SENTENZA N. 109
ANNO 2017
Commenti alla
decisione di
I. Francesco Viganò, Una nuova pronuncia della Consulta
sull’irretroattività delle sanzioni amministrative, per g. c. di Diritto Penale
Contemporaneo
II. Irene Pellizzone, Garanzie costituzionali e convenzionali della
materia penale: osmosi o autonomia?, per g. c. di Diritto Penale Contemporaneo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
-
Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
-
Giancarlo CORAGGIO ”
-
Giuliano AMATO ”
-
Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
-
Nicolò ZANON ”
-
Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
-
Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli
artt. 8, commi 1 e 3, e 9 del decreto
legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione,
a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67),
promosso dal Tribunale ordinario di Varese, con ordinanza del
9 febbraio 2016, iscritta al n. 90 del registro ordinanze 2016 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visto l’atto di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nella camera
di consiglio del 5 aprile 2017 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
Ritenuto in
fatto
1.– Il Tribunale ordinario di Varese,
con ordinanza del 9 febbraio 2016 (r.o. n. 90 del 2016), ha sollevato, in
riferimento agli artt.
3, 25, secondo
comma, e 27 della
Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8, commi
1 e 3, e 9 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in
materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28
aprile 2014, n. 67).
2.– Il rimettente riferisce che, nel
procedimento penale sottoposto alla sua cognizione, E.F. risulta imputata per
«il reato di cui agli articoli 81 cpv. c. p. e 2 comma 1 bis» del decreto-legge
12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria
e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della
pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito con
modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 1983, n. 638,
poiché, in qualità di legale rappresentante della "F.E. Pizzeria La Svolta” di
Somma Lombardo, «con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso ed
in tempi diversi, ometteva di effettuare nei termini di legge il versamento
della somma complessiva di € 177,00 relativa al periodo compreso tra il mese di
agosto 2008 e febbraio 2009, trattenuta a titolo di ritenute previdenziali ed
assistenziali sulla retribuzione dei dipendenti dell’azienda».
Riferisce altresì che il delitto
contestato all’imputata, nelle sole ipotesi in cui l’importo omesso non sia
superiore ad euro 10.000 per ogni annualità, è stato oggetto di
depenalizzazione e contestuale trasformazione in illecito amministrativo, ai
sensi dell’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016 (entrato in vigore in data
6 febbraio 2016). Le relative condotte sono ora punite con l’applicazione della
sanzione amministrativa pecuniaria da un minimo di euro 10.000 ad un massimo di
euro 50.000.
Il giudice a quo evidenzia che l’art. 8 del d.lgs. n. 8 del 2016 prevede
l’applicabilità delle sanzioni amministrative «anche alle violazioni commesse
anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso, sempre che il
procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti
irrevocabili» (comma 1) e che «[a]i fatti commessi prima della data di entrata
in vigore del presente decreto non può essere applicata una sanzione
amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena
originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio
di cui all’art. 135 del codice penale» (comma 3). Ricorda, altresì, che l’art.
9 del d.lgs. n. 8 del 2016 impone al giudice penale, nei casi di cui al
precedente art. 8, comma 1, la trasmissione (entro novanta giorni dall’entrata
in vigore del decreto), all’autorità amministrativa competente all’irrogazione
della sanzione amministrativa, degli atti relativi ai procedimenti penali
riguardanti reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato,
alla medesima data, risulti prescritto o estinto per altra causa.
Tanto premesso, solleva questioni di
legittimità costituzionale: dell’art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016,
nella parte in cui prevede l’applicazione della sanzione amministrativa
pecuniaria di cui all’art. 3, comma 6, del medesimo d.lgs. n. 8 del 2016, ai
fatti di cui all’art. 2, comma 1-bis,
del d.l. n. 463 del 1983, anche se commessi prima dell’entrata in vigore del
decreto che ne ha disposto la trasformazione in illeciti amministrativi;
dell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 8 del 2016, nella parte in cui prevede che,
per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore di tale decreto, la sanzione amministrativa pecuniaria
applicabile non possa essere superiore al massimo della pena originariamente
inflitta per il reato; dell’art. 9 del d.lgs. n. 8 del 2016, nella parte in cui
impone al giudice penale la trasmissione all’autorità amministrativa,
competente ad applicare la sanzione amministrativa pecuniaria, degli atti
relativi ai procedimenti penali riguardanti reati trasformati in illeciti
amministrativi, salvo che il reato, alla medesima data, risulti prescritto o
estinto per altra causa.
Tutte le questioni sono sollevate per
contrasto con i principi di legalità e irretroattività della pena, di cui
all’art. 25, secondo comma, Cost., con il principio di colpevolezza, di cui
all’art. 27 Cost., e con il principio di uguaglianza, di cui all’art. 3 Cost.
2.1.– In punto di non manifesta
infondatezza, il giudice a quo
ricorda che l’art. 2, comma 1-bis,
del d.l. n. 463 del 1983, prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 8 del
2016, sanzionava con la pena della reclusione sino a tre anni e della multa
sino ad euro 1.032,91 il datore di lavoro che ometteva di versare le ritenute
previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori
dipendenti.
Con il citato art. 3, comma 6, del
d.lgs. n. 8 del 2016, il legislatore ha introdotto una soglia di punibilità per
il delitto in questione, che costituisce tuttora reato solo laddove l’importo
omesso – per singole annualità – risulti superiore ad euro 10.000 (nel qual
caso è ancora prevista la pena della reclusione fino a tre anni e della multa
sino ad euro 1.032), mentre è stato trasformato in illecito amministrativo
nelle ipotesi in cui l’importo omesso non superi il limite-soglia indicato,
prevedendosi l’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria da euro
10.000 ad euro 50.000, anche per le condotte tenute anteriormente alla
depenalizzazione.
Ciò posto, il rimettente sottolinea,
come premessa del suo ragionamento, che il principio di irretroattività di cui
all’art. 25, secondo comma, Cost. trova applicazione esclusivamente per le
norme penali e le pene da queste contemplate, per le quali risulta dunque
inderogabile, mentre per le sanzioni amministrative l’operatività del principio
è assicurata dall’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al
sistema penale), che può ben essere derogato da una legge ordinaria posteriore
che preveda espressamente l’applicazione retroattiva di una sanzione
amministrativa.
Ricorda, tuttavia, che, secondo la
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti:
Corte EDU), le nozioni di «sanzione penale» e di «sanzione amministrativa» non
possono essere desunte, semplicemente, dal nomen iuris utilizzato dal legislatore, né
dall’autorità chiamata ad applicarla, ma devono, al contrario, essere ricavate
in concreto, tenuto conto delle finalità e della portata del precetto
sanzionatorio di volta in volta contemplato.
Il giudice a quo evidenzia che, secondo la giurisprudenza della Corte EDU – di
cui vengono diffusamente richiamate le pronunce concernenti la legittimità «del
sistema sanzionatorio italiano del cosiddetto "doppio binario”», in relazione
agli illeciti fiscali e tributari (è, in particolare, ampiamente illustrata la sentenza del 4 marzo 2014
nella causa Grande Stevens e altri contro Italia) – l’individuazione di una
sanzione come «amministrativa» o «penale» non può dipendere unicamente dalla
qualificazione ad essa attribuita dal legislatore né dalla natura dell’organo
chiamato ad applicarla, dovendosi, al contrario, avere riguardo ad una serie di
indici presuntivi, in presenza dei quali la sanzione – pur se formalmente
qualificata come «amministrativa» – assume, a tutti gli effetti, la natura, lo
scopo e le funzioni di una vera e propria pena: tra tali indici, il rimettente
ricorda la «rilevante severità» della sanzione, «l’importo elevato in concreto
inflitto e in astratto comminabile», la presenza di sanzioni accessorie
collegate, e le ripercussioni complessive sugli interessi del condannato. In
presenza di tali indici, le sanzioni amministrative, proprio per l’elevata
afflittività nei confronti del condannato, rivestirebbero uno scopo chiaramente
repressivo e preventivo, che si affianca a quello riparatorio dei pregiudizi di
natura finanziaria cagionati dalla condotta, potendosi considerare, così,
sostanzialmente di natura penale.
Secondo il giudice a quo, analoghe argomentazioni sosterrebbero la qualificazione in
termini di pena della sanzione amministrativa attualmente prevista per le
violazioni di cui all’art. 2, comma 1-bis,
del d.l. n. 463 del 1983, laddove l’omesso versamento non superi il
limite-soglia di euro 10.000.
A tal proposito, evidenzia il rimettente
come la sanzione introdotta per le violazioni «sotto-soglia» contempli il
pagamento di una somma ricompresa tra euro 10.000 ed euro 50.000, con un minimo
edittale, dunque, superiore al massimo della pena pecuniaria prevista per le
violazioni superiori alla soglia di punibilità costituenti ancora reato (pari
alla multa fino ad euro 1.032). Anche in tal caso, ricorrerebbero i medesimi
indici che la Corte EDU ha elaborato per attribuire alle sanzioni
«nominalmente» amministrative la natura sostanziale di sanzioni penali.
In particolare, il giudice a quo rileva che «il complesso di norme
di cui agli artt. 3 co. 6, 8 co. 1 e 3 e 9» del d.lgs. n. 8 del 2016, nel
prevedere l’applicazione della sanzione amministrativa anzidetta e la
trasmissione degli atti del processo penale all’autorità amministrativa
competente, non detta alcun criterio per ancorare la quantificazione della
sanzione da applicare al danno effettivo cagionato agli enti di previdenza e di
assistenza, sicché «la determinazione del quantum
di sanzione concretamente irrogabile sarà operata dall’Ente applicatore», in
parte in relazione al danno effettivo, in parte in relazione alla gravità della
condotta (omissiva), e dunque secondo criteri valutativi tipici del giudizio
penale. Nel caso in esame, a fronte di un omesso versamento estremamente
contenuto (pari a euro 177) dovrebbe trovare applicazione, a giudizio del
rimettente, la sanzione amministrativa minima (pari ad euro 10.000),
evidenziandosi, in tal modo, a fronte di un danno «oggettivamente irrisorio»
cagionato all’ente previdenziale, la funzione esclusivamente repressiva della
sanzione, come tale idonea a rivelare la natura, le conseguenze e le finalità
di una vera e propria pena.
Tutto ciò premesso, il giudice a quo ritiene che, anche con riferimento
all’anzidetta sanzione, a suo giudizio solo formalmente amministrativa, ma di
fatto penale, debbano trovare applicazione i principi di legalità e di
irretroattività delle sanzioni penali (in senso sostanziale) costituzionalmente
sanciti dall’art. 25 Cost.: un’applicazione della sanzione amministrativa in
esame anche ai fatti di omesso versamento (sotto-soglia) posti in essere prima
dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 8 del 2016 (ossia prima del 6 febbraio
2016), avrebbe la conseguenza – nella prospettazione del rimettente
«assolutamente abnorme e contraria ai principi fondanti del nostro ordinamento
giuridico» – di esporre «il condannato in via amministrativa (ex imputato)» a conseguenze estremamente
pregiudizievoli per i propri interessi economici (tenuto conto degli importi
elevati della sanzione amministrativa, in particolare per quanto riguarda il
minimo edittale), senza che questi abbia avuto la possibilità di conoscere tali
conseguenze prima della propria omissione. In tal modo, sarebbe frustrata la
tutela apprestata dall’art. 25, secondo comma, Cost., che garantisce ad ogni
persona «la prerogativa (finanche il diritto) di sapere in anticipo quali
comportamenti costituiscono un fatto penalmente rilevante, a quale
comportamento fa seguito l’applicazione di una pena (in senso sostanziale),
nonché quale tipo di pena – ed in che misura – potrà essere inflitta». Tutela
che impedisce, altresì, che un individuo «sia punito (personalmente o a livello
patrimoniale)» per fatti che, al momento della commissione, non erano
contemplati come reato o erano puniti con pene che, per tipologia e misura, non
erano espressamente stabilite.
A tal proposito, il giudice rimettente
evidenzia che, nel caso di specie, il datore di lavoro che abbia omesso di
versare le ritenute previdenziali ed assistenziali prima dell’entrata in vigore
del d.lgs. n. 8 del 2016 e per importi complessivi estremamente contenuti, «non
può che essersi prospettato conseguenze sanzionatorie (ancorché a livello
penale) comunque limitatamente afflittive», anche in considerazione dei
numerosi istituti penali sostanziali che, in sede di cognizione o di
esecuzione, consentono, comunque, di evitare – in concreto – l’esecuzione di
una pena o, comunque, di mitigarne le conseguenze (vengono citati, a titolo di
esempio, i benefici della sospensione condizionale della pena, della
conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, della possibilità di
assoluzione per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod.
pen., della possibilità di chiedere la sospensione del procedimento con messa
alla prova).
Secondo il giudice a quo, ulteriore profilo di incostituzionalità risiederebbe nella
portata solo apparentemente favorevole del criterio previsto dall’art. 8, comma
3, del d.lgs. n. 8 del 2016, volto a limitare la portata afflittiva della
sanzione amministrativa nella parte in cui esclude che essa possa essere
irrogata in misura superiore al massimo della pena «originariamente inflitta
per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’articolo 135
del codice penale». Infatti, la norma nulla disporrebbe per le ipotesi in cui –
come appunto nel caso di specie – il processo penale non sia stato ancora
definito con sentenza (o con decreto penale) e, dunque, non sia stata ancora
inflitta alcuna pena per il reato. In tali casi, l’art. 9 del d.lgs. n. 8 del 2016
impone al giudice di pronunciare sentenza inappellabile perché il fatto non è
previsto dalla legge come reato e di disporre la trasmissione degli atti
all’autorità amministrativa competente. Quest’ultima, non avendo alcuna pena
originariamente inflitta cui fare riferimento (e da convertire ex art. 135 cod. pen.), dovrebbe
necessariamente – sebbene lo stesso giudice a
quo riconosca che, sul punto, la disposizione sia «ambigua ed estremamente
fumosa» – determinare la sanzione amministrativa da applicare all’interno della
forbice edittale fissata dall’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, che
oscilla da un minimo di euro 10.000 ad un massimo di euro 50.000, a meno di
ritenere che il legislatore abbia inteso riferirsi non già alla pena «inflitta»
dal giudice in concreto (con sentenza o decreto), bensì a quella «prevista»,
«contemplata» o «comminata» in astratto dalla norma penale incriminatrice
originaria. Tale ultima interpretazione viene tuttavia scartata dal giudice
rimettente, poiché foriera «di un ulteriore profilo di assoluta
irragionevolezza, illogicità e contraddittorietà»: il massimo della pena
originariamente prevista in astratto per il reato prima della depenalizzazione,
ragguagliata ai sensi dell’art. 135 cod. pen., e con l’aggiunta della multa
pari ad euro 1.032, potrebbe raggiungere l’importo di euro 274.782, addirittura
superiore al massimo della sanzione amministrativa applicabile in base alla
nuova formulazione della norma (pari ad euro 50.000). Ciò determinerebbe una
violazione del principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., per disparità
di trattamento fra i soggetti – tutti imputati per fatti «sotto-soglia»
commessi prima dell’entrata in vigore del decreto – la cui posizione sia già
stata definita con una sentenza o un decreto di condanna (non ancora divenuta
irrevocabile) ed i soggetti la cui posizione, al contrario, sia ancora pendente
al momento dell’entrata in vigore, del decreto: nella prospettazione del
rimettente, infatti, per i primi, la sanzione amministrativa pecuniaria applicabile
dovrà essere commisurata alla pena originariamente inflitta, secondo i criteri
di ragguaglio di cui all’art. 135 cod. pen.; per i secondi, invece, la sanzione
«(nel silenzio della legge)» non potrà che essere determinata nei termini della
cornice edittale di cui all’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016 (ossia da
un minimo di euro 10.000 ad un massimo di euro 50.000), risultando, in tal
modo, decisamente più afflittiva e pregiudizievole per gli interessi
(economici) del condannato.
Ulteriore profilo di illegittimità
costituzionale, ancora una volta per violazione del principio di eguaglianza di
cui all’art. 3 Cost., è ravvisato dal giudice a quo nel fatto che – a differenza di quanto previsto per le pene –
la disposizione di cui all’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, nel
contemplare il minimo ed il massimo edittale della sanzione amministrativa,
«non introduce alcun istituto alternativo alla sua applicazione», che tenga
conto, ad esempio, della particolare tenuità degli importi omessi ovvero di
condotte riparatorie successivamente tenute dal reo. Si determinerebbe così un
differente trattamento per colui che, pur avendo omesso di versare le ritenute
previdenziali prima dell’entrata in vigore del decreto, abbia già ottenuto la
pronuncia di una sentenza definitoria del giudizio – eventualmente beneficiando
di istituti alternativi alla pena che possono, di fatto, azzerare le
conseguenze pregiudizievoli della condotta (quali, ad esempio, l’assoluzione
per particolare tenuità del fatto o la sospensione condizionale della pena) –
rispetto ai soggetti, la cui posizione, per questioni di mera tempistica
processuale, non sia stata definita prima dell’entrata in vigore del decreto e
che non hanno alcuna possibilità di sottrarsi all’applicazione della sanzione
amministrativa.
2.2.– Quanto alla rilevanza delle
questioni sollevate, il giudice a quo,
alla luce dei fatti come contestati nel capo di imputazione, sostiene che «[l]e
norme di cui al recente d.lgs. n.˚ 8/2016 (in particolare, l’art. 8, commi
1 e 3 e l’art. 9 di cui si chiede la declaratoria d’incostituzionalità) trovano
necessariamente applicazione anche al fatto concreto, non essendo stati
pronunciati sentenza o decreto divenuti irrevocabili, né essendo il reato
contestato all’imputata estinto per prescrizione o per altre cause», sicché il
rimettente, proprio sulla base delle disposizioni anzidette, non potrebbe «che
essere tenuto alla trasmissione degli atti all’autorità amministrativa
competente, affinché provveda all’applicazione della sanzione amministrativa
accessoria».
Aggiunge, poi, che, atteso l’importo
esiguo non versato e la condizione di incensurata riconoscibile all’imputata,
quest’ultima, in caso di eventuale condanna in sede penale, avrebbe
«ragionevolmente» potuto beneficiare di istituti volti ad evitare – in concreto
– l’esecuzione della pena (in particolare, della sospensione condizionale) o,
ancor prima, addirittura essere assolta, all’esito del giudizio di merito, in
applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto,
ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.,
istituti – entrambi – non contemplati con riferimento alla sanzione
amministrativa pecuniaria.
L’applicazione retroattiva di una
sanzione pecuniaria di importo estremamente elevato sarebbe, nel caso di
specie, del tutto sproporzionata, sia rispetto al versamento omesso (pari ad
euro 177), sia rispetto al danno concretamente subito dall’ente previdenziale,
e non consentirebbe all’imputata di comprendere l’effettivo disvalore della
propria condotta, dal momento che la stessa avrebbe la percezione di essere
punita con una «"multa” (come si è soliti dire, nel linguaggio comune)
assolutamente abnorme», la cui possibile applicazione non poteva esserle nota
al momento della commissione del fatto (a cavallo degli anni 2008 e 2009) e la
cui irrogazione «sarebbe sentita come un vero e proprio sopruso da parte dello
Stato, volta semplicemente a "fare cassa”» e non già alla realizzazione di
un’effettiva finalità rieducativa, con una palese violazione (anche) del principio
di colpevolezza, di cui all’art. 27 Cost. L’applicazione di una sanzione
pecuniaria (formalmente amministrativa ma, di fatto, sostanzialmente penale)
particolarmente incisiva e pregiudizievole per gli interessi economici del
condannato, come quella contemplata dall’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del
2016, se operata retroattivamente e, dunque, senza che la sanzione stessa fosse
conosciuta dal reo al momento della sua azione, verrebbe percepita come un
abuso ed un’ingiustizia da parte dello Stato. Come tale, osterebbe – ed, anzi,
addirittura si contrapporrebbe – al principio per cui la pena (intesa in senso sostanziale) deve tendere
alla rieducazione del condannato, e non consentirebbe al reo di comprendere il
disvalore della propria condotta.
3.– Nel giudizio è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, sostenendo l’infondatezza delle questioni di legittimità
costituzionale.
Secondo la difesa statale, non potrebbe
esservi dubbio sul fatto che la sanzione astrattamente stabilita per le ipotesi
sottostanti la soglia dei 10.000 euro sia meno grave, non solo formalmente,
considerata la natura amministrativa dell’illecito, ma anche sostanzialmente,
trattandosi di sanzione pecuniaria. In secondo luogo, l’Avvocatura generale
dello Stato rileva che il legislatore, procedendo alla depenalizzazione, si
sarebbe adeguato all’orientamento della Corte costituzionale (sono citate le sentenze n. 196 del
2010 e n.
104 del 2014), secondo il quale, nell’ambito della depenalizzazione di
reati "degradati” a illeciti amministrativi, si dà luogo ad una vicenda di successione
di leggi, nella quale deve trovare attuazione il principio di retroattività in mitius,
appunto pienamente realizzato dall’applicazione retroattiva delle più
favorevoli sanzioni amministrative, in luogo di quelle originariamente penali.
Le disposizioni censurate, ad avviso
dell’interveniente, sarebbero del tutto conformi ai principi di legalità e
irretroattività, nonché di uguaglianza, anche perché la previsione di limiti
alla sanzione amministrativa, strettamente ancorati ai massimi edittali fissati
per la pena originariamente prevista per il reato, consentirebbe di escludere
la violazione del principio di colpevolezza, data la piena conoscibilità da
parte dell’interessato, sin dalla commissione del fatto, della fattispecie
anche sotto il profilo sanzionatorio, risultando così rispettata la libertà di
autodeterminazione individuale.
Secondo l’Avvocatura generale dello
Stato, peraltro, non sarebbe sufficientemente motivata la questione sollevata
in relazione alla prospettata impossibilità per l’imputato, una volta
intervenuta la depenalizzazione, di accedere ai benefici che consentono di
evitare l’esecuzione della pena (quali la sospensione condizionale e la non
punibilità per particolare tenuità del fatto): rileva l’interveniente, infatti,
che il giudice si sarebbe riferito alla «ragionevole possibilità» per
l’interessato di beneficiare dei suddetti istituti, senza che siano stati
forniti, tuttavia, gli elementi necessari a descrivere la fattispecie concreta,
onde valutare la rilevanza della questione nel giudizio principale. Più
precisamente, il giudice avrebbe omesso di specificare se nella fattispecie
sottoposta al suo vaglio sussistano i presupposti richiesti dall’ordinamento
per l’applicazione degli istituti «ragionevolmente» adottabili, così compromettendo
il doveroso preliminare controllo sulla rilevanza della questione che la Corte
costituzionale è chiamata ad effettuare.
Inoltre, mentre il principio
d’irretroattività della legge penale è espressamente tutelato dall’art. 25
Cost., quale presidio di garanzia contro l’arbitrio del legislatore e della
libertà di autodeterminazione, il principio di retroattività in mitius, non
presentando alcun collegamento con detta libertà, dato che la norma più
favorevole sopravviene alla commissione del fatto, trova fondamento nel
principio di uguaglianza. Il collegamento con l’art. 3 Cost. giustificherebbe
la minor forza del principio di retroattività della norma più favorevole, il
quale, a differenza di quello di irretroattività della legge penale, è suscettibile
di deroghe «legittime sul piano costituzionale ove sorrette da giustificazioni
oggettivamente ragionevoli» (viene citata la sentenza n. 394 del
2006). Nel caso in esame, la finalità perseguita dalla riforma, di
deflazionare il sistema penale mediante la depenalizzazione di un cospicuo
numero di reati in vista della maggior efficienza della giurisdizione e
nell’interesse dell’intera collettività, in ragione di pregnanti esigenze economiche
e sociali, giustificherebbe, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, il
diverso trattamento tra chi è oggi punito in via amministrativa e chi, per il
medesimo fatto, è stato condannato in sede penale.
Considerato
in diritto
1.– Nel corso di un giudizio penale
avente ad oggetto il delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali
e assistenziali previsto dall’art. 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in
materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica,
disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di
taluni termini), convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge
11 novembre 1983, n. 638, il Tribunale ordinario di Varese solleva, in riferimento
agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27 della Costituzione, questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 8, commi 1 e 3, e 9 del decreto
legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione,
a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67).
2.– Oggetto delle questioni sono alcune
disposizioni del d.lgs. n. 8 del 2016, che, in attuazione della delega
contenuta nella legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di
pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio.
Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e
nei confronti degli irreperibili), ha provveduto a sostituire con sanzioni
amministrative pecuniarie e sanzioni amministrative accessorie le pene previste
per una serie di reati. Sulla base, tra l’altro, di un criterio di
depenalizzazione "nominativa”, riferito a specifiche fattispecie delittuose e
contravvenzionali, sia contenute nel codice penale che in leggi speciali,
l’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, stabilisce la trasformazione in
illecito amministrativo del delitto di omesso versamento delle ritenute
previdenziali e assistenziali, laddove – come accade nel giudizio a quo – l’importo omesso non sia
superiore ad euro 10.000 per ogni annualità. La condotta depenalizzata è ora
punita con l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria da un minimo
di euro 10.000 ad un massimo di euro 50.000.
Il giudice a quo non censura, peraltro, la disposizione appena ricordata, ma
sospetta di illegittimità costituzionale le norme (art. 8, commi 1 e 3, del
d.lgs. n. 8 del 2016) che prevedono l’applicabilità delle sanzioni
amministrative anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di
entrata in vigore del decreto legislativo di depenalizzazione, per un importo
che non può essere superiore al massimo della pena originariamente inflitta per
il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 del
codice penale.
Rileva, inoltre, l’illegittimità
costituzionale della norma (contenuta nell’art. 9 del d.lgs. n. 8 del 2016) che
impone all’autorità giudiziaria l’obbligo, entro novanta giorni dall’entrata in
vigore del decreto legislativo, di trasmettere all’autorità amministrativa
competente gli atti dei procedimenti penali trasformati in illeciti
amministrativi, salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa
alla medesima data.
Nel sollevare tali questioni di
legittimità costituzionale, il giudice a
quo aderisce esplicitamente alla tesi secondo cui il principio di
irretroattività di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. trova applicazione
esclusivamente per le norme penali e le pene da queste contemplate; ed afferma
che, per le sanzioni amministrative, la stessa regola può invece essere derogata,
in quanto prevista da una legge ordinaria (l’art. 1 della legge 24 novembre
1981, n. 689, recante «Modifiche al sistema penale»).
Richiamando diffusamente la
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti:
Corte EDU), il rimettente sostiene, tuttavia, che le nozioni di «sanzione
penale» e di «sanzione amministrativa» non possono essere desunte,
«semplicemente», dal nomen iuris
utilizzato dal legislatore, ma devono essere ricavate – in concreto – tenuto
conto delle finalità e della portata del precetto sanzionatorio di volta in
volta contemplato, alla luce di quegli indici (cosiddetti criteri Engel) che la
Corte EDU ha elaborato in relazione all’art. 7 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma
il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848
(d’ora in avanti: CEDU).
Proprio applicando i suddetti criteri
alla sanzione introdotta dall’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, il
giudice a quo giunge alla conclusione
che essa sarebbe «solo formalmente» amministrativa, in quanto, per la sua
elevata afflittività nei confronti del condannato, perseguirebbe uno scopo
chiaramente repressivo e preventivo, piuttosto che soltanto riparatorio,
dovendosi considerare, così, sostanzialmente di natura penale.
Da ciò deriverebbe la necessaria
applicazione dei principi di legalità e di irretroattività delle sanzioni
penali, sanciti dall’art. 25 Cost., con i quali contrasterebbe la retroattività
– prevista dalle disposizioni censurate – della sanzione introdotta dal d.lgs.
n. 8 del 2016.
Secondo il giudice a quo, inoltre, il criterio limitativo previsto dall’art. 8, comma
3, del d.lgs. n. 8 del 2016 (che impedisce di applicare, ai fatti commessi
prima della data di entrata in vigore della depenalizzazione, una sanzione
amministrativa pecuniaria di importo superiore al massimo della pena
originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio
di cui all’art. 135 cod. pen.) non potrebbe riferirsi alle ipotesi in cui –
come appunto nel caso di specie – il processo penale non sia stato ancora
definito con sentenza (o con decreto penale) e, dunque, non sia stata ancora
inflitta alcuna pena suscettibile di ragguaglio pecuniario: ciò provocherebbe
una disparità di trattamento, contrastante con l’art. 3 Cost., fra i soggetti
la cui posizione sia già stata definita con una sentenza o un decreto di
condanna (non ancora divenuti irrevocabili) ed i soggetti la cui posizione, al
contrario, sia ancora pendente al momento dell’entrata in vigore del decreto.
Nel raffronto tra queste due categorie
di soggetti, tutti imputati per fatti "sotto-soglia”, il rimettente ravvisa un
ulteriore profilo di illegittimità costituzionale, ancora una volta per
violazione del principio di eguaglianza. Infatti, a differenza di quanto
previsto per le pene, l’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, nel
contemplare il minimo ed il massimo edittale della sanzione amministrativa,
«non introduce alcun istituto alternativo alla sua applicazione», che tenga
conto, ad esempio, della particolare tenuità degli importi omessi ovvero di
condotte riparatorie successivamente tenute dal reo.
Infine, l’applicazione retroattiva di
una sanzione pecuniaria di importo estremamente elevato sarebbe, nel caso di
specie, del tutto sproporzionata, sia rispetto al versamento omesso (pari ad
euro 177), sia rispetto al danno concretamente subito dall’ente previdenziale,
risultandone frustrata la funzione rieducativa della pena, di cui all’art. 27
Cost.: infatti, l’applicazione di una sanzione pecuniaria particolarmente
incisiva e pregiudizievole per gli interessi economici del condannato, come
quella contemplata dall’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016 – se operata
retroattivamente e, dunque, senza che la sanzione stessa fosse conosciuta dal
reo al momento della sua azione – verrebbe percepita come un abuso da parte
dello Stato, in violazione del principio per cui la sanzione afflittiva deve
tendere alla rieducazione del condannato.
3.– Tutte le questioni di legittimità
costituzionale così sollevate sono inammissibili.
3.1.– Tale è, innanzitutto, la questione
posta in riferimento all’asserita violazione, da parte degli artt. 8, commi 1 e
3, e 9 del d.lgs. n. 8 del 2016, del principio di irretroattività di cui
all’art. 25, secondo comma, Cost.
Le norme sospettate d’illegittimità
costituzionale sono applicabili nel giudizio principale, in quanto l’obbligo –
gravante sul giudice a quo – di
disporre la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente,
previsto dall’art. 9 del citato decreto legislativo (e, in particolare, dai
commi 1 e 3, rilevanti nel caso di specie), rinviene la sua giustificazione
proprio nella retroattività delle sanzioni amministrative prevista, in
generale, dall’art. 8.
Il giudice rimettente muove
esplicitamente dalla tesi per cui il principio costituzionale di cui all’art.
25, secondo comma, Cost. si applica
«esclusivamente alle norme penali ed alle pene ivi contemplate», mentre, per le
sanzioni amministrative, il principio di irretroattività «trova fondamento in
una legge ordinaria e, come tale, ben può essere derogato da una legge
ordinaria posteriore che preveda – espressamente – l’applicazione retroattiva
di una sanzione amministrativa».
Senonché, invocando i «più recenti
innesti» della giurisprudenza europea, sostiene il giudice a quo che i concetti di sanzione penale e di sanzione
amministrativa non potrebbero desumersi, «semplicemente, dal nomen iuris
utilizzato dal legislatore, né dall’autorità chiamata ad applicarla», ma, al
contrario, dovrebbero «essere ricavati – in concreto – tenuto conto delle
finalità e della portata del precetto sanzionatorio di volta in volta
contemplato». E, in tal senso, opera ampi riferimenti alla giurisprudenza della
Corte EDU ed ai criteri Engel (identificati dal rimettente nella rilevante
severità della sanzione, nell’elevato importo di questa inflitto in concreto e
comunque astrattamente comminabile, nelle complessive ripercussioni sugli
interessi del condannato, nella finalità sicuramente repressiva), applicando i
quali la sanzione "formalmente” amministrativa di cui è questione nel giudizio a quo rivelerebbe la sua natura
"sostanzialmente” penale, richiedendo l’applicazione del principio
costituzionale di irretroattività di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., con
conseguente illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate.
A prescindere da qualsiasi
considerazione relativa al criterio casistico cui sarebbe in tal modo
consegnata l’identificazione della natura penale della sanzione (che potrebbe
porsi in problematico rapporto con l’esigenza garantistica tutelata dalla
riserva di legge di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.), conta, in questa
sede, che lo scopo perseguito dal giudice rimettente finisca per risultare
contraddittorio rispetto alle premesse che egli stesso pone, e che i passaggi
motivazionali dell’ordinanza di rimessione si allontanino alquanto dalle
indicazioni ricavabili dalla costante giurisprudenza di questa Corte, a partire
dalle sentenze
n. 348 e n.
349 del 2007.
Nell’attività interpretativa che gli
spetta ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost., il giudice comune ha il
dovere di evitare violazioni della Convenzione europea e di applicarne le
disposizioni, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte EDU,
specie quando il caso sia riconducibile a precedenti di quest’ultima (sentenze n. 68 del
2017, n. 276
e n. 36 del 2016).
In tale attività, egli incontra, tuttavia, il limite costituito dalla presenza
di una legislazione interna di contenuto contrario alla CEDU: in un caso del
genere – verificata l’impraticabilità di una interpretazione in senso
convenzionalmente conforme, e non potendo disapplicare la norma interna, né
farne applicazione, avendola ritenuta in contrasto con la Convenzione e,
pertanto, con la Costituzione, alla luce di quanto disposto dall’art. 117,
primo comma, Cost. – deve sollevare questione di legittimità costituzionale
della norma interna, per violazione di tale parametro costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 150 del
2015, n. 264
del 2012, n.
113 del 2011, n.
93 del 2010, n.
311 e n. 239
del 2009).
Nel caso in esame, il giudice a quo, invece, prende atto, in primo
luogo, del tenore testuale di una legge nazionale alla quale egli stesso
riconosce esplicitamente di non poter riferire il principio costituzionale di
irretroattività di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. Al tempo stesso,
ritiene che tale inapplicabilità non discenda che dalla formale
"autoqualificazione” legislativa (la legge definisce amministrativa la
sanzione), la quale risulterebbe smentita alla luce dei criteri Engel elaborati
dalla Corte di Strasburgo, che di quella sanzione metterebbero in luce i
caratteri sostanzialmente penali.
Il rimettente, dunque, utilizza i
criteri Engel, sia per sottolineare la "vera” natura della sanzione, sia per
dimostrare l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 25, secondo
comma, Cost., della disposizione che sancisce l’applicazione retroattiva della
sanzione stessa.
L’elaborazione dei criteri in parola,
come noto, è servita alla Corte EDU per evitare la cosiddetta "truffa delle
etichette”, cioè per scongiurare che i processi di decriminalizzazione avviati
da alcuni Stati aderenti avessero l’effetto di sottrarre gli illeciti, così
depenalizzati, alle garanzie sostanziali assicurate dalla CEDU. In tal senso –
e a questi specifici fini: applicare le garanzie convenzionali – la Corte di
Strasburgo ha potuto di volta in volta ritenere non decisiva la qualificazione
in termini di sanzione amministrativa attribuita dai legislatori interni a
determinate disposizioni.
Di significato del tutto diverso risulta
il passaggio argomentativo dell’ordinanza di rimessione. Il giudice a quo, infatti, svilisce l’"autoqualificazione legislativa” della
sanzione come puramente nominale e, così facendo, trascura un preciso dato
testuale, parte di una complessiva e discrezionale scelta legislativa di
depenalizzazione. In questa prospettiva, utilizza la giurisprudenza
della Corte di Strasburgo per ricondurre nuovamente l’illecito amministrativo
nel campo "sostanzialmente penale”, allo scopo di ottenere l’applicazione, ad
esso, dei presidii che la Costituzione italiana assicura alle sanzioni
(formalmente) penali: l’art. 25, secondo comma, Cost. (nel suo complessivo
significato) ed anche l’art. 27 Cost. (la cui pertinenza esclusiva alle
sanzioni propriamente penali è, peraltro, affermata dalla costante
giurisprudenza di questa Corte: sentenze n. 281 del
2013 e n.
487 del 1989; ordinanze
n. 125 del 2008, n. 434 del 2007,
n. 319 del 2002,
n. 33 del 2001
e n. 159 del
1994).
Il rimettente, in altre parole, non
ricorre ai criteri Engel per estendere alla sanzione formalmente amministrativa
(ma "sostanzialmente penale” per la CEDU, nell’interpretazione della Corte di
Strasburgo) le sole garanzie convenzionali – ed in particolare quelle enucleate
dall’art. 7 della CEDU – in via interpretativa (se ciò gli fosse consentito
dalla lettera della legge), ovvero sollevando una questione di legittimità
costituzionale della disposizione di legge per violazione dell’art. 117, primo
comma, Cost.
Neppure sostiene con franchezza, alla
luce del carattere punitivo-afflittivo che accomuna le pene in senso stretto
alle sanzioni amministrative – carattere pur riconosciuto, talvolta, da questa
Corte (sentenze
n. 276 del 2016, n. 104 del 2014
e n. 196 del
2010) – che l’art. 25, secondo comma, Cost., in virtù della sua ampia
formulazione («Nessuno può essere punito […]»), dovrebbe applicarsi non solo
alle prime, ma anche alle seconde, fungendo, in tal caso, i criteri Engel da
mero supporto argomentativo per integrare il significato del parametro
costituzionale interno, in vista dell’allargamento della sua sfera di
operatività: giacché, come si è visto, egli muove dalla contraria premessa che
alle sanzioni amministrative l’art. 25, secondo comma, Cost. non si applichi.
Segue invece un terzo percorso,
intrinsecamente contraddittorio, in quanto risultante dalla commistione tra
premesse peculiari del primo itinerario interpretativo e conclusioni attese
solo all’esito del secondo: la riqualificazione sostanziale dell’illecito viene
a sortire l’effetto – di valenza para-legislativa – di ri-trasformare in penale
una sanzione espressamente qualificata come amministrativa dal legislatore
nazionale, consentendo l’invocazione dei parametri costituzionali interni,
dallo stesso rimettente riferiti alla sola pena in senso stretto.
In tal modo, il giudice a quo intende ottenere l’allargamento
dell’area di ciò che è penalmente rilevante: ma nella sentenza n. 49 del
2015 questa Corte ha già escluso la correttezza dell’assunto secondo cui
l’illecito amministrativo, che il legislatore distingue con ampia
discrezionalità dal reato (sentenze n. 43 del
2017 e n.
193 del 2016), appena sia tale da corrispondere, in forza della
giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ai criteri Engel di qualificazione
della "pena”, subirebbe l’attrazione del diritto penale dello Stato aderente,
con conseguente saldatura tra il concetto di sanzione penale a livello
nazionale e quello a livello europeo.
In definitiva, il giudice a quo utilizza i criteri Engel per
perseguire – nella prospettiva che egli stesso privilegia – l’obiettivo
dell’applicazione delle tutele predisposte dal diritto nazionale per i soli
precetti e per le sole sanzioni che l’ordinamento interno considera, secondo i
propri principi, espressione della potestà punitiva penale dello Stato (sentenza n. 43 del
2017). Ma tale scopo è del tutto diverso da quello che il ricorso ai
criteri Engel lascerebbe attendere, cioè l’estensione alla sanzione amministrativa
delle sole garanzie convenzionali, come elaborate dalla Corte di Strasburgo per
la matière pénale.
Questa contraddittorietà tra premesse ed
esito del percorso motivazionale seguito determina l’inammissibilità della
questione.
3.2.– Inammissibili sono, altresì, le
questioni sollevate con riferimento all’art. 3 Cost., articolate sotto due
differenti profili.
In primo luogo, secondo il rimettente,
la "clausola limitativa” di cui all’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 8 del 2016
non potrebbe operare nel caso – ricorrente nella specie – in cui il processo
penale non sia stato ancora definito con sentenza (o con decreto penale) e,
dunque, non sia stata ancora "inflitta” alcuna pena da convertire ai sensi
dell’art. 135 cod. pen., dovendosi, dunque, necessariamente irrogare la
sanzione amministrativa scegliendone l’importo tra la misura minima e quella
massima, entrambe particolarmente severe, introdotte dal nuovo art. 3, comma 6,
del d.lgs. n. 8 del 2016. Posta tale premessa, il giudice a quo sostiene la violazione del principio di eguaglianza, per la
disparità di trattamento fra i soggetti – tutti imputati per fatti
«sotto-soglia» commessi prima dell’entrata in vigore del decreto – la cui
posizione sia già stata definita con una sentenza o un decreto di condanna (non
ancora irrevocabili) ed i soggetti la cui posizione, al contrario, sia ancora sub iudice al momento dell’entrata in
vigore del decreto.
In secondo luogo, una violazione del
principio di eguaglianza è anche ravvisata dal rimettente nel fatto che – a
differenza di quanto previsto per le pene – la disposizione di cui all’art. 3,
comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, nel contemplare il minimo ed il massimo
edittale della sanzione amministrativa, «non introduce alcun istituto
alternativo alla sua applicazione», che tenga conto, ad esempio, della
particolare tenuità degli importi omessi ovvero di condotte riparatorie
successivamente tenute dal reo, così determinandosi, per mere questioni di
tempistica processuale, un differente trattamento di situazioni identiche.
Si tratta, come è evidente, di censure
costruite – per entrambi i profili sopra illustrati – direttamente sulla misura
della sanzione amministrativa di nuova introduzione, nonché sulla sua
esecuzione, prospettata come ineluttabile.
Tuttavia, della disposizione a tal fine
rilevante, ossia l’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, il giudice a quo non deve fare applicazione, tanto
che essa non è stata neppure oggetto di apposita censura.
Infatti, ai sensi dell’art. 9 del d. lgs. n. 8 del 2016, gli obblighi imposti al giudice penale
innanzi al quale pende un procedimento avente ad oggetto un reato depenalizzato
si arrestano alla trasmissione degli atti all’autorità amministrativa
competente per l’irrogazione della sanzione amministrativa sostitutiva di
quella penale. L’applicazione dell’art. 3, comma 6 (introduttivo di tale nuova
sanzione), esula pertanto dalla sfera di cognizione del suddetto giudice, per
essere attratta in quella – solo eventuale (conseguente cioè all’impugnazione
del provvedimento amministrativo emesso secondo la tempistica scandita
dall’art. 9, comma 4, del medesimo d.lgs. n. 8 del 2016) – del giudice
dell’opposizione al provvedimento sanzionatorio. Sarà quest’ultimo a verificare
il corretto esercizio della potestà sanzionatoria da parte dell’autorità
amministrativa competente, alla quale soltanto spetta fare applicazione della
norma che prevede l’illecito e stabilisce la sanzione (per un caso analogo, ordinanza n. 423
del 2001).
Ne consegue l’inammissibilità delle
questioni per difetto di rilevanza (ex plurimis, sentenza n. 31 del
2017; ordinanze
n. 47 del 2016 e n. 128 del 2015).
3.3.– Per identica ragione deve essere
dichiarata inammissibile, infine, la questione sollevata in riferimento all’art.
27 Cost.
Il rimettente ritiene che l’applicazione
di una sanzione pecuniaria particolarmente incisiva e pregiudizievole per gli
interessi economici del condannato, come quella contemplata dall’art. 3, comma
6, del d.lgs. n. 8 del 2016, se operata retroattivamente e, dunque, senza che
la sanzione stessa fosse conosciuta dal reo al momento della sua azione,
verrebbe percepita come un abuso da parte dello Stato, in violazione del
principio per cui la sanzione afflittiva deve tendere alla rieducazione del
condannato.
Anche in tal caso, la questione di
legittimità costituzionale si appunta sulla misura della sanzione, dettata
dall’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 8 del 2016, disposizione che, tuttavia, non
è stata oggetto di censura e che, del resto, il giudice a quo non è chiamato ad applicare, per i motivi in precedenza
illustrati.
per questi
motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8, commi 1 e 3, e
9 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di
depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014,
n. 67), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27 della
Costituzione, dal Tribunale ordinario di Varese, con l’ordinanza indicata in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 aprile 2017.
F.to:
Paolo
GROSSI, Presidente
Nicolò
ZANON, Redattore
Roberto
MILANA, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria l'11 maggio 2017.