Sentenza n. 55 del 1971
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SENTENZA N. 55

ANNO 1971

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente   

SENTENZA 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 28 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 9 aprile 1969 dal tribunale di Bologna nel procedimento civile vertente tra Rebeggiani Gianni e Sagrini Ercole, iscritta al n. 190 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 163 del 1 luglio 1970.

Udito nella camera di consiglio del 13 gennaio 1971 il Giudice relatore Costantino Mortati.  

Ritenuto in fatto 

Nel corso del giudizio civile promosso davanti al tribunale di Bologna da Rebeggiani Gianni contro Sagrini Ercole per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza di un incidente stradale che la sentenza dibattimentale di proscioglimento pronunciata dal pretore di Codigoro nei confronti del conducente dell'autovettura Calciolari Claudio aveva dichiarato dovuto allo stato di usura della camera d'aria di una delle ruote, il convenuto sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 28 del codice di procedura penale, in riferimento all'art. 24 della Costituzione.

In base alla ricostruzione dei fatti contenuta nella sentenza del pretore egli infatti, in quanto proprietario dell'autovettura stessa, risultava responsabile dell'incidente e non poteva neppure provare che le cose erano andate in altro modo giacché secondo l'interpretazione comunemente data all'art. 28 del codice di procedura penale, l'accertamento dei fatti contenuto nella sentenza penale, pur pronunciata a conclusione di un giudizio cui egli non aveva in alcun modo partecipato, ha autorità di cosa giudicata nella causa civile di risarcimento.

Il tribunale, ravvisata la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione, la rimetteva a questa Corte - indicando come norme di raffronto tanto il primo quanto il secondo comma dell'art. 24 della Costituzione - con l'ordinanza in data 9 aprile 1969, nella quale faceva presente come la questione meritasse di essere riesaminata nonostante che fosse stata già dichiarata infondata da questa Corte con la sentenza 19 febbraio 1965, n. 5; ciò alla luce delle critiche ad essa mosse dalla dottrina ed in base alla successiva evoluzione della stessa giurisprudenza costituzionale.

Nel corso della sua ampia argomentazione l'ordinanza si sofferma particolarmente a segnalare l'abnormità dell'estensione dell'efficacia del giudicato a soggetti che non hanno partecipato al giudizio, osservando come tale estensione non possa giustificarsi né in base al principio che rende preminente la giurisdizione penale su quella civile e amministrativa, né in base alle esigenze di giustizia inerenti alla certezza ed alla stabilità delle situazioni e dei rapporti giuridici.

Richiamata la necessità, altre volte affermata dalla Corte stessa, di tenere conto dell'applicazione concreta che la norma della cui costituzionalità si dubita riceve da parte della giurisprudenza, l'ordinanza passa in rassegna numerose pronunce della Corte di cassazione da cui si rileva la tendenza a dilatare il campo di operatività dell'art. 28 del codice di procedura penale oltre i confini che deriverebbero da una interpretazione strettamente naturalistica della nozione di fatti materiali e comunque a riconoscere, secondo un indirizzo ormai pacifico, efficacia erga omnes alle pronunce di questo genere.

Nella giurisprudenza costituzionale invece, rileva il tribunale di Bologna, esistono affermazioni del diritto di difesa che appaiono incompatibili con tali indicazioni e con la stessa sentenza n. 5 del 1965: ciò risulta in particolare dalle sentenze n. 70 del 1965, n. 48 e 132 del 1968 e n. 83 del 1969, nelle quali si é desunta dall'art. 24 della Costituzione, la costituzionalizzazione del principio del contraddittorio, gravemente violato dall'art. 28 del codice di procedura penale.

Nessuno si é costituito nel processo avanti la Corte costituzionale.  

Considerato in diritto 

1. - La questione proposta con l'ordinanza in epigrafe, riguardante la illegittimità costituzionale, per violazione dell'art. 24 della Costituzione, dell'art. 28 del codice di procedura penale, nella parte in cui dispone che la sentenza penale irrevocabile, di condanna o di proscioglimento, ha autorità di cosa giudicata nel giudizio civile o amministrativo, quando in questo si controverta intorno ad un diritto il cui riconoscimento dipende dall'accertamento dei fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, é stata già esaminata dalla Corte e ritenuta infondata con la sentenza n. 5 del 1965.

La Corte ritiene che l'importanza della questione stessa e gli aspetti di dubbio che la soluzione presenta rendano necessario un suo riesame.

2. - Per potere esattamente valutare la fondatezza della questione sollevata si rende necessario richiamare i principi affermati dalla giurisprudenza della Corte relativamente ai requisiti necessari affinché possa ritenersi soddisfatto il diritto di difesa sancito dal secondo comma dell'art. 24 Cost., quando lo si consideri nel suo nucleo sostanziale ed irriducibile, e perciò tale da richiedersi in ogni specie di giudizio, quale che sia la struttura dei relativi procedimenti.

É costante in questa giurisprudenza l'affermazione dell'esigenza del riconoscimento "pieno ed effettivo " del diritto in parola, affinché sia garantita la sua " inviolabilità", secondo sancito dall'art. 24. Anche quando é stato ammesso che le modalità di esercizio del diritto possono variare secondo le speciali caratteristiche strutturali dei singoli processi, si é avuto cura di precisare che le peculiarità stesse non devono essere tali da menomare l'esistenza del diritto, affinché ne riescano assicurati lo scopo e la funzione, e perché non se ne renda estremamente difficile l'esercizio (sent. n. 93 del 1962, n. 2 del 1964, n. 5 del 1965). Per il conseguimento di tali finalità si é affermata la necessità dell'instaurazione di un contraddittorio fra le parti, che consenta di opporre controdeduzioni alle deduzioni avversarie (sent. n. 59 del 1959 e n. 83 del 1969), nonché dell'ausilio tecnico-professionale di un difensore (sent. n. 11, 52 e 70 del 1965, n. 53 e 86 del 1968, n. 148 e 149 del 1969, n. 69, 76 e 190 del 1970). Contraddittorio ed ausilio sarebbero però nome vano, se non fosse reso possibile l'accertamento dei fatti su cui si fondano le ragioni sottoposte al giudice e fornire la prova dei fatti stessi (oltre alla citata sent. n. 70 del 1965, cfr. le n. 133 del 1963, n. 39 e n. 70 del 1961, n. 25 del 1964, n. 94 del 1962, n. 41 del 1965; n. 48 del 1968 - circa il divieto dell'estensione del giudicato in confronto ad un coobbligato -, nonché la n. 132 del 1968).

3. - Con il principio così costantemente affermato sembra che contrasti la norma dell'art. 28, nella parte in cui rende vincolante l'accertamento dei fatti materiali emergenti dalla pronuncia penale in confronto di terzi che si siano trovati nella impossibilità giuridica o di fatto, per non averne avuto conoscenza giuridicamente rilevante, di partecipare ad un giudizio penale svoltosi di fronte ad altri soggetti. Infatti l'imposizione di tale vincolo non solo indebolisce, ma rende assolutamente impossibile ai terzi l'esercizio del diritto di difesa, di cui é componente essenziale la disponibilità della prova dei fatti ritenuti idonei a far risultare la fondatezza delle ragioni dedotte a propria difesa. Può anzi ritenersi che l'inibizione di tale prova si risolva in una violazione anche del primo comma dell'art. 24, perché si concreta in un pratico disconoscimento del diritto di azione.

I tentativi effettuati per rintracciare un fondamento sufficiente a conferire una valida giustificazione alla disposizione in questione si sono rivelati inidonei allo scopo; e tanto più fallaci si presentano quando si valutino in confronto alla Costituzione sopravvenuta, poiché nessuna delle ragioni addotte trova appoggio in norme o principi costituzionali invocabili ad attenuare il rigore del precetto di cui al secondo comma dell'art. 24. Già la Corte, nella precedente sentenza n. 5 del 1965, ha ritenuto infondato uno degli argomenti, considerato da una rilevante parte della dottrina idoneo a fornire la ratio della norma in contestazione: quello cioè che si fa discendere da un presunto principio di unità della giurisdizione. Infatti la stessa Costituzione prevede una molteplicità di specie di pretese, affidate alla cognizione di giurisdizioni diverse (artt. 102, 103, 113), mentre nell'ambito della stessa giurisdizione ordinaria si realizza una varietà di organi diversamente competenti; sicché al fine del rispetto di tale ripartizione, é predisposta una disciplina relativa ai rapporti fra le pronunce dei vari organi, ove per l'esercizio di un'azione spettante alla cognizione di uno di essi si renda necessaria la soluzione, in via pregiudiziale, di una questione rientrante nella competenza di un altro (art. 19 c.p.c. o art. 24 c.p.p.);

nonché una serie di rimedi, preventivi o successivi, di fronte ai conflitti possibili a insorgere fra i medesimi.

Né maggior pregio si può attribuire agli argomenti che si deducono, a giustificazione della norma, dall'esigenza dell'economia dei giudizi o da quella della certezza del diritto. Infatti, se é chiaro che la prima non può farsi valere a scapito dei diritti fondamentali, la seconda, ove se ne voglia ammettere la rilevanza costituzionale, trova la sua guarentigia, ma anche i suoi limiti, nell'istituto della cosa giudicata, la cui funzione si esplica nel senso non già di richiedere la coerenza logico-formale fra i vari giudicati, ma nell'altro diverso di fissare in modo stabile le risultanze di un giudizio reso in via definitiva riguardo alle situazioni ed ai rapporti che furono oggetto della controversia, ma limitatamente alle parti originarie del giudizio ed a quanti vi intervennero o dovevano intervenirvi, secondo può desumersi dalle precise statuizioni degli artt. 2909 del codice civile e 90 del codice di procedura penale. L'intento pratico del giudicato é di evitare che due comandi diversi e praticamente incompatibili abbiano la stessa sfera di validità e si verifichi una molteplicità di decisioni nei riguardi della stessa persona e per lo stesso oggetto, o si dia luogo ad un bis in idem.

Ciò posto sembra irrilevante, al fine della decisione della questione in oggetto, indagare sull'esattezza dell'opinione che riconduce l'efficacia nel processo civile dell'accertamento dei fatti materiali per opera della sentenza penale alla cosa giudicata, considerandola come un caso di giudicato sulla fattispecie, poiché anche se così fosse, persisterebbe la difficoltà di consentire valore vincolante a tale accertamento in un giudizio svolgentesi fra parti ed a fini diversi. Analoga irrilevanza presenta la questione circa la misura del limite imposto al giudice civile, ossia all'estensione da dare alla categoria dei "fatti materiali" cui fa riferimento l'art. 28, poiché anche se in essi si facessero rientrare solo i fatti costitutivi del reato (e non già anche, come pure una parte della giurisprudenza ritiene, qualunque accertamento che abbia concorso a determinare la pronuncia penale, o ne costituisca uno dei presupposti), rimarrebbe sempre fermo l'impedimento di farli valere oltre la sfera dei soggetti che furono messi nelle condizioni di concorrere alla prova della loro esistenza o inesistenza.

Un'efficacia riflessa di un giudicato sui terzi potrebbe ammettersi solo quando, come avviene nel processo civile, sia previsto, oltre al potere di un intervento da parte loro, il rimedio dell'opposizione di terzo, a tacere dell'eventualità della loro chiamata ope iudicis (art. 107 c.p.c.).

Si può aggiungere che nel caso di sentenza assolutoria, come quella avutasi nel giudizio in cui é sorta la questione, manca altresì il rimedio della revisione, esperibile in caso di condanna, e conseguentemente la possibilità di far cadere gli effetti civili derivanti dalla sentenza penale, ex art. 395 del codice di procedura civile.

Non vale a far giungere a diversa conclusione mettere in rilievo che al giudice civile é rilasciata libertà di procedere a valutazione diversa dei fatti accertati in sede penale, poiché la difesa dell'interesse fatto valere di fronte al medesimo può dipendere dal contestare l'esattezza della materialità dei fatti, resa invece impossibile persino nel caso che si volesse basare la prova su circostanze sopravvenute alla sentenza penale assolutoria.

Dalle peculiarità del caso in esame, quale é data dal fatto che al chiamato a rispondere civilmente non si addebita una responsabilità indiretta, quale preponente dell'incaricato a condurre la vettura ribaltata, bensì una responsabilità diretta, che avrebbe reso possibile anche l'esperimento nei suoi confronti di un'azione penale, si può trarre un'ulteriore argomentazione sulla irrazionalità dell'art. 28. Infatti il proprietario della vettura, se fosse stato chiamato a rispondere penalmente della sua colpevole negligenza accertata nel giudizio contro il conducente, non sarebbe rimasto vincolato ai fatti accertati in quest'ultimo, in virtù del principio del libero convincimento del giudice penale.

É anche da escludere che il vincolo discendente dall'articolo 28 si possa configurare come un'ipotesi di prova legale, poiché (a parte ogni considerazione sull'influenza da attribuire all'accoglimento della medesima sulla questione di costituzionalità) si é fuori dai casi che rendono valido tale tipo di prova, ai sensi degli artt. 2699 e 2700 del codice civile, dato che la sentenza contiene non una documentazione di fatti che il giudice attesti veritieri, bensì una valutazione di circostanze al fine della formazione della sua convinzione.

4 - In realtà la presunzione di assoluta verità dei meri fatti accertati dal giudice penale trova a proprio favore una spiegazione d'indole esclusivamente storica, discendendo, per una parte, dalla speciale fiducia attribuita dal legislatore dell'epoca ai mezzi istruttori esperibili dal giudice penale, in ragione della pienezza del potere ad esso accordato nella raccolta e nella valutazione del materiale probatorio, in virtù del principio inquisitorio, dal che si fa derivare la prevalenza di fronte agli altri giudici delle sue decisioni; e correlativamente, per un'altra parte, dalla preoccupazione della sfiducia nel magistero penale che verrebbe altrimenti ad insorgere, ove gli accertamenti compiuti nel suo spiegarsi risultassero smentiti o contraddetti da altre pronunce. Motivo sulla cui infondatezza si é già pronunciata la Corte con la precedente sentenza n. 5 del 1965.

5. - Non si contesta l'opportunità, al fine di ridurre al minimo i contrasti fra giudicati e di effettuare un'economia dei giudizi, di dar luogo ad un migliore coordinamento fra le pronunce promananti da giurisdizioni diverse, quando siano in contestazione gli stessi rapporti, o rapporti fra loro interferenti; valutabili sotto la specie di disposizioni differenti.

Su questa via, che può essere percorsa solo dal legislatore, questi si é messo con la recente legge 5 dicembre 1969, n. 932, il cui art. 8, inserito a seguito della sentenza di questa Corte n. 132 del 1968, sostituendo un nuovo testo a quello dell'art. 304 del codice di procedura penale, ha, differentemente da quanto disposto dall'art. 408 stesso codice, fatto preciso obbligo al giudice istruttore di comunicare a coloro che vi possono avere interesse, come parti private, avviso di procedimento, con invito ad esercitare la facoltà di nominare un difensore, e di comunicarlo altresì a tutti coloro che possono assumere la qualità di parti private, se per gli atti da compiere la legge riconosce alle medesime un determinato diritto.

In presenza di tale disposizione appare chiaro che la pronuncia di incostituzionalità dell'art. 28, nei limiti in cui essa dev'essere contenuta, viene a perdere, per una parte, la sua pratica operatività. Questa non risulta tuttavia eliminata essendo rilevante non solo per i procedimenti svoltisi anteriormente all'entrata in vigore della medesima, ma anche per quelli sopravvenuti successivamente, almeno per quanto riguarda il responsabile civile, data la possibilità (non già della omissione dell'obbligo di comunicazione da parte del giudice, poiché da essa deriverebbe una ragione di nullità ex art. 412, non più sanabile secondo ha statuito la sentenza sopra richiamata, ma) della esclusione che venisse disposta nei confronti del medesimo, ai sensi degli artt. 116 e segg. del codice di procedura penale (salvo il caso dell'ultimo comma dell'art. 121 nel quale l'esclusione preclude alla parte civile l'azione civile contro il responsabile).  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 28 del codice di procedura penale, nella parte in cui dispone che nel giudizio civile o amministrativo l'accertamento dei fatti materiali che furono oggetto di un giudizio penale sia vincolante anche nei confronti di coloro che rimasero ad esso estranei perché non posti in condizione di intervenirvi.  

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 marzo 1971.

Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 22 marzo 1971.