Sentenza n. 139 del 2014

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SENTENZA N. 139

ANNO 2014

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Gaetano                       SILVESTRI                                     Presidente

-           Luigi                            MAZZELLA                                      Giudice

-           Sabino                         CASSESE                                                ”

-           Giuseppe                     TESAURO                                               ”

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                       ”

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     ”

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          ”

-           Paolo                           GROSSI                                                   ”

-           Giorgio                        LATTANZI                                              ”

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Sergio                          MATTARELLA                                       ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 1983, n. 638, promossi dal Tribunale ordinario di Imperia con due ordinanze del 7 agosto 2013, rispettivamente iscritte ai nn. 262 e 263 del registro ordinanze 2013 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2013.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 marzo 2014 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto in fatto

1.− Con ordinanza del 7 agosto 2013, il Tribunale ordinario di Imperia ha sollevato, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 1983, n. 638, che punisce con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a 1.032,00 euro il datore di lavoro che omette il versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti.

1.1.− Il giudice rimettente − investito di un processo penale nel quale il pubblico ministero presso il Tribunale ordinario di Imperia ha disposto la citazione a giudizio di un datore di lavoro per omesso versamento all’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) di trattenute sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti per un totale di 24,00 euro − dubita della legittimità costituzionale della norma nella parte in cui non prevede una soglia di punibilità, a differenza di quanto stabilito dall’art. 10-bis del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’art. 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), introdotto dall’art. 1, comma 414, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge finanziaria 2005), che punisce con la reclusione da sei mesi a due anni «chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta».

A detta del rimettente, la lesione del principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., sarebbe provocato dalla mancata previsione di una soglia di punibilità nella disciplina censurata, con la conseguenza che è sempre punibile con la sanzione penale il datore di lavoro che ha omesso il versamento di ritenute previdenziali di minima o irrisoria entità, mentre non è punibile il datore di lavoro sostituto di imposta che «in una situazione identica sotto il profilo della somma non versata e/o dell’entità dell’imponibile […] non versi l’imposta delle ritenute fiscali operate».

1.2.− Ad avviso del giudice a quo, la rilevanza della questione risiede nella circostanza che l’art. 2, comma 1-bis, in esame, prevede un reato che si presta ad essere integrato anche da una condotta di valore assai esiguo, mentre, se la norma incriminatrice prevedesse una soglia di punibilità, non sarebbe penalmente rilevante l’omissione contestata all’imputato, con il conseguente esito assolutorio del giudizio a quo.

2.− In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente ricorda l’ordinanza n. 206 del 2003 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta infondatezza di analoga questione di illegittimità sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., parametrata alla fattispecie dell’omesso versamento delle ritenute fiscali da parte del datore di lavoro, prevista come reato dall’art. 2 del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429 (Norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 1982, n. 516, abrogato dall’art. 25 del d.lgs. n. 74 del 2010. In quell’occasione, la Corte motivò la propria decisione sulla base della disomogeneità dell’obbligo tributario gravante sul datore di lavoro rispetto all’obbligo di natura previdenziale, al quale è sottesa la rafforzata tutela degli interessi del lavoratore subordinato e della sua posizione contributiva, secondo il disposto degli artt. 1, 4, 35 e 38 Cost.

Assume il rimettente che la conclusione cui è pervenuta la richiamata ordinanza «si fondi su presupposti erronei sia sotto il profilo giuridico che fattuale», e chiede che «la Corte, melius re perpensa, riconsideri la questione».

2.1.− Il Tribunale sostiene, infatti, che la decisione della Corte sarebbe stata «probabilmente» ispirata dalla giurisprudenza di legittimità che ricostruiva la condotta di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali come appropriazione indebita da parte del datore di lavoro delle somme di danaro già entrate nel patrimonio del lavoratore, in contrapposizione alla condotta di omesso versamento delle ritenute fiscali, per la quale, di contro, si escludeva l’inquadramento della fattispecie nel reato di cui all’art. 646 del codice penale. Soggiunge che il diverso approccio ricostruttivo seguito dalle Sezioni unite penali della Corte di cassazione nella sentenza n. 1327 del 27 ottobre 2004 (ribadito nella pronuncia n. 37954 del 20 ottobre 2011) ha consacrato il principio di diritto vivente secondo cui «la posizione del datore di lavoro-sostituto d’imposta è completamente sovrapponibile a quella del datore di lavoro che effettua le trattenute sulle retribuzioni per riversarle alla Cassa edile, e, a maggior ragione, a quella del datore di lavoro che effettua le ritenute dei contributi previdenziali». Da tale «sovrapponibilità» delle situazioni poste a confronto il rimettente fa discendere, infine, l’irragionevolezza del diverso trattamento sanzionatorio adottato dal legislatore penale nel non prevedere una soglia di punibilità nella formulazione dell’art. 2, comma 1-bis, del d.l. n. 463 del 1983.

2.2.− A sostegno del carattere asseritamente ingiustificato della scelta punitiva contenuta nella norma censurata, il Tribunale ordinario di Imperia invoca, altresì, il principio, sancito dall’art. 2116 del codice civile, di autonomia della prestazione previdenziale, rispetto all’effettivo pagamento dei contributi, che proverebbe la «assoluta indifferenza per il lavoratore in relazione al versamento o meno delle ritenute [da parte del datore di lavoro], in maniera del tutto analoga al mancato versamento delle ritenute fiscali».

3.− Quanto all’individuazione di una soglia di punibilità che possa attagliarsi alla norma incriminatrice censurata, il giudice a quo sostiene che sarebbe necessario un intervento discrezionale spettante al legislatore, con la conseguenza che «in assenza di parametri oggettivi e fissi di riferimento dovrà concludersi che nella materia un intervento correttivo della Corte non appare praticabile». Soggiunge che ciò, tuttavia, non farebbe venir meno l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata.

4.− Con ordinanza in pari data, sorretta dal medesimo impianto motivazionale, il Tribunale ordinario di Imperia ha sollevato identica questione di legittimità costituzionale nell’ambito di due procedimenti penali riuniti, nei quali due datori di lavoro sono stati citati a giudizio per omesso versamento all’INPS di ritenute previdenziali per importi pari, rispettivamente, a 1.544,00 euro e 1.804,00 euro.

4.1.− L’ordinanza in esame si distingue dalla precedente per il più articolato ragionamento in base al quale il rimettente ritiene di dover individuare una soglia di non punibilità che sia congrua in relazione alla norma censurata.

In particolare, il giudice a quo sostiene che il parametro ragionevole sarebbe rappresentato dalle retribuzioni medie e sviluppa una serie di calcoli per addivenire all’importo del reddito lordo cui corrisponderebbe un importo di ritenute fiscali non versate per 50.000,00 euro. Partendo dal predetto reddito, ed assumendo come riferimento l’aliquota generalmente applicata per le ritenute previdenziali, giunge alla conclusione che l’art. 2, comma 1-bis, potrebbe ritenersi conforme all’art. 3 Cost. qualora l’importo delle ritenute operate e non versate, per delimitare la soglia di non punibilità, fosse fissato in 18.485,00 euro per ciascun periodo di imposta.

5.− Con distinte memorie di analogo contenuto, depositate il 17 dicembre 2013 e il 24 dicembre 2013, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità della questione, del quale ha invocato, comunque, il rigetto per manifesta infondatezza della questione.

5.1.− Ha sottolineato la difesa erariale come la Corte costituzionale, nel rigettare la questione di legittimità costituzionale della disposizione in oggetto con l’ordinanza n. 206 del 2003, abbia ribadito − richiamando principi consolidati della sua giurisprudenza − che uno scrutinio che investa direttamente il merito delle scelte sanzionatorie del legislatore è possibile soltanto per assoluta arbitrarietà o manifesta irragionevolezza dell’opzione normativa (ha richiamato le sentenze n. 323 e n. 110 del 2002, n. 287 e n. 144 del 2001, n. 58 del 1999 e n. 313 del 1995). Il riferimento alla disciplina dell’inadempimento degli obblighi tributari non costituirebbe idoneo tertium comparationis, poiché le discipline poste a raffronto sono dettate a tutela di interessi eterogenei, espressione dei due diversi precetti costituzionali di cui agli artt. 53 e 38 Cost., e ciò attesterebbe che la tutela del lavoratore ben può essere assicurata da sistemi differenziati, nell’ambito dei quali la sanzione penale rappresenta soltanto uno dei mezzi cui il legislatore può ricorrere.

5.2.− L’Avvocatura dello Stato ha aggiunto che le considerazioni del giudice rimettente non sono idonee a confutare le motivazioni contenute nella citata ordinanza n. 206 del 2003, posto che in esse non assume alcun rilievo né la circostanza che la condotta omissiva concretizzatasi nel mancato versamento delle ritenute previdenziali possa essere assimilata alla fattispecie dell’appropriazione indebita, né che nel settore previdenziale vige il principio del cosiddetto «automatismo», vale a dire del riconoscimento, a favore del prestatore di lavoro, del periodo effettuato a prescindere dal corretto versamento dei contributi (art. 2116 cod. civ.). Sotto tale profilo ha sottolineato che l’ordinamento costituzionale fonda la «tutela previdenziale del “lavoro e dei lavoratori”» sul principio solidaristico, in virtù del quale i contributi previdenziali e assistenziali versati per ciascun lavoratore sono destinati a finanziare non solo le prestazioni erogate a favore di quest’ultimo ma la generalità delle prestazioni erogate dal sistema.

Considerato in diritto

1.− Con due distinte ordinanze del 7 agosto 2013, il Tribunale ordinario di Imperia ha sollevato, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 1983, n. 638, il quale punisce con la sanzione penale della reclusione fino a tre anni e della multa fino a 1.032,00 euro il datore di lavoro che omette il versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti.

Ad avviso del rimettente, tale disposizione, la quale non prevede alcuna soglia di punibilità, detterebbe una disciplina irragionevolmente diversa per una situazione del tutto identica a quella disciplinata dall’art. 10-bis del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’art. 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), introdotto dall’art. 1, comma 414, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge finanziaria 2005), che punisce «con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo di imposta».

Soggiunge che l’omogeneità delle «obbligazioni pubbliche» previste dalle disposizioni in comparazione, di accantonare e versare, alle scadenze previste, le somme di danaro destinate alle finalità previste dalla legge renderebbe completamente sovrapponibile la posizione del datore di lavoro-sostituto di imposta a quella del datore di lavoro tenuto alle ritenute previdenziali sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. La mancata previsione, nella disciplina censurata, di una soglia di punibilità, determinerebbe pertanto un’ingiustificata disparità di trattamento sanzionatorio tra il datore di lavoro che ometta il versamento di ritenute previdenziali di minima o irrisoria entità e il datore di lavoro-sostituto di imposta che, in una situazione identica, non versi l’importo delle ritenute fiscali operate.

2.− In punto di non manifesta infondatezza, emerge dall’impianto motivazionale degli atti di rimessione che il giudice a quo non ignora che, con ordinanza n. 206 del 2003, questa Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza di identica questione di illegittimità costituzionale della stessa norma, sollevata in riferimento al reato di omesso versamento delle ritenute di acconto, previsto e punito dall’art. 2, commi 2, 3 e 4, del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429 (Norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 1982, n. 516, ed abrogato dall’art. 25 del d.lgs. n. 74 del 2000.

2.1.− In entrambi gli atti di rimessione, il Tribunale ordinario di Imperia sostiene che l’apparato motivazionale della richiamata ordinanza n. 206 del 2003 «si fondi su presupposti erronei sia sotto il profilo giuridico che fattuale» e chiede, pertanto, che la Corte «[…] riconsideri la questione».

A sostegno del proprio assunto, il giudice a quo sposa l’approccio seguito, da ultimo, dalle Sezioni unite penali della Corte di cassazione con la sentenza n. 37954 del 20 ottobre 2011, secondo cui «la posizione del datore di lavoro-sostituto d’imposta è completamente sovrapponibile a quella del datore di lavoro che effettua le trattenute sulle retribuzioni per riversarle alla Cassa edile, e, a maggior ragione, a quella del datore di lavoro che effettua le ritenute dei contributi previdenziali». Da tale argomentazione fa discendere l’irragionevolezza del diverso trattamento sanzionatorio adottato dal legislatore penale, nel non prevedere una soglia di punibilità nella formulazione dell’art. 2, comma 1-bis, del d.l. n. 463 del 1983.

3.− I giudizi promossi con le due ordinanze hanno lo stesso oggetto, e per l’identità delle questioni trattate vanno riuniti e decisi con unica sentenza.

4.− In via preliminare, va richiamato l’orientamento di questa Corte, secondo il quale «non è esatto che l’esistenza di una precedente pronuncia di non fondatezza (ed anche di manifesta infondatezza) di una questione (ove pur) identica a quella riproposta dal giudice a quo sia ostativa all’ammissibilità di quest’ultima, potendo un tal precedente unicamente, invece, rilevare nella successiva fase di esame del merito della questione stessa, alla luce degli eventuali nuovi profili argomentativi a suo supporto offerti dal rimettente» (sentenza n. 231 del 2013).

5.− Nel merito le questioni non sono fondate.

6.− Giova premettere che, nella pronuncia richiamata dal Tribunale rimettente, questa Corte − in base a considerazioni confermate nella successiva ordinanza n. 139 del 2004 − ha avuto modo di soffermarsi diffusamente sulla disciplina in materia di repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi, indicata come tertium comparationis dal rimettente, stigmatizzandone la disomogeneità rispetto alla fattispecie di reato disciplinata dalla norma in questa sede censurata.

6.1.− In ambedue le pronunce richiamate questa Corte ha, innanzitutto, ribadito il principio secondo cui «uno scrutinio che investa direttamente il merito delle scelte sanzionatorie del legislatore è possibile soltanto “ove l’opzione normativa contrasti con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’arbitrarietà o della manifesta irragionevolezza”» (ordinanza n. 139 del 2004).

6.2.− Alla questione oggetto di scrutinio ben si attagliano, inoltre, le considerazioni secondo cui «gli obblighi tributari e gli obblighi previdenziali di cui si tratta, pur rientrando nell’ampia categoria delle obbligazioni pubbliche, sono correlativi a interessi diversi, rispettivamente presi in considerazione dai due diversi precetti costituzionali di cui agli articoli 53 e 28 della Costituzione». Da ciò consegue che, coerentemente con l’ampia discrezionalità del legislatore nel modulare le scelte sanzionatorie, «per assicurare il rituale adempimento degli anzidetti obblighi sono prevedibili differenziati e specifici sistemi, nell’ambito di ciascuno dei quali la sanzione penale rappresenta soltanto uno dei mezzi cui il legislatore può ricorrere, sicché la valutazione della ragionevolezza delle diverse opzioni sanzionatorie prescelte va effettuata nell’ambito di ciascun sistema […]» (ordinanza n. 139 del 2004).

Nel caso in questione «il mancato adempimento dell’obbligo di versamento dei contributi previdenziali determina un rischio di pregiudizio del lavoro e dei lavoratori, la cui tutela è assicurata da un complesso di disposizioni costituzionali contenute nei principi fondamentali e nella parte I della Costituzione (artt. 1, 4, 35, 38 della Costituzione)» (ordinanza n. 206 del 2003).

7.− Appaiono poi ingiustificati i dubbi espressi dal giudice a quo in relazione all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, i quali − in assenza di nuovi profili di censura, ed essendo rimasta immutata nel tempo l’opzione sanzionatoria del legislatore − non sono idonei ad introdurre argomentazioni tali da infirmare il consolidato orientamento di questa Corte (in questo senso, ordinanza n. 88 del 2013).

In realtà, gli odierni atti di rimessione non prospettano la questione in termini diversi rispetto alle precedenti ordinanze già scrutinate, in quanto il proprium motivazionale incentrato sull’arresto della giurisprudenza di legittimità relativo alla riconducibilità o meno della condotta di omesso versamento delle ritenute previdenziali al reato di appropriazione indebita è inconferente, sia ai fini dell’individuazione degli interessi tutelati dalla norma censurata, sia per stabilire, di conseguenza, se la disciplina dettata dal legislatore si ponga in contrasto con il principio di eguaglianza.

8.− La lamentata irragionevolezza non ricorre nel caso in esame, in quanto la fattispecie di reato disciplinata dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000 non si presta a fungere da termine di riferimento per configurare la lesione del principio di uguaglianza denunciata dal rimettente.

Giova ribadire, in proposito, che la finalità della norma sospettata di illegittimità costituzionale − anche nelle formulazioni antecedenti a quella attuale, adottate nell’ambito delle misure urgenti in materia previdenziale susseguitesi nel tempo − è quella di ovviare al fenomeno costituito dalla grave forma di evasione, quale quella contributiva, con un inasprimento delle sanzioni, prevedendo, per il datore di lavoro, sia la reclusione sia la sanzione pecuniaria nell’ipotesi di mancato versamento dei contributi trattenuti sulla retribuzione dei lavoratori. A tal fine, la disciplina in scrutinio è corredata dalla previsione dell’ulteriore obbligo del datore di lavoro, di versare una somma aggiuntiva fino a due volte l’importo, in caso di omesso o incompleto pagamento dei contributi direttamente dovuti.

La previsione invocata dal rimettente quale tertium comparationis rientra, invece, nella «Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’art. 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205». Essa è stata dettata in attuazione della «Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario», i cui principi e criteri direttivi indicano la diversa finalità perseguita dal legislatore penale nel prevedere «un ristretto numero di fattispecie […] caratterizzate da rilevante offensività per gli interessi dell’erario», con «soglie di punibilità idonee a limitare l’intervento penale ai soli illeciti economicamente significativi».

8.1.− Anche sul piano della tipizzazione della fattispecie penale emergono sostanziali differenze tra i reati posti a confronto, atteso che, mentre la norma censurata prevede un reato a consumazione istantanea con una speciale causa di estinzione collegata al versamento tardivo delle ritenute previdenziali entro tre mesi dalla contestazione, di contro, l’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000 − in ossequio alla diversa finalità dell’opzione punitiva prescelta − introduce una condizione oggettiva di punibilità, che impedisce di configurare il disvalore penale delle condotte non ritenute di rilevante offensività.

Quanto precede dimostra, ancora una volta, l’impraticabilità del raffronto posto dal rimettente a sostegno della censurata omessa previsione della soglia di non punibilità nella disciplina dell’omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, in quanto l’acclarata eterogeneità delle norme in comparazione costituisce espressione di autonome scelte del legislatore, non irragionevoli e neppure arbitrarie in considerazione della natura e dell’intensità degli interessi protetti, ai quali corrisponde la modulazione degli interventi sanzionatori ispirati a scelte punitive differenziate.

9.− Analoghe considerazioni si impongono a proposito dell’ulteriore argomentazione in base alla quale il giudice del merito invoca la previsione dell’art. 2116 del codice civile − secondo cui le prestazioni previdenziali e assistenziali «sono dovute al prestatore di lavoro, anche quando l’imprenditore non ha versato regolarmente i contributi dovuti alle istituzioni di previdenza e di assistenza» − per ribadire come vi sia «assoluta indifferenza per il lavoratore in relazione al versamento o meno delle ritenute, in maniera del tutto analoga a quella del mancato versamento delle ritenute fiscali».

Giova osservare che il principio indicato dal rimettente − riguardante l’autonoma erogazione della prestazione previdenziale rispetto alle vicende concernenti la regolarità del versamento dei relativi contributi − comprova, da altra angolazione, la tutela rafforzata apprestata ai diritti del lavoratore nell’ambito del sistema specifico nel quale viene a collocarsi la norma censurata.

Invero, come affermato da questa Corte nella sentenza n. 347 del 1997, il paradigma civilistico dei rapporti tra datore di lavoro, lavoratore ed ente previdenziale costituisce «una fondamentale garanzia per il lavoratore, intesa a non far ricadere su di lui il rischio di eventuali inadempimenti del datore di lavoro in ordine agli obblighi contributivi, e rappresenta un logico corollario delle finalità di protezione sociale inerente ai sistemi di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti».

In ossequio al principio solidaristico che ispira la tutela previdenziale del lavoro dettata dalla Costituzione, i contributi versati per ciascun lavoratore sono pertanto destinati non solo ad erogare le prestazioni a favore dello stesso, ma a garantire il regolare finanziamento del sistema previdenziale nel suo complesso. Adottando, quindi, tale chiave di lettura, la norma civilistica invocata dal rimettente concorre a rafforzare la finalità della sanzione penale che assiste la normativa censurata.

Sulla scorta di tutte le considerazioni che precedono, le questioni devono essere dichiarate non fondate.

10.− Da ultimo, con riferimento all’ordinanza n. 262 del 2013 in cui il rimettente fa presente che il giudizio è relativo ad un omesso versamento di 24,00 euro, occorre ricordare che questa Corte ha già precisato che resta precipuo dovere del giudice di merito di apprezzare − «alla stregua del generale canone interpretativo offerto dal principio di necessaria offensività della condotta concreta» – se essa, avuto riguardo alla ratio della norma incriminatrice, sia, in concreto, palesemente priva di qualsiasi idoneità lesiva dei beni giuridici tutelati (sentenza n. 333 del 1991). Il legislatore ben potrà, anche per deflazionare la giustizia penale, intervenire per disciplinare organicamente la materia, fermo restando il rispetto del citato principio di offensività che ha rilievo costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 1983, n. 638, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Imperia con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2014.

F.to:

Gaetano SILVESTRI, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 maggio 2014.