Sentenza n. 212 del 2019

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SENTENZA N. 212

ANNO 2019

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 33, comma 1, della legge 25 novembre 1971, n. 1096 (Disciplina dell’attività sementiera), come sostituito dall’art. 3, comma 2, lettera c), della legge 3 febbraio 2011, n. 4 (Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari), promosso dal Giudice di pace di Pisa nel procedimento vertente tra Carlo Pesci, in proprio e nella qualità di titolare della ditta Toscoagrigarden di Carlo Pesci, e il Ministero delle politiche agricole e forestali - Dipartimento dell’Ispettorato Centrale della tutela, della qualità e della repressione delle frodi dei prodotti agroalimentari - Ufficio Toscana e Umbria, con ordinanza del 17 ottobre 2018, iscritta al n. 13 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 3 luglio 2019 il Giudice relatore Luca Antonini.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza emessa il 17 ottobre 2018, il Giudice di pace di Pisa ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma (recte: terzo comma), e 97 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 33, comma 1, della legge 25 novembre 1971, n. 1096 (Disciplina dell’attività sementiera), come sostituito dall’art. 3, comma 2, lettera c), della legge 3 febbraio 2011, n. 4 (Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari), nella parte in cui prevede una sanzione amministrativa minima di ammontare pari a euro 4.000,00.

1.1.– La norma censurata dispone che, «[s]alvo che il fatto costituisca reato, a chiunque vende, pone in vendita o mette altrimenti in commercio prodotti sementieri non rispondenti ai requisiti stabiliti, o non rispondenti a quelli indicati sulla merce, o pone in vendita miscugli in casi non consentiti, ovvero pone in commercio prodotti importati in confezioni non originali o riconfezionati senza l’osservanza delle disposizioni di cui agli ultimi tre commi dell’articolo 17, si applica la sanzione amministrativa consistente nel pagamento di una somma stabilita in misura proporzionale di euro 40 per ogni quintale o frazione di quintale di prodotti sementieri e comunque per un importo non inferiore a euro 4.000».

2.– Le questioni sono sorte nel corso di un giudizio di opposizione a ordinanza-ingiunzione promosso dal titolare di un’impresa individuale nei confronti del Ministero delle politiche agricole e forestali - Dipartimento dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione delle frodi dei prodotti agroalimentari - Ufficio Toscana e Umbria.

Secondo quanto riferito dal giudice a quo, all’opponente è stato contestato di avere immesso in commercio sementi di erba medica con una percentuale di germinabilità inferiore a quella minima prevista dal combinato disposto degli artt. 14 della legge n. 1096 del 1971 e 12 del decreto del Presidente della Repubblica 8 ottobre 1973, n. 1065 (Regolamento di esecuzione della legge 25 novembre 1971, n. 1096, concernente la disciplina della produzione e del commercio delle sementi).

A seguito di tale contestazione, è stata irrogata la sanzione amministrativa di euro 4.000,00, pari al minimo edittale previsto dalla norma denunciata.

3.– Osserva il rimettente che la condotta contestata all’opponente riguarda l’immissione in commercio di 25 chilogrammi di sementi, con la conseguenza che, poiché l’ammontare della sanzione per tale ipotesi prevista dalla norma censurata è uguale a quello che sarebbe stato determinato ove la medesima condotta avesse avuto a oggetto 100 quintali di sementi, le questioni di legittimità costituzionale sarebbero rilevanti.

3.1.– Nel merito, il giudice a quo ritiene che l’art. 33, comma 1, della legge n. 1096 del 1971, come sostituito dall’art. 3, comma 2, lettera c), della legge n. 4 del 2011, si ponga in contrasto, laddove stabilisce una sanzione pecuniaria di importo minimo pari a euro 4.000,00, con i principi di adeguatezza, proporzionalità e ragionevolezza.

Al riguardo, egli anzitutto rileva che, poiché il criterio di commisurazione adottato dalla norma oggetto dell’odierno incidente di costituzionalità è pari a euro 40,00 per ogni quintale, in caso di prodotti dal peso complessivo sino a 100 quintali il suddetto minimo edittale non è correlato alla concreta quantità di sementi commercializzate, così traducendosi in una sanzione sostanzialmente fissa.

Fatta tale premessa, in ordine alla non manifesta infondatezza sostiene che la disposizione denunciata violerebbe, in primo luogo, l’art. 3 Cost., segnatamente sotto i profili della ragionevolezza e della uguaglianza.

Il vulnus al canone della ragionevolezza deriverebbe, in particolare, dalla intrinseca contraddittorietà della norma: la sua finalità, a parere del rimettente ravvisabile nell’esigenza di «parametrare la sanzione alla gravità della violazione, da calcolarsi matematicamente su base quantitativa», sarebbe difatti tradita dalla previsione di una sanzione non graduabile, peraltro di ammontare largamente superiore rispetto all’importo contemplato per il calcolo proporzionale.

Sotto il secondo profilo, invece, dalla disposizione censurata discenderebbe una ingiustificata disparità di trattamento, giacché il minimo edittale da essa stabilito si risolverebbe in una sanzione sostanzialmente fissa e non consentirebbe, di conseguenza, l’adozione di trattamenti sanzionatori diversificati in ragione delle differenti quantità di sementi oggetto delle condotte di commercializzazione vietate: verrebbe, in tal modo, riservato lo stesso trattamento sanzionatorio a fatti eterogenei.

3.2.– Sarebbe altresì violato l’art. 27, terzo comma, Cost., in relazione alla finalità rieducativa della pena.

Tale finalità, che secondo l’assunto del giudice a quo dovrebbe connotare anche le sanzioni amministrative, sarebbe difatti frustrata dall’impianto sanzionatorio dettato dalla norma denunciata, dal momento che esso indurrebbe, al contrario, a commettere violazioni più gravi e, per altro verso, finirebbe per sovvertire il meccanismo proporzionale stabilito dalla norma stessa.

3.3.– Dai rilievi che precedono deriverebbe, inoltre, la violazione dell’art. 97 Cost., «nella parte in cui sancisce il principio di ragionevolezza nell’attività amministrativa».

4.– Poiché non sarebbe consentito al giudice ridurre l’ammontare della sanzione a un importo inferiore al minimo edittale, il rimettente reputa, infine, impraticabile una interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata, ritenendo pertanto necessaria la pronuncia ablativa richiesta.

5.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate.

5.1.– L’eccepita inammissibilità deriverebbe, anzitutto, dalla considerazione che le questioni sollevate riguardano la materia della quantificazione delle sanzioni amministrative, nella quale il legislatore gode di ampia discrezionalità, salva la manifesta violazione del canone della ragionevolezza. Nel caso di specie, peraltro, gli interessi tutelati dalla disposizione sarebbero particolarmente rilevanti, dal momento che la rispondenza dei prodotti sementieri ai requisiti prescritti dalla legge inciderebbe anche sui beni della salute e dell’ambiente: di qui la necessità, funzionale a garantire l’effettività della risposta sanzionatoria, di prevedere una sanzione minima non irrisoria.

5.1.1.– In secondo luogo, il giudice a quo, nel dolersi della violazione del principio di ragionevolezza, avrebbe omesso, ad avviso dell’Avvocatura, di «individuare il parametro di riferimento cui eventualmente commisurare la fattispecie in esame».

5.2.– Nel merito, prendendo le mosse dalla censura afferente alla lesione dell’art. 3 Cost., la difesa dello Stato ritiene che la questione sia infondata alla luce del principio, enunciato in relazione ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità, secondo cui «la determinazione delle condotte punibili e delle relative sanzioni, siano esse penali o amministrative, rientra nella più ampia discrezionalità legislativa, non spettando alla Corte rimodulare le scelte punitive del legislatore né stabilire la quantificazione delle sanzioni» (viene richiamata l’ordinanza n. 33 del 2001).

La previsione del limite minimo, del resto, sarebbe giustificata dalla necessaria finalità dissuasiva della norma sottoposta all’odierno scrutinio, la cui realizzazione non sarebbe assicurata da una sanzione strutturata esclusivamente nella misura proporzionale di euro 40,00 per quintale o frazione di quintale di prodotto sementiero.

5.3.– Sarebbe, infine, priva di fondamento anche la censura prospettata in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost., giacché sulla valutazione del disvalore della condotta sanzionabile, asseritamente consistente nella importazione di prodotti sementieri, non influirebbe il dato quantitativo, se non per la misura eccedente il limite stabilito dalla disposizione denunciata.

Considerato in diritto

1.– Il Giudice di pace di Pisa dubita – in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma (recte: terzo comma), e 97 della Costituzione – della legittimità costituzionale dell’art. 33, comma 1, della legge 25 novembre 1971, n. 1096 (Disciplina dell’attività sementiera), come sostituito dall’art. 3, comma 2, lettera c), della legge 3 febbraio 2011, n. 4 (Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari), nella parte in cui prevede una sanzione amministrativa minima di ammontare pari a euro 4.000,00.

1.1.– La norma dispone che, «[s]alvo che il fatto costituisca reato, a chiunque vende, pone in vendita o mette altrimenti in commercio prodotti sementieri non rispondenti ai requisiti stabiliti, o non rispondenti a quelli indicati sulla merce, o pone in vendita miscugli in casi non consentiti ovvero pone in commercio prodotti importati in confezioni non originali o riconfezionati senza l’osservanza delle disposizioni di cui agli ultimi tre commi dell’articolo 17, si applica la sanzione amministrativa consistente nel pagamento di una somma stabilita in misura proporzionale di euro 40 per ogni quintale o frazione di quintale di prodotti sementieri e comunque per un importo non inferiore a euro 4.000».

2.– Il vulnus all’art. 3 Cost. sarebbe apprezzabile, in particolare, sotto i profili della irragionevolezza intrinseca e della disparità di trattamento.

Per un verso, infatti, la norma denunciata sarebbe intimamente contraddittoria in quanto perseguirebbe la sola finalità di modulare la sanzione secondo un criterio esclusivamente proporzionale, e precisamente sulla base della quantità dei prodotti commercializzati, sicché sarebbe poi incoerente la previsione di un minimo edittale disancorato dal peso delle merci oggetto delle condotte vietate.

Sotto altro profilo, tale minimo si tradurrebbe, per le ipotesi di commercializzazione di prodotti sino a 100 quintali, in una sanzione sostanzialmente fissa, che conseguentemente colpirebbe allo stesso modo fatti connotati da un diverso disvalore perché aventi a oggetto differenti quantità di sementi: di qui la dedotta violazione del principio di uguaglianza.

Il limite minimo previsto dalla norma oggetto del presente incidente di costituzionalità violerebbe, inoltre, l’art. 27, terzo comma, Cost., compromettendo la funzione rieducativa che dovrebbe caratterizzare anche le sanzioni amministrative.

Sarebbe, infine, leso l’art. 97 Cost., «nella parte in cui sancisce il principio di ragionevolezza nell’attività amministrativa».

3.– Va preliminarmente disattesa l’eccezione d’inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato in considerazione della discrezionalità di cui gode il legislatore in sede di quantificazione dei trattamenti sanzionatori.

Se è, infatti, vero che la valutazione della congruità delle sanzioni rientra nella discrezionalità legislativa, ciò tuttavia non preclude l’intervento di questa Corte «laddove le scelte sanzionatorie adottate dal legislatore si [rivelino] manifestamente arbitrarie o irragionevoli […]» (sentenza n. 115 del 2019).

Deve pertanto essere riservato al merito il vaglio in ordine alla sussistenza, o meno, della dedotta irragionevolezza del trattamento sanzionatorio sottoposto alla cognizione di questa Corte. L’Avvocatura stessa, del resto, nel prospettare l’inammissibilità, finisce per contestare la fondatezza delle argomentazioni del rimettente, adducendo considerazioni – segnatamente afferenti alla rilevanza degli interessi tutelati dalla norma denunciata e alla conseguente necessità di prevedere una sanzione non irrisoria – che attengono al merito delle questioni sollevate.

3.1.– È parimenti infondata l’ulteriore eccezione di inammissibilità, formulata dall’Avvocatura sulla scorta della omessa individuazione, da parte del giudice a quo, del «parametro di riferimento cui eventualmente commisurare la fattispecie in esame».

Non è chiaro se la difesa dello Stato intenda riferirsi alla mancata indicazione del tertium comparationis al fine della valutazione nel merito del dedotto vulnus all’art. 3 Cost. oppure alla mancata individuazione, all’interno dell’ordinamento, di una previsione sanzionatoria idonea a fungere da punto di riferimento nel colmare la lacuna consequenziale alla eventuale declaratoria di incostituzionalità della norma.

Da ambedue le prospettive, l’eccezione è, in ogni caso, priva di pregio.

Per un verso, infatti, si deve osservare che il dedotto difetto di ragionevolezza discenderebbe, ad avviso del giudice a quo, dalla intrinseca contraddittorietà della norma censurata e che l’asserita disparità di trattamento deriverebbe dalla equiparazione tra fatti in assunto eterogenei ma contemplati dalla medesima disposizione: sotto entrambi i profili, dunque, la violazione dell’art. 3 Cost. emergerebbe da un confronto relazionale tutto interno all’art. 33, comma 1, della legge n. 1096 del 1971, sicché non è necessario fare ricorso a un tertium a essa esterno.

Per altro verso, va rilevato che il rimettente si limita a chiedere una pronuncia caducatoria parziale, avente a oggetto il solo limite minimo della cornice edittale, all’esito della quale rimarrebbe comunque applicabile la sanzione, rinvenibile nell’ambito del perimetro segnato dalla stessa disposizione denunciata, in misura esclusivamente proporzionale: l’eventuale accoglimento delle questioni non produrrebbe quindi una lacuna normativa e non richiederebbe, di conseguenza, un intervento sostitutivo di questa Corte in ordine alla quantificazione del trattamento sanzionatorio.

4.– Nel merito, le questioni non sono fondate.

5.– La norma posta all’attenzione di questa Corte è contenuta nella legge n. 1096 del 1971, che reca la disciplina dell’attività sementiera e regola «la produzione a scopo di vendita e la vendita» stessa di prodotti sementieri, per tali intendendosi «le sementi, i tuberi, i bulbi, i rizomi e simili destinati alla riproduzione ed alla moltiplicazione naturale delle piante» (art. 1, primo e secondo comma).

Come si evince dall’esame dei lavori preparatori (e in particolare dalla relazione illustrativa al disegno di legge di iniziativa governativa, V legislatura, Atto Senato n. 784), la legge ha la finalità di fornire «agli operatori ed ai coltivatori le necessarie garanzie sul valore genetico delle sementi e dei materiali di moltiplicazione», nonché di introdurre una «disciplina dei controlli e delle certificazioni concernenti le sementi ammesse in commercio». Ciò sul presupposto che «[l]e sementi rappresentano un mezzo tecnico fondamentale per la produzione agricola ed interessano perciò, oltre i singoli che le utilizzano, anche la collettività nazionale, in quanto dal loro valore genetico e biologico dipende prevalentemente la più o meno qualificata produzione e quindi il rendimento unitario delle coltivazioni»; sicché una carente disciplina legislativa avrebbe determinato «anche sensibili difficolta` negli scambi internazionali, con inevitabile deprezzamento della […] produzione sementiera e conseguenze commerciali ed economiche che non possono sottovalutarsi».

In questa cornice si colloca, all’interno del Capo XI, rubricato «Vigilanza e sanzioni», l’art. 33, comma 1, che, nella formulazione originaria, prevedeva l’irrogazione di una multa stabilita nella misura proporzionale di lire 20.000 per ogni quintale o frazione di quintale di prodotti sementieri, ma comunque non inferiore a lire 100.000.

Successivamente, con l’art. 3, comma 2, lettera c), della legge n. 4 del 2011, il legislatore ha sensibilmente incrementato tali importi, in ciò mosso, non solo dall’evidente esigenza di parametrarli all’attualità e dall’obiettivo, espresso nell’incipit della disposizione e già desumibile dalla testé menzionata relazione illustrativa, «di valorizzare le produzioni di qualità italiane», ma anche dalla ulteriore necessità, parimenti manifestata nell’esordio della norma che reca la novella, di «rafforzare l’azione di repressione delle frodi alimentari».

La disposizione è censurata, come dianzi detto, nella parte in cui stabilisce il limite minimo edittale di euro 4.000,00.

6.– La violazione dell’art. 3 Cost. è stata prospettata, in particolare, sotto due profili.

6.1.– Sotto quello della irragionevolezza intrinseca, la lesione dell’evocato parametro costituzionale deriverebbe dalla contraddittorietà interna alla norma: la previsione di un minimo edittale disancorato dal peso dei prodotti oggetto della violazione tradirebbe, infatti, la finalità, secondo il rimettente perseguita dalla norma stessa, di modulare la gravità della condotta, e quindi della risposta sanzionatoria, in misura esclusivamente proporzionale.

6.1.1.– Il giudice a quo muove, tuttavia, da un postulato erroneo.

La tesi del rimettente si fonda, in sostanza, sull’assunto secondo cui lo scopo dell’art. 33, comma 1, della legge n. 1096 del 1971 sarebbe quello di graduare la reazione dell’ordinamento unicamente in relazione alle quantità dei prodotti sementieri oggetto delle condotte illecite. La norma sarebbe, in altri termini, finalizzata soltanto a «calcolar[e] matematicamente su base quantitativa» la gravità della violazione e, quindi, l’entità della risposta sanzionatoria, sicché non sarebbe poi coerente prevedere un limite minimo.

Tale finalità viene però desunta dalla arbitraria scomposizione della disposizione censurata e dalla valorizzazione, in chiave interpretativa, di una sola delle porzioni normative da essa espresse: quella in cui è previsto che la sanzione consiste nel pagamento di una somma stabilita «in misura proporzionale di euro 40,00 per ogni quintale o frazione di quintale di prodotti sementieri».

Una esegesi non atomistica della norma, in quanto basata sulla considerazione della sua ratio complessiva, conduce invece a un diverso risultato.

Dopo aver dettato il descritto criterio proporzionale, l’art. 33, comma 1, della legge n. 1096 del 1971 prosegue difatti precisando che l’importo della sanzione deve essere «comunque […] non inferiore a euro 4.000».

La norma è dunque strutturata in modo da prevedere una sanzione proporzionale che non può, tuttavia, essere inferiore a un limite minimo.

È pertanto evidente che essa considera le condotte di commercializzazione vietate come connotate in se stesse da un disvalore intrinseco grave, tale, come si vedrà, da meritare in ogni caso («comunque») – a prescindere quindi dalla quantità di prodotti sementieri che ne costituiscono l’oggetto – una sanzione di importo minimo.

Tale struttura sanzionatoria era del resto propria anche della versione antecedente alla novella recata dall’art. 3, comma 2, lettera c), della legge n. 4 del 2011: la norma, infatti, se da un canto determinava la sanzione pecuniaria in misura proporzionale, dall’altro stabiliva che questa non potesse in ogni caso scendere al di sotto di un limite minimo.

Con la disposizione denunciata, la lesività degli illeciti sanzionati è stata dunque valutata, contrariamente all’assunto del rimettente, non soltanto in misura proporzionale alla quantità dei prodotti commercializzati, ma altresì alla stregua del disvalore proprio delle condotte, al quale è stato ricollegato il minimo della sanzione irrogabile.

Milita, d’altro canto, in favore di tale conclusione anche la modesta entità dell’importo (euro 40,00 per quintale) fissato per il calcolo proporzionale: è, infatti, palese che, ove la finalità della norma fosse stata quella di correlare il rigore della sanzione, come vorrebbe il giudice a quo, esclusivamente al peso dei prodotti sementieri, tale importo non sarebbe stato quantificato in una somma di fatto pressoché simbolica, il cui carico afflittivo si sarebbe rivelato per i trasgressori del tutto trascurabile, con il conseguente – e irragionevole – sostanziale svuotamento di ogni efficacia dissuasiva della norma stessa.

6.1.2.– Alla luce dei rilievi che precedono, deve essere esclusa la contraddittorietà dedotta dal rimettente, dal momento che il precetto normativo denunciato è specificamente finalizzato anche a introdurre una soglia minima di deterrenza in relazione a condotte ritenute in se stesse gravi.

6.2.– La censura in esame è destituita di fondamento anche sotto l’altro profilo in cui è articolata.

Come chiarito, ad avviso del giudice a quo l’art. 3 Cost. sarebbe violato in quanto il menzionato minimo edittale si risolverebbe in una sanzione sostanzialmente fissa che punirebbe in modo ingiustificatamente uguale violazioni connotate da un diverso grado di lesività: gli illeciti che hanno a oggetto modiche quantità di prodotti sementieri e quelli concernenti quantità sino a 100 quintali.

Il vulnus deriverebbe pertanto dalla identità del trattamento sanzionatorio riservato a fatti in assunto eterogenei, in quanto caratterizzati da un disvalore marcatamente differente a seconda che riguardino un quantitativo più o meno consistente di merce.

6.2.1.– Tanto chiarito in merito al perimetro entro cui si muove, sotto il profilo in esame, lo scrutinio sottoposto a questa Corte, occorre anzitutto premettere, in linea generale, che, ogniqualvolta la legge preveda un limite minimo edittale, a questo potranno essere ricondotti una pluralità di fatti e situazioni concrete che, secondo dati di comune esperienza, sul piano fenomenico necessariamente ammettono una molteplicità di variabili; ciò è tanto più evidente ove, come nel caso di specie, le condotte vietate abbiano a oggetto beni “dosabili”.

Una “quota di fissità” della sanzione è dunque connaturale a qualsiasi minimo edittale e, in questa prospettiva, non sarebbe ragionevole pretendere, come in sostanza reputa il rimettente, che la conformità al paradigma dell’eguaglianza debba essere indefettibilmente verificata su una base meramente naturalistica.

Del resto, anche con riguardo a sanzioni amministrative propriamente fisse questa Corte ha in passato riconosciuto la legittima esplicazione, nel limite della non manifesta irragionevolezza, della discrezionalità di cui gode il legislatore nell’individuazione delle condotte punibili e dei relativi trattamenti sanzionatori. È stata così esclusa l’incostituzionalità della sanzione della decurtazione dalla patente di cinque punti in caso di mancato uso della cintura di sicurezza, «che [secondo il giudice a quo contrastava] con il principio di necessaria gradualità della pena, essendosi sempre ammesso, anche in sede penale, che un trattamento sanzionatorio in misura fissa non è di per sé contrario al principio di ragionevolezza» (ordinanza n. 204 del 2008; nello stesso senso, ordinanze n. 172 del 2003 e n. 282 del 2001).

Tali considerazioni non escludono che previsioni sanzionatorie rigide, come quella oggetto dell’odierno incidente di costituzionalità, che colpiscono in egual modo, e quindi equiparano, fatti in qualche misura differenti, debbano rispondere al principio di ragionevolezza, dovendo tale omologazione trovare un’adeguata giustificazione: la giurisprudenza costituzionale più recente ha infatti precisato come il principio, in origine enunciato con riferimento alle sanzioni penali, «di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito sia applicabile anche alla generalità delle sanzioni amministrative» (sentenza n. 112 del 2019; nello stesso senso, sentenza n. 88 del 2019).

Questa Corte è dunque chiamata a verificare se anche le infrazioni meno gravi – segnatamente sotto l’aspetto quantitativo, sulla scorta delle argomentazioni addotte dal rimettente – siano connotate da un disvalore tale da non rendere manifestamente irragionevole o sproporzionata la sanzione amministrativa di ammontare pari a euro 4.000,00, nonostante la sua severità.

Verifica, questa, che va peraltro condotta anche alla luce del principio, costantemente affermato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui la determinazione del trattamento sanzionatorio per le singole violazioni costituisce oggetto di ampia discrezionalità legislativa, il cui esercizio può essere sindacato, in sede di giudizio di costituzionalità, solo ove si traduca in scelte manifestamente irragionevoli o sproporzionate (ex plurimis, in riferimento alle sanzioni amministrative, sentenza n. 115 del 2019).

Nel caso di specie, malgrado il notevole incremento, rispetto al passato, del rapporto tra sanzione fissa e sanzione proporzionale che risulta dalla norma impugnata a seguito della novella disposta dall’art. 3, comma 2, lettera c), della legge n. 4 del 2011, deve escludersi, tenuto conto degli interessi tutelati, che la discrezionalità del legislatore si sia tradotta in una omologazione manifestamente irragionevole di fattispecie differenti, valicando il confine dell’arbitrarietà.

I divieti di commercializzazione di cui all’art. 33, comma 1, censurato, infatti, mirano – attraverso la qualificata produzione dei prodotti sementieri, la regolamentazione della loro immissione in commercio e la trasparenza delle informazioni contenute nei cartellini e nelle etichette apposti sugli involucri dei prodotti stessi – non solo a garantire il migliore rendimento delle coltivazioni e, in tal modo, una produzione agricola di elevata qualità, ma anche a preservare la fiducia degli operatori del settore nell’affidabilità delle caratteristiche e della “redditività” delle sementi, fiducia che ben potrebbe essere messa in dubbio pure dalla commercializzazione di modeste quantità di merce.

Inoltre, se alcune specie di sementi, come quelle di erba medica oggetto del giudizio a quo, sono prevalentemente destinate a essere utilizzate per produrre foraggio, con la conseguenza che le loro caratteristiche incidono altresì sull’allevamento, altre, come quelle di cereali, possono essere destinate, direttamente o sotto forma di derivati, all’alimentazione, sicché la loro qualità è suscettibile di incidere anche sulla tutela della salute.

La stessa scelta, compiuta nel 2011, di inasprire la misura della sanzione portata all’attenzione di questa Corte è stata dettata, come già detto, oltre che dalla finalità di «valorizzare le produzioni di qualità italiane», anche da quella di «rafforzare l’azione di repressione delle frodi alimentari» (art. 3, comma 2, della legge n. 4 del 2011).

In questa prospettiva, la severità della sanzione censurata non è manifestamente irragionevole o sproporzionata, alla luce dello scopo di fissare una soglia minima funzionale a evitare il radicale svilimento della capacità deterrente della norma, che altrimenti punirebbe le condotte di commercializzazione vietate con il pagamento della irrisoria somma di euro 40,00 per quintale.

Si deve dunque ritenere che, in virtù della natura e della particolare rilevanza degli interessi presidiati, gli illeciti previsti dal censurato art. 33, comma 1, siano connotati, anche ove abbiano a oggetto ridotte quantità di prodotti sementieri, da un disvalore intrinseco tale da rendere non manifestamente irragionevole o sproporzionata la determinazione del suddetto limite minimo edittale; e ciò anche in considerazione del fatto che si tratta di condotte realizzate generalmente da soggetti che esercitano in maniera non occasionale il commercio di detti prodotti.

6.2.2.– Alla stregua delle argomentazioni che precedono, deve in conclusione escludersi che la quantificazione operata dal legislatore nell’esercizio della discrezionalità che gli compete in sede di dosimetria sanzionatoria abbia superato il confine della manifesta irragionevolezza.

7.– Ad avviso del giudice a quo, il trattamento sanzionatorio minimo previsto dalla norma censurata recherebbe un vulnus altresì all’art. 27, terzo comma, Cost., compromettendo la funzione rieducativa della pena.

La finalità rieducativa imposta dal menzionato parametro costituzionale, che secondo il rimettente dovrebbe connotare anche le sanzioni amministrative, sarebbe difatti frustrata in quanto l’impianto sanzionatorio dettato dall’art. 33, comma 1, della legge n. 1096 del 1971, come sostituito dall’art. 3, comma 2, lettera c), della legge n. 4 del 2011, indurrebbe, al contrario, a commettere violazioni più gravi e finirebbe, per altro verso, per sovvertire il meccanismo proporzionale stabilito dalla norma stessa.

7.1.– Anche questa censura, con la quale peraltro vengono in parte riproposti argomenti già addotti a sostegno dell’asserita violazione dell’art. 3 Cost., è priva di fondamento, giacché nel caso di specie viene in rilievo un illecito amministrativo, mentre, per costante giurisprudenza costituzionale, l’art. 27 Cost. deve ritenersi riferibile, contrariamente all’assunto del giudice a quo, alla sola responsabilità penale e non pure a quella amministrativa.

Questa Corte ha difatti affermato, in linea generale, la «pertinenza esclusiva alle sanzioni propriamente penali» dell’art. 27 Cost. (sentenza n. 109 del 2017; nello stesso senso, ordinanze n. 286 del 2010 e n. 434 del 2007). Peraltro, l’estensione alle sanzioni amministrative dei principi in materia di responsabilità penale è stata esclusa anche con specifico riguardo alla finalità rieducativa prevista dal terzo comma del suddetto art. 27 Cost., ritenuta connessa alla pena in senso stretto, in quanto «privativa, o quanto meno limitativa, della libertà personale» (sentenza n. 112 del 2019; nello stesso senso, sentenza n. 281 del 2013).

8.– Secondo il rimettente, la norma denunciata lederebbe, infine, l’art. 97 Cost., «nella parte in cui sancisce il principio di ragionevolezza nell’attività amministrativa».

8.1.– L’espresso riferimento al principio di ragionevolezza, valutato unitamente al rilievo che a fondamento della censura non sono state addotte autonome argomentazioni, induce a ritenere che questa sia meramente “ancillare” rispetto a quelle prospettate in riferimento all’art. 3 Cost., delle quali condivide, pertanto, la sorte (sentenza n. 46 del 2014).

Al pari della questione inerente alla violazione dell’art. 3 Cost., anche quella in esame deve, conseguentemente, essere dichiarata infondata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 33, comma 1, della legge 25 novembre 1971, n. 1096 (Disciplina dell’attività sementiera), come sostituito dall’art. 3, comma 2, lettera c), della legge 3 febbraio 2011, n. 4 (Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 97 della Costituzione, dal Giudice di pace di Pisa con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Luca ANTONINI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 settembre 2019.