Sentenza n. 99 del 2017

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SENTENZA N. 99

ANNO 2017

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-         Paolo                      GROSSI                                    Presidente

-         Alessandro              CRISCUOLO                              Giudice

-         Giorgio                   LATTANZI                                       ”

-         Aldo                       CAROSI                                           ”

-         Marta                      CARTABIA                                      ”

-         Mario Rosario          MORELLI                                         ”

-         Giancarlo                CORAGGIO                                      ”

-         Giuliano                 AMATO                                           ”

-         Silvana                   SCIARRA                                         ”

-         Daria                      de PRETIS                                        ”

-         Franco                    MODUGNO                                      ”

-         Augusto Antonio    BARBERA                                        ”

-         Giulio          PROSPERETTI                                           ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 31, comma 1, della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), e dell’art. 76, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Palermo nel procedimento penale a carico di G. B., con ordinanza del 15 luglio 2015, iscritta al n. 292 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell’8 febbraio 2017 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto in fatto

1.– Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Palermo, con ordinanza del 15 luglio 2015 (r.o. n. 292 del 2015), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 31, comma 1, della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), «nella parte in cui si riferisce anche alle variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici dei quali è prevista la trascrizione nei registri immobiliari e la registrazione a fini fiscali», e dell’art. 76, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159      (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), «nella parte in cui si riferisce anche alle variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici dei quali è prevista la trascrizione nei registri immobiliari e la registrazione a fini fiscali».

Il giudice rimettente riferisce di essere investito, in seguito a una richiesta di giudizio abbreviato, del processo penale nei confronti di una persona imputata del reato di cui agli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982, perché, essendo sottoposta, con decreto divenuto definitivo il 26 febbraio 2009, alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, aveva omesso di comunicare al competente nucleo di polizia tributaria, entro trenta giorni dal suo perfezionamento, la vendita della propria quota di proprietà di un appezzamento di terreno, avvenuta il 29 marzo 2010, per il corrispettivo complessivo a lei spettante di euro 30.000.

La commissione del reato, come riferisce il giudice rimettente, non era contestata ed era comunque ampiamente provata dagli atti del processo, in quanto risultava che l’imputato, pur essendovi obbligato, non aveva comunicato, entro il termine prescritto, la vendita al Nucleo di polizia tributaria di Palermo.

Il fatto sarebbe peculiare perché la vendita era stata stipulata con atto pubblico rogato da un notaio, che, entro i brevi termini ai quali era tenuto, aveva provveduto sia alla trascrizione nei registri immobiliari sia alla registrazione a fini fiscali.

Il giudice rimettente osserva che le disposizioni di cui agli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982, nella parte in cui si riferiscono alle persone sottoposte alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale «sono state inglobate», rispettivamente, negli artt. 80 e 76, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011. Perciò la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 31 della legge n. 646 del 1982, applicabile ratione temporis, dovrebbe trasferirsi «automaticamente sull’analoga disposizione dell’art. 76, comma 7, del decreto legislativo» già citato. 

Ricorda il giudice rimettente che, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, il bene giuridico tutelato dal reato contestato sarebbe costituito dall’ordine pubblico, in quanto l’incriminazione in questione sarebbe diretta a consentire l’esercizio di un controllo patrimoniale più penetrante da parte della Guardia di Finanza, nei confronti delle persone considerate particolarmente pericolose, al fine di accertare tempestivamente se le variazioni patrimoniali dipendono dallo svolgimento di attività illecite (è citata la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima, 22 novembre 2001, n. 45798). In ogni caso, a prescindere dall’individuazione del bene tutelato, si sarebbe di fronte ad un «reato omissivo proprio c.d. “di pura creazione legislativa”». Verrebbe imposto a soggetti gravati da «precedenti giudiziari (penali o di prevenzione)», indicati nel citato articolo 30, un dovere di comunicazione di condotte  che in sé considerate non solo non sarebbero offensive di alcun bene, ma anzi sarebbero ordinariamente valorizzate, tutelate e favorite dall’ordinamento. Si tratterebbe cioè di una fattispecie rientrante tra i cosiddetti reati di sospetto, i quali presenterebbero «profili di attrito con i principi cardine del sistema penale contenuti nella Carta fondamentale».Nelle prime pronunce relative all’art. 31 della legge n. 646 del 1982, questa Corte, nel ritenere manifestamente infondate le questioni allora sollevate, avrebbe attribuito un rilievo decisivo all’interpretazione della citata disposizione, condivisa da una parte della giurisprudenza, volta ad escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo «per le condotte consistenti nell’omessa comunicazione di variazioni patrimoniali compiute mediante atti soggetti a forme di pubblicità legale».

Successivamente però si sarebbe «consolidato e definitivamente imposto» l’indirizzo secondo cui il delitto in questione è configurabile anche quando l’omissione riguarda operazioni effettuate mediante atti pubblici.

Il giudice rimettente ricorda quindi la pronuncia di questa Corte n. 81 del 2014, che, pur dichiarando inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 31 della legge n. 646 del 1982, concernente il «carattere irragionevole e sproporzionato della pena» prevista, aveva tuttavia ravvisato un «indubbio profilo di criticità del paradigma punitivo considerato», da riconoscere, secondo il giudice a quo, nella «estensione dell’incriminazione a condotte che non ledono il bene che la norma si prefigge di proteggere».

L’omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali riguardanti le persone sopraindicate potrebbe essere «ritenuta offensiva dell’interesse alla loro conoscenza», sì che sarebbe legittimo sanzionarla penalmente, ma ciò non dovrebbe avvenire quando le variazioni patrimoniali vengono realizzate mediante atti soggetti a pubblicità legale.

Non varrebbe obiettare che la norma censurata mira ad assicurare la conoscenza effettiva delle variazioni perché, per «le Autorità, la trascrizione e (anche) la registrazione determinano la conoscenza effettiva del negozio giuridico che ne forma oggetto», sicché esse, «a seguito di detti adempimenti, acquisiscono effettivamente e concretamente notizia delle variazioni patrimoniali», anche se «le Autorità in questione non coincidono con quella specificamente indicata dall’art. 30» della legge n. 646 del 1982.

Alla medesima conclusione dovrebbe pervenirsi riconoscendo la natura di reato di sospetto alla fattispecie considerata. Il sospetto consisterebbe nel fatto che «l’omessa comunicazione della variazione patrimoniale e, quindi, la volontà di non informare le Autorità, sottenda ad attività illecite e, in particolare, ad attività costituenti reato». Nel caso, però, di variazione patrimoniale realizzata con atto pubblico, vi sarebbe una «oggettiva incompatibilità della variazione con l’ignoranza di essa da parte delle Autorità», prima ancora che una «soggettiva incompatibilità con la volontà di non informare le Autorità da parte dell’agente». Pertanto il sospetto sull’omessa comunicazione non avrebbe ragion d’essere, così come non avrebbe ragion d’essere l’incriminazione di tale omissione.

In conclusione, il profilo di criticità della fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 31 della legge n. 646 del 1982 andrebbe individuato nel fatto che tale disposizione, alla stregua del diritto vivente, ingloberebbe anche condotte, quali le omissioni delle comunicazioni riguardanti le variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici, soggette a trascrizione nei registri immobiliari e a registrazione a fini fiscali, che, essendo inoffensive, secondo le stesse indicazioni provenienti da questa Corte, non dovrebbero esservi ricomprese. 

La normativa censurata violerebbe, pertanto, l’art. 3 Cost., determinando una «irragionevole disparità di trattamento in danno dei soggetti tenuti alla comunicazione ai sensi dell’art. 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646». Sarebbe violato anche l’art. 13, primo comma, Cost., essendo previsto «un sacrificio del bene fondamentale della libertà personale in assenza di un’offesa ad altro bene giuridico». Inoltre la norma denunciata si porrebbe in contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., configurando come reato, «per coloro che sono gravati da determinati precedenti giudiziari, fatti non offensivi di alcun bene che per la generalità dei soggetti non solo non costituiscono illecito ma sono anzi tutelati dall’ordinamento, finendo pertanto per punire la mera disubbidienza, in contrasto con la funzione propria della pena e con il distinto ruolo di essa rispetto a quello della misura di sicurezza». Infine, sarebbe configurabile la violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto, «essendo la percezione dell’antigiuridicità del proprio comportamento presupposto della rieducazione del condannato, con la punizione di mere violazioni di doveri, non offensive di alcun bene, come avviene nei casi in questione, la previsione si pone in contrasto con la funzione rieducativa della pena».

In punto di rilevanza, il giudice a quo rileva che la dichiarazione di illegittimità costituzionale nei termini prospettati inciderebbe direttamente sulla qualificazione giuridica della condotta descritta nell’imputazione (in quanto la variazione patrimoniale, oggetto di omessa comunicazione, è stata realizzata mediante atto pubblico notarile), condizionando conseguentemente la decisione del giudizio in corso.

2.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile, «ovvero manifestamente infondata o infondata».

L’Avvocatura generale, dopo aver ricordato che le norme censurate avevano formato oggetto di varie questioni di legittimità costituzionale, tutte risolte negativamente, ha rilevato che l’orientamento della Corte di cassazione, favorevole alla configurabilità del delitto in esame anche quando l’omessa comunicazione riguarda operazioni effettuate mediante atti pubblici, era già «ampiamente maturato» nel momento in cui era stata emessa la sentenza di questa Corte n. 81 del 2014, e ha sostenuto che tale circostanza influisce sull’ammissibilità delle questioni, perché secondo il giudice a quo sarebbe proprio il mutamento della giurisprudenza a giustificare una nuova rimessione della questione.

Inoltre secondo l’Avvocatura dello Stato, in relazione ai reati omissivi propri, sarebbe «sempre ammissibile una indagine sull’effettiva e consapevole volontà dell’imputato, sul quale grava il relativo onere probatorio, di omettere la prescritta comunicazione». L’assenza di «alcuna informazione in ordine a tale profilo» determinerebbe «il difetto di rilevanza della questione di costituzionalità o, comunque, la carenza di adeguata motivazione sul punto».

In ogni caso le questioni sarebbero «manifestamente infondate o infondate». Esse risentirebbero della errata individuazione della finalità perseguita dal legislatore mediante la prescrizione dell’obbligo informativo.

Questo obbligo avrebbe una funzione «anticrimine», nell’ambito di un articolato sistema di contrasto della criminalità organizzata caratterizzato dall’utilizzazione di «strumenti di tipo patrimoniale».

La comunicazione prescritta dall’art. 30 della legge n. 646 del 1982 e dall’art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011 avrebbe una funzione strumentale rispetto ai controlli periodici previsti dalla stessa normativa di prevenzione, intesi a verificare che non perduri il collegamento dell’interessato con la criminalità organizzata. Tale comunicazione avrebbe dunque una «finalità di ordine pubblico», iscrivendosi tra i meccanismi di contrasto del fenomeno associativo criminale di stampo mafioso.

L’omessa comunicazione di variazioni patrimoniali effettuate «mediante atti soggetti a pubblicità» non sarebbe inoffensiva, in quanto la verifica sistematica ed analitica da parte della Guardia di Finanza, obiettivo perseguito dalla norma, non potrebbe essere surrogata dalla semplice conoscibilità degli atti dispositivi patrimoniali (di incremento o decremento) compiuti in forma pubblica.

La trascrizione delle disposizioni patrimoniali dell’obbligato in pubblici registri non implicherebbe alcuna diretta comunicazione di tali atti alla polizia giudiziaria, e conferire rilievo alla mera possibilità per la polizia di conoscere i mutamenti patrimoniali equivarrebbe a tradire la ratio della norma, sacrificando l’obiettivo di porre la Guardia di Finanza nelle condizioni di esercitare un effettivo controllo sulle operazioni patrimoniali delle persone pericolose.

La mera consultabilità dei pubblici registri sarebbe inidonea ad assicurare il controllo perseguito dalla norma, specie se si considera che l’art. 30 della legge n. 646 del 1982 contiene due distinti obblighi di comunicazione al nucleo di polizia tributaria, la cui omissione è sanzionata dal successivo art. 31. Il primo obbligo attiene alle variazioni nell’entità e nella composizione del patrimonio, concernenti elementi di valore non inferiore a 10.329,14 euro, da comunicare entro trenta giorni dal fatto, mentre il secondo riguarda le variazioni intervenute nell’anno precedente, da comunicare entro il 31 gennaio di ciascun anno, che raggiungano complessivamente nell’anno solare il valore sopraindicato.

Inoltre, accogliendo la tesi del giudice rimettente, la finalità perseguita dalla norma incriminatrice, che sarebbe non solo di consentire all’amministrazione finanziaria di conoscere il dato sensibile con assoluta immediatezza, ma anche quella di rendere obbligatoria per la polizia tributaria una verifica altrimenti solo eventuale, «sarebbe evidentemente del tutto frustrata».

La scelta di sanzionare l’omessa comunicazione delle operazioni patrimoniali in esame sarebbe espressione dell’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore nell’identificare i beni giuridici da tutelare e le più opportune linee di strategia di repressione degli illeciti, discrezionalità esercitata nel caso in esame con scelte non irragionevoli e coerenti con lo scopo di salvaguardia dell’ordine pubblico perseguito dalla norma incriminatrice.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 15 luglio 2015 (r.o. n. 292 del 2015), il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Palermo, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 31, comma 1, della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962,   n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), «nella parte in cui si riferisce anche alle variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici dei quali è prevista la trascrizione nei registri immobiliari e la registrazione a fini fiscali», e dell’art. 76, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), «nella parte in cui si riferisce anche alle variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici dei quali è prevista la trascrizione nei registri immobiliari e la registrazione a fini fiscali».

Ad avviso del giudice rimettente, la disciplina censurata violerebbe l’art. 3 Cost., determinando una «irragionevole disparità di trattamento in danno dei soggetti tenuti alla comunicazione ai sensi dell’art. 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646». Sarebbe anche violato l’art. 13, primo comma, Cost., essendo previsto «un sacrificio del bene fondamentale della libertà personale in assenza di un’offesa ad altro bene giuridico». Inoltre la norma denunciata si porrebbe in contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., configurando come reato, «per coloro che sono gravati da determinati precedenti giudiziari, fatti non offensivi di alcun bene che per la generalità dei soggetti non solo non costituiscono illecito ma sono anzi tutelati dall’ordinamento, finendo pertanto per punire la mera disubbidienza, in contrasto con la funzione propria della pena e con il distinto ruolo di essa rispetto a quello della misura di sicurezza». Infine sarebbe configurabile la violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto, «essendo la percezione dell’antigiuridicità del proprio comportamento presupposto della rieducazione del condannato, con la punizione di mere violazioni di doveri, non offensive di alcun bene, come avviene nei casi in questione, la previsione si pone in contrasto con la funzione rieducativa della pena».

2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale, dato che precedenti pronunce di questa Corte avrebbero scrutinato a più riprese, sia la norma precettiva (art. 30 della legge n. 646 del 1982), sia quella sanzionatoria (art. 31 della medesima legge), dichiarando la «manifesta infondatezza delle questioni, sul rilievo che le citate previsioni normative costituiscono esercizio, non manifestamente arbitrario o irragionevole, dell’ampia discrezionalità spettante al legislatore in tema di configurazione degli illeciti penali e di determinazione delle relative sanzioni».

L’eccezione di inammissibilità è priva di fondamento. Infatti le precedenti pronunce di manifesta infondatezza, evocate dall’Avvocatura generale (ordinanze n. 362 e n. 143 del 2002, n. 442 del 2001), come anche quella più recente di inammissibilità (sentenza n. 81 del 2014), non comportano alcun effetto impeditivo nei confronti di successive censure, pure analoghe, relative alla stessa norma.

Esiste una preclusione solo nel caso della riproposizione della stessa questione nel corso del medesimo giudizio (al riguardo, tra le altre, sentenze n. 113 del 2011, n. 477 del 2002, n. 225 del 1994 e n. 257 del 1991), e questo nel caso in esame non è avvenuto.

3.– Con un’altra eccezione l’Avvocatura generale dello Stato ha sostenuto che le questioni sollevate sono inammissibili perché, pur richiedendo la giurisprudenza della Corte di cassazione un’indagine sull’effettiva e consapevole volontà dell’imputato di omettere la prescritta comunicazione, il giudice a quo non avrebbe fornito «alcuna informazione» al riguardo.

Anche questa eccezione è priva di fondamento.

Il reato oggetto delle questioni di costituzionalità è caratterizzato, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, dal dolo generico, «il quale esige la semplice consapevolezza dei presupposti di fatto da cui sorge l’obbligo di comunicazione (qualità di condannato o di sottoposto a misura di prevenzione del soggetto obbligato, superamento della soglia di rilevanza dell’operazione), senza che l’inadempiente debba essere animato dallo specifico scopo di occultare alla polizia tributaria le informazioni che vengono in rilievo» (sentenza n. 81 del 2014), e il giudice rimettente, nell’affermare che non erano «contestat[i]» ed erano comunque ampiamente provati dagli atti del processo gli elementi costitutivi del reato, ha implicitamente, ma in modo chiaro, dato ragione anche dell’esistenza dell’elemento psicologico.

4.–  Nel merito le questioni non sono fondate.

5.– L’art. 30 della legge n. 646 del 1982, nel testo novellato dall’art. 7, comma 1, lettera b), della legge 13 agosto 2010, n. 136 (Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia), prevede che le persone condannate con sentenza definitiva per delitti di criminalità organizzata (art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale) o per trasferimento fraudolento di valori (art. 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, recante «Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 1992, n. 356), ovvero sottoposte, con provvedimento definitivo, a misura di prevenzione personale ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), debbano comunicare al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale tutte le variazioni nell’entità e nella composizione del loro patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. La comunicazione va effettuata entro trenta giorni dal fatto, ovvero entro il 31 gennaio di ciascun anno per le variazioni dell’anno precedente che, sommate, risultino di valore non inferiore a detto importo (ciò, onde evitare elusioni del precetto tramite l’artificioso frazionamento delle operazioni). Questo obbligo dura dieci anni.

Il successivo art. 31 punisce l’omissione della comunicazione con la reclusione da due a sei anni e con la multa da 10.329 a 20.658 euro, stabilendo, altresì, che alla condanna segue la confisca obbligatoria (anche “per equivalente”) dei beni acquistati e anche del corrispettivo dell’alienazione.

È da aggiungere che «la norma precettiva e quella sanzionatoria risultano ora trasfuse, rispettivamente, negli artt. 80 e 76, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011, limitatamente alle persone sottoposte a misure di prevenzione. Le disposizioni della legge n. 646 del 1982 restano, dunque, in vigore per i soli condannati» (sentenza n. 81 del 2014).

Nonostante la pluralità delle disposizioni costituzionali poste a fondamento delle questioni sollevate, l’essenza delle censure si racchiude nella pretesa violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost.; gli altri parametri non richiedono un autonomo e distinto scrutinio, perché appaiono strettamente dipendenti dall’esito dell’esame compiuto alla stregua del principio di offensività.  

Il bene giuridico protetto dall’art. 31, comma 1, della legge n. 646 del 1982 e dall’art. 76, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011 è rappresentato dall’ordine pubblico, perché l’obbligo di comunicazione imposto tende, da un lato, «a garantire che il nucleo di polizia tributaria venga effettivamente e sollecitamente a conoscenza della variazione intervenuta nel patrimonio di soggetti di accertata pericolosità sociale (e non semplicemente che la possa conoscere, effettuando indagini di propria iniziativa); dall’altro, a rendere obbligatoria per l’amministrazione una verifica altrimenti solo eventuale» (sentenza n. 81 del 2014).

La questione si pone per un caso particolare che, rendendo problematica l’applicazione della previsione punitiva, ha dato luogo a più questioni di legittimità costituzionale. È il caso in cui la variazione patrimoniale non comunicata alla polizia tributaria deriva da un’operazione soggetta a forme di pubblicità legale, e che, anche per il rigoroso trattamento sanzionatorio, presenta, come questa Corte ha già rilevato, «un indubbio profilo di criticità» (sentenza n. 81 del 2014).

Secondo il giudice rimettente un caso del genere sarebbe sostanzialmente inoffensivo, e non meriterebbe alcuna punizione. A suo avviso, quando le variazioni patrimoniali dipendono da atti soggetti a pubblicità legale «non ci può essere offesa», perché, «per quanto riguarda le Autorità, la trascrizione e (anche) la registrazione determinano la conoscenza effettiva del negozio giuridico che ne forma oggetto, sicché tali Autorità, a seguito di detti adempimenti, acquisiscono effettivamente e concretamente notizia delle variazioni patrimoniali».

Lo stesso giudice rimettente riconosce che queste «Autorità» sono diverse da quella (nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale) che deve ricevere la comunicazione prescritta dall’art. 30 della legge n. 646 del 1982, ma ritiene che ciò non possa dare luogo a una «rilevante offesa», idonea a giustificare il sacrificio della libertà personale di colui che ha omesso la comunicazione.

Questa tesi non può essere condivisa.

Nel sistema congegnato dal legislatore con gli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982, al contrario di quanto ha sostenuto il giudice rimettente, la mancanza della comunicazione della variazione patrimoniale al nucleo di polizia tributaria che ne è destinatario risulta tutt’altro che priva di offensività.

La giurisprudenza della Corte di cassazione ha infatti più volte negato rilevanza, ai fini del perfezionamento del reato, alla veste pubblica o meno che abbia assunto l’atto dispositivo del soggetto obbligato alla comunicazione, in quanto scopo della norma incriminatrice è quello di permettere l’esercizio di un controllo patrimoniale penetrante e analitico della polizia tributaria «nei confronti di persone ritenute particolarmente pericolose onde accertare per tempo se le variazioni patrimoniali dipendano o meno dall’eventuale svolgimento di attività illecite» (Corte di cassazione, sezione quinta, sentenza 3 dicembre 2015, n. 13077/2016). Per raggiungere questo scopo occorre un monitoraggio costante sui beni delle persone pericolose gravate dal legislatore dell’obbligo in questione; monitoraggio che non può essere assicurato dalla registrazione e dalla trascrizione degli atti che determinano le variazioni patrimoniali.

Queste forme di pubblicità non implicano una diretta e immediata informazione del nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale della persona obbligata alla comunicazione, e quindi non mettono la polizia tributaria competente in condizione di conoscere tempestivamente le variazioni sospette. Né può porsi a carico di questa un onere di consultazione permanente di tutti i pubblici registri, per acquisire direttamente quelle notizie che avrebbero dovuto esserle comunicate (Corte di cassazione, sezione quinta, sentenza 3 dicembre 2015, n. 13077/2016; sezione sesta, sentenza 30 ottobre 2014, n. 24874/2015).

Perciò non è priva di rilevanza l’«Autorità» che riceve la notizia, in quanto solo la comunicazione al nucleo di polizia tributaria indicato nell’art. 30 della legge n. 646 del 1982 e nell’art. 80, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011 assicura la conoscenza tempestiva e reale dei mutamenti dello stato patrimoniale di tali persone, consentendo immediatamente gli opportuni accertamenti. Obiettivo questo che non potrebbe essere raggiunto se dovesse essere la polizia tributaria ad assumere di propria iniziativa le informazioni attraverso la consultazione dei pubblici registri.

Una volta riconosciuta l’offensività “in astratto” dell’omissione, rimangono, come si è detto, privi di autonomo rilievo gli ulteriori profili di illegittimità costituzionale, dedotti con riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, terzo comma, Cost., in collegamento con la pretesa mancanza di offensività.

Sempre che non si possa escludere il dolo (ordinanze n. 362 e n. 143 del 2002, n. 442 del 2001), spetta poi al giudice comune il compito di allineare il fatto oggetto del giudizio al canone dell’offensività “in concreto”, in quanto compete a questo giudice verificare se la singola condotta, rappresentata nel caso in esame dalla omessa comunicazione,  risulta assolutamente inidonea, avuto riguardo alla ratio della norma incriminatrice, a porre in pericolo il bene giuridico protetto e dunque, in concreto, inoffensiva, escludendone in tal caso la punibilità (sentenze n. 109 del 2016, n. 139 del 2014 e n. 225 del 2008).

6.– Va infine rilevato che è auspicabile l’introduzione, resa possibile dall’attuale sviluppo tecnologico, di un sistema automatico di comunicazione alla polizia tributaria degli atti, soggetti a pubblicità legale, che determinano variazioni nel patrimonio delle persone considerate pericolose per le condanne riportate o per l’assoggettamento a misure di prevenzione. In questo modo, per tali atti, potrebbe essere superata l’attuale regolamentazione, fonte, a un tempo, di ritardi nella conoscenza delle variazioni patrimoniali e di gravose responsabilità penali, che, come questa Corte ha già messo in evidenza (sentenza n. 81 del 2014), danno luogo a «un indubbio profilo di criticità del paradigma punitivo», al quale il legislatore dovrebbe porre rimedio.   

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 31, comma 1, della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), «nella parte in cui si riferisce anche alle variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici dei quali è prevista la trascrizione nei registri immobiliari e la registrazione a fini fiscali», e dell’art. 76, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), «nella parte in cui si riferisce anche alle variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici dei quali è prevista la trascrizione nei registri immobiliari e la registrazione a fini fiscali», sollevate, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Palermo, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 febbraio 2017.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Giorgio LATTANZI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 maggio 2017.