funzioni di giudice del dibattimento ..") contenuta nella citata direttiva n. 67 è indice univoco di una precisa determinazione in tal senso del legislatore delegato.

Sotto il secondo profilo, sarebbe evidentemente illogico ritenere che la ragione dell'incompatibilità stabilita dalla norma ricorra solo per il dibattimento e non anche per il giudizio abbreviato, quando entrambi seguono alla richiesta di giudizio immediato.

Il già effettuato giudizio sull'"evidenza" della prova - e cioè sulla verosimile attribuibilità del fatto all'imputato - è infatti suscettibile di influire sulla decisione di merito in entrambi i casi; ed anzi, il fatto che il giudizio abbreviato sia reso sulla base degli stessi atti valutati al momento di disporre il giudizio immediato rende ancor più consistente il pericolo di "pregiudizio" che ha indotto il legislatore a prevedere l'incompatibilità, coerentemente con la garanzia costituzionale d'imparzialità del giudice.

In tali sensi, la questione deve ritenersi non fondata.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 34, secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al successivo giudizio abbreviato il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale che abbia emesso l'ordinanza di cui all'art. 409, quinto comma, del medesimo codice;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 34, secondo comma, nella parte in cui non prevede l'incompatibilità del giudice per le indagini preliminari presso il tribunale che ha emesso l'ordinanza di cui al predetto art. 409, quinto comma, a partecipare all'udienza preliminare, sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma con ordinanza dell'11 dicembre 1990 (r.o. n. 184/1991);

3) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 34, secondo comma, nella parte in cui non prevede l'incompatibilità del giudice per le indagini preliminari presso il tribunale che abbia disposto il giudizio immediato a partecipare al giudizio abbreviato, sollevata, in riferimento agli artt. 25 e 101 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Brescia con ordinanza del 5 marzo 1991 (r.o. n. 315/1991).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 novembre 1991.

 

Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA - Giuliano VASSALLI.

 

Depositata in cancelleria il 12 novembre 1991.