Sentenza n. 19 del 2024

SENTENZA N. 19

ANNO 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da:

Presidente: Augusto Antonio BARBERA;

Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 83 della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, sezione prima, nel procedimento vertente tra Cartiere Villa Lagarina spa e il Comune di Mantova, con ordinanza del 28 giugno 2023, iscritta al n. 105 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Visti l’atto di costituzione di Cartiere Villa Lagarina spa, nonché l’atto di intervento della Regione Lombardia;

udito nell’udienza pubblica del 10 gennaio 2024 il Giudice relatore Marco D’Alberti;

uditi gli avvocati Vincenzo Pellegrini e Alberto Mascotto per Cartiere Villa Lagarina spa e Alessandra Zimmitti per la Regione Lombardia;

deliberato nella camera di consiglio del 10 gennaio 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 28 giugno 2023 (reg. ord. n. 105 del 2023), il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, sezione prima, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 83 della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, in relazione agli artt. 146 e 167, comma 5, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137).

1.1.– Il rimettente descrive la fattispecie oggetto del giudizio a quo nei seguenti termini.

Cartiere Villa Lagarina spa (di seguito, anche: la società) è proprietaria di un complesso industriale noto come «Cartiera ex Burgo», ubicato nel Comune di Mantova, in un’area parzialmente assoggettata a vincolo paesaggistico.

Dopo l’acquisto, la società ha eseguito una serie di interventi di ristrutturazione edilizia e industriale per riavviare l’attività produttiva, versando lo stabilimento in stato di abbandono.

Il Comune e la Provincia di Mantova hanno adottato provvedimenti sanzionatori in relazione ad alcuni di tali interventi, perché realizzati senza autorizzazione paesaggistica o in difformità da essa.

La società ha impugnato i provvedimenti sanzionatori con distinti ricorsi davanti al TAR.

Il ricorso introduttivo del giudizio a quo ha per oggetto l’ordinanza n. 74/2020 del 18 maggio 2020, con la quale il Comune di Mantova ha intimato alla società di pagare la somma di 709.204,16 euro a titolo di sanzione pecuniaria, relativamente ad opere eseguite negli impianti di ventilazione dello stabilimento in assenza di autorizzazione paesaggistica (oltre che di permesso di costruire).

Per queste opere, di cui il Comune di Mantova aveva già ordinato la rimessione in pristino, la società aveva presentato istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)», e domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167 cod. beni culturali.

Accertata tale compatibilità, lo stesso Comune ha emesso il provvedimento impugnato nel giudizio a quo, applicando la sanzione pecuniaria prevista al comma 5, terzo e quarto periodo, del citato art. 167, secondo cui «[q]ualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. L’importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima».

L’importo della sanzione è stato determinato ai sensi dell’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, nel testo introdotto dall’art. 27 della legge della Regione Lombardia 4 dicembre 2018, n. 17 (Legge di revisione normativa e di semplificazione 2018), secondo cui «[l]’applicazione della sanzione pecuniaria, prevista dall’articolo 167 del D.Lgs. n. 42/2004, in alternativa alla rimessione in pristino, è obbligatoria anche nell’ipotesi di assenza di danno ambientale e, in tal caso, deve essere quantificata in relazione al profitto conseguito e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro».

In assenza di un danno ambientale, la perizia disposta dal Comune di Mantova ha quantificato il costo teorico di realizzazione delle opere abusive in euro 886.505,20, pervenendo alla somma finale di euro 709.204,16, pari all’ottanta per cento di tale costo, di cui è stato ingiunto il pagamento.

1.2.– Cartiere Villa Lagarina spa ha chiesto l’annullamento dell’atto impugnato e la rideterminazione della sanzione nella misura minima di cinquecento euro per ogni singola trasgressione, dunque nella misura complessiva di duemila euro o in subordine di quattromila euro.

Con il terzo motivo di ricorso, che viene in rilievo in questa sede, la società ha dedotto l’illegittimità derivata del provvedimento impugnato, conseguente all’eccepita illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 23, 25, 117, secondo comma, lettere l), m) e s), e 118 Cost., della disposizione regionale applicata dal Comune per determinare l’importo della sanzione.

1.2.1.– Nel corso del giudizio a quo Cartiere Villa Lagarina spa ha presentato motivi aggiunti, impugnando per le stesse ragioni sopra esposte la cartella esattoriale con cui l’Agenzia delle entrate, su incarico del Comune di Mantova, ha medio tempore preteso la riscossione degli importi determinati nei vari provvedimenti sanzionatori relativi agli interventi eseguiti nello stabilimento «Cartiera ex Burgo», tra i quali anche l’importo dovuto in forza dell’ordinanza comunale n. 74/2020 del 18 maggio 2020.

1.2.2.– Il rimettente riferisce altresì che in fase cautelare è stata accolta la domanda di sospensione dell’efficacia della cartella esattoriale impugnata con i motivi aggiunti e che l’udienza per il merito è stata rinviata, su istanza di parte, in attesa della definizione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 sollevata dallo stesso TAR in una controversia analoga tra le medesime parti.

Definito l’incidente di costituzionalità relativo alla predetta analoga controversia con l’ordinanza n. 22 del 2023, che ha dichiarato la questione inammissibile, il TAR ha fissato la pubblica udienza di discussione nel merito, al cui esito la causa è stata trattenuta in decisione.

1.3.– Il TAR, quanto al terzo motivo, che come si è detto viene qui in rilievo, ritiene che la questione di legittimità costituzionale ivi eccepita sia rilevante e non manifestamente infondata, in termini analoghi a quelli già esposti nel sollevare l’analoga questione decisa da questa Corte con la declaratoria di inammissibilità di cui alla citata ordinanza n. 22 del 2023.

Tale pronuncia, secondo il rimettente, non precluderebbe la riproposizione della questione.

Questa Corte, infatti, ha ritenuto insussistente il requisito della rilevanza, avendo il TAR deciso i due unici motivi di ricorso dedotti nel precedente giudizio a quo, respingendoli entrambi, con la conseguenza che, all’atto della rimessione della questione, la sua potestas iudicandi si era già esaurita.

Diversamente, nel presente giudizio a quo la questione costituirebbe il presupposto di una specifica censura di illegittimità derivata del provvedimento sanzionatorio impugnato, dedotta con il terzo motivo di ricorso, non ancora deciso dal TAR.

Quest’ultimo conserverebbe integra, pertanto, la potestas iudicandi e, con essa, il potere di promuovere l’incidente di legittimità costituzionale, la cui definizione avrebbe natura pregiudiziale rispetto al processo principale.

1.4.– Ciò premesso, il rimettente osserva, in punto di rilevanza, che nella specie la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 167 cod. beni culturali è stata determinata facendo applicazione dell’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.

In particolare, la sanzione è stata quantificata sulla base di una perizia di stima che ha determinato il costo teorico di realizzazione delle opere e dei lavori abusivi, alla stregua di quanto prevede la norma regionale censurata.

Tuttavia, mentre l’art. 167, comma 5, terzo periodo, cod. beni culturali utilizza quali parametri per la determinazione della sanzione «il danno arrecato» e «il profitto conseguito mediante la trasgressione», l’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 fa riferimento anche al «costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi».

Di conseguenza, l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale del citato art. 83 «determinerebbe l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio che ne ha fatto applicazione e dunque l’accoglimento del ricorso con riferimento a questo unico profilo, dedotto dalla parte ricorrente con il terzo motivo di ricorso». L’annullamento della sanzione nella misura irrogata costituirebbe, inoltre, il necessario presupposto della sua eventuale rideterminazione nei minori importi indicati dalla società.

1.5.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene che la disciplina delle sanzioni amministrative previste per il caso di inosservanza delle disposizioni contenute nella Parte terza del codice dei beni culturali e del paesaggio sia da ascrivere alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in quanto rientrante nella materia «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali».

Non sarebbe condivisibile, dunque, la tesi del Comune di Mantova secondo cui la disciplina in esame ricadrebbe nella competenza legislativa residuale delle regioni ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost. o in quella concorrente in materia di «valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali», di cui al terzo comma del medesimo art. 117.

Il rimettente osserva sul punto che, da un lato, «l’apparato sanzionatorio previsto per un determinato settore dell’ordinamento, lungi dal costituire una materia a sé stante, accede piuttosto alla disciplina sostanziale il cui rispetto intende assicurare», con la conseguenza che la definizione del regime sanzionatorio spetta al medesimo soggetto «nella cui sfera di competenza rientra la disciplina la cui inosservanza costituisce l’atto sanzionabile» (è citata la sentenza n. 148 del 2018; sono, altresì, richiamate le precedenti sentenze n. 90 del 2013, n. 240 del 2007, n. 384 del 2005 e n. 12 del 2004). Non trattandosi di materia autonoma, tale regime non potrebbe «ricadere nella previsione del comma quarto dell’articolo 117 Cost. e dunque essere attribuit[o] in via residuale alla potestà legislativa delle Regioni».

D’altro lato, la tutela dell’ambiente e del paesaggio e la loro valorizzazione sarebbero «due funzioni, certamente intersecantesi, ma diversificate l’una dall’altra», mirando la prima alla conservazione di un bene complesso e unitario e la seconda a migliorarne la funzione e la conoscenza.

Secondo il rimettente, le norme di cui alla Parte terza del codice dei beni culturali e del paesaggio perseguirebbero «scopi di conservazione dei beni paesaggistici, in quanto vieta[no] espressamente qualsivoglia intervento che li distrugga o li pregiudichi», e al medesimo scopo di tutela sarebbero preordinate le sanzioni (sia ripristinatorie, sia pecuniarie) previste per la violazione delle stesse norme, in quanto dirette a scoraggiare interventi su aree paesaggisticamente tutelate prima che l’autorità amministrativa si sia pronunciata sui relativi progetti.

Pertanto, rientrando la disciplina delle sanzioni per la violazione dell’art. 146 cod. beni culturali nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, sarebbe precluso alle regioni di introdurre sanzioni ulteriori o diverse rispetto a quelle contenute nella legge statale, sicché l’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, il quale contiene previsioni sanzionatorie difformi in un ambito riservato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

2.– Cartiere Villa Lagarina spa si è costituita in giudizio il 18 settembre 2023, chiedendo l’accoglimento della questione sulla base delle stesse ragioni esposte dal rimettente.

Ad avviso della parte privata, inoltre, la quantificazione della sanzione introdotta dalla norma regionale censurata sarebbe «del tutto estranea» ai principi contenuti nella norma statale e «soprattutto del tutto svincolata da qualsivoglia relazione con l’interesse leso e con la finalità perseguita dagli artt. 146 e 167 D.Lgs. 42/2004». Essa violerebbe dunque la disciplina statale, in quanto, prescindendo da una perizia di stima del profitto, introdurrebbe «una quantificazione forfettaria del tutto sproporzionata e priva di qualsivoglia relazione con il concetto di “profitto”».

3.– La Regione Lombardia è intervenuta in giudizio il 7 settembre 2023, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.

3.1.– Preliminarmente, la questione sarebbe inammissibile per la sua irrilevanza nella definizione del giudizio a quo, che verterebbe solo sulla quantificazione della sanzione amministrativa, e «che ben p[otrebbe] trovare soluzione indipendentemente dall’applicazione della normativa regionale».

In particolare, secondo la difesa regionale, il rimettente non avrebbe fornito elementi idonei a ricostruire né il procedimento amministrativo avviato dal Comune di Mantova per calcolare il quantum dovuto dalla società ricorrente per gli interventi abusivi oggetto di accertamento postumo, né la valutazione tecnica posta a base della perizia di stima eseguita dal consulente della società, limitandosi a «indicare i diversi criteri adottati e gli esiti dell’applicazione di tali criteri raggiunti nelle rispettive valutazioni» e non rendendo noti gli elementi posti a base delle differenti quantificazioni.

Il rimettente, inoltre, non avrebbe tentato un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata. L’affermazione secondo cui il profitto conseguito è «di regola inferiore all’80% del costo di costruzione» lascerebbe «un margine di indeterminatezza, che mostra come la verifica della rilevanza sia avvenuta in astratto e senza considerazione della fattispecie concreta e della possibilità di interpretare la norma in maniera costituzionalmente orientata».

3.2.– Nel merito, la Regione richiama il contenuto del comma 5, terzo periodo, dell’art. 167 cod. beni culturali e sottolinea che l’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 – nella versione originaria, che non conteneva le previsioni oggetto di censura – sarebbe stato adottato per superare le difficoltà applicative sorte in relazione a opere abusive che non arrecano alcun danno e dalle quali non deriva alcun profitto per il trasgressore (viene fatto l’esempio dello «spostamento di una finestra già prevista, e autorizzata, in altra posizione»).

Pertanto, la norma regionale non si sarebbe sovrapposta a quella statale, ma ne avrebbe colmato una lacuna che ne vanificava l’applicazione, completandola.

Successivamente, come visto, l’art. 27 della legge reg. Lombardia n. 17 del 2018 ha ridefinito i parametri per il calcolo della sanzione paesaggistica, introducendo nell’art. 83 una «innovazione legata alla sola quantificazione».

A colmare l’asserita lacuna normativa sopra rilevata non varrebbe neppure il decreto del Ministro per i beni culturali e ambientali 26 settembre 1997 (citato dal giudice a quo), recante «Determinazione dei parametri e delle modalità per la qualificazione della indennità risarcitoria per le opere abusive realizzate nelle aree sottoposte a vincolo», poiché, a prescindere dai dubbi sulla sua vigenza, esso indica criteri legati al valore d’estimo, senza «un riferimento applicabile in ogni caso».

Tali considerazioni dimostrerebbero che l’ordinanza di rimessione muove da «un errore di fondo», ritenendo integrata la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. da «qualunque disposizione che non risulti identica, nel proprio testo, alla normativa statale».

La Regione Lombardia riferisce poi che anche altre regioni sono intervenute per colmare la stessa lacuna della disciplina statale, e richiama la legge della Regione Piemonte 3 aprile 1989, n. 20 (Norme in materia di tutela di beni culturali, ambientali e paesistici), la quale prevede, all’art. 16, il pagamento di una sanzione pari al cento per cento del valore delle opere abusive e comunque di una sanzione pari a un predeterminato minimo legale, oltre alla riduzione in pristino.

3.2.1.– Quanto all’ascrivibilità della disciplina del potere sanzionatorio a tutela del paesaggio alla competenza legislativa esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., la giurisprudenza di questa Corte non escluderebbe la possibilità per il legislatore regionale di assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela del bene paesaggistico, qualora siffatte prescrizioni elevino il livello di tutela ambientale previsto dal legislatore statale.

Questa ipotesi si verificherebbe nel presente giudizio, in quanto, ad avviso della Regione, il censurato art. 83 non si porrebbe «in contraddizione» con la potestà legislativa esclusiva dello Stato, né ridurrebbe i livelli di tutela dell’ambiente.

La Regione sostiene inoltre che lo stesso art. 83, nel prevedere il criterio di determinazione della sanzione in assenza di danno ambientale, potrebbe essere ascritto alla competenza legislativa concorrente in materia di «valorizzazione dei beni culturali e ambientali», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto non contrasterebbe con la funzione statale di tutela paesaggistica, ma intenderebbe «sanzionare quelle ipotesi in cui il bene non è compromesso, ma vi è stata comunque una alterazione».

Tali ipotesi ricadrebbero nell’ambito della gestione dei beni culturali e ambientali, da tenere distinta dalla funzione di tutela riservata allo Stato e da ascrivere a quella di valorizzazione degli stessi beni: in definitiva, «[u]na volta assicurato il livello di tutela previsto dalla legislazione statale», la sanzione in esame costituirebbe «un limite alla fruizione, attraverso una più stringente tutela del bene».

Le stesse considerazioni riferite alla mancanza di un danno ambientale varrebbero a ricondurre la norma censurata anche alla potestà legislativa concorrente in materia di «governo del territorio», attribuita alle regioni dal medesimo art. 117, terzo comma, Cost.

Tale potestà comprenderebbe «tutto ciò che attiene all’uso del territorio e alla localizzazione di impianti o attività» e, collegandosi «trasversalmente» alla materia della tutela ambientale, potrebbe essere esercitata senza violare la competenza legislativa esclusiva dello Stato. Quest’ultima andrebbe limitata agli aspetti della normativa di tutela ambientale che, per loro natura, richiedono una disciplina unitaria: di conseguenza, la norma regionale censurata, non interferendo con l’individuazione dei beni tutelabili e operando in funzione «aggiuntiva» alla legislazione statale, avrebbe quantificato la sanzione per l’ipotesi di abusi paesaggistici non produttivi di danno ambientale, prevedendo un «parametro-limite» volto a rendere più completa la disciplina, «nell’ottica della difesa del territorio».

4.– Cartiere Villa Lagarina spa ha depositato il 20 dicembre 2023 una memoria illustrativa.

Quanto all’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa regionale, la società osserva che il giudice a quo avrebbe puntualmente motivato sulla rilevanza della questione, là dove afferma che la sanzione è stata irrogata considerando esclusivamente il criterio del costo teorico delle opere abusive, previsto dall’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, e che l’accoglimento della questione determinerebbe l’illegittimità del provvedimento impugnato nel processo principale.

Quanto al merito, la parte privata osserva che il quadro normativo statale di riferimento, costituito dagli artt. 146 e 167 cod. beni culturali, disciplina una fattispecie caratterizzata dalla violazione di un obbligo (consistente nella mancanza della preventiva autorizzazione paesaggistica) e dalla connessa sanzione amministrativa pecuniaria. Quest’ultima, inoltre, appare «correlata intimamente» all’istituto dell’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica, che produce un effetto “sanante” dell’abuso e, al contempo, svolge una funzione diretta a semplificare e rendere efficiente l’azione amministrativa.

In questo quadro, risulterebbe chiara la potestà legislativa esclusiva dello Stato a determinare la sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 167, comma 5, cod. beni culturali, alla luce della giurisprudenza costituzionale, richiamata dallo stesso rimettente, sulla spettanza della disciplina sanzionatoria al medesimo soggetto nella cui sfera di competenza rientra la disciplina la cui inosservanza costituisce l’atto sanzionabile. Di conseguenza, trattandosi di sanzione irrogata per l’inosservanza di norme poste a protezione del paesaggio, come quelle attinenti al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, la competenza legislativa esclusiva spetterebbe allo Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

L’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 avrebbe una portata innovativa rispetto alla disciplina statale, introducendo un criterio del tutto svincolato dalla nozione di «profitto» del trasgressore. Lungi dal costituire una legittima integrazione della disciplina statale, come sostiene la Regione, la norma censurata sarebbe «potenzialmente dirompente rispetto all’omogenea ed unitaria applicazione» dei precetti di cui all’art. 167 cod. beni culturali. Essa comporterebbe, infatti, un evidente rischio di sperequazioni, considerando che nelle altre regioni sarebbe generalmente adottato il (ben più favorevole) criterio di quantificazione del profitto previsto dal d.m. 26 settembre 1997, «pari, in via ordinaria, al tre per cento del valore d’estimo». Da tale diversità di trattamento, inoltre, risulterebbe disincentivato il ricorso all’istituto dell’accertamento di compatibilità paesaggistica e, di conseguenza, pregiudicata anche la sua funzione deflattiva, determinando tale accertamento l’estinzione del reato previsto dall’art. 181 cod. beni culturali.

Né la norma regionale censurata sarebbe riconducibile alle materie della valorizzazione dei beni culturali e del governo del territorio, per i motivi esposti nell’ordinanza di rimessione.

Considerato in diritto

1.– Il TAR Lombardia, sezione staccata di Brescia, sezione prima, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 146 e 167, comma 5, cod. beni culturali.

La disposizione censurata stabilisce che «[l]’applicazione della sanzione pecuniaria, prevista dall’articolo 167 del D.Lgs. n. 42/2004, in alternativa alla rimessione in pristino, è obbligatoria anche nell’ipotesi di assenza di danno ambientale e, in tal caso, deve essere quantificata in relazione al profitto conseguito e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro».

Nel giudizio a quo è impugnato il provvedimento con cui il Comune di Mantova, dopo avere accertato la compatibilità paesaggistica di opere realizzate senza autorizzazione in un complesso industriale sito in un’area parzialmente assoggettata a vincolo paesaggistico, ha irrogato al trasgressore (Cartiere Villa Lagarina spa) la sanzione pecuniaria prevista all’art. 167, comma 5, cod. beni culturali. L’importo della sanzione, in assenza di un danno ambientale, è stato commisurato all’ottanta per cento del costo teorico di costruzione delle opere abusive, previa perizia di stima, in applicazione del criterio introdotto dall’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.

La questione di legittimità costituzionale investe la parte della disposizione regionale che stabilisce la misura della sanzione, secondo le modalità indicate dalla stessa disposizione, con previsione di un minimo inderogabile di cinquecento euro.

Il giudice a quo ritiene che il legislatore regionale, adottando una disposizione difforme da quella stabilita dall’art. 167 cod. beni culturali, abbia invaso la competenza legislativa in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», attribuita in via esclusiva allo Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

A suo avviso, le norme di cui alla Parte terza del codice dei beni culturali e del paesaggio, nel cui ambito è contenuta la disciplina dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 dello stesso codice, perseguono scopi di conservazione dei beni paesaggistici, alla realizzazione dei quali sarebbero preordinate anche le sanzioni – sia ripristinatorie, sia pecuniarie – previste dall’art. 167 cod. beni culturali, in quanto dirette a scoraggiare interventi eseguiti su aree paesaggisticamente tutelate prima che l’autorità amministrativa si sia pronunciata sui relativi progetti.

Pertanto, rientrando la disciplina delle sanzioni per la violazione del citato art. 146 cod. beni culturali nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, sarebbe precluso alle regioni di introdurre sanzioni ulteriori o diverse, anche solo nel quantum, rispetto a quelle fissate dalla legge statale.

2.– In via preliminare, si deve innanzi tutto escludere che influisca sull’ammissibilità della questione il fatto che questa Corte, con l’ordinanza n. 22 del 2023, abbia definito con una pronuncia di inammissibilità un’identica questione incidentale, sollevata dallo stesso giudice rimettente nel corso di una controversia analoga, vertente tra le stesse parti.

2.1.– L’inammissibilità è stata dichiarata, in quella pronuncia, per avere «il giudice a quo […] già deciso i due unici motivi di ricorso, respingendoli entrambi, con la conseguenza che, all’atto della rimessione della questione, la sua potestas iudicandi si era già esaurita»: da qui il difetto di rilevanza, «non residuando in capo al rimettente alcuno spazio di decisione, nel cui ambito soltanto potrebbe trovare applicazione la norma della cui legittimità costituzionale il giudice stesso dubita».

Una tale pronuncia, di carattere processuale, non preclude la riproposizione della questione in un diverso giudizio, in quanto non comporta alcun effetto impeditivo nei confronti di successive censure, pure analoghe, relative alla stessa norma (sentenza n. 99 del 2017).

Nell’odierno giudizio a quo, infatti, il rimettente non ha esaurito la potestas iudicandi, in quanto, dopo avere accertato l’infondatezza dei primi due motivi di ricorso, deve ancora decidere in ordine al terzo, con il quale l’illegittimità del provvedimento impugnato è fatta derivare dalla (eccepita) illegittimità costituzionale della sua base normativa.

Sotto questo profilo, dunque, la questione è ammissibile.

2.2.– La Regione Lombardia ha eccepito il difetto di rilevanza sotto plurimi profili. In primo luogo, perché nel giudizio a quo si controverte della quantificazione della sanzione amministrativa, tema che «ben p[otrebbe] trovare soluzione indipendentemente dall’applicazione della normativa regionale».

L’eccezione non è fondata. Tale assertiva affermazione non considera che, come riferisce il rimettente, il provvedimento impugnato nel giudizio a quo ha determinato l’entità della sanzione esclusivamente sulla base del criterio previsto dall’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 (id est, «in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi»), sul presupposto dell’assenza di un danno ambientale. Di conseguenza, non si vede come la definizione della controversia sul quantum potrebbe prescindere dall’applicazione della norma regionale censurata.

In secondo luogo, ad avviso della difesa regionale, il rimettente non avrebbe fornito elementi idonei a ricostruire né il procedimento amministrativo avviato dal Comune di Mantova per calcolare la sanzione, né la valutazione tecnica posta a base della perizia di stima «effettuata dal consulente della società», limitandosi a «indicare i diversi criteri adottati e gli esiti dell’applicazione di tali criteri raggiunti nelle rispettive valutazioni», senza rendere noti gli elementi posti a base delle «differenti quantificazioni». Il rimettente, inoltre, avrebbe verificato la rilevanza in astratto, limitandosi ad affermare che il profitto conseguito è «di regola inferiore all’80% del costo di costruzione», senza neppure considerare la possibilità di interpretare la norma in senso costituzionalmente orientato.

Va premesso che con queste argomentazioni la Regione contesta, piuttosto, un difetto di motivazione sulla rilevanza, che non sussiste.

Le lacune lamentate, peraltro non tutte di agevole comprensione (specie dove l’interveniente allude a una perizia di parte e a non meglio precisate «differenti quantificazioni»), non sono comunque idonee a dimostrare la mancanza dei requisiti minimi di ammissibilità della questione.

Il TAR, infatti, motiva in modo non implausibile sull’applicabilità della norma censurata nel giudizio a quo. L’ordinanza di rimessione contiene chiari riferimenti all’accertamento di compatibilità paesaggistica e al conseguente provvedimento sanzionatorio adottato ai sensi dell’art. 167 cod. beni culturali, precisando che la sanzione è stata determinata sulla base del criterio introdotto dall’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, alla cui stregua, in assenza di un danno ambientale, la sanzione è comunque quantificata nella misura minima dell’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere abusive, previa perizia di stima.

È dunque illustrato in modo esaustivo il nesso esistente tra la norma censurata e il provvedimento sottoposto alla cognizione del rimettente, il quale, lungi dall’aver esaminato la rilevanza in astratto, ha verificato come, in concreto, solo la caducazione di tale norma (e, con essa, il venir meno del rigido criterio legale di quantificazione minima dell’importo dovuto dal trasgressore) potrebbe condurre all’annullamento della sanzione e consentire l’eventuale rideterminazione di quest’ultima nel minor importo indicato dalla ricorrente nel processo principale.

Quanto al rilievo concernente il mancato tentativo di interpretazione conforme a Costituzione, è sufficiente osservare che il giudice a quo ha accolto non implausibilmente una piana lettura della norma regionale, secondo cui essa introduce un criterio di calcolo non previsto dalla norma statale interposta, mentre la Regione ipotizza che tale difformità non leda effettivamente la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia ambientale: ciò che attiene al merito della questione.

3.– Prima di esaminare il merito, va ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.

3.1.– L’art. 167 cod. beni culturali, sotto la rubrica «Ordine di rimessione in pristino o di versamento di indennità pecuniaria», al comma 1 prevede che, «[i]n caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4».

Per regola generale, dunque, le opere realizzate senza autorizzazione paesaggistica, in violazione dell’art. 146 cod. beni culturali (disposizione contenuta nel Titolo I della Parte terza del codice), non sono suscettibili di “sanatoria”, tramite il pagamento di una somma di denaro, ma comportano l’applicazione della sanzione di carattere reale della riduzione in pristino.

Le uniche deroghe alla sanzione ripristinatoria reale sono contemplate al comma 4 dello stesso art. 167, secondo cui l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica dopo la realizzazione delle opere (onde tale accertamento viene comunemente definito “postumo”) nei seguenti casi tassativi:

a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;

b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica;

c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’art. 3 t.u. edilizia.

In queste ipotesi, il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area è ammesso a presentare domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi (comma 5, primo periodo).

L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni (comma 5, secondo periodo).

Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione (comma 5, terzo periodo).

L’importo della «sanzione pecuniaria» è determinato previa perizia di stima (comma 5, quarto periodo).

In caso di rigetto della domanda si applica la sanzione demolitoria di cui al comma 1 (comma 5, quinto periodo).

A tale disciplina si raccorda l’art. 146 cod. beni culturali, alla cui stregua, «[f]uori dai casi di cui all’articolo 167, commi 4 e 5, l’autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi» (comma 4, secondo periodo).

Questo assetto normativo è il risultato della modifica introdotta dall’art. 27, comma 1, del decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 157 (Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione al paesaggio), che ha integralmente sostituito l’art. 167 cod. beni culturali.

Il previgente comma 1 di tale ultima disposizione prevedeva, infatti, che «[i]n caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è tenuto, secondo che l’autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica ritenga più opportuno nell’interesse della protezione dei beni indicati nell’articolo 134, alla rimessione in pristino a proprie spese o al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. La somma è determinata previa perizia di stima».

Il trattamento delle violazioni degli obblighi e degli ordini a tutela del paesaggio era dunque caratterizzato, prima della novella del 2006, dalla titolarità in capo all’amministrazione del potere di scegliere in ogni caso fra ripristino dello status quo ante e pagamento di una somma di denaro. Ciò, in linea con quanto precedentemente disposto, in termini sostanzialmente identici, prima dall’art. 15 della legge 29 giugno 1939, n. 1497 (Protezione delle bellezze naturali), poi dall’art. 164 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352).

La modifica del 2006 ha dunque significativamente innovato rispetto al nucleo essenziale di una disciplina risalente nel tempo, prevedendo che l’amministrazione non abbia più la descritta possibilità di scegliere fra riduzione in pristino e misura pecuniaria, nonché relegando quest’ultima ad alcune fattispecie abusive minori, previo accertamento della loro compatibilità paesaggistica.

Ciò premesso, a venire qui in rilievo sono, nel caso in cui sopravvenga l’accertamento “postumo” di compatibilità paesaggistica, i criteri di calcolo della somma dovuta dal trasgressore, che il legislatore statale ha individuato nel «maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione».

3.1.1.– La rubrica dell’art. 167 cod. beni culturali parla di «indennità pecuniaria» in relazione all’importo che il trasgressore è tenuto a pagare, una volta accertata la compatibilità paesaggistica degli interventi.

Il medesimo art. 167 è peraltro inserito nel Capo II del Titolo I della Parte quarta del codice dei beni culturali e del paesaggio, dedicato alle «Sanzioni relative alla Parte terza» dello stesso codice.

Inoltre, il comma 5 dell’art. 167 prevede, come già detto, che l’importo della «sanzione pecuniaria» sia determinato previa perizia di stima.

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, non si tratta di una forma di risarcimento del danno, ma di una sanzione amministrativa applicabile a prescindere dalla concreta produzione di un danno ambientale. Nella previsione normativa, il danno viene in considerazione solo come criterio di commisurazione della sanzione – in alternativa al profitto conseguito – e non come parametro che ne condiziona l’an. L’assenza di un danno ambientale non ostacola, dunque, il potere sanzionatorio, ma assume rilievo sotto il profilo della quantificazione dell’importo dovuto, che sarà ragguagliata al solo profitto conseguito (tra le molte, Consiglio di Stato, sezione seconda, sentenza 30 ottobre 2020, n. 6678, sentenza 25 luglio 2020, n. 4755, sentenza 4 maggio 2020, n. 2840; sezione sesta, sentenza 8 gennaio 2020, n. 130).

Lo stesso costante orientamento giurisprudenziale qualifica la misura in esame come sanzione riparatoria alternativa al ripristino dello status quo ante. A tal riguardo, il Consiglio di Stato osserva che, «proprio in funzione della sua natura di carattere ripristinatori[o] alternativa alla demolizione», la sanzione «viene ragguagliata “al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione” e, in base all’art. 167 del d.lgs. 42 del 2004, le somme “sono utilizzate per finalità di salvaguardia, interventi di recupero dei valori ambientali e di riqualificazione delle aree degradate”» (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenze 30 giugno 2023, n. 6380 e n. 6381; nello stesso senso, tra le molte, Consiglio Stato, sezione prima, parere definitivo 18 maggio 2022, n. 877; sezione seconda, sentenza 30 ottobre 2020, n. 6678).

3.1.2.– Come si è visto, l’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 è censurato dal giudice a quo nel testo, attualmente in vigore, introdotto dall’art. 27, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 17 del 2018.

Il testo anteriore alla modifica era il seguente: «1. L’applicazione della sanzione pecuniaria, prevista dall’articolo 167 del D.Lgs. 42/2004, in alternativa alla rimessione in pristino, è obbligatoria anche nell’ipotesi di assenza di danno ambientale e, in tal caso, deve essere quantificata in relazione al profitto conseguito e, comunque, in misura non inferiore a cinquecento euro».

Nella versione originaria, l’art. 83 si limitava dunque a prevedere, nella sostanza, che la sanzione si dovesse applicare anche in assenza di danno e fosse in tal caso determinata esclusivamente sulla base del profitto conseguito dal trasgressore. Previsione che era già desumibile dall’art. 167 cod. beni culturali nell’interpretazione accolta dalla richiamata giurisprudenza amministrativa, secondo cui l’assenza di un danno ambientale non ostacola il potere sanzionatorio, ma assume rilievo sotto il profilo della commisurazione della sanzione, che sarà ragguagliata al solo profitto conseguito. Si aggiungeva, peraltro, una misura minima non inferiore «comunque» a cinquecento euro.

Con la modifica introdotta dal citato art. 27, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 17 del 2018 è stato mantenuto il minimo inderogabile di cinquecento euro, ma, per determinare la sanzione pecuniaria in caso di assenza di danno ambientale, si è aggiunto l’ulteriore criterio parametrato al costo teorico di realizzazione degli interventi abusivi, da desumere nei modi indicati dalla medesima disposizione. In quest’ultima versione, l’art. 83 è interpretabile nel senso che la nuova misura percentuale pari all’ottanta per cento di detto costo (che non può «in ogni caso» scendere al di sotto di cinquecento euro, in forza della previsione di chiusura) si applicherà sia nel caso in cui il «profitto conseguito» dal trasgressore risulti inferiore ad essa o di incerta quantificazione, sia nel caso in cui anche il profitto, come il danno ambientale, non sussista.

4.– Ciò premesso, la questione è fondata.

4.1.– Da un lato, la misura prevista dall’art. 167, comma 5, cod. beni culturali costituisce, come si è detto, una sanzione amministrativa pecuniaria di natura riparatoria.

D’altro lato, non è dubitabile che la norma regionale censurata incida sulla determinazione del quantum di tale sanzione.

Per costante giurisprudenza di questa Corte, «la competenza a prevedere sanzioni amministrative non costituisce materia a sé stante, ma “accede alle materie sostanziali” [...] alle quali le sanzioni si riferiscono, spettando dunque la loro previsione all’ente “nella cui sfera di competenza rientra la disciplina la cui inosservanza costituisce l’atto sanzionabile [...]» (sentenza n. 121 del 2023; nello stesso senso, sentenze n. 201 del 2021, n. 84 del 2019, n. 148 e n. 121 del 2018, n. 90 del 2013 e n. 271 del 2012).

Si tratta quindi di verificare quale sia la materia a cui si riferisce la sanzione e se in tale materia la competenza legislativa spetti allo Stato o alle regioni.

Sulla base del quadro normativo ricostruito in precedenza, la sanzione consegue alla realizzazione di lavori rientranti nei casi tassativi indicati al comma 4 dell’art. 167 cod. beni culturali, per i quali sia intervenuto l’accertamento “postumo” di compatibilità paesaggistica di cui al successivo comma 5.

L’atto sanzionabile è costituito, dunque, dall’inosservanza della disciplina relativa alla tutela del vincolo paesaggistico-ambientale, e segnatamente dall’inosservanza delle norme che regolano l’autorizzazione paesaggistica, la quale, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, deve essere annoverata tra gli istituti di protezione ambientale uniformi, validi in tutto il territorio nazionale (tra le molte, sentenze n. 201 del 2021, n. 246 del 2017, n. 238 del 2013 e n. 101 del 2010).

In ragione di ciò, la disciplina sostanziale cui si riferisce la sanzione pecuniaria in esame deve necessariamente ascriversi alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., stante l’esistenza di un evidente interesse unitario alla tutela del paesaggio e a un eguale trattamento in tutto il territorio nazionale della tipologia di abusi paesaggistici suscettibili di accertamento di compatibilità.

Si è già chiarito che la quantificazione della sanzione, in caso di assenza di danno ambientale, nella misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di costruzione «delle opere e/o lavori abusivi», con il minimo inderogabile di cinquecento euro, non è prevista dalla disciplina adottata dallo Stato nell’esercizio della sua competenza legislativa esclusiva; in particolare, non è prevista dall’art. 167 cod. beni culturali.

Le ineludibili esigenze di uniformità di trattamento appena evidenziate impediscono al legislatore regionale di intervenire con norme difformi dalle previsioni statali di tutela paesaggistica in senso stretto (sentenza n. 201 del 2021), come quelle che disciplinano l’inosservanza del regime autorizzatorio.

4.2.– La Regione si difende sostenendo che la potestà legislativa statale non sarebbe violata, in quanto il censurato art. 83 non si porrebbe «in contraddizione» con essa, né ridurrebbe i livelli di tutela dell’ambiente, limitandosi a colmare una lacuna della norma statale, che ne vanificherebbe l’applicazione nei casi di opere abusive non recanti alcun danno e dalle quali non deriva alcun profitto per il trasgressore. Il legislatore regionale, in altri termini, avrebbe completato «l’apparato di tutela di cui al D. Lgs. n. 42/2004».

L’argomento non è condivisibile.

La norma regionale non è censurata perché avrebbe arrecato un vulnus alla tutela del paesaggio, ma per violazione della competenza legislativa statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Pertanto, la tesi difensiva volta ad escludere che il legislatore regionale abbia ridotto i livelli di tutela ambientale non è conferente.

Quanto al dedotto completamento «[del]l’apparato di tutela di cui al D. Lgs. n. 42/2004», è sufficiente osservare che anche la potestà di colmare per via legislativa asserite lacune di norme sanzionatorie spetta al soggetto dotato di competenza nell’ambito materiale cui le sanzioni stesse si riferiscono (quindi, nella specie, allo Stato).

Né si può ritenere – aderendo a un assunto che traspare dalle difese della Regione – che la norma sanzionatoria in oggetto non vìoli la competenza legislativa esclusiva dello Stato perché avrebbe elevato la tutela dell’ambiente, com’è consentito fare alle regioni, a certe condizioni, nell’esercizio di competenze interferenti con quella ambientale (ampiamente sul punto, sentenza n. 16 del 2024; in precedenza, sentenze n. 163 del 2023, n. 66 del 2018, n. 212 del 2017, n. 210 del 2016, n. 171 del 2012 e n. 407 del 2002). La Regione non può interferire con la disciplina dettata dal codice dei beni culturali e del paesaggio.

In ogni caso, non è corretto affermare che, sempre al fine di elevare la tutela ambientale, l’intervento legislativo regionale abbia effettivamente colmato una lacuna dell’art. 167, comma 5, cod. beni culturali, completandone il dettato per l’ipotesi di assenza sia di danno ambientale sia di profitto. La norma statale, infatti, ben può essere interpretata nel senso che in tale ipotesi non sia irrogabile alcuna sanzione, non senza considerare che la sfera di efficacia della norma censurata è più ampia di quella prospettata dalla Regione, poiché introduce «comunque» la sanzione pari all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione, anche nel caso in cui un profitto esista, ma sia quantificabile in misura inferiore.

4.3.– La Regione sostiene inoltre che l’art. 83, nella parte censurata, potrebbe essere ricondotto alle materie «valorizzazione dei beni culturali e ambientali» e «governo del territorio», attribuite alla competenza legislativa concorrente delle regioni dall’art. 117, terzo comma, Cost.

A suo avviso, la sanzione, ove manchi un danno ambientale, riguarderebbe «quelle ipotesi in cui il bene non è compromesso, ma vi è stata comunque una alterazione». In tal caso, la sanzione non potrebbe riferirsi alla tutela paesaggistica, riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ma ricadrebbe nell’ambito della «gestione» dei beni ambientali, rientrante nella materia «valorizzazione dei beni culturali e ambientali», o nell’ambito della difesa del territorio, riconducibile alla materia «governo del territorio».

Anche questa tesi non è condivisibile.

È chiaro, infatti, che la tutela dell’ambiente e del paesaggio prescinde dalla sussistenza di un danno ambientale. Essa si sostanzia nel predisporre strumenti di protezione di tali beni comuni, come i piani paesaggistici, o le autorizzazioni, o i divieti, strumenti questi tutti previsti dal codice dei beni culturali e del paesaggio.

Nella prospettiva indicata, l’eventuale assenza di un danno ambientale non costituisce una ragione idonea a scindere il collegamento tra la sanzione e la disciplina di tutela paesaggistica.

L’atto sanzionabile, come si è detto, è costituito dall’inosservanza delle norme che disciplinano uno dei fondamentali istituti di protezione ambientale, quale l’autorizzazione paesaggistica. La conseguente sanzione riparatoria, alternativa alla riduzione in pristino nei casi tassativi di abusi suscettibili di accertamento di compatibilità paesaggistica, partecipa della medesima natura di ricomposizione della legalità violata propria della misura di carattere reale, a prescindere dall’effettiva produzione di un danno ambientale. In ragione di ciò, il danno si configura come un mero criterio di commisurazione della sanzione e non ne condiziona l’applicabilità.

Anche da questo angolo visuale, dunque, è indubbia la riconducibilità della norma censurata alla sfera degli interessi pubblici concernenti la tutela ambientale e paesaggistica, la cura dei quali spetta in via esclusiva allo Stato.

4.4.– Accertata la violazione del riparto di competenze tra Stato e regioni, si osserva che il rimettente non circoscrive il petitum alle parti dell’art. 83 aggiunte dalla legge reg. Lombardia n. 17 del 2018. Le sue censure si appuntano sull’introduzione della misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di costruzione e, implicitamente, anche sulla previsione della sanzione minima inderogabile di cinquecento euro (presente sia nel testo originario della norma che in quello novellato, con alcune variazioni lessicali), anch’essa difforme rispetto alla disciplina di cui all’art. 167, comma 5, cod. beni culturali.

Va dunque dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, limitatamente alle parole «e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro».

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 83 della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), limitatamente alle parole «e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Marco D'ALBERTI, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 19 febbraio 2024