Sentenza n. 18 del 2017

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SENTENZA N. 18

ANNO 2017

 

 

Commento alla decisione di

 

Enrico Andolfatto

Profili di incompatibilità del giudice al vaglio della Consulta: questioni in tema di udienza preliminare e di messa alla prova

 

per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo                           GROSSI                                           Presidente

-           Giorgio                        LATTANZI                                        Giudice

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

-           Giuliano                       AMATO                                                   ”

-           Silvana                         SCIARRA                                                ”

-           Daria                            de PRETIS                                               ”

-           Nicolò                          ZANON                                                   ”

-           Franco                         MODUGNO                                             ”

-           Augusto Antonio       BARBERA                                              ”

-           Giulio                          PROSPERETTI                                        ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Napoli, nel procedimento penale a carico di C.F., con ordinanza del 10 luglio 2015, iscritta al n. 277 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 dicembre 2016 il Giudice relatore Franco Modugno.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 10 luglio 2015, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla funzione di giudice dell’udienza preliminare del giudice che, avendo ravvisato, nel corso della stessa udienza preliminare, un fatto diverso da quello contestato, abbia invitato il pubblico ministero a procedere, nei confronti dello stesso imputato e per il medesimo fatto storico, alla modifica dell’imputazione, invito cui il pubblico ministero abbia aderito.

Il rimettente riferisce che, nel processo principale, il pubblico ministero aveva chiesto il rinvio a giudizio dell’imputato per i reati di divulgazione di materiale pornografico minorile (art. 600-ter, terzo comma, del codice penale) e di tentata violenza privata (artt. 56 e 610 cod. pen.).

Con ordinanza emessa nell’udienza preliminare del 3 giugno 2015, il giudice a quo, ritenuto che i fatti accertati fossero diversi da come contestati, aveva fatto ricorso al «meccanismo correttivo» delineato dalle sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza 20 dicembre 2007-1° febbraio 2008, n. 5307, invitando il pubblico ministero a modificare l’imputazione. In adesione all’invito, il pubblico ministero aveva quindi contestato i reati di produzione di materiale pornografico minorile (art. 600-ter, primo comma, cod. pen.) e di atti persecutori (art. 612-bis, primo, secondo e terzo comma, cod. pen.).

Nella successiva udienza, il difensore dell’imputato aveva eccepito la sopravvenuta incompatibilità del giudice rimettente ai sensi dell’art. 34 cod. proc. pen., in conseguenza del provvedimento adottato.

A tale riguardo, il giudice a quo osserva che – secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità e dalla stessa Corte costituzionale (sentenza n. 88 del 1994) – il giudice dell’udienza preliminare, ove ritenga che il fatto sia diverso da quello contestato, può disporre, in applicazione analogica dell’art. 521, comma 2, cod. proc. pen., la trasmissione degli atti al pubblico ministero, perché «la corrispondenza dell’imputazione a quanto emerge dagli atti è un’esigenza presente in ogni fase processuale e, quindi, anche nell’udienza preliminare». Il provvedimento di trasmissione degli atti non potrebbe essere, tuttavia, adottato – pena la sua abnormità – senza la previa attivazione del «meccanismo correttivo» individuato dalle sezioni unite con la decisione dianzi citata.

Tanto premesso, il rimettente rileva che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 455 del 1994, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla funzione di giudizio del giudice che abbia, all’esito di precedente dibattimento, riguardante il medesimo fatto storico a carico del medesimo imputato, ordinato la trasmissione degli atti al pubblico ministero a norma dell’art. 521, comma 2, cod. proc. pen. Nell’occasione, la Corte ha posto in evidenza che il giudice, quando accerta che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio, compie una penetrante delibazione del merito della regiudicanda. Di conseguenza, un secondo dibattimento riguardante lo stesso fatto storico e il medesimo imputato non può non essere attribuito alla cognizione di altro giudice, alla luce della stessa esigenza di tutela dell’imparzialità e della serenità di giudizio che informa la regola posta dall’art. 34 cod. proc. pen., in punto di incompatibilità del giudice che abbia pronunciato sentenza in un precedente grado di giudizio nel medesimo procedimento.

Con la sentenza n. 224 del 2001, la Corte costituzionale ha d’altro canto riconosciuto che, a seguito delle modifiche apportate alla sua originaria disciplina, l’udienza preliminare ricade ormai nel novero delle sedi suscettibili di essere pregiudicate dalla precedente valutazione in ordine alla medesima regiudicanda: orientamento confermato da successive pronunce, nelle quali si è ribadito che la nozione di «giudizio», utilizzata dal legislatore nell’art. 34 cod. proc. pen., comprende anche l’udienza preliminare (sono citate la sentenza n. 335 del 2002 e le ordinanze n. 20 del 2004 e n. 269 del 2003).

In questa prospettiva, con l’ordinanza n. 269 del 2003 – pronunciando specificamente sull’ipotesi della reiterazione della trattazione dell’udienza preliminare da parte dello stesso magistrato che, all’esito di una precedente udienza preliminare riguardante lo stesso imputato e il medesimo fatto storico, abbia disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero per ritenuta diversità del fatto – la Corte ha dichiarato la questione manifestamente infondata, ritenendo detta ipotesi già inclusa nel raggio d’azione dell’istituto dell’incompatibilità, alla luce di quanto chiarito dalla sentenza n. 224 del 2001.

Infine, con la sentenza n. 400 del 2008, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla trattazione dell’udienza preliminare del giudice che abbia ordinato, all’esito di precedente dibattimento, riguardante il medesimo fatto storico a carico del medesimo imputato, la trasmissione degli atti al pubblico ministero a norma dell’art. 521, comma 2, cod. proc. pen.

Ad avviso del giudice partenopeo, nel caso oggetto del giudizio a quo ricorrerebbe, in sostanza, la stessa situazione presa in considerazione dall’ordinanza n. 269 del 2003. Tuttavia, non potendo il giudice dell’udienza preliminare disporre l’immediata trasmissione degli atti al pubblico ministero, ma dovendo utilizzare il «meccanismo correttivo» delineato dalle sezioni unite, non sarebbe applicabile l’istituto dell’incompatibilità nei termini indicati dalla sentenza n. 224 del 2001, il quale presupporrebbe un nuovo svolgimento della funzione di giudice dell’udienza preliminare da parte dello stesso giudice-persona fisica a seguito di una «vicenda regressiva», nella specie non avutasi. Anche nell’ipotesi in esame, peraltro, sarebbe intervenuta una «piena delibazione del merito della regiudicanda», avendo l’ordinanza interlocutoria adottata dal rimettente un contenuto e una finalità del tutto analoghi a quelli dell’ordinanza prevista dall’art. 521, comma 2, cod. proc. pen.

Il conseguente vizio di legittimità costituzionale non sarebbe superabile in via interpretativa, perché ciò equivarrebbe ad una estensione analogica delle cause di incompatibilità: operazione preclusa dal loro carattere tassativo.

Neppure potrebbe farsi fronte alla situazione considerata mediante l’istituto dell’astensione, il quale – al pari di quello della ricusazione – mira a porre rimedio a comportamenti del giudice, anche estranei all’esercizio della funzione, che possono determinare un pregiudizio per l’imparzialità da apprezzare in concreto: mentre nel caso in discussione la configurabilità di un simile pregiudizio sarebbe riscontrabile già sul piano astratto, in conseguenza della decisione precedentemente adottata.

Alla luce di tali considerazioni, il rimettente ritiene quindi di dover sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla trattazione dell’udienza preliminare del giudice che, avendo ravvisato, nel corso della stessa udienza preliminare, un fatto diverso da quello contestato, abbia invitato il pubblico ministero a modificare l’imputazione nei confronti dello stesso imputato e per lo stesso fatto storico, conseguendo il risultato richiesto.

La questione sarebbe rilevante nel giudizio a quo, giacché, allo stato, il rimettente dovrebbe «procedere alla celebrazione dell’udienza preliminare sull’imputazione “suggerita”, se non “imposta”, al pubblico ministero, nonostante la sussistenza della situazione pregiudicante».

2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

Secondo l’interveniente, la questione sarebbe inammissibile, in quanto l’ordinanza di rimessione non indica i fatti storici oggetto di imputazione, né riporta le stesse imputazioni, prima e dopo l’invito del giudice a quo raccolto dal pubblico ministero, non consentendo così alla Corte di valutare la fondatezza della questione stessa e la sua rilevanza nella fattispecie concreta.

La difesa dello Stato osserva, altresì, come analoga questione sia già stata esaminata e decisa nel senso della non fondatezza con la sentenza n. 177 del 2010. Nel frangente, la Corte costituzionale ha ritenuto che la diversa e più grave qualificazione giuridica del fatto, basata soltanto sulla valutazione degli atti del fascicolo, effettuata in sede di udienza di convalida dell’arresto e di applicazione di una misura cautelare, non determina alcuna menomazione dell’imparzialità del giudice, risolvendosi in una valutazione astratta delle risultanze processuali e non in una valutazione contenutistica della consistenza dell’ipotesi accusatoria.

La questione risulterebbe infondata anche perché, nella specie, l’intervento sull’imputazione, assunto come atto pregiudicante, è avvenuto nell’ambito della medesima fase processuale. Troverebbe quindi applicazione il principio, affermato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo il quale non è configurabile una menomazione dell’imparzialità del giudice che adotti decisioni, anche incidentali, preordinate al giudizio di cui è legittimamente investito: il processo, costituito per sua natura da una sequenza di atti, non può essere infatti frammentato, isolando ogni atto che comporti una decisione preordinata, accessoria o incidentale al giudizio di merito e attribuendo ciascuna decisione a un giudice diverso.

L’intervento sull’imputazione in questione non avrebbe, inoltre, assunto carattere decisorio della regiudicanda, ma si sarebbe limitato ad ampliare la prospettazione accusatoria per una più compiuta analisi dei fatti oggetto di verifica processuale, sicché esso potrebbe rilevare, al più, quale causa di astensione.

Considerato in diritto

1.– Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Napoli dubita della legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla funzione di giudice dell’udienza preliminare del giudice che, avendo ravvisato, nel corso della stessa udienza preliminare, un fatto diverso da quello contestato, abbia invitato il pubblico ministero a procedere, nei confronti dello stesso imputato e per il medesimo fatto storico, alla modifica dell’imputazione, invito al quale il pubblico ministero abbia aderito.

Ad avviso del rimettente, la norma censurata violerebbe gli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, giacché – allo stesso modo dell’ordinanza, del tutto analoga per contenuti e finalità, che dispone la trasmissione degli atti al pubblico ministero ai sensi dell’art. 521, comma 2, cod. proc. pen. – l’atto in questione implicherebbe una piena delibazione del merito della regiudicanda, idonea a compromettere l’imparzialità e la serenità di giudizio del giudice che l’ha adottato. Secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza costituzionale, d’altro canto, anche l’udienza preliminare rientra attualmente nel novero delle sedi processuali suscettibili di rimanere pregiudicate dalla precedente valutazione in eadem rem.

2.– L’eccezione di inammissibilità della questione per carente descrizione della fattispecie concreta, formulata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, non è fondata.

Il giudice a quo riferisce che all’imputato erano stati contestati, con la richiesta di rinvio a giudizio, i reati di divulgazione di materiale pornografico minorile e di tentata violenza privata. Riferisce, altresì, che esso giudice rimettente, con ordinanza emessa nel corso dell’udienza preliminare, ritenendo che i fatti accertati fossero diversi da come contestati, aveva invitato il pubblico ministero a modificare l’imputazione e che il rappresentante dell’accusa, in adesione all’invito, aveva contestato i reati di produzione di materiale pornografico minorile e di atti persecutori.

Tale esposizione della vicenda concreta, se pur sintetica, è comunque sufficiente a soddisfare l’onere di motivazione sulla rilevanza, essendo stata rappresentata la sussistenza della situazione che, ove la questione fosse accolta, determinerebbe l’insorgenza dell’incompatibilità nel giudizio principale.

3.– Quanto al merito, l’art. 521, comma 2, cod. proc. pen. stabilisce che il giudice disponga con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero ove, a conclusione del dibattimento, accerti che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio o nella nuova contestazione effettuata a norma degli artt. 516, 517 e 518, comma 2.

Una previsione corrispondente non si rinviene, per converso, nell’ambito della disciplina dell’udienza preliminare. Escluso che il giudice di quest’ultima possa intervenire direttamente sul tema d’accusa (trattandosi di potere spettante solo al pubblico ministero, in quanto inerente all’esercizio dell’azione penale), sono state prospettate due possibili soluzioni, al fine di evitare che detto giudice si trovi costretto a pronunciare su una imputazione non coerente con le acquisizioni processuali.

La prima è la trasmissione degli atti al pubblico ministero in applicazione analogica del citato art. 521, comma 2, cod. proc. pen.: soluzione “esterna” alla fase in corso, in quanto implicante la regressione del procedimento nella fase delle indagini preliminari.

L’altra soluzione è che il giudice inviti il pubblico ministero ad esercitare il potere-dovere di modificare l’imputazione, previsto in capo all’attore pubblico dall’art. 423 cod. proc. pen. allorché nel corso dell’udienza preliminare emerga la diversità del fatto: soluzione che – ove il pubblico ministero aderisca all’invito – evita invece il fenomeno regressivo, rimanendo perciò “interna” alla fase.

Con la sentenza n. 88 del 1994, questa Corte – senza prendere posizione a favore dell’una o dell’altra soluzione – ha rilevato che entrambe erano idonee ad assicurare la compatibilità costituzionale del sistema, impedendo che si producesse l’incongruo risultato dianzi indicato, ossia che il giudice si pronunci su una imputazione non coerente con le acquisizioni processuali.

Sul tema sono successivamente intervenute le sezioni unite della Corte di cassazione, chiarendo che i due rimedi non sono alternativi, ma sequenziali. Facendo leva sul postulato teorico della “fluidità” dell’imputazione nell’udienza preliminare e su esigenze di concentrazione e ragionevole durata del processo, il giudice della nomofilachia ha ritenuto, cioè, che il giudice dell’udienza preliminare debba, in prima battuta, invitare il pubblico ministero a modificare l’imputazione: solo ove il rappresentante della pubblica accusa non si adegui all’invito, il giudice può ricorrere, come «extrema ratio», al rimedio “regressivo” della trasmissione degli atti ai sensi dell’art. 521, comma 2, cod. proc. pen. (la trasmissione non preceduta dall’invito è stata qualificata, in tale prospettiva, atto «abnorme»: Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 20 dicembre 2007-1° febbraio 2008, n. 5307).

La pronuncia delle sezioni unite attiene, in verità, all’ipotesi in cui l’imputazione appaia al giudice dell’udienza preliminare generica o indeterminata. Risulta evidente, tuttavia, dalle relative cadenze argomentative (le quali prendono le mosse dalla citata sentenza n. 88 del 1994) come il principio in essa affermato sia riferibile anche al caso dell’accertamento della diversità del fatto, basandosi su un’applicazione estensiva o analogica di norme (gli artt. 423 e 521, comma 2, cod. proc. pen.) che fanno testuale riferimento proprio alla fattispecie che qui interessa. Di questo avviso è stata, del resto, la giurisprudenza di legittimità successiva.

4.– Ciò posto, la tesi dell’odierno rimettente è la seguente.

Il giudice a quo rileva come questa Corte abbia riconosciuto che l’ordinanza di trasmissione degli atti al pubblico ministero ai sensi dell’art. 521, comma 2, cod. proc. pen. è provvedimento idoneo a pregiudicare, o a far apparire pregiudicata, l’imparzialità e la serenità di giudizio del giudice che l’ha emesso, in ragione della cosiddetta “forza della prevenzione” (ossia della naturale tendenza a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto). Nel momento in cui accerta che il fatto è diverso da come descritto nell’imputazione, il giudice compie, infatti, una penetrante delibazione del merito della regiudicanda, non dissimile da quella che, in mancanza di una valutazione della diversità del fatto, conduce alla definizione con sentenza del giudizio di merito. Di qui, dunque, l’esigenza costituzionale – ricavabile dai parametri evocati dal rimettente – che il nuovo dibattimento (sentenza n. 455 del 1994) o la nuova udienza preliminare (sentenza n. 400 del 2008, ordinanza n. 269 del 2003), tenuti all’esito della predetta trasmissione per lo stesso fatto storico e nei confronti del medesimo imputato, siano attribuiti alla cognizione di altro giudice.

Il giudice a quo evidenzia, altresì, come l’ordinanza che invita il pubblico ministero a modificare l’imputazione costituisca atto omologo, per contenuto e funzioni, alla trasmissione degli atti di cui all’art. 521, comma 2, cod. proc. pen. Il giudice dell’udienza preliminare non procede direttamente in tal modo solo per seguire il «percorso virtuoso» tracciato dalle sezioni unite: ma il presupposto (accertamento della discrepanza tra il fatto contestato e quello risultante dagli atti processuali) e l’obiettivo (adeguamento dell’imputazione a tali risultanze) sono i medesimi.

Anche il suddetto invito andrebbe considerato, pertanto, atto “pregiudicante”: donde la denunciata illegittimità costituzionale della mancata previsione dell’incompatibilità a svolgere la funzione di giudice dell’udienza preliminare del giudice-persona fisica che lo ha formulato.

5.– La questione però non è fondata.

Il ragionamento del giudice a quo non tiene conto, infatti, di una circostanza decisiva. Egli vorrebbe che il giudice dell’udienza preliminare, che ha sollecitato il pubblico ministero a modificare l’imputazione per ritenuta diversità del fatto, divenga – una volta accolto l’invito – incompatibile a continuare a trattare la stessa udienza preliminare.

La giurisprudenza di questa Corte è, tuttavia, costante nell’affermare che, affinché possa configurarsi una situazione di incompatibilità – nel senso dell’esigenza costituzionale della relativa previsione, in funzione di tutela dei valori della terzietà e dell’imparzialità del giudice –, è necessario che la valutazione “contenutistica” sulla medesima regiudicanda si collochi in una precedente e distinta fase del procedimento, rispetto a quella della quale il giudice è attualmente investito. È del tutto ragionevole, infatti, che, all’interno di ciascuna delle fasi – intese come sequenze ordinate di atti che possono implicare apprezzamenti incidentali, anche di merito, su quanto in esse risulti, prodromici alla decisione conclusiva – resti, in ogni caso, preservata l’esigenza di continuità e di globalità, venendosi altrimenti a determinare una assurda frammentazione del procedimento, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere (ex plurimis, sentenze n. 153 del 2012, n. 177 e n. 131 del 1996; ordinanze n. 76 del 2007, n. 123 e n. 90 del 2004, n. 370 del 2000, n. 232 del 1999). In questi casi, «il provvedimento non costituisce anticipazione di un giudizio che deve essere instaurato, ma, al contrario, si inserisce nel giudizio del quale il giudice è già correttamente investito senza che ne possa essere spogliato: anzi è la competenza ad adottare il provvedimento dal quale si vorrebbe far derivare l’incompatibilità che presuppone la competenza per il giudizio di merito e si giustifica in ragione di essa» (sentenza n. 177 del 1996).

In tale prospettiva, l’invito a modificare l’imputazione non risulta affatto assimilabile all’ordinanza di trasmissione degli atti al pubblico ministero. Come già ricordato, quest’ultima determina la regressione del procedimento: la fase in corso davanti al giudice che l’ha emessa si chiude, e la fase che si aprirà all’esito delle iniziative del pubblico ministero – il quale dovrà esercitare novamente l’azione penale, sempre che ne ravvisi i presupposti – sarà, in ogni modo, anche se omologa, una fase distinta e ulteriore, rispetto alla quale la valutazione di merito insita nel precedente provvedimento potrà assumere una valenza “pregiudicante”. All’opposto, l’invito a modificare l’imputazione rappresenta un rimedio “endofasico”: dalla sua formulazione non deriva, dunque, alcuna incompatibilità del giudice all’ulteriore trattazione della medesima fase.

L’invito con cui il giudice si fa promotore di una mutatio libelli – la quale non prelude necessariamente ad una pronuncia sfavorevole per l’imputato – viene, tra l’altro, impartito, in via di principio, a conclusione dell’udienza preliminare, dopo che il confronto dialettico fra le parti e l’eventuale attività di integrazione probatoria si sono già svolti. È vero bensì che, sollecitando il pubblico ministero a modificare l’imputazione per diversità del fatto, il giudice esterna un convincimento sul merito della regiudicanda: ma lo fa come momento immediatamente prodromico alla decisione che è – legittimamente – chiamato ad assumere in quello stesso contesto; segnatamente, per evitare di doversi pronunciare su una imputazione che reputa non aderente alla realtà storica emersa dagli atti processuali. Resta dunque esclusa la configurabilità di una menomazione dell’imparzialità del giudice, atta a rendere costituzionalmente necessaria l’applicazione dell’istituto dell’incompatibilità.

6.– Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione va dichiarata non fondata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Napoli con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 dicembre 2016.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 gennaio 2017.