SENTENZA N. 133
ANNO 1993
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Dott. Francesco GRECO
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 29, primo comma, della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del r.d. 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del r.d. 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del r.d.22 maggio 1924, n. 751, e del r.d. 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del r.d.l. 22 maggio 1924, n.751), promosso con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 19 dicembre 1991 dalla Corte di cassazione, Sezioni unite civili, sul ricorso proposto dalla Comunità Montana della Maielletta contro il Comune di Rapino, iscritta al n. 353 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.29, prima serie speciale, dell'anno 1992;
2) ordinanza emessa il 23 gennaio 1992 dalla Corte di cassazione, Sezioni unite civili, sul ricorso proposto dal Condominio Altair ed altri contro il Comune di Ovindoli ed altri, iscritta al n. 354 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 1992.
Visto l'atto di costituzione della Comunità Montana della Maielletta nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 9 febbraio 1992 il giudice relatore Luigi Mengoni;
uditi l'avv. Lucio V. Moscarini per la Comunità Montana della Maielletta e l'Avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
l. Citata d'ufficio in giudizio, insieme col Comune di Rapino, dal Commissario per il riordinamento degli usi civici in Abruzzo, al fine di sentire dichiarare la natura demaniale civica di un terreno su cui aveva promosso la costruzione di un manufatto a servizio del locale artigianato artistico della ceramica, la Comunità Montana della Maielletta proponeva ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, adducendo l'eccesso di potere giurisdizionale rilevabile nell'azione esercitata dal commissario.
Nel corso di questo giudizio, la Corte di cassazione, Sezioni unite civili, con ordinanza del 19 dicembre 1991, pervenuta alla Corte costituzionale il 16 giugno 1992, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art.29, primo comma, della legge 16 giugno 1927, n. 1766, "nella parte in cui prevede che i giudizi davanti ai commissari degli usi civici possano essere promossi anche di ufficio", per contrasto con gli artt. 24, primo e secondo comma, 101 e 118, primo e secondo comma, della Costituzione.
Ad avviso del giudice remittente, l'attribuzione al commissario del potere non solo di decidere le controversie indicate dall'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927, ma anche di promuoverle, assumendo nel processo sia la veste di attore sia quella di giudice, trova spiegazione nel fatto che nell'ordinamento originario degli usi civici il commissario era insieme giudice speciale e organo di amministrazione attiva portatore di interessi pubblici concreti. L'anomalia dell'attore-giudice era un riflesso dell'anomalia amministratore-giudice, a suo tempo ritenuta da questa Corte non contrastante con gli artt. 25, primo comma, e 108, secondo comma, Cost. (sent. n. 73 del 1970
).
L'anomalia è cessata in seguito al d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, che ha trasferito alle regioni tutte le funzioni amministrative in materia di usi civici precedentemente attribuite al commissario e al Ministro dell'agricoltura. Oggi il commissario è soltanto un giudice, e quindi non può farsi portatore di alcun interesse particolare, sia pure dell'interesse pubblico inerente alla materia degli usi civici, la cura del quale, anche nella forma del potere di promuovere le controversie previste dall'art. 29, è ora rimessa alle regioni (art. 66, sesto comma, del d.P.R. n. 616 del 1977, in relazione all'art. 10 della legge 10 luglio 1930, n. 1078).
La norma denunciata è ritenuta incompatibile sia con l'art. 24, primo comma, Cost., perchè elimina la necessaria distinzione - insita nella garanzia del diritto di agire in giudizio - tra giudice e attore che formula la domanda, sia col secondo comma, perchè menoma gravemente il diritto di difesa delle parti del rapporto sostanziale, diritto che si esplica nella contrapposizione dialettica delle parti medesime e non nella contrapposizione con lo stesso giudice.
Il dubbio di legittimità costituzionale è prospettato anche in riferimento all'art. 101 Cost., sul riflesso che, se il giudice è garante del solo interesse generale alla corretta applicazione della legge, non può, senza contraddizione, essere contemporaneamente portatore di interessi particolari e concreti, anche se di carattere pubblico, ma propri della pubblica amministrazione, quali gli interessi sottesi alla proposizione di una domanda giudiziale.
Infine è ravvisata una violazione dell'art. 118 Cost. perchè, una volta trasferite alle regioni le funzioni amministrative in materia di usi civici, il potere del commissario di promuovere i giudizi di cui all'art. 29 appare invasivo dell'autonomia delle regioni nell'ambito della sfera di amministrazione ad esse riservata dalla Costituzione.
2. Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale si è costituita la Comunità Montana della Maielletta concludendo per la fondatezza della questione.
Secondo la ricorrente, il trasferimento alle regioni di tutte le funzioni amministrative in materia di usi civici ha privato il commissario dell'ufficio di tutela dell'interesse pubblico alla conservazione dei demani civici, che nel regime precedente poteva giustificare il potere di agire d'ufficio correlato a una rilevante attenuazione del principio dispositivo. Nel nuovo regime, che distingue tra interesse pubblico sostanziale (di cui è ora portatrice la regione) e interesse a reintegrare il diritto violato, deve essere ripristinato nella sua pienezza il principio dispositivo e, con esso, il principio della domanda, il quale vieta che un processo sia deciso da chi ad esso ha dato inizio.
3. É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata.
Secondo l'interveniente, la Corte di cassazione avrebbe dovuto dichiarare l'inammissibilità del ricorso per regolamento di giurisdizione, perchè "questo strumento processuale è dato per definire preventivamente quale sia il giudice o se vi sia un giudice dotato di giurisdizione, non anche per giudicare della legittimazione o meno del soggetto (od organo) attore o convenuto".
Nel merito l'Avvocatura osserva che la tutela dei diritti sulle terre civiche è venuta assumendo obiettivi di salvaguardia dell'ambiente, del paesaggio e delle caratteristiche storico-antropologiche delle popolazioni e che a tali fini è indispensabile il potere di iniziativa processuale del commissario, non potendosi fare affidamento sull'iniziativa diretta delle collettività titolari dei di ritti e nemmeno sull'iniziativa delle regioni, attesa la matrice politico-discrezionale che le contrassegna in relazione alla molteplicità degli interessi di varia natura che si appuntano sul territorio. Si giustifica perciò la deroga al principio nemo judex sine actore.
L'art. 24 Cost. non è violato nè in riferimento al primo comma, perchè, non essendo il potere di impulso processuale attribuito al commissario in via esclusiva, nessun limite ne deriva al potere di agire di altri soggetti; nè in riferimento al secondo comma, perchè nel processo, pur attivato dal commissario, si instaura un effettivo contraddittorio, che garantisce pienamente il diritto di difesa e insieme il rispetto dell'art. 101 Cost.
Infine, quanto all'asserita violazione del- l'art. 118 Cost., si obietta che l'attribuzione al commissario di un potere di iniziativa ufficiosa attiene alla disciplina della funzione giurisdizionale e perciò esorbita dalla competenza regionale.
4. In una memoria di replica alle deduzioni dell'Avvocatura la ricorrente sottolinea in particolare: a) l'improprietà del richiamo ad altre figure di iniziativa processuale del giudice, quali quelle previste dal codice civile in materia minorile o la dichiarazione d'ufficio di fallimento, queste essendo figure di giurisdizione volontaria, che mettono capo a provvedimenti inidonei a formare cosa giudicata, mentre il processo commissariale in materia di usi civici ha natura inequivocamente contenziosa; b) la focalizzazione della questione sulla fase iniziale del giudizio commissariale, nella quale si consuma la violazione dell'art.24 Cost., di guisa che è irrilevante il contenuto dei poteri delle parti a processo già iniziato; c) l'inidoneità dell'interesse pubblico all'accertamento dei diritti di uso civico quale criterio di giustificazione della deroga al principio della domanda.
5. La medesima questione è stata sollevata dalla stessa Corte di cassazione, sezioni unite civili, con ordinanza di analogo tenore in data 23 gennaio 1992, nel giudizio sul ricorso proposto, a norma dell'art. 111 Cost., dai condominii Altair, Garage I e Garage II di Ovindoli contro la sentenza 16 gennaio 1991 del Commissario regionale per il riordinamento degli usi civici in Abruzzo. Previo accertamento della natura demaniale civica di un terreno venduto nel 1970 dal Comune di Ovindoli ai detti condominii, questa sentenza ha dichiarato la nullità dell'originario atto di vendita, nonchè del successivo atto di cessione definitiva, denominato di "conciliazione", stipulato nel 1990 ai sensi dell'art. 30 della legge n. 1766 del 1927, con cui gli stessi contraenti hanno inteso definire la controversia demaniale conclusa da una precedente sentenza commissariale del 12 novembre 1986.
6. Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.
Inammissibile per difetto totale di motivazione in punto di rilevanza; infondata per le medesime ragioni dedotte nelle memorie versate nell'altro giudizio di costituzionalità.
Considerato in diritto
l. Con due ordinanze pronunciate l'una (R.O. 353/92) in sede di regolamento di giurisdizione, l'altra in sede di ricorso ex art. 111 Cost. (R.O. 354/92) le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 29, primo comma, della legge 16 giugno 1927, n. 1766, "nella parte in cui prevede che i giudizi davanti ai commissari degli usi civici possano essere promossi anche di ufficio".
2. L'Avvocatura dello Stato ha eccepito l'inammissibilità della questione sollevata con la prima ordinanza, sul rilievo che il ricorso per regolamento di giurisdizione è uno strumento processuale per individuare il giudice avente giurisdizione, "non anche per giudicare della legittimazione o meno del soggetto (od organo) attore o convenuto". L'eccezione non può essere condivisa. Essa presuppone che il commissario-giudice, quando esercita il potere di procedere ex officio, assuma anche la qualità di parte nel processo, il che è sicuramente da escludere.
L'iniziativa ufficiosa è, essa stessa, un atto interno alla funzione giurisdizionale, di guisa che la questione se il commissario sia investito del potere di agire d'ufficio è legittimamente proposta col ricorso previsto dall'art. 41 cod.proc.civ.
La questione sollevata con la seconda ordinanza sarebbe irrilevante, secondo l'Avvocatura dello Stato, perchè la natura demaniale civica del terreno di cui si controverte è già stata accertata da una sentenza commissariale in data 21 novembre 1991 passata in giudicato. Anche questa eccezione va respinta perchè la valutazione circa l'efficacia preclusiva di una sentenza precedente, pronunciata nei confronti delle stesse parti, appartiene alla competenza del giudice a quo.
3. I giudizi di costituzionalità promossi dalle due ordinanze hanno per oggetto la medesima questione e quindi se ne dispone la riunione perchè siano definiti con unica sentenza.
4. La questione è inammissibile per una ragione attinente ai limiti dei poteri di questa Corte.
Ad avviso del giudice a quo, il potere di impulso processuale attribuito dalla norma denunciata al commissario, mentre poteva giustificarsi nell'ordinamento originario degli usi civici, dove "l'anomalia dell'attore-giudice era il riflesso dell'anomalia amministratore-giudice", non è più giustificabile dopo il trasferimento alle regioni di tutte le funzioni amministrative in questa materia, attuato dal d.P.R.24 luglio 1977, n. 616: "il commissario, oggi, è soltanto un giudice che, come tale, non può e non deve essere portatore di alcun interesse particolare attinente alla materia degli usi civici, la cui cura non gli è più attribuita".
Integrato con l'assunto che il commissario non è oggi portatore di alcun interesse pubblico all'infuori dell'astratto interesse alla corretta applicazione della legge, l'argomento dovrebbe indurre a risolvere la questione sul piano esegetico, riconoscendo non più sostenibile, conformemente all'opinione di una parte della dottrina, l'interpretazione che estende l'inciso "anche di ufficio" contenuto nel primo comma dell'art. 29 della legge n. 1766 del 1927, concernente le funzioni amministrative del commissario, all'accertamento giurisdizionale dei diritti di uso civico e in genere alle funzioni giurisdizionali previste nel secondo comma. Nella giurisprudenza anteriore al 1977 tale interpretazione e la conseguente natura prevalentemente inquisitoria del processo in materia di usi civici erano affermate in ragione dell'incidentalità delle controversie di competenza del commissario nelle operazioni amministrative a lui stesso affidate.
La tradizionale interpretazione estensiva, tenuta ferma dalla Corte di cassazione, può ancora sostenersi soltanto se si nega il detto carattere di incidentalità, cioè la perfetta corrispondenza delle funzioni giurisdizionali a quelle amministrative, e si ammette, invece, che il trasferimento di queste alle regioni non esaurisce il compito di cura degli interessi pubblici inerenti agli usi civici.
Accanto agli interessi locali, di cui sono diventate esponenti le regioni, emerge l'interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici nella misura in cui essa contribuisce alla salvaguardia dell'ambiente e del paesaggio. Il potere dei commissari di provvedere d'ufficio alla tutela giurisdizionale non è riferibile se non a siffatto interesse - sancito dall'art. 1 della legge 8 agosto 1985, n.431, che ha assoggettato a vincolo paesaggistico le zone gravate da usi civici - e, con esso, indirettamente anche all'interesse delle popolazioni titolari dei diritti civici, non sempre coincidente con gli interessi particolari portati dall'amministrazione regionale.
5. Apprezzato alla stregua di questa precisazione, l'argomento riferito nel numero precedente intacca il fondamento giustificativo dell'attribuzione allo stesso commissario-giudice del potere di promuovere d'ufficio i giudizi di sua competenza, ma non conduce a una soluzione meramente caducatoria, che riserverebbe il potere di azione alle popolazioni interessate e alle regioni. In altre parole, dato l'interesse pubblico generale sopra individuato, la cura del quale non può essere rimessa esclusivamente alle regioni, la questione di legittimità costituzionale della norma impugnata può porsi solo come dubbio se la deroga al principio della domanda, che garantisce l'imparzialità e l'oggettività del giudizio, sia tuttora razionalmente giustificabile oppure, venuta meno la giustificazione legata all'originaria coesistenza in capo al commissario delle funzioni amministrative e delle funzioni giurisdizionali, il potere di impulso ufficioso debba essere attribuito a un organo di giustizia diverso, e precisamente al pubblico ministero giusta il modello normalmente seguito dalla legge quando nell'oggetto di una controversia è coinvolto, insieme con l'interesse privato, un interesse pubblico generale (cfr. artt. 117, 119, 125, 848, 2098 cod.civ.; art. 78 r.d. n. 1127 del 1939; art. 59 r.d. n. 929 del 1942, ecc.). Il dubbio è proponibile non solo in relazione all'art. 3 Cost., non esplicitamente richiamato nelle odierne ordinanze di rimessione (a differenza dalla precedente ordinanza n.820 del 1991, che ha dato luogo alla sentenza n. 395 del 1992), sebbene il principio di ragionevolezza rimanga il referente implicito della prima parte della motivazione, ma anche con riguardo all'art. 24, secondo comma, Cost. coordinato con l'art. 3: nel nostro caso la deroga alla regola di terzietà del giudice tocca il diritto di difesa alterando la normale dialettica processuale, sia perchè la domanda introduttiva del giudizio, formulata dallo stesso giudice, prefigura il contenuto della decisione, sia perchè il contraddittorio non si instaura in condizioni di parità tra le parti del rapporto sostanziale, bensì tra queste, da un lato, e il giudice dall'altro.
Ma la questione, quale che ne sia il fondamento, è inammissibile in quanto implica una invasione della sfera delle scelte riservate alla discrezionalità del legislatore.
Invero, lo spostamento del potere di azione in capo al pubblico ministero può avvenire secondo una pluralità di varianti, per esempio istituendo l'ufficio del pubblico ministero presso il commissario agli usi civici e lasciando a quest'ultimo il solo compito di giudicare, oppure - soluzione ritenuta dall'Avvocatura dello Stato più coerente con l'art.102, secondo comma, Cost. e con le esigenze pratiche e di salvaguardia - abolendo la giurisdizione speciale del commissario e lasciandogli soltanto il potere di iniziativa processuale, cioè trasformandolo in un organo specializzato del pubblico ministero presso il tribunale ordinario.
In ogni caso, indipendentemente dalle possibili varianti, si tratta di un intervento nell'organizzazione della giustizia manifestamente estraneo ai poteri di questa Corte.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi, dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 29, primo comma, della legge 16 giugno 1927, n.1766 (Conversione in legge del r.d.22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del r.d. 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del r.d. 22 maggio 1924, n. 751, e del r.d.16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del r.d.l. 22 maggio 1924, n. 751), sollevata, in riferimento agli artt.24, primo e secondo comma, 101 e 118, primo e secondo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione - Sezioni unite civili con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25/03/93.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Luigi MENGONI, Redattore
Depositata in cancelleria il 01/04/93.