Sentenza n. 109 del 2017

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SENTENZA N. 109

ANNO 2017

 

Commenti alla decisione di

 

I. Francesco Viganò, Una nuova pronuncia della Consulta sull’irretroattività delle sanzioni amministrative, per g. c. di Diritto Penale Contemporaneo

 

II. Irene PellizzoneGaranzie costituzionali e convenzionali della materia penale: osmosi o autonomia?, per g. c. di Diritto Penale Contemporaneo

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Paolo                       GROSSI                                                         Presidente

- Giorgio                    LATTANZI                                                     Giudice

- Aldo                        CAROSI                                                               

- Marta                      CARTABIA                                                         

- Mario Rosario         MORELLI                                                            

- Giancarlo                CORAGGIO                                                        

- Giuliano                  AMATO                                                               

- Silvana                    SCIARRA                                                            

- Daria                       de PRETIS                                                           

- Nicolò                     ZANON                                                               

- Franco                     MODUGNO                                                        

- Augusto Antonio    BARBERA                                                          

- Giulio                      PROSPERETTI                                                    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 8, commi 1 e 3, e 9 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), promosso dal Tribunale ordinario di Varese, con ordinanza del 9 febbraio 2016, iscritta al n. 90 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell’anno 2016.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 5 aprile 2017 il Giudice relatore Nicolò Zanon.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale ordinario di Varese, con ordinanza del 9 febbraio 2016 (r.o. n. 90 del 2016), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8, commi 1 e 3, e 9 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67).

2.– Il rimettente riferisce che, nel procedimento penale sottoposto alla sua cognizione, E.F. risulta imputata per «il reato di cui agli articoli 81 cpv. c. p. e 2 comma 1 bis» del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 1983, n. 638, poiché, in qualità di legale rappresentante della "F.E. Pizzeria La Svolta” di Somma Lombardo, «con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso ed in tempi diversi, ometteva di effettuare nei termini di legge il versamento della somma complessiva di € 177,00 relativa al periodo compreso tra il mese di agosto 2008 e febbraio 2009, trattenuta a titolo di ritenute previdenziali ed assistenziali sulla retribuzione dei dipendenti dell’azienda».

Riferisce altresì che il delitto contestato all’imputata, nelle sole ipotesi in cui l’importo omesso non sia superiore ad euro 10.000 per ogni annualità, è stato oggetto di depenalizzazione e contestuale trasformazione in illecito amministrativo, ai sensi dell’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016 (entrato in vigore in data 6 febbraio 2016). Le relative condotte sono ora punite con l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria da un minimo di euro 10.000 ad un massimo di euro 50.000.

Il giudice a quo evidenzia che l’art. 8 del d.lgs. n. 8 del 2016 prevede l’applicabilità delle sanzioni amministrative «anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso, sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili» (comma 1) e che «[a]i fatti commessi prima della data di entrata in vigore del presente decreto non può essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 del codice penale» (comma 3). Ricorda, altresì, che l’art. 9 del d.lgs. n. 8 del 2016 impone al giudice penale, nei casi di cui al precedente art. 8, comma 1, la trasmissione (entro novanta giorni dall’entrata in vigore del decreto), all’autorità amministrativa competente all’irrogazione della sanzione amministrativa, degli atti relativi ai procedimenti penali riguardanti reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato, alla medesima data, risulti prescritto o estinto per altra causa.

Tanto premesso, solleva questioni di legittimità costituzionale: dell’art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016, nella parte in cui prevede l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 3, comma 6, del medesimo d.lgs. n. 8 del 2016, ai fatti di cui all’art. 2, comma 1-bis, del d.l. n. 463 del 1983, anche se commessi prima dell’entrata in vigore del decreto che ne ha disposto la trasformazione in illeciti amministrativi; dell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 8 del 2016, nella parte in cui prevede che, per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore di tale decreto, la  sanzione amministrativa pecuniaria applicabile non possa essere superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato; dell’art. 9 del d.lgs. n. 8 del 2016, nella parte in cui impone al giudice penale la trasmissione all’autorità amministrativa, competente ad applicare la sanzione amministrativa pecuniaria, degli atti relativi ai procedimenti penali riguardanti reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato, alla medesima data, risulti prescritto o estinto per altra causa.

Tutte le questioni sono sollevate per contrasto con i principi di legalità e irretroattività della pena, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., con il principio di colpevolezza, di cui all’art. 27 Cost., e con il principio di uguaglianza, di cui all’art. 3 Cost.

2.1.– In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo ricorda che l’art. 2, comma 1-bis, del d.l. n. 463 del 1983, prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 8 del 2016, sanzionava con la pena della reclusione sino a tre anni e della multa sino ad euro 1.032,91 il datore di lavoro che ometteva di versare le ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti.

Con il citato art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, il legislatore ha introdotto una soglia di punibilità per il delitto in questione, che costituisce tuttora reato solo laddove l’importo omesso – per singole annualità – risulti superiore ad euro 10.000 (nel qual caso è ancora prevista la pena della reclusione fino a tre anni e della multa sino ad euro 1.032), mentre è stato trasformato in illecito amministrativo nelle ipotesi in cui l’importo omesso non superi il limite-soglia indicato, prevedendosi l’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 ad euro 50.000, anche per le condotte tenute anteriormente alla depenalizzazione.

Ciò posto, il rimettente sottolinea, come premessa del suo ragionamento, che il principio di irretroattività di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. trova applicazione esclusivamente per le norme penali e le pene da queste contemplate, per le quali risulta dunque inderogabile, mentre per le sanzioni amministrative l’operatività del principio è assicurata dall’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), che può ben essere derogato da una legge ordinaria posteriore che preveda espressamente l’applicazione retroattiva di una sanzione amministrativa.

Ricorda, tuttavia, che, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti: Corte EDU), le nozioni di «sanzione penale» e di «sanzione amministrativa» non possono essere desunte, semplicemente, dal nomen iuris utilizzato dal legislatore, né dall’autorità chiamata ad applicarla, ma devono, al contrario, essere ricavate in concreto, tenuto conto delle finalità e della portata del precetto sanzionatorio di volta in volta contemplato.

Il giudice a quo evidenzia che, secondo la giurisprudenza della Corte EDU – di cui vengono diffusamente richiamate le pronunce concernenti la legittimità «del sistema sanzionatorio italiano del cosiddetto "doppio binario”», in relazione agli illeciti fiscali e tributari (è, in particolare, ampiamente illustrata la sentenza del 4 marzo 2014 nella causa Grande Stevens e altri contro Italia) – l’individuazione di una sanzione come «amministrativa» o «penale» non può dipendere unicamente dalla qualificazione ad essa attribuita dal legislatore né dalla natura dell’organo chiamato ad applicarla, dovendosi, al contrario, avere riguardo ad una serie di indici presuntivi, in presenza dei quali la sanzione – pur se formalmente qualificata come «amministrativa» – assume, a tutti gli effetti, la natura, lo scopo e le funzioni di una vera e propria pena: tra tali indici, il rimettente ricorda la «rilevante severità» della sanzione, «l’importo elevato in concreto inflitto e in astratto comminabile», la presenza di sanzioni accessorie collegate, e le ripercussioni complessive sugli interessi del condannato. In presenza di tali indici, le sanzioni amministrative, proprio per l’elevata afflittività nei confronti del condannato, rivestirebbero uno scopo chiaramente repressivo e preventivo, che si affianca a quello riparatorio dei pregiudizi di natura finanziaria cagionati dalla condotta, potendosi considerare, così, sostanzialmente di natura penale.

Secondo il giudice a quo, analoghe argomentazioni sosterrebbero la qualificazione in termini di pena della sanzione amministrativa attualmente prevista per le violazioni di cui all’art. 2, comma 1-bis, del d.l. n. 463 del 1983, laddove l’omesso versamento non superi il limite-soglia di euro 10.000.

A tal proposito, evidenzia il rimettente come la sanzione introdotta per le violazioni «sotto-soglia» contempli il pagamento di una somma ricompresa tra euro 10.000 ed euro 50.000, con un minimo edittale, dunque, superiore al massimo della pena pecuniaria prevista per le violazioni superiori alla soglia di punibilità costituenti ancora reato (pari alla multa fino ad euro 1.032). Anche in tal caso, ricorrerebbero i medesimi indici che la Corte EDU ha elaborato per attribuire alle sanzioni «nominalmente» amministrative la natura sostanziale di sanzioni penali.

In particolare, il giudice a quo rileva che «il complesso di norme di cui agli artt. 3 co. 6, 8 co. 1 e 3 e 9» del d.lgs. n. 8 del 2016, nel prevedere l’applicazione della sanzione amministrativa anzidetta e la trasmissione degli atti del processo penale all’autorità amministrativa competente, non detta alcun criterio per ancorare la quantificazione della sanzione da applicare al danno effettivo cagionato agli enti di previdenza e di assistenza, sicché «la determinazione del quantum di sanzione concretamente irrogabile sarà operata dall’Ente applicatore», in parte in relazione al danno effettivo, in parte in relazione alla gravità della condotta (omissiva), e dunque secondo criteri valutativi tipici del giudizio penale. Nel caso in esame, a fronte di un omesso versamento estremamente contenuto (pari a euro 177) dovrebbe trovare applicazione, a giudizio del rimettente, la sanzione amministrativa minima (pari ad euro 10.000), evidenziandosi, in tal modo, a fronte di un danno «oggettivamente irrisorio» cagionato all’ente previdenziale, la funzione esclusivamente repressiva della sanzione, come tale idonea a rivelare la natura, le conseguenze e le finalità di una vera e propria pena.

Tutto ciò premesso, il giudice a quo ritiene che, anche con riferimento all’anzidetta sanzione, a suo giudizio solo formalmente amministrativa, ma di fatto penale, debbano trovare applicazione i principi di legalità e di irretroattività delle sanzioni penali (in senso sostanziale) costituzionalmente sanciti dall’art. 25 Cost.: un’applicazione della sanzione amministrativa in esame anche ai fatti di omesso versamento (sotto-soglia) posti in essere prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 8 del 2016 (ossia prima del 6 febbraio 2016), avrebbe la conseguenza – nella prospettazione del rimettente «assolutamente abnorme e contraria ai principi fondanti del nostro ordinamento giuridico» – di esporre «il condannato in via amministrativa (ex imputato)» a conseguenze estremamente pregiudizievoli per i propri interessi economici (tenuto conto degli importi elevati della sanzione amministrativa, in particolare per quanto riguarda il minimo edittale), senza che questi abbia avuto la possibilità di conoscere tali conseguenze prima della propria omissione. In tal modo, sarebbe frustrata la tutela apprestata dall’art. 25, secondo comma, Cost., che garantisce ad ogni persona «la prerogativa (finanche il diritto) di sapere in anticipo quali comportamenti costituiscono un fatto penalmente rilevante, a quale comportamento fa seguito l’applicazione di una pena (in senso sostanziale), nonché quale tipo di pena – ed in che misura – potrà essere inflitta». Tutela che impedisce, altresì, che un individuo «sia punito (personalmente o a livello patrimoniale)» per fatti che, al momento della commissione, non erano contemplati come reato o erano puniti con pene che, per tipologia e misura, non erano espressamente stabilite.

A tal proposito, il giudice rimettente evidenzia che, nel caso di specie, il datore di lavoro che abbia omesso di versare le ritenute previdenziali ed assistenziali prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 8 del 2016 e per importi complessivi estremamente contenuti, «non può che essersi prospettato conseguenze sanzionatorie (ancorché a livello penale) comunque limitatamente afflittive», anche in considerazione dei numerosi istituti penali sostanziali che, in sede di cognizione o di esecuzione, consentono, comunque, di evitare – in concreto – l’esecuzione di una pena o, comunque, di mitigarne le conseguenze (vengono citati, a titolo di esempio, i benefici della sospensione condizionale della pena, della conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, della possibilità di assoluzione per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen., della possibilità di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova).

Secondo il giudice a quo, ulteriore profilo di incostituzionalità risiederebbe nella portata solo apparentemente favorevole del criterio previsto dall’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 8 del 2016, volto a limitare la portata afflittiva della sanzione amministrativa nella parte in cui esclude che essa possa essere irrogata in misura superiore al massimo della pena «originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’articolo 135 del codice penale». Infatti, la norma nulla disporrebbe per le ipotesi in cui – come appunto nel caso di specie – il processo penale non sia stato ancora definito con sentenza (o con decreto penale) e, dunque, non sia stata ancora inflitta alcuna pena per il reato. In tali casi, l’art. 9 del d.lgs. n. 8 del 2016 impone al giudice di pronunciare sentenza inappellabile perché il fatto non è previsto dalla legge come reato e di disporre la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente. Quest’ultima, non avendo alcuna pena originariamente inflitta cui fare riferimento (e da convertire ex art. 135 cod. pen.), dovrebbe necessariamente – sebbene lo stesso giudice a quo riconosca che, sul punto, la disposizione sia «ambigua ed estremamente fumosa» – determinare la sanzione amministrativa da applicare all’interno della forbice edittale fissata dall’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, che oscilla da un minimo di euro 10.000 ad un massimo di euro 50.000, a meno di ritenere che il legislatore abbia inteso riferirsi non già alla pena «inflitta» dal giudice in concreto (con sentenza o decreto), bensì a quella «prevista», «contemplata» o «comminata» in astratto dalla norma penale incriminatrice originaria. Tale ultima interpretazione viene tuttavia scartata dal giudice rimettente, poiché foriera «di un ulteriore profilo di assoluta irragionevolezza, illogicità e contraddittorietà»: il massimo della pena originariamente prevista in astratto per il reato prima della depenalizzazione, ragguagliata ai sensi dell’art. 135 cod. pen., e con l’aggiunta della multa pari ad euro 1.032, potrebbe raggiungere l’importo di euro 274.782, addirittura superiore al massimo della sanzione amministrativa applicabile in base alla nuova formulazione della norma (pari ad euro 50.000). Ciò determinerebbe una violazione del principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., per disparità di trattamento fra i soggetti – tutti imputati per fatti «sotto-soglia» commessi prima dell’entrata in vigore del decreto – la cui posizione sia già stata definita con una sentenza o un decreto di condanna (non ancora divenuta irrevocabile) ed i soggetti la cui posizione, al contrario, sia ancora pendente al momento dell’entrata in vigore, del decreto: nella prospettazione del rimettente, infatti, per i primi, la sanzione amministrativa pecuniaria applicabile dovrà essere commisurata alla pena originariamente inflitta, secondo i criteri di ragguaglio di cui all’art. 135 cod. pen.; per i secondi, invece, la sanzione «(nel silenzio della legge)» non potrà che essere determinata nei termini della cornice edittale di cui all’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016 (ossia da un minimo di euro 10.000 ad un massimo di euro 50.000), risultando, in tal modo, decisamente più afflittiva e pregiudizievole per gli interessi (economici) del condannato.

Ulteriore profilo di illegittimità costituzionale, ancora una volta per violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., è ravvisato dal giudice a quo nel fatto che – a differenza di quanto previsto per le pene – la disposizione di cui all’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, nel contemplare il minimo ed il massimo edittale della sanzione amministrativa, «non introduce alcun istituto alternativo alla sua applicazione», che tenga conto, ad esempio, della particolare tenuità degli importi omessi ovvero di condotte riparatorie successivamente tenute dal reo. Si determinerebbe così un differente trattamento per colui che, pur avendo omesso di versare le ritenute previdenziali prima dell’entrata in vigore del decreto, abbia già ottenuto la pronuncia di una sentenza definitoria del giudizio – eventualmente beneficiando di istituti alternativi alla pena che possono, di fatto, azzerare le conseguenze pregiudizievoli della condotta (quali, ad esempio, l’assoluzione per particolare tenuità del fatto o la sospensione condizionale della pena) – rispetto ai soggetti, la cui posizione, per questioni di mera tempistica processuale, non sia stata definita prima dell’entrata in vigore del decreto e che non hanno alcuna possibilità di sottrarsi all’applicazione della sanzione amministrativa.

2.2.– Quanto alla rilevanza delle questioni sollevate, il giudice a quo, alla luce dei fatti come contestati nel capo di imputazione, sostiene che «[l]e norme di cui al recente d.lgs. n.˚ 8/2016 (in particolare, l’art. 8, commi 1 e 3 e l’art. 9 di cui si chiede la declaratoria d’incostituzionalità) trovano necessariamente applicazione anche al fatto concreto, non essendo stati pronunciati sentenza o decreto divenuti irrevocabili, né essendo il reato contestato all’imputata estinto per prescrizione o per altre cause», sicché il rimettente, proprio sulla base delle disposizioni anzidette, non potrebbe «che essere tenuto alla trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente, affinché provveda all’applicazione della sanzione amministrativa accessoria».

Aggiunge, poi, che, atteso l’importo esiguo non versato e la condizione di incensurata riconoscibile all’imputata, quest’ultima, in caso di eventuale condanna in sede penale, avrebbe «ragionevolmente» potuto beneficiare di istituti volti ad evitare – in concreto – l’esecuzione della pena (in particolare, della sospensione condizionale) o, ancor prima, addirittura essere assolta, all’esito del giudizio di merito, in applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., istituti – entrambi – non contemplati con riferimento alla sanzione amministrativa pecuniaria.

L’applicazione retroattiva di una sanzione pecuniaria di importo estremamente elevato sarebbe, nel caso di specie, del tutto sproporzionata, sia rispetto al versamento omesso (pari ad euro 177), sia rispetto al danno concretamente subito dall’ente previdenziale, e non consentirebbe all’imputata di comprendere l’effettivo disvalore della propria condotta, dal momento che la stessa avrebbe la percezione di essere punita con una «"multa” (come si è soliti dire, nel linguaggio comune) assolutamente abnorme», la cui possibile applicazione non poteva esserle nota al momento della commissione del fatto (a cavallo degli anni 2008 e 2009) e la cui irrogazione «sarebbe sentita come un vero e proprio sopruso da parte dello Stato, volta semplicemente a "fare cassa”» e non già alla realizzazione di un’effettiva finalità rieducativa, con una palese violazione (anche) del principio di colpevolezza, di cui all’art. 27 Cost. L’applicazione di una sanzione pecuniaria (formalmente amministrativa ma, di fatto, sostanzialmente penale) particolarmente incisiva e pregiudizievole per gli interessi economici del condannato, come quella contemplata dall’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, se operata retroattivamente e, dunque, senza che la sanzione stessa fosse conosciuta dal reo al momento della sua azione, verrebbe percepita come un abuso ed un’ingiustizia da parte dello Stato. Come tale, osterebbe – ed, anzi, addirittura si contrapporrebbe – al principio per cui la pena  (intesa in senso sostanziale) deve tendere alla rieducazione del condannato, e non consentirebbe al reo di comprendere il disvalore della propria condotta.

3.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, sostenendo l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale.

Secondo la difesa statale, non potrebbe esservi dubbio sul fatto che la sanzione astrattamente stabilita per le ipotesi sottostanti la soglia dei 10.000 euro sia meno grave, non solo formalmente, considerata la natura amministrativa dell’illecito, ma anche sostanzialmente, trattandosi di sanzione pecuniaria. In secondo luogo, l’Avvocatura generale dello Stato rileva che il legislatore, procedendo alla depenalizzazione, si sarebbe adeguato all’orientamento della Corte costituzionale (sono citate le sentenze n. 196 del 2010 e n. 104 del 2014), secondo il quale, nell’ambito della depenalizzazione di reati "degradati” a illeciti amministrativi, si dà luogo ad una vicenda di successione di leggi, nella quale deve trovare attuazione il principio di retroattività in mitius, appunto pienamente realizzato dall’applicazione retroattiva delle più favorevoli sanzioni amministrative, in luogo di quelle originariamente penali.

Le disposizioni censurate, ad avviso dell’interveniente, sarebbero del tutto conformi ai principi di legalità e irretroattività, nonché di uguaglianza, anche perché la previsione di limiti alla sanzione amministrativa, strettamente ancorati ai massimi edittali fissati per la pena originariamente prevista per il reato, consentirebbe di escludere la violazione del principio di colpevolezza, data la piena conoscibilità da parte dell’interessato, sin dalla commissione del fatto, della fattispecie anche sotto il profilo sanzionatorio, risultando così rispettata la libertà di autodeterminazione individuale.

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, peraltro, non sarebbe sufficientemente motivata la questione sollevata in relazione alla prospettata impossibilità per l’imputato, una volta intervenuta la depenalizzazione, di accedere ai benefici che consentono di evitare l’esecuzione della pena (quali la sospensione condizionale e la non punibilità per particolare tenuità del fatto): rileva l’interveniente, infatti, che il giudice si sarebbe riferito alla «ragionevole possibilità» per l’interessato di beneficiare dei suddetti istituti, senza che siano stati forniti, tuttavia, gli elementi necessari a descrivere la fattispecie concreta, onde valutare la rilevanza della questione nel giudizio principale. Più precisamente, il giudice avrebbe omesso di specificare se nella fattispecie sottoposta al suo vaglio sussistano i presupposti richiesti dall’ordinamento per l’applicazione degli istituti «ragionevolmente» adottabili, così compromettendo il doveroso preliminare controllo sulla rilevanza della questione che la Corte costituzionale è chiamata ad effettuare.

Inoltre, mentre il principio d’irretroattività della legge penale è espressamente tutelato dall’art. 25 Cost., quale presidio di garanzia contro l’arbitrio del legislatore e della libertà di autodeterminazione, il principio di retroattività in mitius, non presentando alcun collegamento con detta libertà, dato che la norma più favorevole sopravviene alla commissione del fatto, trova fondamento nel principio di uguaglianza. Il collegamento con l’art. 3 Cost. giustificherebbe la minor forza del principio di retroattività della norma più favorevole, il quale, a differenza di quello di irretroattività della legge penale, è suscettibile di deroghe «legittime sul piano costituzionale ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli» (viene citata la sentenza n. 394 del 2006). Nel caso in esame, la finalità perseguita dalla riforma, di deflazionare il sistema penale mediante la depenalizzazione di un cospicuo numero di reati in vista della maggior efficienza della giurisdizione e nell’interesse dell’intera collettività, in ragione di pregnanti esigenze economiche e sociali, giustificherebbe, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, il diverso trattamento tra chi è oggi punito in via amministrativa e chi, per il medesimo fatto, è stato condannato in sede penale.

Considerato in diritto

1.– Nel corso di un giudizio penale avente ad oggetto il delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali previsto dall’art. 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 1983, n. 638, il Tribunale ordinario di Varese solleva, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8, commi 1 e 3, e 9 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67).

2.– Oggetto delle questioni sono alcune disposizioni del d.lgs. n. 8 del 2016, che, in attuazione della delega contenuta nella legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), ha provveduto a sostituire con sanzioni amministrative pecuniarie e sanzioni amministrative accessorie le pene previste per una serie di reati. Sulla base, tra l’altro, di un criterio di depenalizzazione "nominativa”, riferito a specifiche fattispecie delittuose e contravvenzionali, sia contenute nel codice penale che in leggi speciali, l’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, stabilisce la trasformazione in illecito amministrativo del delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, laddove – come accade nel giudizio a quo – l’importo omesso non sia superiore ad euro 10.000 per ogni annualità. La condotta depenalizzata è ora punita con l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria da un minimo di euro 10.000 ad un massimo di euro 50.000.

Il giudice a quo non censura, peraltro, la disposizione appena ricordata, ma sospetta di illegittimità costituzionale le norme (art. 8, commi 1 e 3, del d.lgs. n. 8 del 2016) che prevedono l’applicabilità delle sanzioni amministrative anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo di depenalizzazione, per un importo che non può essere superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 del codice penale.

Rileva, inoltre, l’illegittimità costituzionale della norma (contenuta nell’art. 9 del d.lgs. n. 8 del 2016) che impone all’autorità giudiziaria l’obbligo, entro novanta giorni dall’entrata in vigore del decreto legislativo, di trasmettere all’autorità amministrativa competente gli atti dei procedimenti penali trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa alla medesima data.

Nel sollevare tali questioni di legittimità costituzionale, il giudice a quo aderisce esplicitamente alla tesi secondo cui il principio di irretroattività di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. trova applicazione esclusivamente per le norme penali e le pene da queste contemplate; ed afferma che, per le sanzioni amministrative, la stessa regola può invece essere derogata, in quanto prevista da una legge ordinaria (l’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689, recante «Modifiche al sistema penale»).

Richiamando diffusamente la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti: Corte EDU), il rimettente sostiene, tuttavia, che le nozioni di «sanzione penale» e di «sanzione amministrativa» non possono essere desunte, «semplicemente», dal nomen iuris utilizzato dal legislatore, ma devono essere ricavate – in concreto – tenuto conto delle finalità e della portata del precetto sanzionatorio di volta in volta contemplato, alla luce di quegli indici (cosiddetti criteri Engel) che la Corte EDU ha elaborato in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti: CEDU).

Proprio applicando i suddetti criteri alla sanzione introdotta dall’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, il giudice a quo giunge alla conclusione che essa sarebbe «solo formalmente» amministrativa, in quanto, per la sua elevata afflittività nei confronti del condannato, perseguirebbe uno scopo chiaramente repressivo e preventivo, piuttosto che soltanto riparatorio, dovendosi considerare, così, sostanzialmente di natura penale.

Da ciò deriverebbe la necessaria applicazione dei principi di legalità e di irretroattività delle sanzioni penali, sanciti dall’art. 25 Cost., con i quali contrasterebbe la retroattività – prevista dalle disposizioni censurate – della sanzione introdotta dal d.lgs. n. 8 del 2016.

Secondo il giudice a quo, inoltre, il criterio limitativo previsto dall’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 8 del 2016 (che impedisce di applicare, ai fatti commessi prima della data di entrata in vigore della depenalizzazione, una sanzione amministrativa pecuniaria di importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 cod. pen.) non potrebbe riferirsi alle ipotesi in cui – come appunto nel caso di specie – il processo penale non sia stato ancora definito con sentenza (o con decreto penale) e, dunque, non sia stata ancora inflitta alcuna pena suscettibile di ragguaglio pecuniario: ciò provocherebbe una disparità di trattamento, contrastante con l’art. 3 Cost., fra i soggetti la cui posizione sia già stata definita con una sentenza o un decreto di condanna (non ancora divenuti irrevocabili) ed i soggetti la cui posizione, al contrario, sia ancora pendente al momento dell’entrata in vigore del decreto.

Nel raffronto tra queste due categorie di soggetti, tutti imputati per fatti "sotto-soglia”, il rimettente ravvisa un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale, ancora una volta per violazione del principio di eguaglianza. Infatti, a differenza di quanto previsto per le pene, l’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, nel contemplare il minimo ed il massimo edittale della sanzione amministrativa, «non introduce alcun istituto alternativo alla sua applicazione», che tenga conto, ad esempio, della particolare tenuità degli importi omessi ovvero di condotte riparatorie successivamente tenute dal reo.

Infine, l’applicazione retroattiva di una sanzione pecuniaria di importo estremamente elevato sarebbe, nel caso di specie, del tutto sproporzionata, sia rispetto al versamento omesso (pari ad euro 177), sia rispetto al danno concretamente subito dall’ente previdenziale, risultandone frustrata la funzione rieducativa della pena, di cui all’art. 27 Cost.: infatti, l’applicazione di una sanzione pecuniaria particolarmente incisiva e pregiudizievole per gli interessi economici del condannato, come quella contemplata dall’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016 – se operata retroattivamente e, dunque, senza che la sanzione stessa fosse conosciuta dal reo al momento della sua azione – verrebbe percepita come un abuso da parte dello Stato, in violazione del principio per cui la sanzione afflittiva deve tendere alla rieducazione del condannato.

3.– Tutte le questioni di legittimità costituzionale così sollevate sono inammissibili.

3.1.– Tale è, innanzitutto, la questione posta in riferimento all’asserita violazione, da parte degli artt. 8, commi 1 e 3, e 9 del d.lgs. n. 8 del 2016, del principio di irretroattività di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.

Le norme sospettate d’illegittimità costituzionale sono applicabili nel giudizio principale, in quanto l’obbligo – gravante sul giudice a quo – di disporre la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente, previsto dall’art. 9 del citato decreto legislativo (e, in particolare, dai commi 1 e 3, rilevanti nel caso di specie), rinviene la sua giustificazione proprio nella retroattività delle sanzioni amministrative prevista, in generale, dall’art. 8.

Il giudice rimettente muove esplicitamente dalla tesi per cui il principio costituzionale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. si applica «esclusivamente alle norme penali ed alle pene ivi contemplate», mentre, per le sanzioni amministrative, il principio di irretroattività «trova fondamento in una legge ordinaria e, come tale, ben può essere derogato da una legge ordinaria posteriore che preveda – espressamente – l’applicazione retroattiva di una sanzione amministrativa».

Senonché, invocando i «più recenti innesti» della giurisprudenza europea, sostiene il giudice a quo che i concetti di sanzione penale e di sanzione amministrativa non potrebbero desumersi, «semplicemente, dal nomen iuris utilizzato dal legislatore, né dall’autorità chiamata ad applicarla», ma, al contrario, dovrebbero «essere ricavati – in concreto – tenuto conto delle finalità e della portata del precetto sanzionatorio di volta in volta contemplato». E, in tal senso, opera ampi riferimenti alla giurisprudenza della Corte EDU ed ai criteri Engel (identificati dal rimettente nella rilevante severità della sanzione, nell’elevato importo di questa inflitto in concreto e comunque astrattamente comminabile, nelle complessive ripercussioni sugli interessi del condannato, nella finalità sicuramente repressiva), applicando i quali la sanzione "formalmente” amministrativa di cui è questione nel giudizio a quo rivelerebbe la sua natura "sostanzialmente” penale, richiedendo l’applicazione del principio costituzionale di irretroattività di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., con conseguente illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate.

A prescindere da qualsiasi considerazione relativa al criterio casistico cui sarebbe in tal modo consegnata l’identificazione della natura penale della sanzione (che potrebbe porsi in problematico rapporto con l’esigenza garantistica tutelata dalla riserva di legge di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.), conta, in questa sede, che lo scopo perseguito dal giudice rimettente finisca per risultare contraddittorio rispetto alle premesse che egli stesso pone, e che i passaggi motivazionali dell’ordinanza di rimessione si allontanino alquanto dalle indicazioni ricavabili dalla costante giurisprudenza di questa Corte, a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007.

Nell’attività interpretativa che gli spetta ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost., il giudice comune ha il dovere di evitare violazioni della Convenzione europea e di applicarne le disposizioni, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte EDU, specie quando il caso sia riconducibile a precedenti di quest’ultima (sentenze n. 68 del 2017, n. 276 e n. 36 del 2016). In tale attività, egli incontra, tuttavia, il limite costituito dalla presenza di una legislazione interna di contenuto contrario alla CEDU: in un caso del genere – verificata l’impraticabilità di una interpretazione in senso convenzionalmente conforme, e non potendo disapplicare la norma interna, né farne applicazione, avendola ritenuta in contrasto con la Convenzione e, pertanto, con la Costituzione, alla luce di quanto disposto dall’art. 117, primo comma, Cost. – deve sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna, per violazione di tale parametro costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 150 del 2015, n. 264 del 2012, n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 e n. 239 del 2009).

Nel caso in esame, il giudice a quo, invece, prende atto, in primo luogo, del tenore testuale di una legge nazionale alla quale egli stesso riconosce esplicitamente di non poter riferire il principio costituzionale di irretroattività di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. Al tempo stesso, ritiene che tale inapplicabilità non discenda che dalla formale "autoqualificazione” legislativa (la legge definisce amministrativa la sanzione), la quale risulterebbe smentita alla luce dei criteri Engel elaborati dalla Corte di Strasburgo, che di quella sanzione metterebbero in luce i caratteri sostanzialmente penali.

Il rimettente, dunque, utilizza i criteri Engel, sia per sottolineare la "vera” natura della sanzione, sia per dimostrare l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., della disposizione che sancisce l’applicazione retroattiva della sanzione stessa.

L’elaborazione dei criteri in parola, come noto, è servita alla Corte EDU per evitare la cosiddetta "truffa delle etichette”, cioè per scongiurare che i processi di decriminalizzazione avviati da alcuni Stati aderenti avessero l’effetto di sottrarre gli illeciti, così depenalizzati, alle garanzie sostanziali assicurate dalla CEDU. In tal senso – e a questi specifici fini: applicare le garanzie convenzionali – la Corte di Strasburgo ha potuto di volta in volta ritenere non decisiva la qualificazione in termini di sanzione amministrativa attribuita dai legislatori interni a determinate disposizioni.

Di significato del tutto diverso risulta il passaggio argomentativo dell’ordinanza di rimessione. Il giudice a quo, infatti, svilisce l’"autoqualificazione legislativa” della sanzione come puramente nominale e, così facendo, trascura un preciso dato testuale, parte di una complessiva e discrezionale scelta legislativa di depenalizzazione. In questa prospettiva, utilizza la giurisprudenza della Corte di Strasburgo per ricondurre nuovamente l’illecito amministrativo nel campo "sostanzialmente penale”, allo scopo di ottenere l’applicazione, ad esso, dei presidii che la Costituzione italiana assicura alle sanzioni (formalmente) penali: l’art. 25, secondo comma, Cost. (nel suo complessivo significato) ed anche l’art. 27 Cost. (la cui pertinenza esclusiva alle sanzioni propriamente penali è, peraltro, affermata dalla costante giurisprudenza di questa Corte: sentenze n. 281 del 2013 e n. 487 del 1989; ordinanze n. 125 del 2008, n. 434 del 2007, n. 319 del 2002, n. 33 del 2001 e n. 159 del 1994).

Il rimettente, in altre parole, non ricorre ai criteri Engel per estendere alla sanzione formalmente amministrativa (ma "sostanzialmente penale” per la CEDU, nell’interpretazione della Corte di Strasburgo) le sole garanzie convenzionali – ed in particolare quelle enucleate dall’art. 7 della CEDU – in via interpretativa (se ciò gli fosse consentito dalla lettera della legge), ovvero sollevando una questione di legittimità costituzionale della disposizione di legge per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.

Neppure sostiene con franchezza, alla luce del carattere punitivo-afflittivo che accomuna le pene in senso stretto alle sanzioni amministrative – carattere pur riconosciuto, talvolta, da questa Corte (sentenze n. 276 del 2016, n. 104 del 2014 e n. 196 del 2010) – che l’art. 25, secondo comma, Cost., in virtù della sua ampia formulazione («Nessuno può essere punito […]»), dovrebbe applicarsi non solo alle prime, ma anche alle seconde, fungendo, in tal caso, i criteri Engel da mero supporto argomentativo per integrare il significato del parametro costituzionale interno, in vista dell’allargamento della sua sfera di operatività: giacché, come si è visto, egli muove dalla contraria premessa che alle sanzioni amministrative l’art. 25, secondo comma, Cost. non si applichi.

Segue invece un terzo percorso, intrinsecamente contraddittorio, in quanto risultante dalla commistione tra premesse peculiari del primo itinerario interpretativo e conclusioni attese solo all’esito del secondo: la riqualificazione sostanziale dell’illecito viene a sortire l’effetto – di valenza para-legislativa – di ri-trasformare in penale una sanzione espressamente qualificata come amministrativa dal legislatore nazionale, consentendo l’invocazione dei parametri costituzionali interni, dallo stesso rimettente riferiti alla sola pena in senso stretto.

In tal modo, il giudice a quo intende ottenere l’allargamento dell’area di ciò che è penalmente rilevante: ma nella sentenza n. 49 del 2015 questa Corte ha già escluso la correttezza dell’assunto secondo cui l’illecito amministrativo, che il legislatore distingue con ampia discrezionalità dal reato (sentenze n. 43 del 2017 e n. 193 del 2016), appena sia tale da corrispondere, in forza della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ai criteri Engel di qualificazione della "pena”, subirebbe l’attrazione del diritto penale dello Stato aderente, con conseguente saldatura tra il concetto di sanzione penale a livello nazionale e quello a livello europeo.

In definitiva, il giudice a quo utilizza i criteri Engel per perseguire – nella prospettiva che egli stesso privilegia – l’obiettivo dell’applicazione delle tutele predisposte dal diritto nazionale per i soli precetti e per le sole sanzioni che l’ordinamento interno considera, secondo i propri principi, espressione della potestà punitiva penale dello Stato (sentenza n. 43 del 2017). Ma tale scopo è del tutto diverso da quello che il ricorso ai criteri Engel lascerebbe attendere, cioè l’estensione alla sanzione amministrativa delle sole garanzie convenzionali, come elaborate dalla Corte di Strasburgo per la matière pénale.

Questa contraddittorietà tra premesse ed esito del percorso motivazionale seguito determina l’inammissibilità della questione.

3.2.– Inammissibili sono, altresì, le questioni sollevate con riferimento all’art. 3 Cost., articolate sotto due differenti profili.

In primo luogo, secondo il rimettente, la "clausola limitativa” di cui all’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 8 del 2016 non potrebbe operare nel caso – ricorrente nella specie – in cui il processo penale non sia stato ancora definito con sentenza (o con decreto penale) e, dunque, non sia stata ancora "inflitta” alcuna pena da convertire ai sensi dell’art. 135 cod. pen., dovendosi, dunque, necessariamente irrogare la sanzione amministrativa scegliendone l’importo tra la misura minima e quella massima, entrambe particolarmente severe, introdotte dal nuovo art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016. Posta tale premessa, il giudice a quo sostiene la violazione del principio di eguaglianza, per la disparità di trattamento fra i soggetti – tutti imputati per fatti «sotto-soglia» commessi prima dell’entrata in vigore del decreto – la cui posizione sia già stata definita con una sentenza o un decreto di condanna (non ancora irrevocabili) ed i soggetti la cui posizione, al contrario, sia ancora sub iudice al momento dell’entrata in vigore del decreto.

In secondo luogo, una violazione del principio di eguaglianza è anche ravvisata dal rimettente nel fatto che – a differenza di quanto previsto per le pene – la disposizione di cui all’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, nel contemplare il minimo ed il massimo edittale della sanzione amministrativa, «non introduce alcun istituto alternativo alla sua applicazione», che tenga conto, ad esempio, della particolare tenuità degli importi omessi ovvero di condotte riparatorie successivamente tenute dal reo, così determinandosi, per mere questioni di tempistica processuale, un differente trattamento di situazioni identiche.

Si tratta, come è evidente, di censure costruite – per entrambi i profili sopra illustrati – direttamente sulla misura della sanzione amministrativa di nuova introduzione, nonché sulla sua esecuzione, prospettata come ineluttabile.

Tuttavia, della disposizione a tal fine rilevante, ossia l’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, il giudice a quo non deve fare applicazione, tanto che essa non è stata neppure oggetto di apposita censura.

Infatti, ai sensi dell’art. 9 del d. lgs. n. 8 del 2016, gli obblighi imposti al giudice penale innanzi al quale pende un procedimento avente ad oggetto un reato depenalizzato si arrestano alla trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente per l’irrogazione della sanzione amministrativa sostitutiva di quella penale. L’applicazione dell’art. 3, comma 6 (introduttivo di tale nuova sanzione), esula pertanto dalla sfera di cognizione del suddetto giudice, per essere attratta in quella – solo eventuale (conseguente cioè all’impugnazione del provvedimento amministrativo emesso secondo la tempistica scandita dall’art. 9, comma 4, del medesimo d.lgs. n. 8 del 2016) – del giudice dell’opposizione al provvedimento sanzionatorio. Sarà quest’ultimo a verificare il corretto esercizio della potestà sanzionatoria da parte dell’autorità amministrativa competente, alla quale soltanto spetta fare applicazione della norma che prevede l’illecito e stabilisce la sanzione (per un caso analogo, ordinanza n. 423 del 2001).

Ne consegue l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza (ex plurimis, sentenza n. 31 del 2017; ordinanze n. 47 del 2016 e n. 128 del 2015).

3.3.– Per identica ragione deve essere dichiarata inammissibile, infine, la questione sollevata in riferimento all’art. 27 Cost.

Il rimettente ritiene che l’applicazione di una sanzione pecuniaria particolarmente incisiva e pregiudizievole per gli interessi economici del condannato, come quella contemplata dall’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, se operata retroattivamente e, dunque, senza che la sanzione stessa fosse conosciuta dal reo al momento della sua azione, verrebbe percepita come un abuso da parte dello Stato, in violazione del principio per cui la sanzione afflittiva deve tendere alla rieducazione del condannato.

Anche in tal caso, la questione di legittimità costituzionale si appunta sulla misura della sanzione, dettata dall’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, disposizione che, tuttavia, non è stata oggetto di censura e che, del resto, il giudice a quo non è chiamato ad applicare, per i motivi in precedenza illustrati.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8, commi 1 e 3, e 9 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Varese, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 aprile 2017.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 maggio 2017.