Sentenza n. 185 del 2021

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SENTENZA N. 185

ANNO 2021

Commenti alla decisione di

  1. Guido Casavecchia, Sanzioni amministrative fisse e rime obbligate. Nota a Corte Costituzionale, sentenza n. 185 del 2021,  per g.c. dell’Osservatorio costituzionale AIC
  2. Roberto Pinardi, L’horror vacui nel controllo di costituzionalità su misure di carattere sanzionatorio (note a margine di Corte costituzionale, sentenza n. 185 del 2021), per g.c. dell'Osservatorio di Nomos

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 6, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre 2012, n. 189, promosso dal Tribunale ordinario di Trapani, nel procedimento vertente tra A. T. e l’Agenzia delle dogane e dei monopoli - Ufficio dei monopoli per la Sicilia, con ordinanza del 27 novembre 2019, iscritta al n. 69 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 giugno 2021 il Giudice relatore Franco Modugno;

deliberato nella camera di consiglio del 10 giugno 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 27 novembre 2019, il Tribunale ordinario di Trapani ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 6, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre 2012, n. 189, nella parte in cui, al secondo periodo, punisce con una sanzione amministrativa pecuniaria pari a cinquantamila euro l’inosservanza delle disposizioni di cui al comma 5 del medesimo articolo, denunciando la violazione dell’art. 3 della Costituzione, «anche in combinato disposto con gli art[t]. 41 e 42 Cost.», nonché dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmato a Parigi il 20 marzo 1952, e agli artt. 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

1.1.– Il giudice a quo riferisce di essere investito del giudizio di opposizione avverso l’ordinanza-ingiunzione con la quale l’Agenzia delle dogane e dei monopoli aveva irrogato al titolare di un bar, nel quale era ubicato un apparecchio da gioco, la sanzione amministrativa pecuniaria di cinquantamila euro per la violazione dell’art. 7, commi 5 e 6, del d.l. n. 158 del 2012, come convertito.

A seguito di ispezione nei locali del bar, si era infatti accertato che – pur essendo presente nell’esercizio commerciale materiale informativo sul rischio di dipendenza dalla pratica di giochi con vincita in denaro, e sebbene sull’apparecchio da gioco fossero applicate formule di avvertimento sul medesimo rischio – non risultavano però esposte, all’interno della sala, apposite targhe contenenti analogo avvertimento.

Veniva, quindi, contestata la violazione dell’art. 7, comma 5, del d.l. n. 158 del 2012, come convertito, il quale, dopo aver stabilito che «[f]ormule di avvertimento sul rischio di dipendenza dalla pratica di giochi con vincite in denaro […] devono […] figurare sulle schedine ovvero sui tagliandi di tali giochi», ulteriormente prevede che «[l]e medesime formule di avvertimento devono essere applicate sugli apparecchi di cui all’articolo 110, comma 6, lettera a), del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, e successive modificazioni»; che «le stesse formule devono essere riportate su apposite targhe esposte nelle aree ovvero nelle sale in cui sono installati i videoterminali di cui all’articolo 110, comma 6, lettera b), del predetto testo unico di cui al regio decreto n. 773 del 1931, nonché nei punti di vendita in cui si esercita come attività principale l’offerta di scommesse su eventi sportivi, anche ippici, e non sportivi»; che, infine, «i gestori di sale da gioco e di esercizi in cui vi sia offerta di giochi pubblici, ovvero di scommesse su eventi sportivi, anche ippici, e non sportivi, sono tenuti a esporre, all’ingresso e all’interno dei locali, il materiale informativo predisposto dalle aziende sanitarie locali, diretto a evidenziare i rischi correlati al gioco e a segnalare la presenza sul territorio dei servizi di assistenza pubblici e del privato sociale dedicati alla cura e al reinserimento sociale delle persone con patologie correlate alla G.A.P.» (ossia alla sindrome da gioco con vincita in denaro). Ai sensi del successivo comma 6, l’inosservanza di tali disposizioni è punita con una sanzione amministrativa pecuniaria pari a cinquantamila euro irrogata nei confronti del concessionario, ovvero del solo titolare della sala o del punto di raccolta dei giochi, quanto alle violazioni relative agli apparecchi di cui all’art. 110, comma 6, lettere a) e b), del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), ovvero ancora del solo titolare del punto vendita, se diverso dal concessionario, per le violazioni nei punti vendita in cui si esercita come attività principale l’offerta di scommesse.

Con l’atto di opposizione all’ordinanza-ingiunzione, la parte opponente deduceva che l’ispezione era stata effettuata dal personale dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli in un momento nel quale il titolare del bar non era in loco, essendo presente solo sua sorella, la quale ignorava dove fosse collocata la targa di avvertimento, che pure esisteva. Dopo l’allontanamento degli ispettori, essa era stata, in effetti, rinvenuta dietro un raccoglitore di prodotti.

Ciò premesso, l’opponente eccepiva preliminarmente l’illegittimità costituzionale della norma sulla cui base era stato emesso il provvedimento impugnato, a fronte del carattere sproporzionato e fisso della sanzione da essa prevista. In subordine, chiedeva di dichiarare la violazione insussistente, dovendosi intendere gli obblighi previsti dall’art. 7, comma 5, del d.l. n. 158 del 2012 come alternativi e non cumulativi. Eccepiva, infine, vizi formali dell’ordinanza-ingiunzione e la violazione del termine per la conclusione del procedimento amministrativo di cui all’art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi).

1.2.– Ad avviso del giudice a quo, la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale risulterebbe evidente, non potendo la risoluzione della controversia prescindere dall’applicazione della norma sanzionatoria censurata.

Quest’ultima non si presterebbe, d’altro canto, ad una interpretazione costituzionalmente orientata, stante il suo chiaro tenore testuale. La disposizione dell’art. 11 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), che consente la determinazione della sanzione in base alla gravità della violazione, all’opera svolta dall’agente per la eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche, è espressamente riferita, infatti, ai casi in cui la sanzione debba essere determinata tra un limite minimo e un limite massimo stabilito dalla legge. Di conseguenza, quando – come nella specie – la sanzione sia prevista in misura fissa, il giudice dell’opposizione non avrebbe alcuna possibilità di procedere a una sua riduzione.

Neppure parrebbero esservi ragionevoli prospettive di accoglimento degli altri motivi di opposizione, formulati, peraltro, solo in via subordinata rispetto all’eccezione di illegittimità costituzionale. Le circostanze di fatto dedotte dall’opponente (in particolare, quella della presenza nel locale della targa di cui si tratta, che sarebbe però scivolata a terra in modo da non risultare visibile) apparirebbero prive di rilievo, stante la chiarezza della prescrizione secondo cui le targhe devono essere «esposte». L’art. 7, comma 5, del d.l. n. 158 del 2012, come convertito, sarebbe altresì chiaro nel prevedere come cumulative, e non come alternative, le prescrizioni rivolte ai titolari di esercizi commerciali in cui siano collocate macchine da gioco. L’ordinanza-ingiunzione non presenterebbe, infine, i vizi formali denunciati; né, in base al costante orientamento della giurisprudenza di legittimità sul punto, sarebbe possibile ravvisare la violazione del termine di cui all’art. 2 della legge n. 241 del 1990.

1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente osserva come questa Corte – in particolare, con la sentenza n. 112 del 2019 – abbia riconosciuto che il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito risulta applicabile anche alle sanzioni amministrative, trovando, rispetto a queste, la sua base normativa nell’art. 3 Cost., in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti volta a volta incisi dalla sanzione.

La norma censurata non risulterebbe, peraltro, rispettosa di tale principio.

Essa – prosegue il rimettente – si inscrive nell’ambito di un complesso di interventi legislativi intesi a tutelare la salute pubblica in confronto alla crescente diffusione del fenomeno della ludopatia, vale a dire della dipendenza dalla pratica del gioco con vincite in denaro. Nonostante l’«alto rango» del bene giuridico tutelato, sarebbe però lecito dubitare della legittimità costituzionale della norma, la quale prevede una sanzione di «eccezionale severità» e non graduabile in funzione della concreta gravità dell’illecito.

Tale «automatismo sanzionatorio» si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza, impedendo di adeguare la risposta punitiva agli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito, con il risultato di allineare nel medesimo trattamento punitivo fatti di disvalore sensibilmente diverso. La sanzione in questione si applica, infatti, indiscriminatamente, senza distinguere secondo che sia stata violata una sola o più di una delle prescrizioni, secondo il numero di macchine da gioco presenti nel locale e secondo la collocazione dell’esercizio commerciale e i suoi orari di apertura al pubblico; elementi tutti che influirebbero sul grado di offensività della condotta.

Sotto altro profilo, la sanzione di cui si tratta apparirebbe irragionevole, in quanto sproporzionata rispetto a quella prevista per fattispecie di non minore gravità, come quella di cui all’art. 24, comma 21, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111, che punisce con sanzione da cinquemila a ventimila euro chi consente la partecipazione ai giochi pubblici a minori di anni diciotto.

La norma denunciata si porrebbe, infine, in contrasto con l’art. 3 Cost., in combinato disposto con gli artt. 41 e 42 Cost., nonché con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU e agli artt. 16 e 17 CDFUE, «quali norme che in ambito europeo tutelano il diritto di proprietà e il diritto d’impresa». La sanzione prevista potrebbe, infatti, incidere irragionevolmente, sia sul diritto di proprietà dell’autore dell’illecito, sia sul diritto di esercitare liberamente un’attività d’impresa, essendo in grado di determinare, per il suo importo, «un’irreversibile crisi aziendale», almeno nei casi in cui l’esercizio commerciale sia di modeste dimensioni.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente inammissibili o, comunque sia, non fondate.

2.1.– L’Avvocatura dello Stato rileva come il Tribunale rimettente abbia correttamente individuato la ratio della norma censurata nella primaria necessità di tutelare il fondamentale diritto alla salute in confronto alla «non prevista e per certi versi devastante» diffusione del fenomeno sociale del “gioco patologico”.

Tale fenomeno ha richiesto ripetuti e sempre più stringenti interventi, tanto di rango normativo primario – nell’ambito dei quali si inserisce quello oggetto dell’odierno scrutinio –, «quanto a livello di attività amministrativa»: interventi che si porrebbero in sintonia anche con il diritto dell’Unione europea e con la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Sugli interventi in parola si sarebbero altresì espresse favorevolmente, pur nell’inevitabile bilanciamento con altri diritti costituzionalmente tutelati, sia questa Corte (sono citate le sentenze n. 108 del 2017 e n. 300 del 2011), sia la giurisprudenza amministrativa.

2.2.– Emergerebbe da ciò un profilo preliminare di inammissibilità delle questioni.

Il rimettente si sarebbe, infatti, limitato a denunciare l’illegittimità costituzionale della norma censurata, senza indicare in alcun modo se e come la lacuna conseguente alla sua ablazione possa essere colmata: con la conseguenza che comportamenti «di incontestabile gravità», quali quelli considerati – incidenti sulla tutela del diritto alla salute – rimarrebbero privi di qualsiasi risposta sanzionatoria.

Verrebbe pertanto a crearsi, «inammissibilmente», una situazione di vuoto normativo, «che non potrebbe essere colmato da altra disposizione vigente se non attraverso l’intervento additivo della Corte – però, non consentito – in attesa di una nuova previsione legislativa».

2.3.– Nel merito, le questioni risulterebbero, in ogni caso, non fondate.

La difesa dello Stato rileva come questa Corte, pur riconoscendo al legislatore un’ampia discrezionalità nelle scelte in materia sanzionatoria, ritenga le stesse sindacabili ove caratterizzate da evidente illogicità e irragionevolezza, anche nel confronto con le soluzioni adottate in rapporto ad altre fattispecie: ciò anche al fine di evitare il venir meno di qualsiasi proporzionalità tra la sanzione prevista e la gravità dei fatti sanzionati.

Ciò non comporta, tuttavia, che la previsione di una sanzione in misura fissa possa essere ritenuta, per ciò solo, illogica e irrazionale, come attesta il fatto che sanzioni di questo genere abbiano in più occasioni superato il vaglio di questa Corte.

La sanzione di cui oggi si discute – sebbene di importo «relativamente consistente» – non apparirebbe, in effetti, manifestamente eccessiva o sproporzionata.

Posto che essa è irrogata a soggetti che operano sul mercato come imprenditori «e quindi certamente dotati di non modesti mezzi economici», la sua severità risulterebbe giustificata dalla “sensibilità” della materia e dalla gravità dei comportamenti posti in essere, atti a provocare seri danni ai singoli e alla collettività (con vantaggio, peraltro, dei soggetti sanzionati, in quanto interessati a non distogliere l’utente dal gioco).

La previsione della sanzione in misura fissa discenderebbe, d’altro canto, dalla valutazione compiuta dal legislatore in ordine alla sostanziale equivalenza dei comportamenti sanzionati, quanto a bene giuridico offeso e intento illecito. Il disvalore delle varie condotte (mancata apposizione della targa sugli apparecchi di intrattenimento, nella sala, e via dicendo) potrebbe bene essere ritenuto, infatti, sostanzialmente uniforme, trattandosi di comportamenti «sovente anche assimilabili nella loro materialità, e tutti teleologicamente “unificati” dalla finalità indicata». In ogni caso, una simile valutazione, non palesemente illogica, rientrerebbe nella discrezionalità del legislatore.

Andrebbe tenuto conto, inoltre, del fatto che la normativa vigente (art. 16 della legge n. 689 del 1981) consente, anche nel caso in esame, di temperare l’afflittività della sanzione tramite il pagamento in misura ridotta (un terzo).

2.4.– Erroneo risulterebbe, poi, il riferimento del rimettente – quale tertium comparationis – alla sanzione prevista dall’art. 24, comma 21, del d.l. n. 98 del 2011, come convertito, nei confronti di chi consente la partecipazione ai giochi pubblici a minori di anni diciotto: comportamento, secondo il giudice a quo, di maggiore gravità.

A prescindere dall’opinabilità di una simile valutazione, il Tribunale rimettente non avrebbe considerato che, se pure la disposizione citata prevede una sanzione amministrativa pecuniaria inferiore (da cinquemila a ventimila euro), essa stabilisce che a quella sanzione si aggiunga, anche nel caso di pagamento in misura ridotta, «la chiusura dell’esercizio commerciale, del locale o, comunque, del punto di offerta del gioco da dieci fino a trenta giorni». La sanzione irrogata nel caso in questione risulterebbe, quindi, nel suo complesso, assai più grave di quella prevista dalla norma censurata, a conferma del fatto che il legislatore ha stabilito sanzioni diverse per comportamenti differenti.

2.5.– Quanto, infine, all’ipotizzato contrasto con gli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost. – quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU e agli artt. 16 e 17 CDFUE – le questioni risulterebbero inammissibili, «consistendo in una mera petizione di principio».

Il rimettente si sarebbe limitato, infatti, ad affermare che la sanzione censurata potrebbe irragionevolmente incidere sul diritto di proprietà e sul diritto di impresa, essendo in grado di determinare «un’irreversibile crisi aziendale», almeno quando l’esercizio commerciale sia di dimensioni modeste. La censura risulterebbe, quindi, formulata «in via del tutto ipotetica e generale, senza alcun supporto fattuale e giuridico concreto». Essa apparirebbe, anzi, «illogica con riferimento ad operatori di un mercato, quale quello dei giochi, nel quale operano soggetti concessionari dell’Amministrazione e necessariamente solvibili».

Le questioni sarebbero, in ogni caso, anch’esse non fondate, essendo pacifico, alla luce della giurisprudenza nazionale ed europea, che diritti quali quelli evocati dal rimettente possono essere limitati in funzione della tutela del diritto alla salute, purché in base a scelte ragionevoli, quale quella di cui si discute.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Trapani dubita della legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 6, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre 2012, n. 189, nella parte in cui, al secondo periodo, punisce con una sanzione amministrativa pecuniaria pari a cinquantamila euro l’inosservanza delle disposizioni di cui al comma 5 del medesimo articolo, le quali prevedono, a carico di coloro che offrono giochi o scommesse con vincite in denaro, una serie di obblighi a carattere informativo, intesi a porre sull’avviso il fruitore riguardo ai rischi di dipendenza da una simile pratica.

Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe, anzitutto, l’art. 3 della Costituzione, per contrasto con il principio di eguaglianza. Prevedendo una sanzione fissa di «eccezionale severità», essa non consentirebbe, infatti, di graduare la risposta sanzionatoria in rapporto al disvalore delle singole violazioni, il quale potrebbe risultare significativamente diverso in relazione alle circostanze del caso concreto.

La disposizione denunciata si porrebbe in contrasto anche con il principio di ragionevolezza, desumibile dallo stesso art. 3 Cost., apparendo la sanzione in discorso sproporzionata rispetto a quella contemplata per altre fattispecie di non minore gravità, quale quella di cui all’art. 24, comma 21, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111, che punisce con la sanzione amministrativa pecuniaria da cinquemila a ventimila euro chi consente la partecipazione ai giochi pubblici a minori di anni diciotto.

Il rimettente denuncia, da ultimo, la violazione dell’art. 3 Cost. in combinato disposto con gli artt. 41 e 42 Cost., nonché dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmato a Parigi il 20 marzo 1952, e agli artt. 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, «quali norme che in ambito europeo tutelano il diritto di proprietà e il diritto d’impresa». La sanzione in questione, in ragione del suo importo, potrebbe, infatti, incidere irragionevolmente, sia sul diritto di proprietà dell’autore dell’illecito, sia sul suo diritto di esercitare liberamente un’attività di impresa, essendo in grado di provocare una «irreversibile crisi aziendale», almeno quando l’esercizio commerciale coinvolto sia di modeste dimensioni, come nel caso oggetto del giudizio a quo.

2.– La norma denunciata si colloca nell’articolato quadro delle misure intese a contrastare il fenomeno – diffusosi in parallelo al progressivo aumento dell’offerta ludica consentita, sino ad assumere dimensioni allarmanti – della “dipendenza da gioco d’azzardo” (cosiddetto gioco d’azzardo patologico o ludopatia): «fenomeno da tempo riconosciuto come vero e proprio disturbo del comportamento, assimilabile, per certi versi, alla tossicodipendenza e all’alcoolismo» (sentenza n. 108 del 2017), con riflessi, talvolta gravi, sulle capacità intellettive, di lavoro e di relazione di chi ne è affetto, e con ricadute negative altrettanto rilevanti sulle economie personali e familiari.

Esclusa dal legislatore una risposta di tipo “proibizionistico”, le misure considerate si muovono su una pluralità di piani.

Vi rientrano, così, le misure di “prevenzione logistica”, prefigurate dall’art. 7, comma 10, del d.l. n. 158 del 2012, come convertito, e ampiamente diffuse a livello di legislazione regionale, consistenti nell’imposizione di distanze minime delle sale da gioco rispetto a luoghi cosiddetti “sensibili”: frequentati, cioè, da categorie di soggetti che si presumono particolarmente vulnerabili – per le loro condizioni personali – di fronte «alla capacità suggestiva dell’illusione di conseguire, tramite il gioco, vincite e facili guadagni» (sentenza n. 300 del 2011).

Una misura più radicale è prevista al fine di tutelare i minori di età, i quali non possono essere ammessi a partecipare ai giochi pubblici con vincita in denaro: precetto la cui violazione è sanzionata, in capo al titolare dell’esercizio commerciale, del locale o del punto di offerta del gioco, con la sanzione amministrativa pecuniaria da cinquemila a ventimila euro e con la chiusura dell’esercizio, del locale o del punto di offerta da dieci a trenta giorni, nonché con la revoca di qualsiasi autorizzazione o concessione nel caso di commissione di tre violazioni nel corso di un triennio (art. 24, commi 20 e 21, del d.l. n. 98 del 2011, come convertito).

La legge ha, inoltre, dapprima fortemente limitato la pubblicità concernente i giochi con vincite in denaro, punendo il committente del messaggio pubblicitario non consentito e il proprietario del mezzo di diffusione con una sanzione amministrativa da centomila a cinquecentomila euro (art. 7, commi 4 e 6, primo periodo, del d.l. n. 158 del 2012, come convertito); successivamente, ha vietato la pubblicità relativa, tanto ai giochi, quanto alle scommesse, pena il pagamento di una sanzione di importo pari al venti per cento del valore della sponsorizzazione o della pubblicità e in ogni caso non inferiore, per ogni violazione, a cinquantamila euro (art. 9 del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87, recante «Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese», convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96).

In questo contesto, si è anche inteso responsabilizzare i concessionari del gioco e i titolari delle sale, introducendo in capo a essi obblighi di informazione sui rischi di cadere nella dipendenza: il riferimento è proprio alle prescrizioni di cui all’art. 7, comma 5, del d.l. n. 158 del 2012, come convertito, la cui inosservanza è punita dalla norma censurata nel presente giudizio.

Il citato art. 7, comma 5, prevede, in particolare, che formule di avvertimento sul rischio di dipendenza dalla pratica di giochi con vincite in denaro debbano figurare (unitamente all’indicazione delle relative probabilità di vincita) sulle schedine, ovvero sui tagliandi di tali giochi; che le medesime formule di avvertimento debbano essere applicate sugli apparecchi da gioco di cui all’art. 110, comma 6, lettera a), del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza); che esse debbano essere altresì riportate su apposite targhe esposte nelle aree o nelle sale in cui sono installati i videoterminali per il gioco di cui all’art. 110, comma 6, lettera b), del r.d. n. 773 del 1931 (d’ora in avanti: TULPS), nonché nei punti di vendita in cui si esercita come attività principale l’offerta di scommesse su eventi sportivi e non; che debbano inoltre comparire, in modo chiaramente leggibile, all’atto di accesso ai siti internet destinati all’offerta di giochi con vincite in denaro; che, infine, i gestori di sale da gioco e di esercizi, in cui vi sia offerta di giochi pubblici o scommesse, debbano esporre, all’ingresso e all’interno dei locali, il materiale informativo predisposto dalle aziende sanitarie locali, diretto a porre in evidenza i rischi correlati al gioco e a segnalare la presenza sul territorio dei servizi di assistenza dedicati alla cura e al reinserimento sociale delle persone con patologie collegate al gioco d’azzardo.

Il successivo comma 6 dell’art. 7 del d.l. n. 158 del 2012, oggi censurato, dopo aver previsto, al primo periodo, la sanzione per la violazione delle limitazioni ai messaggi pubblicitari di cui in precedenza si è detto, al secondo periodo – che è quello contro il quale, in effetti, specificamente si rivolgono le doglianze del giudice rimettente – stabilisce che l’inosservanza delle disposizioni di cui al comma 5 è punita con una sanzione amministrativa pecuniaria pari a cinquantamila euro. Tale sanzione si applica nei confronti del concessionario del gioco pubblico; ovvero, per le violazioni relative agli apparecchi di cui all’art. 110, comma 6, lettere a) e b), TULPS, nei confronti del solo soggetto titolare della sala o del punto di raccolta dei giochi; ovvero ancora, per le violazioni realizzate nei punti di vendita in cui si esercita come attività principale l’offerta di scommesse, nei confronti del titolare del punto vendita, se diverso dal concessionario.

Sulla materia è poi tornato anche l’art. 9-bis del d.l. n. 87 del 2018, come convertito, stabilendo che avvertenze relative ai rischi connessi al gioco d’azzardo debbano figurare nei tagliandi delle lotterie istantanee (comma 1) e ribadendo che omologhe formule di avvertimento debbano essere applicate sugli apparecchi da gioco e nelle aree e nei locali in cui questi sono installati (comma 4), senza, peraltro, che ciò implichi abrogazione implicita del citato art. 7, comma 5, del d.l. n. 158 del 2012, il cui disposto viene espressamente lasciato «fermo» (comma 5).

3.– Ciò posto, l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, sul rilievo che il giudice a quo si sarebbe limitato a denunciare l’illegittimità costituzionale della norma censurata, senza affatto indicare se e come la lacuna che conseguirebbe alla sua ablazione possa essere colmata: con il risultato che, ove le questioni fossero accolte, comportamenti «di incontestabile gravità», quali quelli considerati, incidenti sulla tutela del fondamentale diritto alla salute, rimarrebbero privi di qualsiasi sanzione. Verrebbe pertanto a crearsi, «inammissibilmente», un vuoto normativo, non colmabile – in attesa di una nuova previsione legislativa – «da altra disposizione vigente se non attraverso l’intervento additivo [di questa] Corte»: intervento da ritenere, «però, non consentito».

L’eccezione non è fondata.

In linea di principio, per risalente rilievo di questa Corte, non può essere ritenuta «preclusiva della declaratoria di illegittimità costituzionale delle leggi la carenza di disciplina […] che da essa può derivarne, in ordine a determinati rapporti (sentenza n. 59 del 1958)» (sentenza n. 242 del 2019). Spetterà – laddove ne ricorrano le condizioni – ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione, e, comunque sia, al legislatore provvedere a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che – in conseguenza della decisione stessa – apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione (sentenza n. 113 del 2011).

Tale principio è riferibile – con la riserva di cui subito appresso si dirà – anche ai casi in cui lo scrutinio di legittimità costituzionale verta su una norma sanzionatoria e le censure investano l’entità o la strutturazione del trattamento punitivo. Questa Corte, nelle prime occasioni in cui dichiarò costituzionalmente illegittima una disposizione penale in ragione della sua cornice edittale, non esitò, in effetti, a rimuovere puramente e semplicemente la norma sottoposta a scrutinio, lasciando al legislatore il compito di rimodulare la sanzione in accordo con i principi costituzionali (sentenza n. 218 del 1974, con cui fu censurata l’omologazione, nel medesimo trattamento sanzionatorio, di violazioni di gravità palesemente diversa in tema di obbligo di assicurazione per l’esercizio dell’attività venatoria; analogamente, sentenza n. 176 del 1976).

L’esigenza di far ricorso a una pronuncia di tipo manipolativo, che sostituisca la sanzione censurata con altra conforme a Costituzione, si pone imprescindibilmente solo allorché la lacuna di punibilità che conseguirebbe a una pronuncia ablativa, non colmabile tramite l’espansione di previsioni sanzionatorie coesistenti, si riveli foriera di «insostenibili vuoti di tutela» per gli interessi protetti dalla norma incisa (sentenza n. 222 del 2018): come, ad esempio, quando ne derivasse una menomata protezione di diritti fondamentali dell’individuo o di beni di particolare rilievo per l’intera collettività rispetto a gravi forme di aggressione, con eventuale conseguente violazione di obblighi costituzionali o sovranazionali. In simili ipotesi, il vuoto normativo conseguente alla rimozione pura e semplice della disposizione scrutinata non sarebbe tollerabile, neppure temporaneamente: ciò, tanto più alla luce della considerazione che un intervento legislativo inteso a colmare la lacuna, per quanto immediato, opererebbe, di necessità, solo per il futuro (stante l’inderogabile principio di irretroattività della norma sfavorevole in materia punitiva). Esso non avrebbe, quindi, alcun effetto sui fatti pregressi, i quali, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale, diverrebbero automaticamente e definitivamente privi di ogni rilievo penale, persino in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna, i cui effetti verrebbero a cessare (art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale»): disciplina, questa, da ritenere riferibile anche ai fatti colpiti con sanzioni amministrative a carattere punitivo (sentenza n. 68 del 2021).

È in tali casi che la rimozione del vulnus costituzionale resta necessariamente condizionata all’individuazione di soluzioni sanzionatorie che – nel rispetto dei limiti ai poteri di questa Corte, che escludono interventi di tipo “creativo” – possano sostituirsi a quella censurata: soluzioni rinvenibili – secondo la più recente giurisprudenza della Corte stessa, ispirata dall’esigenza di evitare la creazione di “zone franche” intangibili dal controllo di legittimità costituzionale – anche fuori dal tradizionale schema delle “rime obbligate”, facendo leva su «precisi punti di riferimento» offerti dal sistema normativo vigente, anche alternativi tra loro, salvo un sempre possibile intervento legislativo di segno differente, purché rispettoso della Costituzione (sentenze n. 40 del 2019, n. 222 del 2018 e n. 236 del 2016; nello stesso senso, sentenza n. 99 del 2019).

Una simile ipotesi non è, peraltro, ravvisabile nella fattispecie oggetto dell’odierno giudizio. La tutela della salute, nella cui cornice si inscrivono le misure intese a contrastare il gioco d’azzardo patologico (sentenze n. 27 del 2019, n. 108 del 2017 e n. 300 del 2011), è obiettivo di sicuro rilievo costituzionale e i precetti sanzionati dalla norma censurata sono in grado di svolgere un ruolo indubbiamente apprezzabile in questo contesto. Nondimeno, si resta pur sempre di fronte a condotte sensibilmente antecedenti la concreta offesa all’interesse protetto: discutendosi di inosservanze a obblighi informativi, o di “richiamo dell’attenzione”, a carattere preventivo (apposizione di formule di avvertimento su schedine, tagliandi o apparecchi da gioco, affissione di targhe, messa a disposizione di materiale informativo), finalizzati a mettere sull’avviso chi già pratica, o sarebbe intenzionato a praticare, forme di gioco consentite dalla legge sulle possibili derive patologiche di tale pratica, fidando che ciò giovi a dissuaderlo (se non dall’intento di praticare il gioco, quantomeno) dagli abusi.

Il deficit di tutela conseguente all’ablazione della norma denunciata non attinge, dunque, a quei livelli che rendono indispensabile la ricerca – e l’indicazione, da parte del giudice rimettente (sentenze n. 115 del 2019 e n. 233 del 2018) – di soluzioni sanzionatorie alternative, costituzionalmente adeguate, suscettibili di essere sostituite, ad opera di questa Corte, a quella sospettata di illegittimità costituzionale, in attesa di un intervento legislativo.

4.– L’Avvocatura dello Stato ha eccepito, per altro verso, l’inammissibilità per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 41 e 42 Cost. e all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU e agli artt. 16 e 17 CDFUE. Secondo la difesa dello Stato, il giudice a quo avrebbe prospettato una irragionevole incidenza della sanzione censurata sul diritto di proprietà e sul diritto d’impresa dell’autore dell’illecito in termini del tutto generici e di «mera petizione di principio, […] senza alcun supporto fattuale e giuridico concreto».

Anche tale eccezione, così come formulata, non è fondata.

È ben vero che l’ordinanza di rimessione non sviluppa autonome e specifiche argomentazioni a sostegno della dedotta violazione dei parametri dianzi indicati (di là dall’accenno alla possibilità che l’applicazione della sanzione determini, per il suo importo, «un’irreversibile crisi aziendale»): ma ciò in quanto – nella prospettazione del rimettente – il riferimento a tali parametri ha la semplice funzione di individuare le norme costituzionali che, in combinato disposto con l’art. 3 Cost., fornirebbero nel caso in esame la base normativa del principio di proporzionalità della sanzione; principio la cui denunciata violazione è ampiamente argomentata.

La prospettazione del giudice a quo riflette le indicazioni di questa Corte – specificamente richiamate nell’ordinanza di rimessione – in punto di applicabilità del principio di proporzionalità, fuori dai confini della materia penale, anche alle sanzioni amministrative a carattere punitivo (sentenza n. 112 del 2019). Tali sanzioni condividono, infatti, con le pene il carattere reattivo rispetto a un illecito, per la cui commissione l’ordinamento dispone che l’autore subisca una sofferenza in termini di restrizione di un diritto (diverso dalla libertà personale, la cui compressione in chiave sanzionatoria è riservata alla pena); restrizione che trova, dunque, la sua “causa giuridica” proprio nell’illecito che ne costituisce il presupposto. Allo stesso modo che per le pene – pur a fronte dell’ampia discrezionalità che al legislatore compete nell’individuazione degli illeciti e nella scelta del relativo trattamento punitivo – anche per le sanzioni amministrative si prospetta, dunque, l’esigenza che non venga manifestamente meno un rapporto di congruità tra la sanzione e la gravità dell’illecito sanzionato; evenienza nella quale la compressione del diritto diverrebbe irragionevole e non giustificata.

Diversamente che per le pene, peraltro, rispetto alle sanzioni amministrative il principio di proporzionalità trova la sua base normativa non già nell’art. 3 Cost. in combinato disposto con l’art. 27 Cost., nella parte in cui enuncia i principi di personalità della responsabilità e della funzione rieducativa della pena (principi riferibili alla sola materia penale in senso stretto), ma nell’art. 3 Cost. in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti a volta a volta incisi dalla sanzione (sentenza n. 112 del 2019); diritti che, nel caso in esame, il giudice a quo identifica, per l’appunto, nel diritto di proprietà e nella libertà di iniziativa economica.

Resta peraltro salva la successiva verifica, nel merito, della correttezza di tale individuazione.

5.– La questione sollevata in relazione agli artt. 16 e 17 CDFUE, quali parametri interposti rispetto all’art. 117, primo comma, Cost., è però inammissibile per una distinta e più specifica ragione.

Come più volte affermato da questa Corte, affinché la CDFUE possa essere invocata quale parametro interposto in un giudizio di legittimità costituzionale, occorre che il giudice a quo dia conto della riconducibilità della fattispecie regolata dalla legislazione interna all’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea ai sensi dell’art. 51 CDFUE, ciò che condiziona la stessa applicabilità delle norme della Carta (ex plurimis, sentenze n. 33 e n. 30 del 2021). Il giudice a quo non fornisce alcuna motivazione in proposito, lasciando dunque inadempiuto l’onere in discorso.

6.– Nel merito, le questioni sollevate in riferimento all’art. 3, in combinato disposto con gli artt. 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, sono fondate.

La norma censurata punisce indistintamente l’inosservanza dei plurimi obblighi di condotta contemplati dall’art. 7, comma 5, del d.l. n. 158 del 2012, come convertito, con una sanzione amministrativa pecuniaria di considerevole severità e, al tempo stesso, fissa; dunque, non suscettibile di graduazione da parte dell’autorità amministrativa, e del giudice poi, in correlazione alle specifiche circostanze del caso concreto secondo i criteri indicati dall’art. 11 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).

Con riguardo alle sanzioni penali, questa Corte ha posto da tempo in luce come la «mobilità» (sentenza n. 67 del 1963), o «individualizzazione» (sentenza n. 104 del 1968), della pena – tramite l’attribuzione al giudice di un margine di discrezionalità nella sua commisurazione all’interno di una forbice edittale, così da poterla adeguare alle particolarità della fattispecie concreta – costituisca «naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio d’uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale» (sentenza n. 50 del 1980), al lume dei quali «l’attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione più che l’uniformità» (così, ancora, la sentenza n. 104 del 1968). Ciò implica che, in via di principio, «previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in linea con il “volto costituzionale” del sistema penale», potendo il dubbio di illegittimità costituzionale essere superato, caso per caso, solo «a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (sentenze n. 222 del 2018 e n. 50 del 1980).

Secondo quanto più di recente chiarito da questa Corte, tale affermazione si presta ad essere estesa, mutatis mutandis, anche alle sanzioni amministrative a carattere punitivo. Pure in questo campo, infatti, «previsioni sanzionatorie rigide, […] che colpiscono in egual modo, e quindi equiparano, fatti in qualche misura differenti, debb[o]no rispondere al principio di ragionevolezza»: donde l’esigenza di verificare «se anche le infrazioni meno gravi», tra quelle comprese nel perimetro applicativo della previsione sanzionatoria, «siano connotate da un disvalore tale da non rendere manifestamente […] sproporzionata la sanzione amministrativa» comminata (sentenza n. 212 del 2019). In simile prospettiva, questa Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittima la previsione di sanzioni amministrative rigide e di rilevante incidenza sui diritti dell’interessato per ipotesi di gravità marcatamente diversa (sentenza n. 88 del 2019), o suscettibili, comunque sia, di condurre, nella prassi applicativa, a risultati sanzionatori palesemente eccedenti il limite della proporzionalità rispetto all’illecito commesso (sentenza n. 112 del 2019).

Una evenienza analoga è riscontrabile nel caso oggi in esame.

La fissità del trattamento sanzionatorio impedisce di tener conto della diversa gravità concreta dei singoli illeciti, che è in funzione dell’ampiezza dell’offerta di gioco e del tipo di violazione commessa. Un conto è l’omissione delle formule di avvertimento in schedine o tagliandi di giochi soggetti ad ampia diffusione, altro conto le inadempienze relative a sale da gioco o esercizi in cui vi sia offerta di giochi pubblici, la cui gravità varia in modo rilevante secondo la dimensione e l’ubicazione della sala o dell’esercizio, il grado di frequentazione, il numero di apparecchiature da gioco presenti e la circostanza che si sia di fronte a una violazione totale, ovvero solo parziale, degli obblighi previsti.

Tutto ciò fa sì che la reazione sanzionatoria possa risultare manifestamente sproporzionata per eccesso rispetto al disvalore concreto di fatti pure ricompresi nella sfera applicativa della norma, come attesta in modo esemplare il caso oggetto del giudizio a quo. Nella specie, il titolare di un bar, nel quale è presente un unico apparecchio da gioco, si trova esposto all’applicazione di una sanzione di cinquantamila euro per il solo fatto di non aver esposto in modo visibile nel locale una targa di avvertimento sui rischi della dipendenza da gioco d’azzardo: ciò, pur essendo egli risultato adempiente agli altri obblighi posti a suo carico in chiave di prevenzione delle ludopatie, tra cui quello di esposizione del materiale informativo in materia, predisposto dall’azienda sanitaria locale.

Contrariamente a quanto assume l’Avvocatura dello Stato, la validità della conclusione non è inficiata dalla circostanza che l’autore dell’illecito possa mitigare l’importo della sanzione ricorrendo all’istituto del pagamento in misura ridotta (art. 16 della legge n. 689 del 1981). Da un lato, infatti, il difetto di proporzionalità della sanzione non può essere contestato facendo leva sulla fruibilità di tale istituto, costituente una forma di definizione della contestazione puramente eventuale e che implica la rinuncia al diritto di difendersi in giudizio; dall’altro lato, e in ogni caso, il possibile ricorso all’istituto in questione non esclude che la sanzione, di importo significativo anche dopo la riduzione, resti di per sé fissa e tale da accomunare violazioni di disvalore sensibilmente differenziato.

Giova rilevare, per altro verso, che – come emerge dal rapido excursus condotto in principio – le sanzioni amministrative introdotte dal legislatore per contrastare la diffusione dei disturbi da gioco d’azzardo sono improntate a marcata severità, ma risultano in genere graduabili: il che conferma anche sotto altro profilo l’irragionevolezza della diversa scelta operata con la norma oggi in esame.

Quest’ultima va dichiarata, quindi, costituzionalmente illegittima, per violazione dell’art. 3 Cost., in combinato disposto con gli artt. 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, con assorbimento della questione relativa all’art. 41 Cost.

7.– Nel sistema vigente non si rinvengono soluzioni sanzionatorie che possano essere sostituite, ad opera di questa Corte, a quella dichiarata costituzionalmente illegittima, in ragione dell’assimilabilità delle condotte sanzionate. In particolare, non soccorre la soluzione – che pure sembra ipotizzata dall’ordinanza di rimessione – di sostituire, alla sanzione colpita dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale, quella prevista nei confronti di chi consenta la partecipazione al gioco a minori di anni diciotto: all’evidenza, le fattispecie non sono assimilabili, stante l’eterogeneità delle condotte punite. Per la violazione ora indicata sono d’altro canto previste, in aggiunta alla sanzione amministrativa pecuniaria, di minor importo e graduabile (da cinquemila a ventimila euro), sanzioni accessorie di significativo spessore (chiusura temporanea dell’esercizio, del locale o del punto di offerta; in determinati casi di recidiva, revoca delle autorizzazioni e delle concessioni amministrative), la cui estensione ai comportamenti che qui interessano sarebbe contraria allo stesso “verso” delle questioni e certamente estranea, comunque sia, alle competenze di questa Corte.

Per le ragioni già indicate al punto 3 che precede, ciò non rappresenta tuttavia ostacolo alla declaratoria di illegittimità costituzionale, la quale dovrà assumere un contenuto meramente ablativo. Spetterà al legislatore determinare, nel rispetto dei principi costituzionali, una diversa sanzione per i comportamenti considerati, stabilendone i relativi limiti minimo e massimo.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 6, secondo periodo, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre 2012, n. 189;

2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 6, secondo periodo, del d.l. n. 158 del 2012, come convertito, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dal Tribunale ordinario di Trapani con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 giugno 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 23 settembre 2021.