Sentenza n. 115 del 2019

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SENTENZA N. 115

ANNO 2019

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 98, comma 9, del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), come modificato dall’art. 2, comma 136, lettera d), del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2006, n. 286, promosso dal Tribunale ordinario di Livorno, nel procedimento vertente tra Ali Liaqad, titolare dell’impresa individuale Al Hamza di Ali Liaqad, e il Ministero dello sviluppo economico - Ispettorato territoriale della Toscana, con ordinanza del 13 aprile 2018, iscritta al n. 155 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 20 marzo 2019 il Giudice relatore Daria de Pretis.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 13 aprile 2018, iscritta al n. 155 reg. ord. 2018, il Tribunale ordinario di Livorno ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 98, comma 9, del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), come modificato dall’art. 2, comma 136, lettera d), del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2006, n. 286, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione.

Le questioni sono sorte nel corso di un giudizio di opposizione a ordinanza-ingiunzione promosso da un imprenditore individuale nei confronti del Ministero dello sviluppo economico - Ispettorato territoriale della Toscana.

Il rimettente riferisce che all’opponente – titolare di un piccolo esercizio di fornitura al pubblico di servizi di comunicazione elettronica, privo di dipendenti e con un fatturato estremamente ridotto – è stata irrogata la sanzione amministrativa di 30.000 euro, pari al doppio del minimo edittale previsto dalla norma censurata, per non avere comunicato all’amministrazione, entro i termini assegnati, le informazioni necessarie per conseguire l’autorizzazione all’offerta al pubblico «in luoghi presidiati del servizio di “phone center”».

L’art. 98, comma 9, cod. comunicazioni elettroniche, nel testo modificato dall’art. 2, comma 136, lettera d), del d.l. n. 262 del 2006, stabilisce che «ai soggetti che non provvedono, nei termini e con le modalità prescritti, alla comunicazione dei documenti, dei dati e delle notizie richiesti dal Ministero [dello sviluppo economico] o dall’Autorità [per le garanzie nelle comunicazioni], gli stessi, secondo le rispettive competenze, comminano una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 15.000,00 ad euro 1.150.000,00».

Ad avviso del rimettente, con tali modifiche il legislatore avrebbe irragionevolmente elevato gli importi minimi e massimi della sanzione, decuplicandoli rispetto alle misure originarie (1.500 euro nel minimo e 115.000 euro nel massimo) e sottoponendo a uguale trattamento, sia le grandi imprese che forniscono le reti o i servizi di comunicazione elettronica (come i grandi gestori della telefonia), sia le piccole imprese che offrono servizi di comunicazione elettronica «in luoghi presidiati quali negozi o alt[r]e tipologie di esercizio aperte al pubblico».

Non consentendo trattamenti sanzionatori diversificati in ragione delle diverse capacità organizzative e reddituali degli autori della violazione, la norma contrasterebbe con i principi di ragionevolezza e di proporzionalità, che dovrebbero guidare il legislatore nella determinazione delle condotte punibili e delle relative sanzioni, nonché con il principio di uguaglianza sostanziale, finendo anche per frustrare la sua funzione deterrente, in quanto il minimo edittale sarebbe eccessivo per i piccoli imprenditori, mentre il massimo sarebbe irrisorio e inadeguato per le grandi società di telecomunicazione.

I principi di ragionevolezza e di proporzionalità sarebbero invece rispettati nel diverso settore delle emittenti radiotelevisive disciplinate dal decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici), dove, con interventi normativi successivi al d.l. n. 262 del 2006, le sanzioni pecuniarie previste dall’art. 98 cod. comunicazioni elettroniche sono state ridotte a un decimo nei confronti delle imprese di radiodiffusione sonora e televisiva in ambito locale, «riconoscendo una diversa rilevanza tra esercenti la medesima attività».

Sarebbe violato anche l’art. 97 Cost., sotto il profilo dell’efficienza dell’azione amministrativa. Ad avviso del rimettente, l’incremento della sanzione indurrebbe gli autori dell’illecito a promuovere giudizi di opposizione a ordinanza-ingiunzione con aggravio del contenzioso giudiziario e mancato soddisfacimento dell’amministrazione, mentre in precedenza i piccoli imprenditori, raggiunti da più miti sanzioni, avrebbero solitamente provveduto al pagamento in una o più rate.

2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 27 novembre 2018, eccependo l’inammissibilità delle questioni, in primo luogo per omessa motivazione sulla rilevanza, non essendo precisato se il profilo di incostituzionalità attenga al limite edittale massimo o a quello minimo o ad entrambi i limiti. L’interveniente richiama al riguardo ampi stralci della motivazione dell’ordinanza di questa Corte n. 148 del 2015, che ha dichiarato manifestamente inammissibile la precedente analoga questione sollevata dallo stesso rimettente nell’ambito del medesimo giudizio a quo.

La riproposta questione sarebbe inammissibile anche perché attiene alla materia della quantificazione delle sanzioni amministrative, rientrante nell’ambito della discrezionalità del legislatore e non sindacabile da questa Corte se non per manifesta violazione del canone della ragionevolezza. Nel caso concreto, tuttavia, tale violazione sarebbe esclusa, poiché la lesività delle condotte sanzionate non dipende dalle dimensioni dell’impresa di comunicazioni, trattandosi di omesse comunicazioni alle autorità competenti di dati e notizie richiesti all’operatore economico. Si dovrebbe inoltre tenere conto dell’ampio perimetro dei limiti edittali che consente di adeguare la sanzione alla gravità della condotta.

Infine, non sarebbe conferente il riferimento all’art. 97 Cost., poiché la modulazione delle sanzioni non è connessa al buon andamento dell’amministrazione, ma al diverso profilo della potestà sanzionatoria dello Stato, rispetto al quale assumerebbero rilievo i principi costituzionali di uguaglianza e di ragionevolezza, nonché il diritto di difesa e la tutela del contraddittorio, restando riservate alla valutazione discrezionale del legislatore eventuali scelte deflattive del contenzioso.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Livorno, adito da un imprenditore individuale con opposizione a ordinanza-ingiunzione emessa dal Ministero dello sviluppo economico - Ispettorato territoriale della Toscana, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 98, comma 9, del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), come modificato dall’art. 2, comma 136, lettera d), del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2006, n. 286, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione.

La disposizione è censurata nella parte in cui – a seguito delle modifiche introdotte dal citato art. 2, comma 136, lettera d) – stabilisce che «ai soggetti che non provvedono, nei termini e con le modalità prescritti, alla comunicazione dei documenti, dei dati e delle notizie richiesti dal Ministero [dello sviluppo economico] o dall’Autorità [per le garanzie nelle comunicazioni], gli stessi, secondo le rispettive competenze, comminano una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 15.000,00 ad euro 1.150.000,00». Tali limiti edittali sono frutto dell’intervenuta sostituzione delle parole «da euro 1.500,00 ad euro 115.000,00» contenute nella precedente versione della disposizione, e della conseguente moltiplicazione per dieci dei limiti minimo e massimo della sanzione.

Ad avviso del rimettente, tale indifferenziata decuplicazione contrasterebbe con i principi di ragionevolezza e di proporzionalità sanciti dall’art. 3 Cost., in quanto non consentirebbe trattamenti sanzionatori diversificati in ragione delle diverse e varie capacità organizzative e reddituali degli autori dell’illecito amministrativo, assoggettando agli stessi limiti edittali, sia le grandi imprese che forniscono le reti o i servizi di comunicazione elettronica, sia le modeste imprese che offrono servizi di comunicazione elettronica «in luoghi presidiati quali negozi o alt[r]e tipologie di esercizio aperte al pubblico».

La disposizione censurata finirebbe anche per frustrare la funzione deterrente della sanzione, poiché il limite minimo sarebbe eccessivo per i piccoli imprenditori e il massimo invece irrisorio e inadeguato per le grandi società di telecomunicazione.

L’incremento, inoltre, costituirebbe per i destinatari delle sanzioni un incentivo a opporsi in giudizio, con aggravio del contenzioso giudiziario e mancato soddisfacimento dell’amministrazione. Sarebbe dunque violato anche l’art. 97 Cost., per il pregiudizio che ciò arrecherebbe all’efficacia dell’azione amministrativa.

2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito in primo luogo l’inammissibilità delle questioni per omessa motivazione sulla rilevanza, non essendo precisato se il profilo di illegittimità costituzionale attenga al limite edittale massimo oppure al minimo o ad entrambi.

L’eccezione non è fondata.

In riferimento all’art. 3 Cost., il rimettente ripropone, nell’ambito dello stesso giudizio a quo, una questione già dichiarata manifestamente inammissibile da questa Corte, con l’ordinanza n. 148 del 2015, per due distinte ragioni. Innanzitutto per l’insufficiente descrizione della fattispecie, non essendo state precisate nell’atto di rimessione, né la condotta sanzionata, né la sanzione in concreto irrogata, né le attività e le dimensioni dell’impresa del ricorrente, ciò che rendeva dunque «impossibile verificare finanche se la norma denunciata, nel testo attualmente in vigore, [dovesse] essere effettivamente applicata per definire il giudizio principale e se le ragioni esposte a sostegno del dubbio di costituzionalità [avessero] una qualche attinenza con il caso concreto oggetto del medesimo giudizio». In secondo luogo, per carenza dei necessari requisiti di chiarezza e univocità del petitum, in quanto il rimettente, assumendo che la sanzione sarebbe stata inadeguata e sproporzionata, sia nel minimo che nel massimo edittale, non faceva nemmeno «comprendere se il sindacato della Corte [dovesse] riguardare, senza eccedere dalle esigenze del caso concreto, l’abnormità del limite minimo o l’inadeguatezza del limite massimo o entrambi questi profili».

La citata pronuncia di inammissibilità, per il suo carattere non decisorio e per il fatto di basarsi su ragioni che il rimettente poteva rimuovere, non preclude la possibilità di riproporre le medesime questioni, «posto che in tal caso la riproposizione non contrasta col disposto dell’ultimo comma dell’art. 137 Cost., in tema di non impugnabilità delle decisioni della Corte [costituzionale] (ex plurimis, sentenze n. 50 del 2006 e n. 189 del 2001, ordinanza n. 317 del 2007): ciò, peraltro, alla ovvia condizione che il giudice a quo abbia eliminato il vizio che in precedenza impediva l’esame nel merito della questione (ex plurimis, ordinanze n. 371 del 2004 e n. 399 del 2002)» (sentenza n. 252 del 2012).

Nella nuova ordinanza, il giudice a quo riferisce, questa volta in maniera circostanziata, che con ordinanza-ingiunzione emessa nel corso del 2008 è stata irrogata all’opponente nel processo principale, definito come titolare di un «piccolo esercizio di offerta al pubblico di servizi di comunicazione elettronica, senza dipendenti e con un fatturato estremamente ridotto», la sanzione amministrativa di 30.000 euro, pari al doppio del minimo edittale previsto dalla norma censurata, per non avere comunicato all’amministrazione, entro i termini assegnati, le informazioni da essa richieste ai sensi dell’art. 10 cod. comunicazioni elettroniche, nel corso del procedimento diretto a conseguire l’autorizzazione generale per l’offerta al pubblico «in luoghi presidiati del servizio di “phone center”».

La descrizione della fattispecie offre dunque gli elementi sufficienti per comprendere, da un lato, che la norma censurata deve essere applicata per la definizione del giudizio a quo e, dall’altro, che le questioni vanno riferite al minimo edittale – risultante dalla decuplicazione del limite originario di 1.500 euro, disposta dall’art. 2, comma 136, lettera d), del d.l. n. 262 del 2006 – sull’implicito presupposto che nei confronti di un modesto fornitore di servizi di comunicazione elettronica, quale è l’opponente nel processo principale, anche l’applicazione del limite minimo non sarebbe conforme ai principi costituzionali di ragionevolezza, di proporzionalità e di buon andamento dell’amministrazione, che si assumono violati.

Esaminata da questo angolo visuale, la critica rivolta dal rimettente al limite massimo della sanzione – misura a suo avviso «irrisoria ed inadeguata» per le grandi imprese che forniscono le reti o i servizi di comunicazione elettronica – non è diretta ad ampliare l’oggetto della questione, ma a rafforzare la censura di irragionevolezza e sproporzione del limite minimo, in un contesto di lamentata incongruità complessiva del trattamento sanzionatorio delineato dalla norma censurata.

2.1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri eccepisce, in secondo luogo, che le questioni sarebbero inammissibili in quanto – non essendo sufficiente l’eliminazione della disposizione censurata a riparare alla pretesa illegittimità costituzionale della quantificazione operata dal legislatore, ed essendo invece necessario a tali fini un intervento sostitutivo della stessa quantificazione – questa Corte sarebbe chiamata ad adottare scelte di dosimetria sanzionatoria affidate in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore.

Nemmeno questa eccezione è fondata.

Possono essere infatti estesi alla materia delle sanzioni amministrative gli approdi della giurisprudenza costituzionale in tema di ampiezza e di limiti degli interventi di questa Corte sulla misura delle sanzioni penali fissata dal legislatore. In base ad essi, se è vero che «non appartengono a questa Corte valutazioni discrezionali di dosimetria sanzionatoria […], di esclusiva pertinenza del legislatore», spettando «alla rappresentanza politica il compito di individuare il grado di reazione dell’ordinamento al cospetto della lesione di un determinato bene giuridico», ciò tuttavia non preclude l’intervento di questa stessa Corte «laddove le scelte sanzionatorie adottate dal legislatore si siano rivelate manifestamente arbitrarie o irragionevoli e il sistema legislativo consenta l’individuazione di soluzioni, anche alternative tra loro, che, per la omogeneità che le connota rispetto alla norma censurata, siano tali da “ricondurre a coerenza le scelte già delineate a tutela di un determinato bene giuridico, procedendo puntualmente, ove possibile, all’eliminazione di ingiustificabili incongruenze” (sentenza n. 236 del 2016)» (sentenza n. 233 del 2018).

Perché ciò sia possibile, dunque, «non è necessario che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista per una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere assunta come tertium comparationis, essendo sufficiente che il “sistema nel suo complesso offra alla Corte ‘precisi punti di riferimento’ e soluzioni ‘già esistenti’ (sentenza n. 236 del 2016)”, ancorché non ‘costituzionalmente obbligate’, “che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima”» (sentenza n. 40 del 2019, con richiamo alla sentenza n. 222 del 2018).

In questa ottica, «l’ammissibilità delle questioni inerenti ai profili di illegittimità costituzionale dell’entità della pena stabilita dal legislatore può ritenersi condizionata non tanto dalla presenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, quanto dalla puntuale indicazione, da parte del giudice a quo, di previsioni sanzionatorie rinvenibili nell’ordinamento che, trasposte all’interno della norma censurata, garantiscano coerenza alla logica perseguita dal legislatore, una volta emendata dai vizi di illegittimità addotti, sempre se riscontrati» (sentenza n. 233 del 2018).

In linea con tali principi, il giudice a quo indica in effetti, nel corpo dell’ordinanza, le previsioni sanzionatorie suscettibili di fungere da punti di riferimento dell’intervento di questa Corte, individuandole nell’art. 1, comma 930, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», e nell’art. 51, comma 5-bis, del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici), inserito dall’art. 4, comma 1, del decreto legislativo 28 giugno 2012, n. 120, intitolato «Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 44, recante attuazione della direttiva 2007/65/CE relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive».

Si tratta di norme sopravvenute all’art. 2, comma 136, lettera d), del d.l. n. 262 del 2006, che hanno ridotto a un decimo tutte le sanzioni previste dall’art. 98 cod. comunicazioni elettroniche, rispettivamente, per i «soggetti esercenti la radiodiffusione sonora, nonché la radiodiffusione televisiva in ambito locale» e, quanto alle sanzioni di competenza dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM), per le «emittenti locali».

Anche sotto questo profilo le questioni superano dunque la soglia dell’ammissibilità, restando peraltro da esaminare «l’aspetto inerente alla correttezza di siffatta indicazione [del giudice a quo], afferente al merito delle questioni» (sentenza n. 233 del 2018).

3.– Nel merito le questioni non sono fondate.

3.1.– La severità della sanzione amministrativa pecuniaria prevista dalla disposizione censurata non è sufficiente per qualificare la scelta operata dal legislatore come manifestamente irragionevole o arbitraria.

La sanzione colpisce infatti una condotta che presenta profili di particolare rilievo, giacché l’omessa comunicazione degli elementi richiesti impedisce all’autorità competente di acquisire dati, documenti e informazioni necessari per controllare l’osservanza da parte degli operatori economici delle condizioni e degli obblighi cui la legge assoggetta l’esercizio delle delicate attività di gestione delle reti e di fornitura dei servizi di comunicazione elettronica a uso pubblico. I particolari caratteri di tali attività, e il loro rilievo ai fini del conseguimento degli obiettivi generali della disciplina delle reti e servizi di comunicazione elettronica, volti a salvaguardare i diritti costituzionalmente garantiti di libertà e segretezza delle comunicazioni, nonché di libertà di iniziativa economica in regime di concorrenza (art. 4, comma 1, cod. comunicazioni elettroniche), trovano conferma nella scelta legislativa, operata nel 2006, di elevare in pari proporzione, senza alterare i rapporti fra loro, tutte le sanzioni previste dall’art. 98 cod. comunicazioni elettroniche (art. 2, comma 136, del d.l. n. 262 del 2006) e nell’eliminazione della possibilità, per gli operatori, di pagare in forma ridotta le sanzioni irrogate dall’AGCOM (art. 98, comma 17-bis, cod. comunicazioni elettroniche, inserito dall’art. 2, comma 136, lettera i, del d.l. n. 262 del 2006).

La misura minima della sanzione pecuniaria per chi non provvede nei termini e con le modalità prescritti alla comunicazione dei documenti, dei dati e delle notizie richiesti dall’autorità competente appare dunque non manifestamente sproporzionata alle caratteristiche dello specifico illecito amministrativo e rispondente alle finalità repressive perseguite. E, d’altro canto, la stessa vicenda oggetto del giudizio a quo, nel quale la misura della sanzione irrogata è stata quantificata nel doppio di quel minimo edittale della cui legittimità costituzionale il rimettente dubita, mette in evidenza la possibilità offerta al giudice di modulare l’entità della sanzione da irrogare a seconda delle caratteristiche del caso.

Ciò premesso in linea generale sulla non irragionevolezza della previsione di sanzioni severe, anche nel minimo, per questo specifico tipo di illeciti, si deve escludere che sia irragionevole, come invece sostiene il rimettente, sottoporre allo stesso trattamento piccoli e grandi imprenditori del settore. Come già osservato, la particolare ampiezza della “forbice” tra minimo e massimo edittale (da 15.000 euro a 1.150.000 euro) consente all’autorità chiamata ad irrogare la sanzione di calibrarne in concreto la misura in rapporto alla maggiore o minore gravità della violazione (ordinanza n. 109 del 2004) e di differenziarla, se del caso, anche in considerazione delle dimensioni dell’impresa, le quali possono influire sulla valutazione della condotta degli autori della stessa violazione.

Non sussistono, del resto, ragioni specifiche per cui nella disciplina delle sanzioni per omessa comunicazione dei dati in esame il legislatore avrebbe dovuto distinguere, a pena di illegittimità costituzionale della sua scelta, il trattamento sanzionatorio in base alle capacità economiche dei responsabili dell’omissione informativa. E d’altra parte nemmeno la disciplina precedente quella oggetto di censura distingueva la misura del trattamento sanzionatorio in ragione delle caratteristiche dei responsabili dell’illecito di cui si discute, e prevedeva a sua volta una “forbice” edittale proporzionalmente altrettanto ampia.

Non è comunque pertinente, per la diversità della materia e per la specificità della relativa disciplina, il riferimento, operato dal rimettente, alle sanzioni riservate all’attività radiotelevisiva in «ambito locale», definita all’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 177 del 2005, con riguardo all’«ambito locale radiofonico», come «[…] attività di radiodiffusione sonora, con irradiazione del segnale fino a una copertura massima di quindici milioni di abitanti» (lettera v) e, con riguardo all’«ambito locale televisivo», come «[...] attività di radiodiffusione televisiva in uno o più bacini, comunque non superiori a dieci, anche non limitrofi, purché con copertura inferiore al 50 per cento della popolazione nazionale», con la precisazione che «l’ambito è denominato “regionale” o “provinciale” quando il bacino di esercizio dell’attività di radiodiffusione televisiva è unico e ricade nel territorio di una sola regione o di una sola provincia, e l’emittente, anche analogica, non trasmette in altri bacini» (lettera z). Non solo si tratta di attività materialmente diverse, ma le stesse distinzioni di tipo soggettivo operate dalla norma per coloro che esercitano attività di telediffusione e di radiodiffusione (sulla base del territorio di emittenza) sarebbero inapplicabili a chi svolge invece attività di fornitura di reti o servizi di comunicazione elettronica, attività il cui bacino di potenziale influenza per sua natura non incontra limiti territoriali.

Infine, è irrilevante nel caso in esame, che riguarda l’adeguatezza del limite edittale minimo, l’argomento addotto dal giudice a quo, secondo cui il limite edittale massimo previsto dalla norma sarebbe irrisorio per le grandi imprese di telecomunicazione, ciò che, vanificando l’efficacia deterrente della sanzione, determinerebbe l’intrinseca irragionevolezza del complessivo trattamento sanzionatorio censurato.

La violazione dell’art. 3 Cost., pertanto, non sussiste.

3.2.– Non è fondata nemmeno la questione prospettata con riferimento all’art. 97 Cost., sull’assunto che l’indiscriminato inasprimento della sanzione indurrebbe gli autori dell’illecito a promuovere giudizi di opposizione a ordinanza-ingiunzione, con aggravio del contenzioso giudiziario e mancato soddisfacimento dell’amministrazione, ciò che pregiudicherebbe il buon andamento e l’efficacia dell’azione amministrativa.

Premesso che il principio del buon andamento è riferibile all’amministrazione della giustizia soltanto per quanto attiene all’organizzazione e al funzionamento degli uffici giudiziari (ex plurimis, sentenze n. 91 del 2018, n. 65 del 2014, n. 272 del 2008; ordinanze n. 158 del 2014, n. 84 del 2011 e n. 408 del 2008), la questione è infondata, sia per la parte in cui viene prospettato l’aggravio del contenzioso giudiziario, sia per la parte in cui se ne lamentano le ricadute in termini di mancato soddisfacimento delle ragioni creditorie dell’amministrazione.

Le ipotizzate conseguenze della quantificazione legislativa della misura della sanzione, infatti, non sono direttamente riconducibili alla previsione censurata, ma derivano in linea fattuale da scelte difensive soggettive (quanto all’aggravio del contenzioso) e dall’eventuale effettiva insolvenza o incapienza patrimoniale dei responsabili dell’illecito (quanto alle difficoltà di riscossione delle sanzioni pecuniarie) e si risolvono quindi in un – indimostrato – mero inconveniente di fatto, inidoneo a determinare un problema di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenza n. 157 del 2014 e ordinanza n. 206 del 2016).

4.– In conclusione, le questioni devono essere dichiarate non fondate.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 98, comma 9, del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), come modificato dall’art. 2, comma 136, lettera d), del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2006, n. 286, sollevate dal Tribunale ordinario di Livorno, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 marzo 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Daria de PRETIS, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 maggio 2019.