Sentenza n. 314 del 2013

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SENTENZA N. 314

ANNO 2013

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Gaetano                       SILVESTRI                                     Presidente

-           Luigi                            MAZZELLA                                      Giudice

-           Sabino                         CASSESE                                                 "

-           Giuseppe                     TESAURO                                                "

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                        "

-           Giuseppe                     FRIGO                                                      "

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                           "

-           Paolo                           GROSSI                                                    "

-           Giorgio                        LATTANZI                                               "

-           Aldo                            CAROSI                                                    "

-           Marta                           CARTABIA                                              "

-           Sergio                          MATTARELLA                                        "

-           Mario Rosario              MORELLI                                                 "

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                             "

-           Giuliano                       AMATO                                                    "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 3, del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 aprile 2012, n. 35, promosso dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, nel procedimento vertente tra Esposito Andrea Pietro e il Ministero della giustizia ed altro, con ordinanza del 22 marzo 2013, iscritta al n. 134 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2013.

         Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

         udito nella camera di consiglio del 6 novembre 2013 il Giudice relatore Paolo Grossi.

Ritenuto in fatto

1.– Nel corso di un giudizio amministrativo – proposto da un magistrato ordinario, che ha impugnato la delibera del 7 febbraio 2013 (con cui il Consiglio superiore della magistratura ha pubblicato le sedi vacanti ai fini della procedura di trasferimento), chiedendone l’annullamento della lettera a), in cui è stabilito il termine del decorso di un triennio di servizio nel posto ricoperto quale requisito di legittimazione al trasferimento per tutti gli aspiranti senza distinzioni – il Tribunale amministrativo regionale del Lazio (sospeso l’atto impugnato, ma non esaurita la fase cautelare), con ordinanza emessa il 22 marzo 2013, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 3, del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 aprile 2012, n. 35, che dispone che l’art. 194 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), «si interpreta nel senso che il rispetto del termine ivi previsto è richiesto per tutti i trasferimenti o conferimenti di funzioni, anche superiori o comunque diverse da quelle ricoperte, dei magistrati ordinari». Secondo il rimettente, il censurato art. 35 si pone in contrasto con gli artt. 3, 102 e 111, primo comma, della Costituzione, «nella parte in cui esso rende l’art. 194 del R.d. n. 12 del 1941 applicabile ai magistrati (tra cui il ricorrente) trasferiti d’ufficio a sede disagiata, ai sensi della legge n. 133 del 1998, prima dell’entrata in vigore della norma impugnata».

Premette, in fatto, il Tar che il ricorrente ha prestato servizio in una tale sede per un periodo superiore a due anni alla data di deliberazione e pubblicazione del bando, e che ha perciò maturato il requisito della permanenza biennale nell’ufficio, in virtù di quanto previsto (ove la legge non stabilisca diversamente), dal paragrafo V, punto 20, della circolare del Consiglio superiore della magistratura, terza commissione, 8 giugno 2009, n. 12046; e ritiene che il bando impugnato (del 7 febbraio 2013), nello stabilire (alla lettera a) che «il termine di legittimazione per tutti gli aspiranti è quello triennale», escluda che il magistrato proveniente da sede disagiata possa sottrarsi a tale previsione. E che quindi – nonostante che, all’epoca della assegnazione a sede disagiata, al ricorrente si potesse opporre, per tale profilo, esclusivamente il limite di permanenza biennale discrezionalmente introdotto dal Consiglio per i trasferimenti d’ufficio, con la menzionata circolare n. 12046 del 2009 – l’art. 194 dell’ordinamento giudiziario, come autenticamente interpretato dalla norma censurata, impone oggi di affermare che il requisito di permanenza triennale ivi indicato trovi applicazione ogni qual volta il magistrato venga trasferito, e perciò anche a chi sia stato trasferito d’ufficio a seguito di consenso o disponibilità.

Il rimettente precisa che il dubbio di costituzionalità non riguarda affatto la scelta “a regime” del legislatore di applicare anche al magistrato in sede disagiata il limite indicato dal citato art. 194, ma la investe per la sola parte in cui tale scelta pretende di applicarsi anche a chi fosse stato assegnato d’ufficio a tale sede prima dell’entrata in vigore della norma impugnata. Da ciò, la rilevanza della questione giacché, in applicazione della norma censurata, la domanda giudiziale proposta dal ricorrente dovrebbe essere rigettata, essendo egli soggetto all’art. 194 dell’ordinamento giudiziario; al contrario, la domanda dovrebbe essere accolta, qualora fosse dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma medesima in parte qua.

Quanto alla non manifesta infondatezza della questione – premesse ampie ed articolate argomentazioni circa la natura, caratteri ed effetti della normazione interpretativa, nonché circa la sua coerenza con l’impianto costituzionale – il rimettente rileva che, «quale che sia l’approccio più convincente sul piano teorico, […] in ogni caso la autoqualificazione in termini interpretativi della legge non è priva di conseguenze normative», essendo «noto, infatti, che un limite alla retroattività della legge è stato enucleato dalla giurisprudenza costituzionale con riferimento alla tutela dell’affidamento che i consociati riponevano in un certo assetto normativo, quando il legislatore pretenda invece di alterarlo anche per il passato».

Il rimettente denuncia quindi la norma interpretativa, innanzitutto, per violazione degli artt. 3, 102 e 111, primo comma, Cost. dubitando, «in termini generali, che il legislatore possa pretendere di dettare una norma per il passato, e nel contempo di escludere che essa sia retroattiva in senso proprio, in forza della natura interpretativa che le viene conferita (e ciò a prescindere dal fatto che l’intervento in oggetto sia davvero interpretativo, o sia solo camuffato come tale)»; nonché dubitando che «la funzione legislativa possa appropriarsi della funzione interpretativa, poiché essa è riservata dalla Costituzione al potere giudiziario (art. 102 Cost.), che la esercita in forma diffusa, recependo e conferendo forma legale al dibattito aperto tra gli interpreti sul significato da attribuire alle norme». Secondo il rimettente – mentre con la legge retroattiva «il legislatore persegue gli obiettivi di certezza del diritto e di uguaglianza innanzi alla legge, forte della propria prerogativa di dettare norme per il passato, e con ciò si assoggetta ai limiti costituzionali imposti alle norme retroattive» – con la legge interpretativa, invece, egli «cerca illegittimamente di aggirare quei limiti, finendo non per rafforzare la certezza del diritto, ma piuttosto per indebolirla», giacché, «a processo in corso, o comunque fino a che la fattispecie è potenzialmente assoggettabile alla giurisdizione in caso di lite, i consociati sono privati delle aspettative che ragionevolmente potevano riporre su di un favorevole esito giudiziale, per venire invece assoggettati ad una decisione prodotta secondo i ben diversi criteri di opportunità politica del legislatore, e dunque inevitabilmente imprevedibile, ma ugualmente somministrata “in via interpretativa”», così assorbendo la potestas iudicandi nella funzione legislativa.

Ove la Corte ritenesse che la Costituzione ammetta in termini generali la figura della legge di interpretazione autentica, il rimettente denuncia la medesima normativa anche per violazione dell’art. 3 Cost., in quanto la norma censurata ha attribuito all’art. 194 dell’ordinamento giudiziario una portata che esso non poteva avere quando la disposizione impugnata è entrata in vigore, non trovando essa applicazione nei confronti dei magistrati già trasferiti d’ufficio a sede disagiata. Ricostruita l’evoluzione normativa che ha fatto sì che la norma interpretata fosse resa compatibile con i soli trasferimenti a domanda, ovvero presso una sede «chiesta» dal magistrato, il rimettente rileva che – quand’anche si ritenesse che il legislatore fosse partito invece dall’intento di uniformare la disciplina del trasferimento a domanda e del trasferimento d’ufficio sotto la comune previsione dell’art. 194 – in ogni caso andrebbe rilevato che tale operazione non si è sviluppata adeguatamente sul piano normativo. A suo avviso, infatti, la sola conclusione oggettivamente traibile da tale quadro normativo, e su cui il magistrato poteva riporre affidamento quando aveva accettato il trasferimento d’ufficio verso la sede disagiata, è che, venuta meno un’espressa previsione di legge, trovasse applicazione solo la disciplina suppletiva promanante dal CSM in tema di legittimazione a seguito di trasferimento d’ufficio (il rimettente richiama la precedente circolare sui tramutamenti del 30 novembre 1993, n. 15098, il cui paragrafo V, punto 22, già stabiliva quanto oggi è ribadito dal vigente paragrafo V, punto 20, della indicata circolare n. 12046 del 2009, nonché la prassi seguita dal Consiglio nei precedenti bandi di concorso.

            Infine, in terzo luogo, il rimettente denuncia la violazione dell’art. 3 Cost., poiché  se, in linea di principio, negare che il legislatore possa interpretare la legge non equivale a privarlo della diversa prerogativa di disciplinare i rapporti giuridici con norme retroattive – non potendosi escludere che si manifestino ragioni imperative d’interesse generale in tal senso, il cui apprezzamento è affidato alla discrezionalità legislativa –tuttavia, vi sono interessi di rilievo costituzionale che non possono venire pretermessi, tra cui, in particolare, la tutela dell’affidamento «quale principio connaturato allo Stato di diritto». E, secondo il Tar, il periodo minimo di permanenza nella sede, assicurato dall’ordinamento giuridico al tempo in cui essa viene accettata, «costituisce una componente essenziale e costitutiva della fattispecie legale alla quale si chiede adesione da parte del pubblico dipendente», non essendo «negabile che l’estensione dell’arco temporale di servizio presso quest’ultima sia fattore determinante per la scelta, non meno degli incentivi economici e di carriera».

2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo preliminarmente l’inammissibilità per irrilevanza della sollevata questione: da un lato, in ragione del fatto che il magistrato ricorrente nel giudizio a quo non ha maturato il termine biennale di permanenza nella sede disagiata al momento della entrata in vigore della normativa censurata; e, dall’altro lato, in quanto l’interpretazione fornita dalla norma censurata è considerata, da una parte della giurisprudenza amministrativa, l’unica corretta già sotto il vigore dell’art. 194 dell’ordinamento giudiziario, tanto che la richiesta “eliminazione” della norma interpretativa sarebbe tamquam non esset.

Nel merito, l’Avvocatura deduce la manifesta infondatezza della questione con riferimento a tutti i parametri evocati, affermando in primo luogo che la norma censurata è sopravvenuta in un contesto in cui la prassi del CSM era già nel senso di affermare che il termine triennale di permanenza nel posto (sancito dall’art. 194) costituisse requisito generale per la mobilità di sede, ritenendolo applicabile ad ogni genere di trasferimento, quale ne fosse l’origine e la causa, senza distinguere tra trasferimenti volontari ed officiosi, così assegnando alla disposizione interpretata un significato riconoscibile come una delle sue possibili letture. Né, in senso contrario, vale il riferimento alla previsione vigente di cui al paragrafo V, punto 20, della richiamata circolare n. 12046 del 2009, non potendosi non considerare che, venuta meno la copertura di legislazione primaria, la disposizione della circolare non potrebbe da sola (stante la riserva di legge di cui all’art. 108 Cost.) rappresentare la disciplina esclusiva dei limiti alla mobilità dei magistrati.

Infine, con riferimento alla retroattività della norma ed alla connessa denunciata lesione dell’affidamento, la difesa dello Stato esclude che la norma di interpretazione autentica, in quanto retroattiva, non sia compatibile con l’assetto costituzionale, non interferendo necessariamente con la sfera del potere giudiziario; ed osserva che, nella specie, sono agevolmente rinvenibili motivi imperativi di interesse generale (connessi alla gestione della mobilità generale della magistratura, coerente con l’obiettivo di una congrua stabilità funzionale minima dell’organizzazione degli uffici giudiziari) ovvero princípi di preminente interesse costituzionale (posto che la continuità nell’esercizio della funzione giudiziaria garantita dal generalizzato termine triennale risponde alle esigenze di buona organizzazione della macchina giudiziaria, ai sensi degli artt. 97 e 107 Cost.) sottesi al censurato intervento normativo e giustificativi dello stesso.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio censura l’art. 35, comma 3, del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 aprile 2012, n. 35. La disposizione prevede che l’art. 194 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario) – secondo cui «Il magistrato destinato, per trasferimento o per conferimento di funzioni, ad una sede da lui chiesta, non può essere trasferito ad altre sedi o assegnato ad altre funzioni prima di tre anni dal giorno in cui ha assunto effettivo possesso dell’ufficio, salvo che ricorrano gravi motivi di salute ovvero gravi ragioni di servizio o di famiglia» – «si interpreta nel senso che il rispetto del termine ivi previsto è richiesto per tutti i trasferimenti o conferimenti di funzioni, anche superiori o comunque diverse da quelle ricoperte, dei magistrati ordinari».

A giudizio del rimettente, la denunciata disposizione di interpretazione autentica – nella parte in cui rende il termine triennale previsto dall’art. 194 dell’ordinamento giudiziario applicabile (in luogo dei due anni previsti, in difetto di altra statuizione di legge, dal paragrafo V, punto 20, della circolare del Consiglio superiore della magistratura, terza commissione, 8 giugno 2009, n. 12046) anche ai magistrati (tra cui il ricorrente) trasferiti d’ufficio a sede disagiata prima dell’entrata in vigore della norma impugnata (ai sensi della legge 4 maggio 1998, n. 133, recante «Incentivi ai magistrati trasferiti d’ufficio a sedi disagiate e introduzione delle tabelle infradistrettuali») – si pone in contrasto: a) con gli artt. 3, 102 e 111, primo comma, della Costituzione, essendo dubbio, «in termini generali, che il legislatore possa pretendere di dettare una norma per il passato, e nel contempo di escludere che essa sia retroattiva in senso proprio, in forza della natura interpretativa che le viene conferita (e ciò a prescindere dal fatto che l’intervento in oggetto sia davvero interpretativo, o sia solo camuffato come tale)»; nonché che «la funzione legislativa possa appropriarsi della funzione interpretativa, poiché essa è riservata dalla Costituzione al potere giudiziario (art. 102 Cost.), che la esercita in forma diffusa, recependo e conferendo forma legale al dibattito aperto tra gli interpreti sul significato da attribuire alle norme»; b) con l’art. 3 Cost., in quanto la norma censurata ha attribuito all’art. 194 dell’ordinamento giudiziario una portata che esso non poteva avere quando la disposizione impugnata è entrata in vigore, non trovando essa applicazione nei confronti dei magistrati già trasferiti d’ufficio a sede disagiata; c) con l’art. 3 Cost., poiché  se, in linea di principio, negare che il legislatore possa interpretare la legge che ha prodotto non equivale a privarlo della diversa prerogativa di disciplinare i rapporti giuridici con norme retroattive – non potendosi escludere che si manifestino ragioni imperative d’interesse generale in tal senso, il cui apprezzamento è affidato alla discrezionalità legislativa –, tuttavia, vi sono interessi di rilievo costituzionale che non possono venire pretermessi, tra cui, in particolare, la tutela dell’affidamento «quale principio connaturato allo Stato di diritto».

2.– Preliminarmente, vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità, per irrilevanza, delle sollevate questioni, mosse dalla difesa dello Stato sul duplice assunto: a) della mancata maturazione da parte del ricorrente nel giudizio a quo del termine biennale di permanenza nella sede disagiata al momento della entrata in vigore della normativa censurata; b) della inutilità della richiesta “eliminazione” della norma censurata, la quale fornirebbe una interpretazione dell’art. 194 dell’ordinamento giudiziario già in precedenza considerata, da una parte della giurisprudenza amministrativa, come l’unica corretta.

Entrambe le eccezioni sono prive di fondamento.

Da un lato, infatti, il rimettente – chiamato ad annullare la lettera a) della delibera del 7 febbraio 2013 (con cui il CSM ha indicato le sedi vacanti, ai fini della procedura di trasferimento), nella parte in cui impone, quale requisito di legittimazione al trasferimento, la permanenza nel posto per un triennio, come previsto dall’art. 194 del regio decreto n. 12 del 1941, a tutti gli aspiranti, e quindi anche ai magistrati già assegnati d’ufficio a sede disagiata, ai sensi dell’art. 1 della legge n. 133 del 1998 – rileva espressamente che il ricorrente (trasferito in detta sede con delibera del 6 luglio 2010 e successiva presa di servizio in data 20 settembre 2010) ha prestato servizio a tale titolo per un periodo superiore a due anni alla data di deliberazione e pubblicazione del bando; e che egli ha, perciò, maturato il requisito della permanenza biennale nell’ufficio, secondo quanto previsto (ove la legge non stabilisca diversamente) dal paragrafo 5, punto 20, della richiamata circolare n. 12046 del 2009 del Consiglio. E chiarisce altresì che, viceversa, qualora egli fosse soggetto alla previsione dell’art. 194 dell’ordinamento giudiziario (così come interpretato), in difetto di un effettivo esercizio della funzione presso la sede disagiata pari ad almeno tre anni, gli verrebbe negata la legittimazione al trasferimento.

Dall’altro lato, la dedotta inutilità di una pronuncia caducatoria della disposizione censurata – in quanto attribuirebbe alla disposizione autenticamente interpretata l’unico significato corretto – costituisce profilo attinente al merito e non alla ammissibilità delle sollevate questioni.

3.– Le quali sono, invece, inammissibili per i motivi che seguono.

3.1.– Muovendo dal presupposto «che in ogni caso la autoqualificazione in termini interpretativi della legge non è priva di conseguenze normative», il rimettente formula la questione (da lui ritenuta pregiudiziale rispetto alle altre) della compatibilità con la Costituzione della efficacia retroattiva della censurata norma di interpretazione. In particolare – nel contestare il contrario assunto secondo cui la norma stessa (finalizzata a risolvere un dubbio ermeneutico in ordine alla applicabilità dell’art. 194 dell’ordinamento giudiziario per il conferimento a domanda delle funzioni direttive) non ne abbia mutato la portata di regola destinata a disciplinare i soli trasferimenti a domanda e non anche quelli disposti d’ufficio – il Tar osserva che la lettera della disposizione impugnata è univoca nell’estendere il requisito della permanenza triennale a «tutti i trasferimenti», per funzioni «anche» superiori o comunque diverse da quelle ricoperte; giacché (a suo dire), se il legislatore avesse voluto occuparsi delle sole assegnazioni alle funzioni «superiori», non avrebbe avuto alcuna necessità di regolare trasferimenti di altra natura, essendo viceversa palese l’intenzione di accomunare sotto la medesima previsione normativa ogni ipotesi di destinazione del magistrato, a domanda o d’ufficio, per imporre in tutti i casi un periodo minimo di permanenza pari a tre anni.

Nel contempo, peraltro, il rimettente dà atto che, in effetti, la posizione fatta valere dal ricorrente nel giudizio a quo trova, allo stato, conforto in pronunce di altra sezione del medesimo Tar (di cui cita la sentenza della sezione I, del 1° ottobre 2012, n. 8229) e del Consiglio di Stato (sezione IV, ordinanze 7 febbraio 2012, n. 528, e 22 gennaio 2013, n. 188), che negano l’applicabilità della norma censurata a casi simili, in ragione del fatto che «il legislatore sarebbe intervenuto a risolvere un dubbio interpretativo nato in giurisprudenza in ordine alla applicabilità dell’art. 194 ai fini del conferimento, a domanda, delle funzioni direttive propendendo per la soluzione positiva», per cui l’intervento interpretativo non «potrebbe mutarne la natura di norma destinata a disciplinare i soli trasferimenti a domanda, e giammai quelli disposti d’ufficio».

3.2.– Questa Corte si è ripetutamente espressa nel senso che va riconosciuto carattere interpretativo alle norme che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo (sentenza n. 424 del 1993). Ed ha chiarito che il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore (ex plurimis: sentenze n. 15 del 2012, n. 271 del 2011, n. 209 del 2010).

Ciò premesso, va rilevato che il testo originario dell’art. 194 dell’ordinamento giudiziario, secondo cui: «Il magistrato destinato, per tramutamento o per promozione, ad una sede da lui chiesta od accettata, non può essere, di regola, trasferito in altre sedi prima di due anni dal giorno in cui ha assunto effettivo possesso dell’ufficio, salvo che ricorrano motivi di salute o ragioni di servizio», è stato, dapprima, sostituito dall’art. 2 della legge 16 ottobre 1991, n. 321 (Interventi straordinari per la funzionalità degli uffici giudiziari e per il personale dell'Amministrazione della giustizia), per il quale «Il magistrato destinato, per trasferimento o per conferimento di funzioni, ad una sede da lui chiesta od accettata, non può essere trasferito ad altre sedi o assegnato ad altre funzioni prima di quattro anni dal giorno in cui ha assunto effettivo possesso dell’ufficio, salvo che ricorrano motivi di salute ovvero gravi ragioni di servizio o di famiglia. […]», e, poi, modificato dall’art. 2 della legge 8 novembre 1991, n. 356 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 9 settembre 1991, n. 292, recante disposizioni in materia di custodia cautelare, di avocazione dei procedimenti penali per reati di criminalità organizzata e di trasferimenti di ufficio di magistrati per la copertura di uffici giudiziari non richiesti) con la soppressione delle parole «od accettata». Il testo vigente del citato art. 194 (introdotto dall’art. 4, comma 2, della legge n. 133 del 1998) prevede che «Il magistrato destinato, per trasferimento o per conferimento di funzioni, ad una sede da lui chiesta, non può essere trasferito ad altre sedi o assegnato ad altre funzioni prima di tre anni dal giorno in cui ha assunto effettivo possesso dell’ufficio, salvo che ricorrano gravi motivi di salute ovvero gravi ragioni di servizio o di famiglia».

A fronte di tale evoluzione normativa, il rimettente stesso osserva che, fin dall’approvazione della legge n. 356 del 1991, l’art. 194 dell’ordinamento giudiziario ha limitato la propria portata applicativa ai soli trasferimenti a domanda. E sottolinea che siffatto ambito di efficacia (conseguente alla limitazione della sfera di operatività della norma, rimasta applicabile ai soli trasferimenti verso una sede non soltanto «accettata», ma «chiesta» dal magistrato) non è mutato neanche a seguito dell’abrogazione dell’art. 4-bis della citata legge n. 321 del 1991 (in virtù del quale «I magistrati trasferiti d’ufficio a norma della presente legge […] non possono essere trasferiti a domanda prima di tre anni dal giorno in cui hanno assunto effettivo possesso dell’ufficio, salvo che ricorrano specifici e gravi motivi di salute») ad opera del comma 2 dell’art. 1 del decreto-legge 16 settembre 2008, n. 143 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181. Ciò in quanto a detta abrogazione non si è accompagnata una parallela riscrittura dell’art. 194, capace di renderlo compatibile anche con la fattispecie del trasferimento d’ufficio, intendendosi come tale «ogni tramutamento della sede di servizio per il quale non sia stata proposta domanda dal magistrato, ancorché egli abbia manifestato il consenso o la disponibilità, e che determini lo spostamento in una delle sedi disagiate […]» (art. 1 della legge n. 133 del 1998, quale sostituito dall’art. 1, lettera b, del d.l. n. 143 del 2008).

3.3. – In questo contesto di norme, va rilevato che, da parte del rimettente, non risulta esperito il doveroso tentativo di sperimentare la possibilità di dare alla norma censurata un significato costituzionalmente conforme, tale da renderla compatibile con gli evocati parametri costituzionali (ordinanza n. 102 del 2012).

Al riguardo occorre, in primo luogo, ribadire che le leggi interpretative «vanno definite tali in relazione al loro contenuto normativo, nel senso che la loro natura va desunta da un rapporto fra norme – e non fra disposizioni – tale che il sopravvenire della norma interpretante non fa venir meno la norma interpretata, ma l’una e l’altra si saldano fra loro dando luogo a un precetto normativo unitario» (sentenza n. 424 del 1993). In particolare, la norma interpretativa, isolando uno dei possibili significati già presenti nella disposizione interpretata ed escludendone gli altri (che avrebbero snaturato la sua essenza), non ne modifica il testo.

In secondo luogo, di conseguenza, va posto in rilievo che non risulta esplicitata né congruamente motivata (in relazione all’indicato dato letterale della norma che si autoqualifica interpretativa) l’idoneità della stessa ad espungere la locuzione «ad una sede da lui chiesta», contenuta nella disposizione interpretata. Motivazione tanto più necessaria in quanto, in difetto di un diritto vivente in senso contrario (e non essendo decisivo il richiamo ad una diversa ratio legis che non sia ancorata ad idonei termini formali), solo l’esplicita elisione del richiamo ai trasferimenti a domanda potrebbe connotare diversamente la portata della suddetta disposizione interpretata, in modo da cambiarne radicalmente l’ámbito di operatività – estendendone l’applicazione a sedi a loro tempo assegnate d’ufficio – ed attribuirle un significato non desumibile (per stessa affermazione del rimettente) dal suo tenore letterale.

3.4.– Pertanto, la mancata esplorazione di diverse soluzioni ermeneutiche, al fine di far fronte al dubbio di costituzionalità ipotizzato (che ridonda anche in termini di insufficiente motivazione in ordine alla rilevanza della questione: ordinanze n. 198 del 2013 e n. 240 del 2012) rende inammissibili, sotto tutti i profili, le sollevate questioni.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 3, del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 aprile 2012, n. 35, sollevate – in riferimento agli artt. 3, 102 e 111, primo comma, della Costituzione – dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 dicembre 2013.

F.to:

Gaetano SILVESTRI, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 dicembre 2013.