Sentenza n. 70 del 2024

SENTENZA N. 70

ANNO 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da:

Presidente: Augusto Antonio BARBERA;

Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 257, secondo periodo, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», promosso dalla Corte di cassazione, sezione seconda civile, nel procedimento vertente tra G. S. e Roma Capitale e l’Agenzia del demanio, con ordinanza del 13 ottobre 2023, iscritta al n. 155 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Visti l’atto di costituzione di G. S. e l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nell’udienza pubblica del 6 marzo 2024 la Giudice relatrice Antonella Sciarrone Alibrandi;

udito l’avvocato Carmine Alessandro Arieta per G. S. e l’avvocato dello Stato Francesco Meloncelli per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 7 marzo 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 13 ottobre 2023 (reg. ord. n. 155 del 2023), la Corte di cassazione, sezione seconda civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 257, secondo periodo, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», nella parte in cui «prevede l’applicazione retroattiva dei nuovi criteri di determinazione dell’indennizzo per realizzazione abusiva, ovvero difforme, di opere inamovibili sul demanio marittimo, parametrati ai valori di mercato e non ai criteri legislativi espressi nel precedente D.L. n. 400 del 1993», in riferimento agli artt. 3, 23, 24, primo comma, 102, primo comma, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

2.– Il rimettente espone le vicende del giudizio a quo e riferisce che G. S., nel riassumere il giudizio precedentemente instaurato dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, poi dichiaratosi carente di giurisdizione, ha impugnato dinanzi al Tribunale ordinario di Roma, con atto notificato il 13 febbraio 2009, il provvedimento del 23 novembre 2007 con il quale il Comune di Roma gli ha ingiunto il pagamento di euro 64.628,13 a titolo di indennizzo determinato ai sensi dell’art. 1, comma 257, della legge n. 296 del 2006, in riferimento al periodo 1° gennaio 2002-31 dicembre 2007, per una concessione demaniale marittima scaduta il 31 dicembre 2001, relativa al mantenimento di una cabina balneare a uso residenza estiva su un’area demaniale marittima sita in Ostia Lido.

Con tale provvedimento amministrativo, il Comune di Roma ha contestato non solo l’occupazione illegittima dell’area, ma anche la realizzazione su di essa di opere inamovibili in totale assenza di titolo abilitativo.

L’attore nel giudizio principale ha ricostruito la complessa vicenda amministrativa concernente l’originaria concessione rilasciata alla sua dante causa fino al 31 dicembre 2001, riferendo dei suoi infruttuosi tentativi di ottenerne la proroga o il rinnovo. Ha altresì esposto di aver chiesto al Tribunale di Roma l’annullamento del provvedimento impugnato e, in via subordinata, la riduzione dell’importo dell’indennizzo, «in ragione del principio di irretroattività applicabile alla legge n. 296/2006», posta a base della quantificazione operata dal Comune di Roma, in quanto entrata in vigore successivamente al periodo di occupazione abusiva individuato dall’amministrazione comunale.

Dalla ricostruzione in fatto operata dall’ordinanza di rimessione, risulta che il Tribunale e la Corte di appello di Roma hanno rigettato la domanda, avendo accertato l’illegittimità dell’occupazione e l’abusività, insuscettibile di sanatoria, della costruzione realizzata, che ha inciso in maniera irreversibile sull’assetto edilizio-urbanistico dell’area.

Il rimettente evidenzia che i giudici di entrambi i gradi di merito hanno affrontato il tema dell’efficacia nel tempo dell’art. 1, comma 257, della legge n. 296 del 2006, nella parte in cui dispone che l’indennizzo dovuto è commisurato al canone di mercato in caso di occupazione abusiva di un bene demaniale, quando essa si risolve – come nella specie – nella realizzazione di opere inamovibili in difetto assoluto di titolo abilitativo, ovvero in presenza di titolo abilitativo che per il suo contenuto è incompatibile con la destinazione e la disciplina del bene demaniale. A tal proposito, risulta che il Tribunale e la Corte d’appello di Roma hanno ritenuto legittima l’applicazione retroattiva della citata disposizione, considerata di natura interpretativa.

Avverso la sentenza di secondo grado G. S. ha proposto ricorso per cassazione, contestando, innanzitutto, con i primi tre motivi di ricorso, le conclusioni della Corte territoriale in ordine all’abusività insanabile delle opere realizzate sull’area demaniale e riproponendo, con altra autonoma censura, il tema dell’inapplicabilità retroattiva della previsione normativa appena illustrata. Secondo il ricorrente, la suddetta disposizione non avrebbe una reale portata interpretativa, quanto piuttosto un carattere innovativo che sarebbe contrastante con il divieto di retroattività previsto dall’art. 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente) o dall’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), a seconda che si riconosca all’indennizzo natura tributaria oppure sanzionatoria.

Nella prospettiva del ricorrente, sarebbe invece necessario applicare, in sostituzione di quelli introdotti dall’art. 1, comma 257, della legge n. 296 del 2006, i criteri di computo in precedenza dettati dall’art. 8 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400 (Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime), convertito, con modificazioni, in legge 4 dicembre 1993, n. 494.

3.– Ciò premesso, il rimettente, proprio con riferimento al motivo di ricorso da ultimo illustrato, esprime dubbi sulla legittimità costituzionale della disposizione di cui al secondo periodo del comma 257 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, ove ritenuta applicabile anche a fatti verificatisi prima della sua entrata in vigore.

Per giustificare l’incidenza sul giudizio principale dei sospetti di illegittimità costituzionale avanzati, che presuppongono la non fondatezza degli altri motivi di ricorso per cassazione, il Collegio a quo dichiara di condividere la sentenza impugnata, nella parte in cui ha qualificato come abusivo il manufatto oggetto di causa, in quanto realizzato in difetto assoluto di titolo abilitativo e su terreno demaniale. Sarebbe consolidato, infatti, nella giurisprudenza di legittimità (di cui vengono citati plurimi arresti), il principio secondo cui le costruzioni su terreni demaniali non sono suscettibili di sanatoria.

Dalla conseguente sussistenza del presupposto per l’applicazione della disposizione in esame discenderebbe, dunque, la rilevanza delle questioni sollevate: ove queste fossero accolte, infatti, il giudizio dovrebbe essere definito senza fare applicazione della previsione normativa censurata.

4.– Quanto alla non manifesta infondatezza, a giudizio del Collegio rimettente, in via preliminare occorre stabilire se il secondo periodo del comma 257 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, in vigore dal 1° gennaio 2007, debba considerarsi norma innovativa, come tale applicabile solo a decorrere da tale ultima data.

Tale qualificazione, osserva il rimettente, troverebbe «ostacoli insuperabili nella formulazione letterale e complessiva della norma».

A questo proposito, la natura interpretativa del primo periodo della disposizione sarebbe stata già affermata dalla stessa giurisprudenza di legittimità (di cui vengono richiamate alcune pronunce).

Si tratterebbe, ora, di stabilire se analogo carattere debba essere riconosciuto anche al secondo periodo, così come ritenuto dalla sentenza impugnata nel giudizio a quo, che ha infatti applicato retroattivamente i nuovi e più gravosi criteri di determinazione dell’indennizzo a un’occupazione di area demaniale antecedente all’entrata in vigore della disposizione.

4.1.– Prima di decidere sul punto, il Collegio rimettente si sofferma sulla natura dell’indennizzo in esame, escludendo in maniera netta che si tratti di sanzione tributaria o amministrativa e qualificandolo, invece, alla stregua di una entrata patrimoniale riconducibile a una prestazione di tipo privatistico, accessoria e collegata al conseguimento di un canone di occupazione, come tale involgente diritti soggettivi a contenuto patrimoniale. In tal senso deporrebbero plurime pronunce di legittimità, richiamate nell’ordinanza di rimessione e rese in sede di regolamento di giurisdizione, dalle quali si ricaverebbe il principio secondo cui, nel caso di specie, verrebbe in rilievo una controversia relativa alla fase esecutiva del rapporto, successiva all’aggiudicazione della concessione di bene pubblico. Dovrebbe quindi riconoscersi natura meramente indennitaria «in regime privatistico» alle somme reclamate dall’amministrazione comunale. In tal senso deporrebbe anche l’inciso finale della disposizione censurata che fa salva, a esse rinviando, «l’applicazione delle misure sanzionatorie vigenti, ivi compreso il ripristino dello stato dei luoghi».

4.2.– Esclusa la natura di sanzione tributaria o amministrativa dell’indennizzo di cui si discute, il Collegio rimettente scarta anche la possibilità di attribuire efficacia solo per il futuro alla disposizione censurata, che ne prevede nuove modalità di computo: «[i]l significato letterale delle parole utilizzate, la connessione di esse e l’intenzione del legislatore» militerebbero «nel senso del tenore interpretativo di tutte le disposizioni» di cui all’art. 1, comma 257, della legge n. 296 del 2006.

L’autoqualificazione contenuta nel primo periodo enuncerebbe «inequivocabilmente lo scopo interpretativo della norma»: da un lato, infatti, quest’ultima chiarirebbe che le utilizzazioni contemplate nell’art. 8 del d.l. n. 400 del 1993, come convertito, includono «anche la mera occupazione di beni demaniali marittimi e relative pertinenze»; dall’altro lato, «l’urgenza interpretativa enunciata si spinge[rebbe] a chiarire» che, invece, la realizzazione sui beni demaniali marittimi di opere inamovibili – in difetto assoluto di titolo abilitativo o in presenza di titolo abilitativo difforme – «saranno soggette a richieste di indennizzo commisurato ai valori di mercato».

In altre parole, nell’ambito di un disegno teso ad avvicinare i valori di utilizzazione dei beni demaniali a quelli del mercato, rifuggendo da valutazioni tabellari “astratte”, l’intero comma 257 citato esprimerebbe l’intenzione del legislatore di valorizzare i beni pubblici, in vista di una «maggiore redditività per lo Stato […], diminuendo proporzionalmente i vantaggi dei soggetti particolari che assumono la veste di concessionari» (secondo quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 302 del 2010).

In definitiva, l’iniziale dubbio andrebbe sciolto nel senso di riconoscere alla disposizione censurata una chiara funzione interpretativa, con conseguente efficacia retroattiva dei nuovi criteri di computo dell’indennizzo, commisurato ai valori di mercato.

5.– Ciò posto, secondo il Collegio rimettente la formulazione della disposizione non avrebbe creato «nessun dubbio di legittimità», ove ne fosse stata prevista l’applicazione solo «a partire dal momento della sua entrata in vigore», non potendosi sindacare il merito delle scelte legislative in ordine alla «congruità delle determinazioni patrimoniali indennitarie».

L’efficacia retroattiva dipendente dalla natura interpretativa della norma, invece, induce il giudice a quo a dubitare della compatibilità di essa con i parametri costituzionali evocati.

5.1.– In primo luogo, viene denunciata la lesione degli artt. 3 e 23 Cost., soprattutto sotto il profilo della lesione del principio di affidamento.

Il rimettente evidenzia che la disposizione censurata non sarebbe intervenuta per risolvere contrasti giurisprudenziali relativi all’applicazione della precedente modalità di quantificazione dei canoni di concessione e dei relativi indennizzi, prevista dal d.l. n. 400 del 1993, come convertito.

Esclude, altresì, «la necessità di ripianare precedenti sperequazioni mediante l’intervento retroattivo dei nuovi criteri di determinazione dell’indennizzo».

La «mera opportunità» di adeguare «rapidamente e persino a ritroso» la gestione del demanio marittimo «alle nuove tendenze di un’economia dinamica e di mercato», anche nel perseguimento del fine di contenimento della spesa pubblica degli enti locali e di tutela del patrimonio dello Stato, non sarebbe sufficiente a impedire la lesione dell’art. 3 Cost.

Il giudice a quo ammette che il legislatore possa attribuire efficacia retroattiva a una legge – con l’unico limite posto dall’art. 25, secondo comma, Cost. in materia penale – e che tale efficacia sia da riconoscere alle leggi autenticamente interpretative; cita altresì giurisprudenza di questa Corte in ordine ai casi in cui tale tecnica è legittimamente utilizzabile.

Ricorda, tuttavia, che quando una disposizione, a dispetto della propria autoqualificazione, non presenta in realtà natura interpretativa, ciò può essere sintomo dell’uso improprio della funzione legislativa di interpretazione autentica, imponendo di ampliare il sindacato di questa Corte in ordine alla correttezza del bilanciamento operato dal legislatore.

A tal fine ricostruisce anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di leggi retroattive, citando numerose pronunce che richiamano i limiti costituiti dalla necessaria sussistenza di «imperative ragioni di interesse generale» e dal divieto di ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia.

Ciò premesso, ritiene il rimettente che la disposizione censurata non superi il vaglio di legittimità costituzionale condotto alla stregua dei principi illustrati, non avendo il legislatore effettuato un equo bilanciamento «tra la sorpresa cui sono sottoposti gli utilizzatori esclusivi di beni pubblici (seppure fruitori di manufatti abusivi ovvero difformi rispetto all’originaria concessione) e l’opportunità della collettività di trarre – anche a ritroso – dai beni del demanio marittimo la redditività dinamica del mercato». Tanto più che l’intervento retroattivo verrebbe a operare all’interno di un rapporto che ha ad oggetto una prestazione patrimoniale rispetto alla quale sussisterebbe «il legittimo affidamento dei destinatari della regolazione originaria, ex art. 23 Cost.».

5.2.– Sotto un altro profilo, viene prospettata, anche attraverso il richiamo di giurisprudenza della Corte EDU, la violazione degli artt. 102, primo comma, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, dal momento che i soli motivi finanziari indicati non costituirebbero ragione sufficiente a giustificare un intervento legislativo «destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso». In particolare, l’efficacia retroattiva della legge, «finalizzata a preservare l’interesse economico dello Stato che sia parte di giudizi in corso», si porrebbe «in evidente e aperta frizione» con i principi del giusto processo, della parità delle armi nel processo e con le attribuzioni costituzionalmente riservate all’autorità giudiziaria.

Inoltre, la pur «indubbia necessità di contenimento della spesa pubblica degli enti locali» e di «tutela del patrimonio dello Stato» non sarebbe stata bilanciata adeguatamente con il sacrificio imposto al diritto inviolabile, garantito dall’art. 24, primo comma, Cost., di agire in giudizio a difesa dei propri diritti e interessi legittimi, leso da un intervento normativo intervenuto «in pendenza di giudizio in cui lo Stato è parte».

6.– Si è costituito in giudizio G. S., parte nel giudizio a quo, il quale ha ripercorso sia le vicende processuali, già compendiate nell’ordinanza di rimessione, sia gli argomenti spesi da quest’ultima in ordine alla natura interpretativa della disposizione censurata.

A tale ultimo proposito, in particolare, ha affermato che, se nessun dubbio può essere avanzato in ordine alla finalità di interpretazione autentica perseguita dal primo periodo del comma 257 dell’art. 1 della legge finanziaria per il 2007, al secondo periodo andrebbe riconosciuta, invece, una chiara valenza innovativa, nella parte in cui stabilisce che, per le occupazioni consistenti nella realizzazione di opere inamovibili, l’indennità non vada più calcolata con riferimento al canone di concessione, bensì parametrandola ai valori di mercato.

In ogni caso, la difesa della parte privata ha aderito alle conclusioni raggiunte dall’ordinanza di rimessione, in ordine all’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, per contrasto con i parametri evocati dalla Corte di cassazione.

7.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

L’interveniente, ricostruita la parabola argomentativa del rimettente e illustrato il contesto normativo di riferimento, ha chiesto di dichiarare inammissibili o non fondate tutte le questioni sollevate.

7.1.– In primo luogo, l’Avvocatura ha eccepito l’inammissibilità, «per irrilevanza e difetto di pertinenza» delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 24, primo comma, 102, primo comma, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, in ordine all’asserita lesione della sfera riservata alla giurisdizione per effetto della retroattività della disposizione censurata.

Secondo l’interveniente, le questioni sollevate, sotto questo profilo, sarebbero astratte, perché già dalla stessa ordinanza di rimessione si evincerebbe che il processo di primo grado è stato incardinato nell’anno 2009, ossia successivamente all’entrata in vigore della disposizione sospettata d’illegittimità costituzionale.

7.2.– Quanto al merito, l’Avvocatura generale dello Stato evidenzia la non fondatezza delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 23 Cost.

In premessa, l’interveniente ribadisce la ragionevolezza di una norma che preveda l’ancoraggio ai valori di mercato per la quantificazione del risarcimento del danno patito dallo Stato in conseguenza della lesione della proprietà su beni demaniali, osservando come il criterio del riferimento a valori prefissati – utilizzato prima dell’avvento della disposizione censurata – col passare del tempo renda vantaggiose condotte realizzate in violazione di legge e costituisca, dunque, un incentivo a violare quest’ultima.

Ciò posto, l’Avvocatura muove dal presupposto di fatto, accertato anche dalla Corte di cassazione rimettente, che il soggetto cui l’amministrazione ha chiesto l’indennizzo per occupazione abusiva di bene demaniale «è un trasgressore, […] avendo egli costruito e utilizzato su terreno demaniale marittimo un manufatto inamovibile in difetto assoluto di titolo abilitativo e in difetto di titolo concessorio».

L’affidamento che il rimettente ritiene leso sarebbe in sé illegittimo e quindi non potrebbe «addursi il principio di coerenza e certezza del diritto in favore di un trasgressore», al cospetto della realizzazione di opere abusive su un’area demaniale, in tal modo irreversibilmente trasformata.

Proprio il carattere permanente dell’illecito impedirebbe al trasgressore di invocare «la stabilità dell’ordinamento giuridico su cui egli possa aver fatto affidamento per decidere della propria condotta».

A sostegno di tale assunto, l’Avvocatura richiama giurisprudenza di questa Corte in materia di rapporti di durata, per sostenere che il legislatore ben potrebbe mutare la disciplina in corso di rapporto, anche con effetti retroattivi, per regolare il risarcimento del «danno da lesione del diritto di proprietà (pubblica demaniale)», al fine di tutelare il patrimonio statale mediante reintegrazione per equivalente secondo i principi generali della responsabilità civile.

A tale ultimo proposito, aggiunge che non potrebbe essere sottovalutata «la rilevanza costituzionale della tutela del patrimonio e della proprietà pubblica, in specie di quella demaniale marittima», strettamente collegata alla «tutela del paesaggio, dell’ambiente marino, con la sua biodiversità e gli ecosistemi relativi», da porsi su di un piano quantomeno paritario rispetto alla tutela della proprietà privata.

Peraltro, secondo l’Avvocatura, il presupposto dal quale muove il rimettente sarebbe errato anche sotto diverso profilo.

Osserva, in particolare, che il legislatore non ha espressamente qualificato come d’interpretazione autentica la norma contenuta nel secondo periodo del comma 257 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006. A parere dell’interveniente, tale disposizione detterebbe, piuttosto, una norma innovativa, seppure con effetti retroattivi. Come tale, non sarebbe di per sé costituzionalmente illegittima, dato che il legislatore, al di fuori dell’ambito penalistico, ben può dettare disposizioni con efficacia retroattiva, purché quest’ultima trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale.

In questo caso, la scelta legislativa non sarebbe manifestamente arbitraria, al cospetto della necessità di tutelare interessi – illustrati in precedenza – «di tale rilievo da prevalere rispetto alle esigenze legate alla tutela dell’affidamento, peraltro non legittimo, dei destinatari della regolazione originaria», i quali ben avrebbero potuto prevedere una modifica normativa tesa a operare un nuovo e più equilibrato bilanciamento tra i diritti dell’individuo e l’interesse alla valorizzazione e alla tutela del patrimonio pubblico.

8.– La parte privata e il Presidente del Consiglio dei ministri, in prossimità dell’udienza, hanno depositato memorie, nelle quali hanno confermato e ulteriormente illustrato le proprie difese.

8.1.– L’interveniente, in particolare, ha evidenziato che l’interpretazione autentica operata dal legislatore con il primo periodo della disposizione censurata si sarebbe limitata a restringere il campo di applicazione dell’art. 8 del d.l. n. 400 del 1993, come convertito, escludendo dal suo perimetro le occupazioni illegittime caratterizzate dalla realizzazione di opere amovibili non assentite sull’area demaniale interessata. Il secondo periodo, di conseguenza, si sarebbe limitato a confermare che, per le fattispecie non comprese nell’art. 8 citato, si sarebbe dovuto applicare «il regime civilistico ordinario» del risarcimento del danno da occupazione illegittima di un bene immobile, normalmente computato «in base al reddito ritraibile dalla concessione in godimento del bene», fatta salva la possibilità di risarcimento in forma specifica consistente nel ripristino dei luoghi, nonché l’applicabilità delle altre sanzioni previste dalla normativa pubblicistica.

8.2.– La parte privata, invece, ha aderito agli argomenti del rimettente, in particolare quanto alle questioni sollevate in riferimento agli artt. 24, primo comma, 102, primo comma, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, osservando come la disposizione censurata sia destinata «a ripercuotersi sui giudizi in corso», senza che sia individuabile «un motivo imperativo di interesse generale […] tale da bilanciare adeguatamente il sacrificio del singolo al diritto inviolabile, garantito dall’art. 24 Cost., di agire in giudizio a difesa dei propri diritti ed interessi legittimi».

Considerato in diritto

1.– La Corte di cassazione, sezione seconda civile, solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 257, secondo periodo, della legge n. 296 del 2006 (legge finanziaria 2007), nella parte in cui «prevede l’applicazione retroattiva dei nuovi criteri di determinazione dell’indennizzo per realizzazione abusiva, ovvero difforme, di opere inamovibili sul demanio marittimo, parametrati ai valori di mercato e non ai criteri legislativi espressi nel precedente D.L. n. 400 del 1993», in riferimento agli artt. 3, 23, 24, primo comma, 102, primo comma, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.

Il suddetto comma 257, al primo periodo (non censurato), offre l’interpretazione autentica dell’art. 8 del d.l. n. 400 del 1993, come convertito, che detta i criteri per la quantificazione – a decorrere dall’anno 1990 – degli indennizzi dovuti per le «utilizzazioni ivi contemplate» dei beni demaniali. In particolare, il citato art. 8 determina gli indennizzi in misura pari a quella dovuta a titolo di canone di concessione, «maggiorata rispettivamente del duecento per cento e del cento per cento», a seconda che ricorra la totale carenza di concessione oppure la sola difformità da essa. Tali utilizzazioni, per effetto dell’esegesi imposta dal medesimo legislatore al primo periodo del comma 257 devono ritenersi riferite «alla mera occupazione di beni demaniali marittimi e relative pertinenze».

Il secondo periodo del medesimo comma 257 – che è la disposizione sospettata d’illegittimità costituzionale – prevede che «[q]ualora, invece, l’occupazione consista nella realizzazione sui beni demaniali marittimi di opere inamovibili in difetto assoluto di titolo abilitativo o in presenza di titolo abilitativo che per il suo contenuto è incompatibile con la destinazione e disciplina del bene demaniale, l’indennizzo dovuto è commisurato ai valori di mercato, ferma restando l’applicazione delle misure sanzionatorie vigenti, ivi compreso il ripristino dello stato dei luoghi».

2.– La sentenza impugnata nel giudizio principale ha considerato legittima l’applicazione dei nuovi criteri di computo dell’indennizzo anche a un periodo di occupazione abusiva anteriore all’entrata in vigore della legge n. 296 del 2006. Proprio su tale statuizione si appuntano le doglianze del ricorrente nel giudizio a quo, che hanno indotto la Corte di cassazione a sollevare le questioni di legittimità costituzionale oggetto dell’odierno scrutinio.

3.– Il rimettente osserva che, ove i sospetti d’illegittimità costituzionale fossero dichiarati fondati, la causa dovrebbe essere definita senza fare applicazione della disposizione censurata, ma ricorrendo alla «precedente regola di giudizio».

Ciò è sufficiente a superare il controllo esterno che spetta a questa Corte quanto al profilo della rilevanza delle questioni sollevate.

4.– Quanto alla non manifesta infondatezza, ad avviso del Collegio a quo, il tenore testuale dell’intero comma 257 dell’art. 1 della legge finanziaria 2007 impedirebbe di considerare la disposizione censurata in termini di norma innovativa, come tale applicabile solo a decorrere dal 1° gennaio 2007, dovendosi piuttosto riconoscere a essa una chiara natura interpretativa.

La conseguente efficacia retroattiva della previsione di legge induce il giudice a quo a dubitare della sua compatibilità con i parametri costituzionali evocati.

In primo luogo, in violazione degli artt. 3 e 23 Cost., sotto il profilo della lesione del principio di affidamento, il legislatore non avrebbe effettuato un equo bilanciamento tra gli interessi contrapposti, anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU in materia di leggi retroattive.

Sotto altra angolatura, e anche in tal caso con il supporto di giurisprudenza della Corte EDU, viene prospettata la violazione degli artt. 102, primo comma, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU. Verrebbe in rilievo, in particolare, un intervento legislativo che, in quanto «destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso» al fine di influenzarne l’esito, lederebbe i principi del giusto processo e della parità delle armi tra le parti, nonché il diritto di difesa e, al contempo, le attribuzioni costituzionalmente riservate all’autorità giudiziaria.

5.– L’Avvocatura ha eccepito l’inammissibilità, «per irrilevanza e difetto di pertinenza», delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 24, 102, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, in ordine all’asserita lesione della sfera riservata alla giurisdizione per effetto della retroattività della disposizione censurata.

Secondo l’interveniente, la questione sollevata, sotto questo profilo, sarebbe astratta, perché già dalla stessa ordinanza di rimessione si evincerebbe che il processo di primo grado dinanzi al Tribunale di Roma è stato incardinato nell’anno 2009, ossia successivamente all’entrata in vigore della disposizione sospettata d’illegittimità costituzionale.

6.– In via preliminare - quanto alle questioni sollevate dal rimettente in riferimento agli artt. 24, primo comma, 102, primo comma, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU - va accolta l’eccezione d’inammissibilità sollevata dall’Avvocatura, sia pure per ragioni diverse da quelle da quest’ultima addotte.

Sebbene, infatti, il giudizio principale sia stato introdotto solo successivamente alla data di entrata in vigore della disposizione censurata (1° gennaio 2007), il rimettente non ha escluso la possibile pendenza, nel momento in cui il legislatore ha deciso di intervenire, di altri giudizi aventi a oggetto la determinazione della misura degli indennizzi in parola.

Tuttavia, questo profilo è solo accennato, mentre l’argomento avrebbe dovuto essere illustrato con maggiore ampiezza, a fronte della costante giurisprudenza costituzionale (che, per tale parte, converge con quella elaborata dalla Corte EDU, ampiamente citata nell’ordinanza di rimessione), secondo cui la valutazione in termini di uso distorto del potere legislativo presuppone che «lo Stato o l’amministrazione pubblica» siano «parti di un processo già radicato», il cui esito possa essere influenzato (sentenze n. 4 del 2024 e n. 174 del 2019; nello stesso senso, sentenze n. 145 del 2022, n. 260 del 2015 e n. 303 del 2011).

7.– Passando allo scrutinio, nel merito, delle restanti questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 23 Cost., la Corte di cassazione ha circoscritto l’oggetto del dubbio di illegittimità costituzionale al solo secondo periodo del comma 257 dell’art. 1 della legge finanziaria 2007, al quale ha esteso la qualificazione in termini di interpretazione autentica fornita dallo stesso legislatore in apertura del precedente primo periodo. Da ciò ha fatto discendere l’efficacia retroattiva anche della disposizione censurata, per questo motivo esposta ai dubbi di compatibilità con i parametri costituzionali evocati.

Questa Corte non condivide tale presupposto ermeneutico, la cui erroneità, tuttavia, non esclude l’ammissibilità delle questioni sollevate, potendosi comunque attribuire alla disposizione in esame un’efficacia retroattiva, sebbene secondo un diverso itinerario esegetico.

7.1.– La disposizione interpretata dal legislatore – l’art. 8 del d.l. n. 400 del 1993, come convertito – si limitava a distinguere tra utilizzazioni difformi dalla concessione e utilizzazioni totalmente prive di titolo e, per il calcolo del relativo indennizzo, utilizzava come parametro il solo canone di concessione, differenziando nelle due ipotesi le maggiorazioni in percentuale.

L’originaria disciplina non operava, invece, alcuna distinzione esplicita tra “mere occupazioni” di beni demaniali marittimi e abusi di maggiore gravità, consistenti nella realizzazione di opere inamovibili abusive sulle aree già illegittimamente occupate.

In questo contesto, è intervenuto, appunto, il primo periodo del comma 257 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, che ha voluto chiarire la portata della disposizione, prevedendo che il citato art. 8 si interpreta «nel senso che le utilizzazioni ivi contemplate fanno riferimento alla mera occupazione di beni demaniali marittimi e relative pertinenze».

Il carattere autenticamente interpretativo, e dunque retroattivo, del primo periodo del suddetto comma 257 è pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, in termini condivisi da questa Corte: in tal senso, tra le ultime, si sono espresse Corte di cassazione, sezione seconda civile, ordinanza 8 maggio 2023, n. 12154 e sezione terza civile, ordinanza 5 luglio 2017, n. 16491.

In conseguenza di tale intervento legislativo, e con l’effetto retroattivo che naturalmente pertiene alle norme di interpretazione autentica, le occupazioni di beni demaniali che, oltre a essere sine titulo o non conformi alla concessione rilasciata, fossero anche caratterizzate dalla realizzazione, sulle aree occupate, di opere inamovibili abusive sono state espunte dall’ambito applicativo degli illustrati criteri di quantificazione dell’indennizzo richiamati dall’interpretato art. 8 del d.l. n. 400 del 1993, come convertito.

A quest’ultima tipologia di occupazioni illegittime, all’evidenza più gravi perché caratterizzate anche dalla non assentita trasformazione irreversibile dell’area demaniale, si riferisce il secondo periodo del citato comma 257 ove è previsto un indennizzo più oneroso, al fine di scoraggiare il fenomeno dell’abusivismo.

Questione centrale, come ben evidenziato dall’ordinanza di rimessione, è allora quella di stabilire se la previsione contenuta in tale secondo periodo condivida – come sostiene il giudice a quo – la natura di norma d’interpretazione autentica pacificamente riconosciuta al precedente primo periodo, oppure sia una disposizione innovativa, di cui occorre accertare l’efficacia nel tempo, come sostenuto, invece, dalla parte costituita nel presente giudizio.

7.2.– A ben vedere, l’autoqualificazione in termini di norma d’interpretazione autentica è compiuta dal legislatore solo con espresso riferimento alla attribuzione di significato – operata dal primo periodo del più volte citato comma 257 – al termine «utilizzazioni» contenuto nell’art. 8 del d.l. n. 400 del 1993, come convertito. Tale termine, per effetto dell’esegesi imposta per legge, va riferito solo alla “mera” occupazione di beni demaniali marittimi e relative pertinenze, con esclusione dal suo perimetro delle occupazioni con opere inamovibili.

In questo si sostanzia – e si esaurisce – l’operazione ermeneutica compiuta dal legislatore.

Non è dunque la lettera della legge a ostacolare il riconoscimento di un carattere innovativo alla diversa disposizione censurata.

Né appare plausibile, del resto, attribuire al legislatore l’intenzione di estendere l’autoqualificazione anche al secondo periodo del comma 257, soprattutto alla luce del contenuto precettivo di tale ultima previsione normativa.

Secondo gli ordinari criteri dell’interpretazione della legge, infatti, requisito essenziale affinché una disposizione possa essere considerata di interpretazione autentica è che essa esprima uno dei significati già appartenenti a quelli riconducibili alla previsione interpretata (da ultimo, sentenza n. 4 del 2024; nello stesso senso, sentenze n. 73 del 2017, n. 132 del 2016 e n. 314 del 2013).

Nel caso di specie, per le occupazioni del demanio marittimo caratterizzate dalla compromissione irreversibile dell’area, il legislatore ha introdotto un sistema indennitario basato su un criterio – la commisurazione ai valori di mercato – del tutto diverso da quelli che si potrebbero definire “tabellari” (in quanto basati sulla maggiorazione in misura percentuale fissa dei canoni dovuti per le concessioni demaniali) previsti dall’art. 8, ossia dalla disposizione interpretata.

La regola che impone il riferimento al valore di mercato, quindi, non rientra in alcuna delle possibili varianti di senso già evincibili dall’art. 8, che rinvia a criteri governati da logiche affatto differenti.

Questa evidente incompatibilità con il tenore testuale dell’art. 8 del d.l. n. 400 del 1993, come convertito, esclude la possibilità di considerare parte integrante dell’operazione di interpretazione autentica anche il secondo periodo del comma 257 dell’art. 1 della legge finanziaria 2007.

È lo stesso legislatore, d’altra parte, a chiarire, con l’utilizzo dell’avverbio «invece», la portata da attribuire a quest’ultima disposizione.

Per un verso, il comune significato dell’avverbio, in termini di opposizione o contrarietà rispetto a precedenti affermazioni, conferma il carattere innovativo del precetto dettato. Sotto altra visuale, il termine impiegato evidenzia comunque lo stretto collegamento esistente con il periodo precedente e la conseguente necessità di considerare in un’ottica unitaria l’efficacia temporale del complessivo intervento legislativo.

È del tutto comprensibile, del resto, che, una volta ristretto, con effetto retroattivo a far data dal 1990, il raggio d’azione delle «utilizzazioni» contemplate dalla disposizione interpretata (e dei connessi indennizzi parametrati ai canoni di concessione), il legislatore abbia voluto disciplinare, con la medesima decorrenza, il diverso fenomeno delle “occupazioni con opere”, applicando a esso l’innovativa (rispetto al criterio in precedenza applicato) regola del «valor[e] di mercato».

Anche una norma innovativa può, peraltro, avere carattere retroattivo (ex plurimis, sentenza n. 73 del 2017), in quanto, nonostante il divieto di retroattività della legge costituisca fondamentale valore di civiltà giuridica dell’ordinamento (sentenza n. 4 del 2024), esso, in forza dell’art. 25 Cost., riceve tutela privilegiata esclusivamente in materia penale (sentenze n. 132 del 2016, n. 170 del 2013, n. 264 e n. 78 del 2012).

Il legislatore, in altre parole, ha voluto fissare la modalità di calcolo degli indennizzi dovuti, sin dall’origine, anche per le più gravi condotte di occupazione, consistenti «nella realizzazione sui beni demaniali marittimi di opere inamovibili in difetto assoluto di titolo abilitativo o in presenza di titolo abilitativo che per il suo contenuto è incompatibile con la destinazione e disciplina del bene demaniale».

In tal modo, ha evitato che, per il passato, potessero sorgere dubbi sull’individuazione del criterio utilizzabile, così prevenendo il rischio di contrasti interpretativi. Che si trattasse di un rischio concreto è, del resto, plasticamente dimostrato dalla stessa diversità di opinioni espresse nel presente giudizio circa gli esiti dell’eventuale accoglimento delle questioni sollevate: da un lato, la parte costituita, convinta – in consonanza con l’auspicio espresso dalla stessa ordinanza di rimessione – dell’applicazione della «precedente regola di giudizio»; dall’altro, l’Avvocatura generale dello Stato, persuasa della riespansione dello statuto normativo generale del risarcimento del danno da fatto illecito.

8.– Chiarita, dunque, la portata retroattiva anche della disposizione censurata, sebbene secondo una lettura divergente da quella offerta dal giudice rimettente, occorre ora passare a scrutinare nel merito le sollevate questioni di legittimità costituzionale. La retroattività di una legge, infatti, deve sempre trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza, attraverso un puntuale bilanciamento tra le ragioni che ne hanno motivato la previsione e i valori, costituzionalmente tutelati, potenzialmente lesi dall’efficacia a ritroso della norma adottata (così la sentenza n. 73 del 2017, richiamando la sentenza n. 170 del 2013, che riassume, sul tema, le costanti indicazioni di principio espresse da questa Corte e ribadite, successivamente, dalle sentenze n. 104 del 2022, n. 70 del 2020, n. 174 e n. 108 del 2019).

Con specifico riguardo al principio della tutela dell’affidamento, la giurisprudenza di questa Corte, ribadita anche di recente (sentenze n. 216 del 2023 e n. 210 del 2021), ritiene che esso costituisca «ricaduta e declinazione “soggettiva”» della certezza del diritto (sentenza n. 108 del 2019), la quale, a propria volta, integra un «elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto» (sentenza n. 16 del 2017), connaturato sia all’ordinamento nazionale, sia al sistema giuridico sovranazionale (sentenze n. 267 e n. 154 del 2017).

Nondimeno, tale principio non esclude che il legislatore possa adottare disposizioni che modificano in senso sfavorevole agli interessati la disciplina di rapporti giuridici, anche in relazione a diritti soggettivi perfetti. Ciò può avvenire, tuttavia, a condizione «che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica» (sentenza n. 216 del 2023; nello stesso senso, sentenze n. 145 del 2022 e n. 54 del 2019).

Tale affidamento non è dunque tutelato in termini assoluti e inderogabili (sentenze n. 89 del 2018 e n. 56 del 2015), bensì «sottoposto al normale bilanciamento proprio di tutti i diritti e valori costituzionali» (sentenze n. 108 del 2019 e n. 149 del 2017; nello stesso senso, sentenze n. 16 del 2017 e n. 203 del 2016), da operarsi facendo riferimento ad alcuni parametri che questa Corte ha identificato con chiarezza.

In primo luogo, va considerato il grado di consolidamento della situazione soggettiva originariamente riconosciuta e poi travolta dall’intervento retroattivo (sentenze n. 89 del 2018, n. 250 del 2017, n. 108 del 2016, n. 216 e n. 56 del 2015).

Viene poi in rilievo la prevedibilità della modifica retroattiva (sentenze n. 169 del 2022, n. 16 del 2017 e n. 160 del 2013), cosicché viene tutelato solo l’affidamento generato da una situazione normativa «sorta in un contesto giuridico sostanziale atto a far sorgere nel destinatario una ragionevole fiducia nel suo mantenimento», di modo che la modifica intervenuta con effetto retroattivo giunga del tutto inaspettata (sentenza n. 89 del 2018).

Ancora, interessi pubblici sopravvenuti possono comunque esigere interventi normativi che incidano su posizioni consolidate, purché nei limiti della proporzionalità dell’incisione rispetto agli obiettivi perseguiti (sentenze n. 169 del 2022, n. 210 del 2021 e n. 108 del 2019).

La valutazione, infine, deve essere sempre condotta tenendo in debita considerazione le «circostanze di fatto e di contesto entro cui l’intervento legislativo è maturato» (sentenza n. 108 del 2019). In particolare, secondo questa Corte, pertiene al prudente apprezzamento del legislatore la possibilità di modificare l’assetto di rapporti già definiti da precedenti leggi, quando risulti in concreto che queste ultime abbiano prodotto risultati non rispondenti a criteri di equità (sentenza n. 56 del 1989 e ordinanza n. 432 del 1989).

9.– Così fissate le coordinate dello scrutinio demandato a questa Corte, le questioni si rivelano non fondate.

Come evidenziato dall’Avvocatura generale dello Stato e riconosciuto dalla stessa ordinanza di rimessione, non può essere sottovalutato il fatto che i soggetti destinatari della disposizione censurata sono «fruitori di manufatti abusivi ovvero difformi rispetto all’originaria concessione».

Non si tratta certo di escludere in assoluto che, in capo a un trasgressore di un divieto, possa sorgere un affidamento salvaguardabile, poiché tale tutela deve quantomeno essere riconosciuta in ordine alla prospettiva di permanenza nel tempo di un determinato assetto regolatorio concernente proprio gli effetti della violazione, in base alla legge del tempo in cui la condotta viene tenuta.

Piuttosto, il «grado di meritevolezza dell’affidamento», sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 108 del 2016), può influenzare il risultato dell’operazione di bilanciamento con gli interessi antagonisti pure costituzionalmente protetti.

Da quest’angolo visuale, l’affidamento maturato in capo ai fruitori abusivi di beni pubblici – sui quali siano stati realizzati manufatti che incidono irreversibilmente sulle aree del demanio marittimo – può essere considerata recessiva rispetto ad altri interessi in gioco, che sono legati non solo alla valorizzazione dei beni demaniali, al fine di ricavare da essi una maggiore redditività (in tesi corrispondente a quella ritraibile sul libero mercato), ma anche alla tutela di tali beni pubblici, in ambiti che incrociano altri delicati interessi di rilievo costituzionale, quali la tutela del paesaggio e dell’ambiente marino.

Rafforza questa conclusione la constatazione che, tra le occupazioni illegittime del demanio marittimo, le uniche situazioni interessate dall’intervento retroattivo peggiorativo, in punto di computo degli indennizzi dovuti, sono proprio e solo quelle caratterizzate dal più alto grado di lesione del bene protetto.

Contrariamente a quanto ritenuto dal Collegio rimettente, peraltro, la scelta legislativa ha eliminato un’evidente sperequazione.

Prima della modifica apportata dalla legge finanziaria 2007, infatti, l’art. 8 del d.l. n. 400 del 1993, come convertito, non operava alcuna distinzione tra l’occupazione “mera” di aree demaniali marittime e l’occupazione “aggravata” dalla trasformazione irreversibile e non assentita delle medesime superfici; sicché gli autori di tali più gravi condotte erano chiamati a corrispondere gli indennizzi dovuti nella medesima misura prevista per i trasgressori che si fossero, quantomeno, astenuti dal realizzare opere inamovibili.

L’art. 1, comma 257, della legge n. 296 del 2006 interviene proprio per differenziare posizioni caratterizzate da un’oggettiva diversa gravità delle condotte; tanto che la stessa ordinanza di rimessione riconosce la ragionevolezza, in astratto, del criterio di quantificazione dell’indennizzo commisurato, nei casi più gravi di “occupazioni con opere”, al valore di mercato dei beni.

L’affidamento generatosi in capo agli artefici di opere abusive su aree demaniali illegittimamente occupate, declinato nell’aspettativa di continuare a pagare gli stessi indennizzi previsti per condotte oggettivamente meno gravi, è stato dunque legittimamente sacrificato dal legislatore, in quanto connesso a posizioni «acquisite sulla base di leggi che, a un più approfondito esame o a seguito dell’esperienza derivante dalla loro applicazione», hanno generato risultati iniqui (sentenza n. 56 del 1989 e ordinanza n. 432 del 1989).

Del resto, la norma retroattiva non può neppure considerarsi assolutamente imprevedibile.

Il criterio di computo degli indennizzi utilizzato in precedenza, infatti, era pur sempre legato a un parametro, quello dei canoni di concessione, rispetto al quale la giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto l’esistenza di una «precisa linea evolutiva» (sentenza n. 302 del 2010), caratterizzata dalla tendenza alla variazione in aumento, in particolare con riferimento all’utilizzazione dei beni appartenenti al demanio marittimo.

Si tratta, d’altra parte, di un processo «in corso da diversi decenni» (ancora sentenza n. 302 del 2010), poiché, come ricordato anche dalla sentenza n. 29 del 2017, una consistente maggiorazione dei canoni in questione era già stata disposta dall’art. 32, commi 21, 22 e 23, del decreto-legge 30 settembre 2003 n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, in legge 24 novembre 2003, n. 326, anche se poi la concreta applicazione degli aumenti così disposti era stata successivamente rinviata, sino a quando proprio l’art. 1, comma 256, della legge n. 296 del 2006 ha previsto la loro abrogazione, introducendo contestualmente i nuovi criteri di calcolo.

Tutto ciò mostra che un aumento degli indennizzi – anche in base al sistema di computo legato ai canoni – non poteva certo considerarsi inaspettato, anche (ed anzi, proprio) negli anni presi in considerazione nel giudizio principale, rispetto ai quali la disposizione qui censurata ha inteso intervenire in modo retroattivo, sostituendosi «ad un precedente aumento, di notevole entità, non applicato per effetto di successive proroghe, ma rimasto tuttavia in vigore sino ad essere rimosso, a favore di quello vigente, dalla norma oggetto di censura» (sentenze n. 29 del 2017 e n. 302 del 2010).

Ciò basta a escludere il carattere improvviso della scelta del legislatore.

Quest’ultima, peraltro, non può considerarsi neppure sproporzionata rispetto agli obiettivi perseguiti (sentenze n. 169 del 2022, n. 210 del 2021 e n. 108 del 2019), dal momento che la giurisprudenza di questa Corte ha già affermato che la tendenza all’aumento dei canoni demaniali – e, di conseguenza, dei relativi indennizzi per le occupazioni illegittime delle aree – segue una direttrice conforme agli artt. 3 e 97 Cost. (sentenze n. 49 del 2021, n. 29 del 2017 e n. 302 del 2010), volta a consentire allo Stato una maggiorazione delle entrate e a rendere i canoni più equilibrati rispetto a quelli (appunto di mercato) pagati in favore di locatori privati.

Per il complesso di queste ragioni, le questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 23 Cost. devono essere dichiarate non fondate.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 257, secondo periodo, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», sollevate, in riferimento agli artt. 24, primo comma, 102, primo comma, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dalla Corte di cassazione, sezione seconda civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 257, secondo periodo, della legge n. 296 del 2006, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 23 Cost., dalla Corte di cassazione, sezione seconda civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 23 aprile 2024