SENTENZA N. 113
ANNO 2018
Commento
alla decisione di
Elena Buoso
per g.c. del Foro di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI
Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 8 della legge
della Regione Lazio 3 gennaio 1986, n. 1 (Regime urbanistico dei terreni di uso
civico e relative norme transitorie), come modificato dall’art. 8 della
legge della Regione Lazio 27 gennaio 2005, n. 6, recante «Modifiche alla legge
regionale 3 gennaio 1986, n. 1 (Regime urbanistico dei terreni di uso civico e
relative norme transitorie) e successive modifiche ed alla legge regionale 6
agosto 1999, n. 14 (Organizzazione delle funzioni a livello regionale e locale
per la realizzazione del decentramento amministrativo) e successive modifiche»,
promosso dal Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici per le
Regioni Lazio, Umbria e Toscana con ordinanza
del 3 ottobre 2017, nel procedimento vertente tra M. C. e altro e l’Università
agraria di Valmontone e altra, iscritta al n. 169 del registro ordinanze 2017 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie
speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di costituzione di
M. C. e altro;
udito nella udienza pubblica del
10 aprile 2018 il Giudice relatore Aldo Carosi;
uditi gli avvocati Vincenzo Cerulli Irelli, Edoardo Di Giovanni e Maria Athena Lorizio per M. C. e altro.
Ritenuto in fatto
1.‒ Con ordinanza del
3 ottobre 2017, il Commissario per la liquidazione degli usi civici per le
Regioni Lazio, Umbria e Toscana ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 9, 117, secondo comma,
lettere l) e s), e 118
della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8
della legge della Regione Lazio 3 gennaio 1986, n. 1 (Regime urbanistico dei
terreni di uso civico e relative norme transitorie), come modificato dall’art.
8 della legge della Regione Lazio 27 gennaio 2005, n. 6, recante «Modifiche
alla legge regionale 3 gennaio 1986, n. 1 (Regime urbanistico dei terreni di
uso civico e relative norme transitorie) e successive modifiche ed alla legge
regionale 6 agosto 1999, n. 14 (Organizzazione delle funzioni a livello
regionale e locale per la realizzazione del decentramento amministrativo) e
successive modifiche».
La disposizione censurata,
riportata integralmente nel considerato in diritto, prevede la possibilità di
alienare e sanare sotto il profilo urbanistico, le occupazioni di terreni
gravati da uso civico e le costruzioni su di essi realizzate a condizione di particolare
favore.
1.1.‒ In punto di fatto, il Commissario rimettente
premette di aver iniziato, d’ufficio, a seguito di un esposto dei consiglieri
dell’Università agraria di Valmontone, un processo per l’azione di accertamento
della qualitas di un terreno con annesso magazzino
sito in Valmontone, messo in vendita nonostante non vi fosse un certificato
edilizio in sanatoria.
L’Università agraria di
Valmontone aveva, difatti, deciso di alienare un appezzamento di terreno
chiedendo alla Regione Lazio il cambio di destinazione d’uso, ai sensi della
legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del R. decreto 22 maggio
1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R.
decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l’art. 26 del R. decreto 22
maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i
termini assegnati dall’art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751);
quest’ultima aveva, invece, ritenuto, «trattandosi di alienazione di terreni
demaniali edificati, ai sensi e per gli effetti del comma 1, lettera a)
dell’art. 8 della L.R. n. 1/1986 e s.m.i. [….] è
compito degli Enti titolari dei diritti civici, procedere autonomamente
all’alienazione senza la necessità di acquisire l’autorizzazione regionale,
stante la competenza».
La predetta Università
agraria si era quindi avvalsa della facoltà, concessa dalla norma censurata, di
alienare detti terreni di proprietà collettiva di uso civico.
Nelle more del giudizio, il
Comune di Valmontone aveva rilasciato il permesso di costruire in sanatoria,
determinando, secondo quanto previsto dalla norma impugnata, il venir meno
degli usi civici e, conseguentemente, del vincolo ambientale, consentendo, in
definitiva, l’alienazione.
1.2.‒ In ordine alla rilevanza della sollevata
questione, il rimettente espone che, in base alla normativa regionale, con il
rilascio del permesso di costruire in sanatoria, il bene avrebbe acquisito
natura disponibile e sarebbe legittimamente alienabile: il Commissario
dovrebbe, quindi, limitarsi a prendere atto dell’avvenuta trasformazione del
bene demaniale in allodiale e, conseguentemente, dichiarare l’avvenuta
estinzione dei diritti di uso civico gravanti sui terreni oggetto di causa.
L’univocità della previsione legislativa non consentirebbe, infatti,
interpretazioni differenti e la sdemanializzazione deriverebbe direttamente
dalla legge impugnata, non essendo necessari né ulteriori atti amministrativi
né ulteriori accertamenti istruttori nel corso della causa già matura per la
decisione.
1.3.‒ Quanto alla non
manifesta infondatezza della medesima questione, il Commissario rimettente
osserva che la materia degli usi civici sarebbe disciplinata in modo
tendenzialmente esaustivo dalla legge n. 1766 del 1927 e dal regio decreto 26
febbraio 1928, n. 332 (Approvazione del regolamento per la esecuzione della
legge 16 giugno 1927, n. 1766, sul riordinamento degli usi civici del Regno),
al fine di garantire l’interesse della collettività alla conservazione degli
usi civici e alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio. Alle Regioni sono
state, difatti, trasferite, con d.P.R. 15 gennaio
1972, n. 11 (Trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni
amministrative statali in materia di agricoltura e foreste, di caccia e di
pesca nelle acque interne e dei relativi personali ed uffici) e con d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di
cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382), le sole funzioni
amministrative connesse alle ipotesi di liquidazione degli usi civici, cosicché
la Regione Lazio non avrebbe potuto emanare norme derogatorie a quelle statali
introducendo nuove ipotesi di liquidazione degli usi civici non previste dalla
normativa statale.
La legge impugnata
contrasterebbe, in definitiva, con l’art. 11 della legge
n. 1766 del 1927 e con l’art. 42 del r.d. n. 332 del 1928, i quali richiedono che le
limitazioni o la liquidazione dei diritti di uso civico siano precedute
dall’assegnazione dei suoli alla categoria sub lettera a (terreni
convenientemente utilizzati come bosco o come pascolo permanente) del medesimo
art. 11.
Costituirebbe, infine,
principio fondamentale in materia il fatto che le eccezionali ipotesi di
legittimazione o di alienazione non possano mai interrompere la continuità del
patrimonio collettivo venendo altrimenti compromessa la fruibilità di detto
patrimonio.
1.4.‒ Sotto altro
profilo, il Commissario rimettente osserva che «le aree assegnate alle
Università agrarie e le zone gravate da usi civici» sarebbero state sottoposte
a vincolo paesaggistico ai sensi della legge 29 giugno 1939, n. 1497
(Protezione delle bellezze naturali), dapprima con l’art. 1, lettera h), della
legge 8 agosto 1985, n. 431 (Conversione in legge, con modificazioni, del
decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312, recante disposizioni urgenti per la
tutela delle zone di particolare interesse ambientale. Integrazioni dell’art.
82 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616), quindi
con l’art. 142, comma 1, lettera f [recte h], del decreto
legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio,
ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137). Si
tratterebbe di norma di grande riforma economico-sociale (sono citate le sentenze n. 210 del
2014, n. 207
e n. 66 del 2012,
n. 226 e n. 164 del 2009)
che limita l’esercizio della competenza legislativa primaria delle Regioni.
La funzione di tutela
dell’ambiente svolta dagli usi civici – prosegue il rimettente – è stata
affermata da questa Corte a partire dalle sentenze n. 133 del
1993 e n. 46
del 1995 e dall’ordinanza n. 316
del 1998. Sarebbe in sostanza lo stesso aspetto del territorio, per i suoi contenuti
ambientali e culturali, un valore costituzionale di per sé (sentenza n. 367 del
2007).
Ne deriva che la Regione
«non possa assumere, unilateralmente, decisioni che liberano dal vincolo
ambientale porzioni del territorio. Oltre alle ipotesi di mutamento di
destinazione, che sostanzialmente rimodellano il vincolo ambientale verso una
nuova finalità comunque conforme agli interessi della collettività, devono
assolutamente soggiacere al meccanismo concertativo le ipotesi di
sclassificazione, che sottraggono in via definitiva il bene alla collettività
ed al patrimonio tutelato» (si cita la sentenza n. 103 del
2017).
Nel caso in esame, la
Regione Lazio avrebbe, in definitiva, determinato una sostanziale
sclassificazione dei terreni gravati da uso civico in quanto edificabili o,
addirittura, abusivamente edificati e quindi condonati, benché sia certo che la
normativa regionale «non può, salvo i casi suscettibili di alienazione e
legittimazione previsti dalla legge n. 1766 del 1927, servire a sanare
indiscriminatamente occupazioni abusive» (si cita la sentenza n. 103 del
2017).
In conclusione, la norma
regionale eccederebbe dall’ambito di competenza legislativa regionale,
incidendo nella materia «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni
culturali», riservata al legislatore statale dall’art. 117, lettera s), Cost., come già riconosciuto da questa Corte (da
ultimo, nelle sentenze
n. 103 del 2017 e n. 210 del 2014);
incontrerebbe il limite delle norme fondamentali delle riforme
economico-sociali, quali le evocate disposizioni del codice dei beni culturali
e del paesaggio (è menzionata la sentenza n. 210 del
2014); violerebbe, infine, la competenza statale esclusiva in materia anche
sotto il profilo della pianificazione paesaggistica (art. 143 del d.lgs.
n. 42 del 2004).
1.5.‒ Inoltre, la normativa regionale
consentirebbe il trasferimento della proprietà del suolo e farebbe venir meno
vincoli ambientali a seguito di irreversibili trasformazioni del suolo dovute
ad interventi urbanistici anche non autorizzati. Essa configurerebbe dunque
ulteriori ipotesi di sanatoria edilizia in contrasto con la legislazione
statale (d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia-Testo
A»), alla quale è riservata detta materia (sono richiamate le sentenze n. 117 del
2015 e n.
196 del 2004).
1.6.‒ La disposizione
impugnata si porrebbe, inoltre, in contrasto con l’art. 118 Cost. per il mancato rispetto del principio di leale
collaborazione, stante la «connessione indissolubile tra materie di diversa
attribuzione», anche alla luce della sentenza n. 210 del
2014. Il legislatore regionale avrebbe difatti pretermesso di considerare,
attraverso un idoneo procedimento, gli interessi sottesi alla competenza
legislativa di cui lo Stato sarebbe titolare.
1.7.‒ L’art. 8 della
legge reg. Lazio n. 1 del 1986 confliggerebbe, infine, con il principio di
ragionevolezza (art.
3 Cost.) e di coerenza dell’ordinamento, in
quanto consentirebbe all’autore di un illecito edilizio (nella maggioranza dei
casi di rilievo penale) di divenire proprietario del bene che ha compromesso,
con danno della collettività. Diversamente, l’art. 934 del codice civile
prevede il principio dell’accessione, in base al quale qualunque piantagione,
costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al
proprietario di questo. Parimenti, l’art. 31 del d.P.R.
n. 380 del 2001 stabilisce che nel caso di illeciti edilizi, qualora il
proprietario non adempia all’ordine di demolizione, il «bene e l’area di
sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche,
alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive» vengano acquisiti al
patrimonio del Comune. Nel caso in esame, al contrario, il trasgressore che ha
eseguito l’opera su beni gravati da uso civico e sottoposti a vincolo
ambientale verrebbe "premiato” mediante «l’acquisizione a prezzi modici
dell’area di sedime», configurando così una ipotesi di accessione invertita in
contrasto con le previsioni della normativa statale.
In definitiva, la legge
regionale in esame prevederebbe un’ipotesi in cui un atto illecito (spesso
costituente reato) produce la trasformazione del demanio in allodio.
2.– Si sono costituiti i
consiglieri dell’Università agraria M.C. e G.V., parti del giudizio a quo,
chiedendo l’accoglimento della questione.
Le parti private
ribadiscono, quale primo motivo di illegittimità costituzionale, la violazione
degli artt. 3, 9, 117, secondo comma,
lettere l) e s), e 118
Cost., rimarcando la qualificazione dei beni di
uso civico come beni di interesse paesaggistico ai sensi dell’art. 142, lettera
h), del d.lgs.
n. 42 del 2004. L’alienazione consentita dalla legge regionale laziale sarebbe
difatti ammessa per ipotesi differenti da quelle previste dalla legge statale,
alla quale è comunque riservata la potestà legislativa in materia. Vengono
richiamate, in proposito, le sentenze n. 103 del
2017, n. 310
del 2006, n.
345 del 1997, n.
46 del 1995 e l’ordinanza n. 316
del 1998.
Sotto altro profilo,
l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Lazio deriverebbe dal
fatto che il valore del fondo gravato dagli usi civici da liquidare dovrebbe
tener conto anche dell’incremento di valore prodotto dalla destinazione
edificatoria sopravvenuta, come già affermato nella sentenza n. 83 del
1996.
Infine, secondo le parti
private, la materia di competenza concorrente «agricoltura e foreste», di cui
al previgente art.
117 Cost. ‒ del quale costituiva attuazione
l’art. 66 del d.P.R. n. 616 del 1977 ‒ non potrebbe
ricomprendere la disciplina della titolarità e dell’esercizio di diritti
dominicali sulle terre, siano esse di pertinenza pubblica, collettiva o
privata. La natura dominicale o comunque reale del diritto civico e degli altri
diritti collettivi (è citata Cassazione civile, sezione seconda, 29 luglio
2016, n. 15938) sarebbe peraltro oggi espressamente riconosciuta dalla legge 20
novembre 2017, n. 168 (Norme in materia di domini collettivi).
Ne deriverebbe l’ascrivibilità della disposizione impugnata alla materia
«ordinamento civile», di competenza esclusiva dello Stato, e l’illegittima
invasione di detto ambito materiale da parte della Regione.
Considerato in diritto
1.‒ Il Commissario
per la liquidazione degli usi civici per le Regioni Lazio, Umbria e Toscana ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 9, 117, secondo comma, lettere l) e s),
e 118 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8
della legge della Regione Lazio 3 gennaio 1986, n. 1 (Regime urbanistico dei
terreni di uso civico e relative norme transitorie), come modificato dall’art.
8 della legge della Regione Lazio 27 gennaio 2005, n. 6, recante «Modifiche
alla legge regionale 3 gennaio 1986, n. 1 (Regime urbanistico dei terreni di
uso civico e relative norme transitorie) e successive modifiche ed alla legge
regionale 6 agosto 1999, n. 14 (Organizzazione delle funzioni a livello
regionale e locale per la realizzazione del decentramento amministrativo) e
successive modifiche».
Il giudice a quo premette
di avere avviato d’ufficio – su sollecitazione di due consiglieri
dell’Università agraria di Valmontone – un processo per l’azione di
accertamento della qualitas di un terreno con annesso
magazzino, sito in Valmontone e promesso in vendita a una società privata dalla
medesima associazione agraria.
Quest’ultima si era avvalsa
della facoltà, concessa dall’art. 8 della legge reg. Lazio n. 1 del 1986 (così
come modificato, da ultimo, dall’art. 8 della legge reg. Lazio n. 6 del 2005)
di alienare detti terreni di proprietà collettiva di uso civico.
Nelle more del giudizio, il
Comune di Valmontone aveva rilasciato il permesso di costruire in sanatoria,
determinando, secondo quanto previsto dalla norma impugnata, la
sclassificazione e la conseguente alienabilità dell’area.
L’art. 8 stabilisce,
difatti, che «1. I comuni, le frazioni di comuni, le università e le associazioni
agrarie comunque denominate possono alienare i terreni di proprietà collettiva
di uso civico posseduti dagli stessi: a) agli occupatori, se già edificati; b)
con le procedure di asta pubblica, se divenuti edificabili. 2. L’alienazione di
cui al comma 1, lettera a), può essere effettuata a condizione che le
costruzioni siano state legittimamente realizzate o che siano condonate ai
sensi della normativa vigente in materia di sanatoria di abusi edilizi.
Eventuali successioni nel possesso della costruzione non pregiudicano la
possibilità di richiedere o di ottenere l’alienazione ai sensi del presente
articolo, che è in ogni caso rilasciata a favore del titolare della
costruzione. L’alienazione deve interessare il suolo su cui insistono le
costruzioni e le relative superfici di pertinenza fino ad una estensione
massima corrispondente alla superficie del lotto minimo imposto dallo strumento
urbanistico vigente per la zona in cui ricade il terreno da alienare. La
superficie agricola occupata dal richiedente ed eccedente il lotto da alienare
deve comunque essere sistemata nei termini e nei modi previsti dalla normativa
vigente in materia di usi civici. 3. Per i terreni di cui al comma 1, lettera
b), gli enti possono, prima di procedere alla pubblica asta, attribuire la
proprietà di singoli lotti a coloro che detengono gli stessi a qualsiasi titolo
e che ne fanno domanda sulla base del prezzo di stima, a condizione che
l’assegnatario si obblighi a destinare il lotto all’edificazione della prima
casa, ovvero all’edificazione di manufatti artigianali necessari per lo
svolgimento della propria attività. 4. Non possono essere comunque alienati i
terreni di proprietà collettiva di uso civico ricadenti in aree sottoposte a
vincoli paesistici diversi da quello di uso civico. 5. Ai fini della
determinazione del valore, gli enti di cui al comma 1 si avvalgono dei propri
uffici tecnici o possono nominare tecnici iscritti all’albo regionale dei
periti, degli istruttori e dei delegati tecnici. 6. Qualora, successivamente all’acquisto
di un terreno, effettuato con contratto di compravendita registrato e
trascritto, sopravvenga l’accertamento dell’appartenenza del terreno medesimo
alle categorie di cui all’articolo 39, comma 2, del regio decreto 26 febbraio
1928, n. 332, concernente il regolamento di esecuzione della legge sul riordino
degli usi civici, e si tratti di costruzione destinata a prima casa già
eseguita o da eseguire, l’acquirente ha facoltà di consolidare l’acquisto a
titolo oneroso. La richiesta dell’acquirente deve essere corredata della copia
dell’atto di compravendita e dell’eventuale provvedimento di concessione
edilizia. Ricevuta la richiesta, l’ente interessato, con deliberazione motivata
soggetta ad approvazione della Regione, stabilisce, a titolo conciliativo, una
somma che deve essere ridotta fino all’ottanta per cento del valore del
terreno. 7. L’agevolazione di cui al comma 6 si applica altresì quando si
tratti: a) di costruzioni od impianti destinati ad attività artigianali di
superficie complessiva inferiore a 1.500 metri quadrati; b) di costruzioni od
impianti destinati ad attività di commercio di superficie di vendita inferiore
a 1.500 metri quadrati, per i comuni con popolazione residente inferiore ai
10.000 abitanti; c) di costruzioni o di impianti destinati ad attività
turistico-ricettive ed agrituristiche di superficie complessiva inferiore a
2.000 metri quadrati, e di superficie complessiva inferiore a 2 ettari per le
strutture ricettive all’aria aperta e per gli impianti sportivi. 8. A richiesta
dell’interessato il prezzo di alienazione può essere rateizzato in cinque
annualità con l’applicazione dell’interesse annuo al tasso legale vigente».
Il rimettente, dopo aver
precisato che non è necessario «svolgere alcuna attività istruttoria essendo
pacifici i fatti di causa e l’originaria presenza degli usi civici tanto che la
causa, sull’accordo delle parti, veniva trattenuta in decisione» e che la norma
avrebbe determinato l’automatica sclassificazione dei beni civici – ciò
comportando che l’accertamento giudiziale dovrebbe limitarsi alla presa d’atto
dell’avvenuta trasformazione del bene demaniale in allodiale, con conseguente
estinzione ex lege dei «diritti di uso civico
gravanti sui terreni oggetto di causa» – ritiene che la norma impugnata
contrasti, tra gli altri, con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., dettando norme in ambito di competenza esclusiva
dello Stato.
In buona sostanza, la
sdemanializzazione dei beni collettivi deriverebbe direttamente dalla legge
regionale denunciata mentre, sotto il profilo civilistico, la materia degli usi
civici sarebbe disciplinata (in regime di specialità rispetto al codice civile)
da norme statali, quali la legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge
del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi
civici nel Regno, del R. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l’art.
26 del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio 1926, n.
895, che proroga i termini assegnati dall’art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio
1924, n. 751), e il regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332 (Approvazione del
regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, sul
riordinamento degli usi civici del Regno). Alle Regioni sarebbero state
trasferite, per effetto del d.P.R. 15 gennaio 1972,
n. 11 (Trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni
amministrative statali in materia di agricoltura e foreste, di caccia e di
pesca nelle acque interne e dei relativi personali ed uffici), e del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di
cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382), le sole funzioni
amministrative, sicché la Regione Lazio non avrebbe mai potuto invadere la
competenza legislativa dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e – per di più, come nella fattispecie in esame –
compiere tale invasione in contrasto con la legislazione statale già esistente.
Inoltre, le ipotesi di
alienazione e legittimazione non potrebbero mai essere adottate interrompendo
«la continuità del patrimonio collettivo altrimenti ne verrebbe compromessa la
fruibilità nel suo complesso. Nel caso di specie tale esigenza non è in alcun
modo tutelata».
La Regione avrebbe poi
operato detta sclassificazione in contrasto anche con il principio di ragionevolezza
di cui all’art. 3 Cost., in quanto consentirebbe
«all’autore di un illecito (nella maggioranza dei casi di rilievo penale) di
divenire proprietario del bene che ha manomesso con pari danno per la
collettività».
Al contrario, il principio
civilistico dell’accessione sarebbe rinvenibile nell’art. 934 del codice
civile, ai sensi del quale qualsiasi costruzione od opera esistente sopra o
sotto il suolo appartiene al proprietario di questo. L’art. 31 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), stabilirebbe, a
sua volta, che nel caso di illeciti edilizi, qualora il proprietario non
adempia all’ordine di demolizione, si determini l’acquisizione gratuita al
patrimonio del Comune del bene e dell’area di sedime, nonché di quella
necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di
opere analoghe a quelle abusive. Secondo la norma impugnata, il trasgressore
che ha eseguito l’opera su beni gravati da uso civico e sottoposti a vincolo
ambientale sarebbe, al contrario, "premiato”, consentendogli l’acquisizione a
prezzi modici dell’area di sedime, in contrasto con le previsioni della
normativa statale, configurandosi così una ipotesi di "accessione invertita”.
Verrebbe quindi configurata
un’ipotesi in cui un atto illecito (spesso costituente reato) produrrebbe la
trasformazione del demanio in allodio.
Il giudice rimettente
censura poi la norma in riferimento agli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera
s), Cost., in relazione all’art. 142 del decreto
legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio,
ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), che dichiara –
alla lettera h) – di interesse paesaggistico, tra le altre, «le aree assegnate
alle università agrarie e le zone gravate da usi civici».
Viene all’uopo richiamata
la giurisprudenza di questa Corte in tema di valorizzazione ambientale
attraverso la tutela e la conservazione dei beni collettivi.
Il giudice rimettente prospetta
infine il contrasto con l’art. 118 Cost. per il
mancato rispetto del principio di leale collaborazione, «stante la connessione
indissolubile tra materie di diversa attribuzione anche alla luce della sentenza n. 210 del
2014».
Si sono costituiti i
consiglieri dell’Università agraria M.C. e G.V., parti del giudizio a quo,
chiedendo l’accoglimento della questione e insistendo, innanzitutto, nella
deduzione della violazione degli artt. 3, 9, 117, secondo comma, lettere l) e
s), e 118 Cost. Stante la qualificazione dei beni di
uso civico come beni di interesse paesaggistico ai sensi dell’art. 142, lettera
h), del d.lgs. n. 42 del 2004, l’alienazione consentita dalla legge regionale
sarebbe difatti ammessa per ipotesi differenti da quelle previste dalla legge
statale, alla quale è comunque riservata la potestà legislativa in materia
(sono citate le sentenze
n. 103 del 2017, n. 310 del 2006,
n. 345 del 1997,
n. 46 del 1995
e l’ordinanza n.
316 del 1998). Sotto altro profilo, l’illegittimità costituzionale
dell’art. 8 della legge reg. Lazio deriverebbe dal fatto che il valore del
fondo gravato dagli usi civici dovrebbe tener conto anche dell’incremento di
valore prodotto dalla destinazione edificatoria sopravvenuta, come già
affermato nella sentenza
n. 83 del 1996 di questa Corte.
Infine, secondo le parti
private, la materia di competenza concorrente «agricoltura e foreste», di cui
al previgente art. 117 Cost. ‒ del quale
costituiva attuazione l’art. 66 del d.P.R. n. 616 del
1977 ‒ non potrebbe ricomprendere la disciplina della titolarità e
dell’esercizio di diritti dominicali sulle terre, siano esse di pertinenza
pubblica, collettiva o privata.
Ne deriverebbe l’ascrivibilità della disposizione impugnata alla materia
«ordinamento civile» di competenza esclusiva dello Stato e l’illegittima
invasione di detto ambito materiale da parte della Regione.
2.– Questa Corte non ignora
che, successivamente all’ordinanza di rimessione, è intervenuta la legge 20
novembre 2017, n. 168 (Norme in materia di domini collettivi), la quale – senza
abrogare o modificare le norme che qui rilevano – ha introdotto alcune novità
in materia di usi civici e domini collettivi.
In particolare, detta legge
ha ribadito, ancor più enfatizzandoli, i capisaldi della tutela dei beni civici
fondati sui principi di indisponibilità, imprescrittibilità e inusucapibilità. Stabilisce infatti l’art. 3, comma 3, che:
«[i]l regime giuridico dei beni [collettivi] resta quello della inalienabilità,
dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della
perpetua destinazione agro-silvo-pastorale»; inoltre
il successivo comma 6 ribadisce che il vincolo paesaggistico gravante ex lege sui beni civici, ai sensi dell’art. 142, comma 1,
lettera h), del d.lgs. n. 42 del 2004, «garantisce l’interesse della
collettività generale alla conservazione degli usi civici per contribuire alla
salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio».
Ne discende che, per quanto
riguarda la fattispecie in esame, non è stato modificato il procedimento di
sclassificazione e mutamento di destinazione contemplato dalle richiamate
disposizioni dello scorso secolo.
Pertanto non occorre
restituire gli atti al giudice a quo per un nuovo esame della questione alla
luce della normativa sopravvenuta, che non potrebbe comunque incidere sulla
preesistenza dei diritti condominiali rivendicati dai membri dell’Università
agraria di Valmontone.
3.– Il giudizio a quo trova
il suo fondamento nell’art. 29 della legge n. 1766 del 1927, il quale – per
quanto qui interessa – stabilisce che «[i] commissari procederanno, su istanza degli
interessati od anche di ufficio, all’accertamento […] ed alla rivendica […]
delle terre. I commissari decideranno tutte le controversie circa la esistenza,
la natura e la estensione dei diritti suddetti, comprese quelle nelle quali sia
contestata la qualità demaniale del suolo o l’appartenenza a titolo particolare
dei beni delle associazioni, nonché tutte le questioni a cui dia luogo lo
svolgimento delle operazioni loro affidate».
Tale norma è stata sin
dall’origine intesa come attributiva di un potere di impulso d’ufficio per
l’esercizio della giurisdizione che, prima del trasferimento delle funzioni
amministrative, era incidentale, perché sorgeva in occasione dello svolgimento
delle funzioni amministrative e a esse era direttamente collegato.
La disposizione, concepita
quando il Commissario assommava in sé sia poteri amministrativi che
giurisdizionali, è stata più volte oggetto di questioni di legittimità
costituzionale a seguito del trasferimento delle funzioni amministrative
commissariali. In particolare, si pose il problema, in relazione ai principi
della domanda e della terzietà del giudice, della permanenza o meno di tale
potere d’impulso d’ufficio conferito al Commissario dalla citata norma, proprio
in quanto devolveva nelle mani di uno stesso giudice sia l’impulso processuale
che le funzioni giudicanti.
Un breve excursus su tali
profili induce a richiamare, in particolare, le sentenze n. 345 del
1997, n. 46
del 1995 e n.
133 del 1993. Questa Corte ha evidenziato che la giurisdizione ufficiosa in
via principale riceve nuova autonoma giustificazione dall’interesse della
collettività nazionale alla conservazione dell’ambiente, per la cui tutela le
zone gravate da usi civici sono sottoposte al vincolo paesaggistico (sentenza n. 133 del
1993). Tale argomento è stato, in seguito, ripreso e posto alla base della
declaratoria di illegittimità costituzionale del menzionato art. 29, secondo
comma, della legge n. 1766 del 1927 «nella parte in cui non consente la
permanenza del potere del Commissario agli usi civici di esercitare d’ufficio
la propria giurisdizione, pur dopo il trasferimento alle Regioni delle funzioni
amministrative previste dal primo comma dell’articolo medesimo» (sentenza n. 46 del
1995). La Corte ha infatti scelto di salvaguardare il potere di iniziativa
processuale dei Commissari «in attesa del riordino generale della materia»,
preannunciato dall’art. 5 della legge 4 dicembre 1993, n. 491 (Conferimento alle
regioni delle funzioni amministrative in materia di agricoltura e pesca e
riorganizzazione dell’Amministrazione centrale), sulla base della
consapevolezza che «le funzioni di impulso processuale da parte del giudice si
possono giustificare eccezionalmente, purché transitoriamente, in vista di una
nuova disciplina improntata al principio della terzietà del giudice» (sentenza n. 345 del
1997). Nella citata sentenza n. 345 del
1997 ha quindi ribadito tali argomentazioni, «nell’attesa che il
legislatore riordini l’intera materia, pure con riguardo ai profili
ordinamentali testé menzionati».
Il menzionato art. 5 della
legge n. 491 del 1993 è stato, tuttavia, abrogato dall’art. 1 del decreto
legislativo 4 giugno 1997, n. 143 (Conferimento alle regioni delle funzioni
amministrative in materia di agricoltura e pesca e riorganizzazione
dell’Amministrazione centrale), e, d’altro canto, più recentemente, con ordinanza n. 21 del
2014, questa Corte, nuovamente investita della legittimità costituzionale
dell’art. 29 della legge n. 1766 del 1927, ha ritenuto che il novellato art.
111 Cost. non costituisse un nuovo parametro
costituzionale idoneo al superamento del criterio di "legittimità provvisoria”
della norma in esame, adottato dalla sentenza n. 46 del
1995.
Ferma restando la
richiamata giurisprudenza di questa Corte in tema di poteri d’ufficio del
Commissario, nel caso in esame l’azione di quest’ultimo sembra riconducibile
all’ipotesi di impulso «su istanza degli interessati» di cui all’art. 29 della
legge n. 1766 del 1927. Tale disposizione, prevedendo che «[i] commissari
procederanno, su istanza degli interessati od anche d’ufficio […]», contempla
sostanzialmente due fattispecie: la seconda riconducibile a una giurisdizione
di tipo obiettivo, la prima fondata sulla rivendicazione della tutela
condominiale da parte dei singoli utenti.
Nel giudizio a quo gli
istanti rivestono la qualifica di amministratori dell’Università agraria di
Valmontone e, in quanto tali, sono anche "utenti-condomini” della proprietà
collettiva di cui reclamano, anche nell’atto di costituzione nel presente
giudizio, la conservazione del regime giuridico e i conseguenti provvedimenti
petitori e possessori a beneficio della collettività cui appartengono.
Si tratta di una forma di
tutela riservata agli utenti, uti singuli
et cives, che agiscono con un’azione individuale, e
non popolare, poiché essi sono titolari di un proprio diritto, non esclusivo ma
condiviso con gli altri utenti.
La descritta situazione di
diritto sostanziale comporta che l’eventuale esito positivo dell’azione vada a
beneficio della generalità dei condomini.
Ciò è tanto più importante,
ai fini della tutela, nei casi in cui – come quello in esame – l’ente gestore,
cioè l’Università agraria, sostiene interessi antagonisti a quelli degli
utenti, avendo deliberato la cessione del bene.
4.– La questione sollevata
in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
è fondata.
Questa Corte ha più volte
affermato che l’ordinamento civile si pone quale limite alla legislazione
regionale, in quanto fondato sull’esigenza, sottesa al principio costituzionale
di eguaglianza, di garantire nel territorio nazionale l’uniformità della
disciplina dettata per i rapporti interprivati. La
materia dell’ordinamento civile, quindi, identifica un’area riservata alla
competenza esclusiva della legislazione statale e comprende i rapporti
tradizionalmente oggetto di disciplina civilistica (ex plurimis,
sentenze n. 123
del 2010, n.
295 del 2009 e n. 352 del 2001).
Se è innegabile che
l’individuazione della natura pubblica o privata dei beni appartiene
all’«ordinamento civile», deve concludersi che la disposizione censurata, nel
disporre la descritta alienabilità, introduce una limitazione ai diritti
condominiali degli utenti non prevista dalla normativa statale in materia, assegnando
alle situazioni soggettive di coloro che hanno avuto rapporti patrimoniali con
l’università agraria un regime, sostanziale e processuale, peculiare rispetto a
quello specifico previsto dalle norme civilistiche e processuali altrimenti
applicabile (sentenza
n. 25 del 2007). La norma regionale censurata opera, dunque, nell’ambito
della materia dell’«ordinamento civile» di cui all’art. 117, secondo comma,
lettera l), Cost. e ne va di conseguenza dichiarata
l’illegittimità costituzionale (sentenza n. 123 del
2010).
E d’altronde, nell’intero
arco temporale di vigenza del Titolo V, Parte II, della Costituzione – sia nella
versione antecedente alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche
al titolo V della parte seconda della Costituzione), sia in quella successiva –
e, quindi, neppure a seguito dei d.P.R. n. 11 del
1972 e n. 616 del 1977 precedentemente richiamati, il regime civilistico dei
beni civici non è mai passato nella sfera di competenza delle Regioni. Infatti,
la materia «agricoltura e foreste» di cui al previgente art. 117 Cost., che giustificava il trasferimento delle funzioni
alle Regioni e l’inserimento degli usi civici nei relativi statuti, mai avrebbe
potuto comprendere la disciplina della titolarità e dell’esercizio di diritti
dominicali sulle terre civiche.
I diritti esercitati sui
beni di uso civico hanno natura dominicale, come costantemente riconosciuto dal
giudice della nomofilachia, secondo il quale, nei giudizi relativi
all’accertamento e all’esistenza di beni del demanio civico, qualunque
cittadino appartenente a quella determinata collettività è legittimato a
svolgere intervento, «in quanto la sentenza emananda
fa stato anche nei suoi confronti quale partecipe della comunità titolare degli
usi o delle terre demaniali di cui si controverte» (da ultimo, Corte di
cassazione, sezione seconda civile, sentenza 29 luglio 2016, n. 15938).
È esatto pertanto l’assunto
del giudice rimettente e degli utenti intervenuti nel presente giudizio,
secondo cui il regime dominicale degli usi civici attiene alla materia
«ordinamento civile» di competenza esclusiva dello Stato.
L’art. 66 del d.P.R. n. 616 del 1977, che ha trasferito alle Regioni
soltanto le funzioni amministrative in materia di usi civici, non ha mai
consentito alla Regione – e non consente oggi, nel mutato contesto del Titolo V
della Parte II della Costituzione – di invadere, con norma legislativa, la
disciplina dei diritti, estinguendoli, modificandoli o alienandoli.
Un bene gravato da uso
civico non può essere, infatti, oggetto di alienazione al di fuori delle
ipotesi tassative previste dalla legge n. 1766 del 1927 e dal r.d. n. 332 del 1928 per il particolare regime della sua
titolarità e della sua circolazione, «che lo assimila ad un bene appartenente
al demanio, nemmeno potendo per esso configurarsi una cosiddetta
sdemanializzazione di fatto. L’incommerciabilità derivante da tale regime
comporta che […] la preminenza di quel pubblico interesse, che ha impresso al
bene immobile il vincolo dell’uso civico stesso, ne vieti qualunque
circolazione» (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 28 settembre
2011, n. 19792).
Corollario di quanto detto
è che il contratto derivante da questa procedura contra legem
«con il quale il comune [o l’Associazione agraria] alieni un terreno incluso
nel Demanio di uso civico, è affetto da nullità, per impossibilità giuridica
dell’oggetto, [quando non siano state rispettate] le previsioni della legge 16
giugno 1927, n. 1766 (e del relativo regolamento approvato con R.D. 26 febbraio
1928, n. 332)» (Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenza 22
novembre 1990, n. 11265).
4.1.– Non può essere condivisa invece
l’affermazione del rimettente circa la necessità della previa assegnazione a
categoria dei beni civici di cui agli artt. 11 e 12 della legge n. 1766 del
1927.
È stato già in proposito
precisato che, «[m]entre la legge n. 1766 del 1927 differenziava
la destinazione delle terre d’uso civico prevedendo che le terre di categoria a
fossero adibite a boschi e pascoli (artt. 12, secondo comma, della legge n.
1766 del 1927) e che quelle ascritte dall’art. 11 della medesima legge alla
categoria b ("terreni convenientemente utilizzabili per la coltura agraria”)
fossero oggetto di ripartizione e cessione in enfiteusi (artt. 13 e seguenti
della legge n. 1766 del 1927) a membri della comunità per l’esercizio
dell’attività agricola, i profondi mutamenti economici e sociali intervenuti
nel secondo dopoguerra hanno modificato l’orientamento del legislatore nel
senso di una conservazione unitaria dei patrimoni nel loro complesso. In
sostanza, sono venuti in evidenza diversi profili di interesse generale, in
particolare quelli paesaggistici ed ambientali che hanno coinvolto l’intero
patrimonio d’uso civico. Questa evoluzione normativa si è manifestata prima con
l’art. 1 del d.l. n. 312 del 1985, il quale ha sottoposto a vincolo
paesaggistico, tra l’altro, "le aree assegnate alle università agrarie e le
zone gravate da usi civici” (art. 82, quinto comma, lettera h, del d.lgs. n.
616 del 1977) e, poi, con l’art. 142, comma 1, lettera h), del d.lgs. n. 42 del
2004 che ha inserito detti beni nel codice dei beni culturali e del paesaggio»
(sentenza n. 103
del 2017).
Da ciò si evince che nel
vigente quadro normativo la previa assegnazione a categoria dei beni civici non
è più necessaria, in quanto il vincolo paesaggistico-ambientale è già perfetto
e svolge pienamente i suoi effetti a prescindere da tale operazione, la quale –
a sua volta – non è più funzionale agli scopi colturali, come un tempo
configurati, e neppure coerente col medesimo vincolo paesistico-ambientale.
Infatti, l’assegnazione a
categoria era funzionale alla quotizzazione dei terreni coltivabili, il cui
fisiologico esito era l’affrancazione (previo accertamento delle migliorie
colturali), cioè la trasformazione del demanio in allodio, oggi incompatibile
con la conservazione ambientale.
È stato in proposito
affermato che «[l]a linea di congiunzione tra le norme risalenti e quelle più
recenti, che hanno incluso gli usi civici nella materia paesaggistica ed
ambientale, va rintracciata proprio nella pianificazione: ai piani economici di
sviluppo per i patrimoni silvo-pastorali di cui
all’art. 12 della legge n. 1766 del 1927 vengono oggi ad aggiungersi ed a
sovrapporsi i piani paesaggistici di cui all’art. 143 del d.lgs. n 42 del 2004.
La pianificazione prevista da questi ultimi – a differenza del passato –
riguarda l’intero patrimonio dei beni civici e non più solo i terreni
identificati dall’art. 11 della legge n. 1766 del 1927 con la categoria a
("terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente”)»
(sentenza n. 103
del 2017).
5.– La relazione tra il
peculiare regime civilistico dei beni civici e l’effetto sanante della norma
regionale denunciata determina altresì il contrasto di quest’ultima con l’art.
3 Cost.
È evidente nel caso in
esame l’irragionevolezza e l’incoerenza di un meccanismo normativo che fa
discendere da un illecito, quale l’intervenuta edificazione su un suolo demaniale,
il diritto ad acquistare detto suolo e per di più a un prezzo di favore, se non
addirittura simbolico.
Deve, al riguardo, essere
condiviso l’assunto del giudice rimettente in ordine all’illegittimità della iniusta locupletatio che il
legislatore regionale dispone a favore dell’occupatore.
Questa Corte ebbe ad
affermare a proposito dell’occupazione acquisitiva – che pure fu dichiarata
costituzionalmente illegittima (sentenza n. 349 del
2007) – che tale patente capovolgimento del principio enunciato agli artt.
934 e seguenti cod. civ. aveva trovato giustificazione, prima della richiamata
declaratoria, nell’esigenza di ritenere prevalenti le ragioni
dell’amministrazione pubblica a conservare lo stato dei luoghi ove si erano
determinate irreversibili trasformazioni per la realizzazione di opere
pubbliche o di pubblica utilità dell’area illegittimamente occupata.
La logica di tale
orientamento «era focalizzata soprattutto sull’aspetto civilistico, relativo al
mutamento di titolarità del bene per ragioni di certezza delle situazioni
giuridiche, mentre rimaneva pacifico il principio della responsabilità
aquiliana e per ciò stesso la negazione di un’alternativa al ristoro del danno,
corrispondente al valore reale del bene e con le somme accessorie di rito» (sentenza n. 349 del
2007).
Ancor più la disposizione regionale
risulta, sotto tali profili, illegittima, poiché: a) non vi è alcun interesse
pubblico a giustificare tale meccanismo ablativo, dal momento che al diritto
condominiale, così ingiustamente inciso, l’interesse pubblico alla
conservazione ambientale si correla in senso sinergico e non antagonista; b) a
differenza della fattispecie inerente alla sentenza n. 349 del
2007, l’indennizzo dell’ablazione non corrisponde al valore del bene "con
le somme accessorie di rito”, bensì a un prezzo di particolare vantaggio per
l’occupatore, se non addirittura simbolico; c) non sussiste efficacia
costitutiva della situazione giuridica, poiché il successivo contratto, per i
motivi precedentemente specificati, non sarebbe idoneo a intestare l’area
ceduta in capo a colui che la occupa.
Per converso, non si può
fare a meno di concludere che il giusto equilibrio tra interesse pubblico e
interesse privato non può ritenersi soddisfatto da una disciplina che permette
al privato occupatore sine titulo di acquisire un
bene in difformità dallo schema legale e di conservare il manufatto realizzato
corrispondendo per la sola area di sedime un prezzo ampiamente inferiore al
valore del bene.
Peraltro, l’art. 8 della
legge regionale in esame contrasta con l’art. 3 Cost.
anche per quanto concerne: a) le procedure di asta pubblica «se [i terreni
sono] divenuti edificabili»; b) la «legittima realizzazione» o il previo
condono di cui al comma 2 del menzionato art. 8; c) le «successioni nel
possesso» del bene d’uso civico; d) la prelazione per i «detentori di aree
civiche» di cui al comma 3.
Si tratta di poteri
intrinsecamente contraddittori, perché tutti in contrasto con il presupposto
indefettibile della previa "sclassificazione”. Tale presupposto – come da
costante orientamento di questa Corte e della Corte di cassazione – può
concretarsi solo nelle fattispecie legali tipiche, nel cui ambito
procedimentale è oggi ricompreso anche il concerto tra la Regione e il Ministero
dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare [rectius: Ministero
dei beni e delle attività culturali e del turismo ex ord.
226/2018] (ex multis, sentenza n. 210 del
2014).
Ciò comporta, con riguardo
alle evocate fattispecie, che senza la previa sclassificazione nelle forme di
legge: a) non possono essere alienati beni civici attraverso aste pubbliche; b)
non possono essere configurati «legittima realizzazione» o condoni; c) non sono
rilevanti «successioni nel possesso»; d) non sono ipotizzabili prelazioni per i
«detentori di aree civiche».
6.– Anche la questione
sollevata in riferimento agli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione all’art. 142 del d.lgs. n. 42 del 2004,
è fondata.
Questa Corte ha avuto modo
più volte di sottolineare come i profondi mutamenti intervenuti nel secondo
dopoguerra abbiano inciso sul profilo economico dell’esercizio degli usi
civici, mettendo in ombra tale aspetto, ma a un tempo evidenziandone la
rilevanza quanto ad altri profili e in particolare a quello ambientale.
Tale rilevanza strategica
«ha trovato il suo riconoscimento, prima, con il decreto-legge 27 giugno 1985,
n. 312 (Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse
ambientale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, della legge 8 agosto
1985, n. 431, che novellando l’art. 82 del d.P.R. 24
luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all’art.1 della legge 22
luglio 1975, n. 382) ha sottoposto a vincolo paesaggistico "le aree assegnate
alle università agrarie e le zone gravate da usi civici”, e poi con l’art. 142
del d.lgs. n. 42 del 2004» (sentenza n. 210 del
2014).
Si è andato in tal modo
delineando un forte collegamento funzionale con la tutela dell’ambiente e con
la pianificazione paesistica e territoriale, cosicché allo stato coesistono due
ambiti di competenza, quella esclusiva dello Stato in materia ambientale e
paesaggistica e quella regionale in tema di pianificazione del territorio.
Questa Corte ha affermato
che «"la conservazione ambientale e paesaggistica” spetta, in base all’art.
117, secondo comma, lettera s), Cost., alla cura
esclusiva dello Stato [e] ciò in aderenza all’art. 9 Cost.,
che sancisce quale principio fondamentale quello della tutela del paesaggio,
inteso come morfologia del territorio, cioè l’ambiente nel suo aspetto visivo.
In sostanza, è lo stesso aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e
culturali che contiene, che è di per sé un valore costituzionale (sentenza n. 367 del
2007). […] Quanto agli usi civici in particolare, la competenza statale
nella materia trova attualmente la sua espressione nel citato art. 142 del
codice dei beni culturali e del paesaggio, le cui disposizioni fondamentali
questa Corte ha qualificato come norme di grande riforma economico-sociale (sentenze n. 207
e n. 66 del 2012,
n. 226 e n. 164 del 2009
e n. 51 del 2006).
[…] Vi è, dunque, una connessione inestricabile dei profili economici, sociali
e ambientali, che "configurano uno dei casi in cui i principi combinati dello
sviluppo della persona, della tutela del paesaggio e della funzione sociale
della proprietà trovano specifica attuazione, dando origine ad una concezione
di bene pubblico […] quale strumento finalizzato alla realizzazione di valori
costituzionali” (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza n. 3811
del 2011, a proposito della fattispecie analoga delle "valli da pesca”). È la
logica che ha ispirato questa Corte quando ha affermato che "la sovrapposizione
fra tutela del paesaggio e tutela dell’ambiente si riflette in uno specifico
interesse unitario della comunità nazionale alla conservazione degli usi
civici, in quanto e nella misura in cui concorrono a determinare la forma del
territorio su cui si esercitano, intesa quale prodotto di ‘una integrazione tra
uomo e ambiente naturale’” (sentenza n. 46 del
1995)» (sentenza
n. 210 del 2014).
6.1.– Vi sono inoltre aspetti di indefettibile
sovrapposizione funzionale e strutturale tra la tutela paesistico-ambientale e
quella dominicale dei beni di uso civico.
Il fatto che le peculiari
tipologie d’utilizzo dei beni d’uso civico e il relativo regime giuridico siano
stati riconosciuti dal legislatore in materia ambientale come meritevoli di tutela
per la realizzazione di interessi generali, ulteriori e diversi rispetto a
quelli che avevano favorito la conservazione incontaminata di questi patrimoni
collettivi, determina un meccanismo di garanzia integrato e reciproco per cui
l’utilizzazione non intensiva del patrimonio civico e il regime di
imprescrittibilità e inalienabilità sono contemporaneamente causa ed effetto
della peculiare fattispecie che il legislatore ambientale intende preservare,
precludendo soluzioni che sottraggano tale patrimonio alla sua naturale
vocazione.
Ne consegue che «[i]l
riconoscimento normativo della valenza ambientale dei beni civici ha
determinato, da un lato, l’introduzione di vincoli diversi e più penetranti e,
dall’altro, la sopravvivenza del principio tradizionale, secondo cui eventuali
mutamenti di destinazione – salvo i casi eccezionali di legittimazione delle
occupazioni e di alienazione dei beni silvo-pastorali
– devono essere compatibili con l’interesse generale della comunità che ne è
titolare» (sentenza
n. 103 del 2017).
I descritti vincoli valgono
anche per i condomini e per l’ente esponenziale della collettività cui questi
ultimi appartengono. Si realizza così una disciplina complessa per cui il
condominio costituisce elemento necessario per la conservazione dei beni
ambientali ma i poteri dei condomini e dell’ente che li rappresenta – come
l’Università agraria nel caso in esame – non possono trasmodare oltre il
peculiare regime civilistico di tali beni ed entrare così in contrasto con la
tutela ambientale.
In definitiva, con riguardo
alla fattispecie in esame, né il Comune (rilasciando il permesso in sanatoria),
né l’Università agraria (alienando l’immobile) possono disporre in difformità
dei principi del diritto condominiale anche perché, come detto, esso è
consustanziale alla tutela ambientale stessa.
La richiamata evoluzione
del sistema di garanzie poste a protezione di questi beni collettivi consente
di focalizzare correttamente l’attenzione sulla disciplina delle trasformazioni
d’uso dei beni civici, con particolare riguardo agli istituti traslativi
attraverso i quali tali trasformazioni divengono possibili.
Da un lato, l’alienazione e
la legittimazione «servono alla conversione del demanio in allodio, comportante
la sottoposizione del bene trasformato alla disciplina civilistica della
proprietà privata; dall’altro, il mutamento di destinazione ha lo scopo di
mantenere, pur nel cambiamento d’uso, un impiego utile alla collettività che ne
rimane intestataria. Già prima dell’emanazione del Codice dei beni culturali e
del paesaggio questa Corte aveva affermato che nell’ordinamento costituzionale
vigente prevale – nel caso dei beni civici – l’interesse "di conservazione
dell’ambiente naturale in vista di una [loro] utilizzazione, come beni
ecologici, tutelato dall’articolo 9, secondo comma, Cost.”
(sentenza n. 391
del 1989)» (sentenza
n. 103 del 2017).
Se il mutamento di
destinazione è compatibile – sotto gli enunciati profili – col regime di
indisponibilità dei beni civici, altrettanto non può dirsi degli istituti
dell’alienazione e della legittimazione, i quali – rispettivamente per i beni
di categoria a e di categoria b (art. 11 della legge n. 1766 del 1927) –
prevedono la trasformazione del demanio in allodio con conseguente
trasferimento del bene in proprietà all’acquirente o al legittimatario,
attraverso la previa sclassificazione dello stesso. Detti procedimenti sono
stati interpretati con rigorosi criteri restrittivi dal giudice della
nomofilachia, che ne ha sovente equiparato i caratteri e gli effetti alla
sdemanializzazione vera e propria (in tal senso, Corte di cassazione, sezione
seconda civile, sentenza 12 dicembre 1953, n. 3690).
Peraltro, come ricorda il
giudice rimettente, il legislatore prevede che tali eccezionali e tassative
ipotesi sono comunque precluse quando comportano gravi pregiudizi alla
continuità del demanio.
Al contrario, il mutamento
di destinazione non contrasta con il regime di indisponibilità del bene civico:
infatti i decreti di autorizzazione al mutamento prevedono, salvo casi
eccezionali, la clausola risolutiva ricavata dall’art. 41 del r.d. n. 332 del 1928, secondo cui, ove la nuova
destinazione venga a cessare, sarà automaticamente ripristinata la precedente
oppure conferita una nuova, anch’essa compatibile con la vocazione dei beni,
attraverso la valutazione delle autorità competenti. Queste ultime – per quanto
precedentemente argomentato – devono essere oggi individuate nel Ministero
dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare [rectius: Ministero
dei beni e delle attività culturali e del turismo ex ord.
226/2018] e nella Regione (in tal senso, sentenza n. 210 del
2014).
7.– Rimane assorbita la
questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento al principio
di leale collaborazione.
8.– Dunque, in ragione della
suddetta violazione dei plurimi parametri costituzionali e del rapporto di
stretta concatenazione oggettiva e funzionale dei diversi commi che lo
compongono, l’art. 8 della legge reg. Lazio n. 6 del 2005 deve essere
dichiarato costituzionalmente illegittimo nella sua interezza.
per
questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 8 della legge della Regione Lazio 3 gennaio 1986, n. 1
(Regime urbanistico dei terreni di uso civico e relative norme transitorie), come
modificato dall’art. 8 della legge della Regione Lazio 27 gennaio 2005, n. 6,
recante «Modifiche alla legge regionale 3 gennaio 1986, n. 1 (Regime
urbanistico dei terreni di uso civico e relative norme transitorie) e
successive modifiche ed alla legge regionale 6 agosto 1999, n. 14
(Organizzazione delle funzioni a livello regionale e locale per la
realizzazione del decentramento amministrativo) e successive modifiche».
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 aprile 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI,
Presidente
Aldo CAROSI, Redattore
Filomena PERRONE,
Cancelliere
Depositata in Cancelleria
il 31 maggio 2018.