Sentenza n. 141 del 2021

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SENTENZA N. 141

ANNO 2021

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 5, 6, comma 1, lettere b), c), d) ed e), 7, comma 7, lettera c), 9, commi 9, lettera d), numero 1), e 16, e 10, comma 11, della legge della Regione Lazio 27 febbraio 2020, n. 1 (Misure per lo sviluppo economico, l’attrattività degli investimenti e la semplificazione), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 27-28 aprile 2020, depositato in cancelleria il 6 maggio 2020, iscritto al n. 46 del registro ricorsi 2020 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visto l’atto di costituzione della Regione Lazio;

udita nell’udienza pubblica dell’11 maggio 2021 la Giudice relatrice Daria de Pretis;

uditi l’avvocato dello Stato Generoso Di Leo per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Elisa Caprio per la Regione Lazio, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 16 marzo 2021;

deliberato nella camera di consiglio del 12 maggio 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 27-28 aprile 2020 e depositato il 6 maggio 2020 (reg. ric. n. 46 del 2020), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, 6, comma 1, lettere b), c), d) ed e), 7, comma 7, lettera c), 9, commi 9, lettera d), numero 1), e 16, e 10, comma 11, della legge della Regione Lazio 27 febbraio 2020, n. 1 (Misure per lo sviluppo economico, l’attrattività degli investimenti e la semplificazione), in riferimento agli artt. 9 e 117, secondo comma, lettere m) ed s), della Costituzione e delle seguenti norme interposte: artt. 20, 21, 135, 142, 143, 145, 146 e 149 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137).

1.1.– L’art. 5 della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 – rubricato «Semplificazioni procedimentali in materia di varianti urbanistiche. Modifiche alla legge regionale 2 luglio 1987, n. 36 “Norme in materia di attività urbanistico-edilizia e snellimento delle procedure” e alla legge regionale 18 luglio 2017, n. 7 “Disposizioni per la rigenerazione urbana e per il recupero edilizio” e successive modifiche» – è impugnato per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 143 e 145 del d.lgs. n. 42 del 2004 (d’ora in avanti anche: cod. beni culturali), in quanto apporterebbe modifiche, «non in linea» con gli anzidetti parametri, alla disciplina dei procedimenti di approvazione delle varianti urbanistiche e dei piani attuativi dello strumento urbanistico generale.

In particolare, nella disposizione impugnata non vi sarebbe alcun richiamo «né alle procedure di adeguamento e conformazione degli strumenti urbanistici al Piano paesaggistico, né alla partecipazione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo al procedimento di conformazione e adeguamento, che la Regione deve obbligatoriamente assicurare ai sensi dell’art. 145, commi 4 e 5, del Codice dei beni culturali e del paesaggio».

Il ricorrente sottolinea, al riguardo, la «posizione di assoluta preminenza» che è attribuita al piano paesaggistico nel «quadro regolatorio della pianificazione territoriale», in ragione del fatto che gli artt. 143, comma 9, e 145, comma 3, cod. beni culturali «sanciscono […] l’inderogabilità delle previsioni del predetto strumento da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico e la loro cogenza rispetto agli strumenti urbanistici, nonché l’immediata prevalenza del piano paesaggistico su ogni altro atto della pianificazione territoriale e urbanistica» (sono citate le sentenze di questa Corte n. 180 del 2008 e n. 367 del 2007).

L’Avvocatura generale aggiunge che nel medesimo contesto normativo si colloca «la previsione secondo la quale la verifica della coerenza con il piano paesaggistico degli altri strumenti di pianificazione deve necessariamente avvenire con la partecipazione dei competenti organi del Ministero» (ai sensi dell’art. 145, comma 5, del d.lgs. n. 42 del 2004). Sempre a detta del ricorrente, «[t]ale riferimento procedimentale, ma con risvolti evidentemente sostanziali, costituisce un vincolo cogente ed imprescindibile, nella disciplina dell’intera materia» (sul punto è richiamata la sentenza di questa Corte n. 178 del 2018). A tal fine il ricorrente sottolinea come le disposizioni del codice dei beni culturali si impongano al legislatore regionale, «anche in considerazione della loro natura di norme di grande riforma economico-sociale» (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 210 del 2014 e n. 51 del 2006), con la conseguenza che «le Regioni non possono assumere, unilateralmente, decisioni che liberino dal vincolo ambientale porzioni del territorio» (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 103 del 2017).

Sarebbe pertanto illegittima la norma regionale che non richiami «tale vincolo “concertativo-procedimentale”», in quanto «sostanzialmente» lo supererebbe o, per meglio dire, lo eliderebbe.

Nelle disposizioni impugnate mancherebbe, inoltre, «un rinvio alle procedure di adeguamento e conformazione degli strumenti urbanistici comunali al PTPR, così come disciplinate dall’art. 65 delle Norme di Piano, oggetto della deliberazione del Consiglio regionale del Lazio n. 5 del 2019, di approvazione del “Piano territoriale paesistico regionale (PTPR)”, pubblicata nel Bollettino ufficiale della Regione Lazio il 13 febbraio 2020».

Al riguardo, la difesa statale precisa che la citata deliberazione del Consiglio regionale del Lazio è stata impugnata dal Presidente del Consiglio dei ministri dinanzi a questa Corte, in sede di conflitto di attribuzione, perché ritenuta in contrasto con il «principio di rilievo costituzionale di copianificazione paesaggistica obbligatoria» (conflitto, quello in parola, deciso da questa Corte, successivamente alla proposizione del presente ricorso, con la sentenza n. 240 del 2020, con la quale è stata annullata la delibera impugnata).

Il ricorrente aggiunge che, dopo l’anzidetta impugnativa, i lavori di copianificazione tra la Regione Lazio e il Ministero sono ripresi e si è giunti all’elaborazione di un nuovo testo, comprensivo del citato art. 65 delle norme di piano. Pertanto, «[p]er assicurare la legittimità costituzionale della disciplina regionale nella materia de qua è […] necessario che si faccia riferimento a tale ultima formulazione, condivisa con il Ministero e coerente con l’impianto del Codice dei beni culturali e del paesaggio».

1.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato anche l’art. 6, comma 1, lettere b), c), d) ed e), della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 – rubricato «Semplificazione istruttoria per l’approvazione degli strumenti urbanistici generali e dei piani attuativi. Modifiche alla legge regionale 22 dicembre 1999, n. 38 “Norme sul governo del territorio” e successive modifiche» – per violazione degli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 20, 21, 135, 143 e 145 del d.lgs. n. 42 del 2004.

1.2.1.– Con la lettera b) del comma 1 dell’art. 6 il legislatore regionale ha disposto la sostituzione del comma 2 dell’art. 54 della legge della Regione Lazio 22 dicembre 1999, n. 38 (Norme sul governo del territorio), concernente le trasformazioni urbanistiche in zona agricola, che, nel testo novellato, così recita: «2. Nel rispetto degli articoli 55, 57 e 57-bis e dei regolamenti ivi previsti, nelle zone agricole sono consentite le attività rurali aziendali come individuate all’articolo 2 della L.R. 14/2006, comprensive delle attività multimprenditoriali individuate dal medesimo articolo 2. Rientrano nelle attività multimprenditoriali le seguenti attività: a) turismo rurale; b) trasformazione e vendita diretta dei prodotti derivanti dall’esercizio delle attività agricole tradizionali; c) ristorazione e degustazione dei prodotti tipici derivanti dall’esercizio delle attività agricole tradizionali; d) attività culturali, didattiche, sociali, ricreative, sportive e terapeutico-riabilitative; e) accoglienza ed assistenza degli animali; f) produzione delle energie rinnovabili».

Il ricorrente sottolinea come, a seguito delle modifiche operate dalla norma impugnata, l’attività di «produzione delle energie rinnovabili» sia «espressamente inclusa tra le attività “multimprenditoriali”, generalmente consentite in zona agricola». In questo modo la Regione Lazio avrebbe ampliato in maniera significativa il novero delle attività ritenute «compatibili» con il territorio, al fine di «agevolare l’utilizzo del territorio agricolo per la produzione di energia da fonti rinnovabili». Ciò avverrebbe però – sempre a detta della difesa statale – «prescindendo da una valutazione sulla effettiva capacità produttiva e vocazione culturale del territorio, oltre che dai suoi valori paesaggistici».

La modifica operata dalla norma impugnata «consent[irebbe] in concreto una vera e propria riconversione funzionale di ampie porzioni (anche centinaia di ettari) di territorio da agricolo a industriale, al di là di qualsiasi strumento di pianificazione di settore, e pertanto in assenza di una effettiva, preventiva, mirata e necessaria programmazione degli interventi di trasformazione del territorio regionale, da compiersi in prima istanza nel piano paesaggistico regionale».

In particolare, la norma impugnata ometterebbe «l’imprescindibile espresso richiamo alla necessità di adeguarsi alle previsioni della pianificazione paesaggistica, previamente condivisa mediante intesa con lo Stato, oltre che del PER e delle altre leggi regionali». La mancanza di questo richiamo determinerebbe l’illegittimità costituzionale della norma regionale impugnata per violazione della sfera di competenza esclusiva riservata allo Stato, ex art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. in relazione alle norme interposte di cui agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali.

Sarebbe inoltre pregiudicato «l’interesse costituzionale alla tutela del paesaggio», con conseguente violazione dell’art. 9 Cost., che costituisce valore primario e assoluto (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 367 del 2007 e n. 309 del 2011). La norma regionale, consentendo di destinare le aree agricole alla produzione di energie rinnovabili, «pretermette[rebbe] il ruolo proprio del piano paesaggistico nell’individuazione degli usi compatibili (o non compatibili) con i beni soggetti a tutela paesaggistica».

Nello specifico, la norma impugnata si porrebbe in contrasto con gli artt. 135, 143 e 145 del d.lgs. n. 42 del 2004, che rimettono alla pianificazione la disciplina d’uso dei beni paesaggistici (mediante la cosiddetta vestizione dei vincoli), ai fini dell’autorizzazione degli interventi. In particolare, la Parte III del citato d.lgs. n. 42 del 2004 delineerebbe «un sistema organico di tutela del paesaggio (come bene di rango costituzionale), inserendo i tradizionali strumenti del provvedimento impositivo del vincolo e dell’autorizzazione paesaggistica nel quadro della pianificazione paesaggistica del territorio, che deve essere elaborata concordemente da Stato e Regione». Sarebbe proprio la «pianificazione concordata» lo strumento mediante il quale devono essere previste, per ciascuna area tutelata, le cosiddette «prescrizioni d’uso (e cioè i criteri di gestione del vincolo, volti a orientare la fase autorizzatoria)» e «la tipologia delle trasformazioni compatibili e di quelle vietate, nonché le condizioni delle eventuali trasformazioni». Rilevano in tal senso le norme di cui agli artt. 143, comma 9, e 145, comma 3, cod. beni culturali, le quali sanciscono «l’inderogabilità delle previsioni del [piano paesaggistico] da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico e la loro cogenza rispetto agli strumenti urbanistici, nonché […] l’immediata prevalenza del piano paesaggistico su ogni altro atto della pianificazione territoriale e urbanistica».

In definitiva, la norma regionale impugnata violerebbe la legislazione statale nella parte in cui «consente trasformazioni del territorio agricolo, anche paesaggisticamente vincolato, in contrasto con la vocazione naturale del territorio e a discapito della sua conservazione e integrità, senza richiamare espressamente la disciplina dettata al riguardo dal piano paesaggistico».

A ciò si aggiunga che la mancanza di un piano concordato con il Ministero – stante l’avvenuta elaborazione unilaterale di quello approvato con la delibera del Consiglio regionale 2 agosto 2019, n. 5 «Piano territoriale paesistico regionale - PTPR» – avrebbe dovuto indurre il legislatore regionale a «subordinare l’applicabilità delle previsioni in materia di localizzazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili in aree agricole […] alla previa definizione di un quadro di regole condiviso con il Ministero nell’ambito della pianificazione paesaggistica», «allo scopo di evitare che, in sede di rilascio delle autorizzazioni, le singole trasformazioni vengano valutate singolarmente, omettendo di considerare complessivamente il contesto ambientale paesaggistico, la cui tutela è specificamente demandata dal legislatore nazionale proprio al piano paesaggistico» (in tema di elaborazione congiunta del piano è richiamata la sentenza di questa Corte n. 86 del 2019; sull’«impronta unitaria della pianificazione paesaggistica» sono invece citate le sentenze n. 182 del 2016 e n. 272 del 2009).

Per le ragioni anzidette, il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che l’art. 6 della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 sia costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, nel prevedere la «produzione delle energie rinnovabili» tra le «attività multimprenditoriali» consentite in zona agricola, «richiama soltanto il rispetto della normativa regionale, ma non prevede analoga clausola in favore del piano paesaggistico (frutto di elaborazione congiunta con il Ministero), ai sensi degli articoli 135, comma 1, e 143, comma 2, del Codice di settore». Di qui la violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela del paesaggio, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., e in relazione alle norme interposte di cui agli artt. 135, 143 e 145 del d.lgs. n. 42 del 2004. Vi sarebbe inoltre la violazione dell’art. 9 Cost. in considerazione del potenziale pregiudizio al paesaggio derivante dagli interventi incentivati dalla legge regionale.

1.2.2.– Parimenti illegittime sarebbero le disposizioni introdotte con le lettere c), d) ed e) del comma 1 dell’art. 6, relative all’edificazione in zona agricola e ai piani di utilizzazione aziendale (PUA). In particolare, le norme impugnate – che hanno modificato gli artt. 55, 57 e 57-bis della legge reg. Lazio n. 38 del 1999 – consentirebbero «di realizzare manufatti connessi alle attività agricole, ampliando sensibilmente le relative categorie mediante il riferimento “alle attività agricole tradizionali, connesse e compatibili” e prevedendo, tra i vari interventi possibili, perfino la realizzazione di piscine».

Secondo il ricorrente, quindi, anche queste norme renderebbero possibile «la trasformazione indiscriminata delle aree agricole, senza una definizione preventiva degli interventi compatibili con il contesto, che deve avvenire nell’ambito [del] piano paesaggistico previamente elaborato d’intesa con lo Stato».

La difesa statale rileva, altresì, come l’ampliamento della possibilità di trasformazione delle aree agricole coinvolga, «potenzialmente», anche le aziende agricole situate in aree vincolate, oggetto, peraltro, di specifica previsione nelle norme del PTPR (art. 52) approvate e pubblicate nel Bollettino Ufficiale della Regione 13 febbraio 2020, n. 13.

Per le anzidette ragioni, il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che anche per le norme di cui alle lettere c), d) ed e) del comma 1 dell’art. 6 valgano le medesime considerazioni già svolte per la lettera b) e quindi che, nel quadro della pianificazione concordata, delineata dal codice dei beni culturali e del paesaggio, il legislatore statale abbia assegnato al piano paesaggistico una posizione di assoluta preminenza nel contesto della pianificazione territoriale. In particolare, gli artt. 143, comma 9, e 145, comma 3, del d.lgs. n. 42 del 2004 sancirebbero «l’inderogabilità delle previsioni del predetto strumento da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico e la loro cogenza rispetto agli strumenti urbanistici, nonché […] l’immediata prevalenza del piano paesaggistico su ogni altro atto della pianificazione territoriale e urbanistica» (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 182 del 2006 e n. 180 del 2008).

Pertanto, le norme regionali impugnate si porrebbero «in conflitto con la normativa statale, laddove consentono trasformazioni del territorio agricolo, anche paesaggisticamente vincolato, in contrasto con la vocazione naturale del territorio e a discapito della sua conservazione e integrità, senza richiamare espressamente la disciplina dettata al riguardo dal piano paesaggistico».

Il ricorrente rileva, infine, un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale nel caso in cui gli interventi resi possibili dalle disposizioni impugnate impattino su manufatti di interesse culturale, tutelati ai sensi della Parte II del codice dei beni culturali e del paesaggio. L’art. 20 del d.lgs. n. 42 del 2004 vieta, infatti, che i beni culturali siano «distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione».

Non spetterebbe, pertanto, alla Regione dettare una disciplina volta a individuare le modificazioni e gli interventi consentiti sugli immobili sottoposti a tutela ai sensi della Parte II del codice dei beni culturali e del paesaggio.

1.3.– Oggetto di impugnazione è anche l’art. 7, comma 7, lettera c), della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 – rubricato «Riordino dei procedimenti amministrativi concernenti concessioni su beni demaniali e non demaniali regionali» – per violazione degli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 135, 142, 143 e 145 cod. beni culturali.

In particolare, con la norma impugnata il legislatore regionale ha modificato il comma 1 dell’art. 10 della legge della Regione Lazio 11 dicembre 1998, n. 53 (Organizzazione regionale della difesa del suolo in applicazione della legge 18 maggio 1989, n. 183), attribuendo ai comuni il rilascio della concessione dei beni del demanio marittimo per i porti turistici, gli approdi turistici e i punti di ormeggio, sulla base di quanto stabilito dal piano di utilizzazione degli arenili (PUA) regionale e dai rispettivi PUA comunali (numero 2-quater, introdotto dalla norma impugnata).

Il ricorrente si duole del fatto che la norma in esame, nell’attribuire ai comuni le funzioni anzidette, non avrebbe fatto alcun riferimento «alla necessità di verificare la coerenza dei predetti PUA con la disciplina di tutela delle fasce costiere marittime, e quindi degli arenili, contenuta nel piano paesaggistico». In altre parole, il legislatore regionale avrebbe indicato come «preciso parametro di riferimento per il rilascio dei titoli da parte dei comuni» i PUA regionale e comunale, ma non avrebbe stabilito che, ai sensi dell’art. 145, comma 5, del d.lgs. n. 42 del 2004, «tali strumenti poss[o]no costituire un punto di riferimento soltanto se e in quanto conformi a un piano paesaggistico approvato previa intesa con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, ai sensi degli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio».

Anche in relazione a tale disposizione la difesa statale ricorda che la Regione Lazio non è attualmente munita di un piano paesaggistico approvato previa intesa con lo Stato, in considerazione del fatto che il PTPR entrato in vigore nel 2020 non è conforme all’intesa intercorsa con il Ministero e, per questa ragione, è stato impugnato innanzi a questa Corte mediante conflitto di attribuzioni (ricorso, come si è già detto, accolto con la sentenza n. 240 del 2020).

Pertanto, la norma impugnata sarebbe costituzionalmente illegittima «in quanto rende possibile il rilascio delle concessioni, sulla base dei PUA, al di fuori del quadro della pianificazione paesaggistica definita previa intesa con il competente Ministero». In particolare, la norma in esame «“sfugg[irebbe]” al piano paesaggistico sottraendo alla “sede” stabilita per legge la pianificazione delle aree costiere, sottoposte a tutela paesaggistica ope legis, ai sensi dell’art. 142, comma 1, lett. a), del Codice, proprio per la loro fragilità, in considerazione dell’uso massiccio delle coste per finalità turistiche, economiche, commerciali, ecc.».

Da quanto detto deriverebbe la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. e delle norme interposte di cui agli artt. 135, 142, 143 e 145 cod. beni culturali. Vi sarebbe anche la violazione dell’art. 9 Cost. in ragione dell’«evidente diminuzione della tutela per il bene paesaggistico», determinata dalla norma impugnata.

1.4.– L’art. 9, commi 9, lettera d), numero 1), e 16, della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 – rubricato «Disposizioni di semplificazione in materia ambientale» – è impugnato per violazione degli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 135, 142, 143, 145, 146 e 149 del d.lgs. n. 42 del 2004.

1.4.1.– In particolare, la lettera d), numero 1), del comma 9 del citato art. 9 ha modificato la definizione di «faggeta depressa» contenuta nel comma 2 dell’art. 34-bis della legge della Regione Lazio 28 ottobre 2002, n. 39 (Norme in materia di gestione delle risorse forestali), abbassando la quota al di sotto della quale gli ecosistemi forestali governati a fustaia a prevalenza di faggio sono definiti tali, da 800 metri (come era in precedenza), a 300 metri sul livello del mare.

La modifica legislativa impugnata incide, però, sull’ambito applicativo della disposizione di cui al comma 3, ultimo periodo, dello stesso art. 34-bis della legge reg. Lazio n. 39 del 2002, ove si stabilisce che «[p]er le faggete depresse di cui al comma 2 sono vietate le utilizzazioni per finalità produttive», ad eccezione dei «tagli necessari per la conservazione della faggeta o per motivi di pubblica incolumità».

La difesa statale, dopo aver sottolineato che «i territori coperti da foreste e da boschi» sono sottoposti a tutela paesaggistica ai sensi dell’art. 142, comma 1, lettera g), cod. beni culturali, conclude sostenendo che «[l]’effetto della norma regionale censurata è […] quello di prevedere in modo indiscriminato, per tutto il territorio regionale, e al di fuori della pianificazione paesaggistica, una norma applicabile in modo uniforme alle aree boscate a faggeta, diminuendo […] il livello della relativa tutela».

Da quanto detto deriverebbe la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione alle norme interposte di cui agli artt. 135, 142, 143 e 145 del d.lgs. n. 42 del 2004, nonché la lesione del principio fondamentale della tutela del paesaggio, di cui all’art. 9 Cost.

1.4.2.– Il comma 16 dell’art. 9 della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 stabilisce che, «[a]l fine di semplificare le procedure di approvazione della pianificazione forestale aziendale, i procedimenti di approvazione dei piani predisposti ai sensi degli articoli 13 e 14 della legge regionale 28 ottobre 2002, n. 39 (Norme in materia di gestione delle risorse forestali), che contemplano interventi a carico dei beni ai sensi degli articoli 136 e 142 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) e successive modifiche, sono soggetti all’acquisizione dell’autorizzazione di cui all’articolo 146 del D.Lgs. 42/2004. Tale preventiva autorizzazione paesaggistica si intende acquisita per tutti gli interventi previsti nei piani stessi e resi esecutivi. Resta salvo quanto previsto dall’articolo 149, comma 1, lettere b) e c), del D.Lgs. 42/2004 in merito agli interventi esonerati dall’obbligo di acquisire l’autorizzazione paesaggistica».

Secondo il ricorrente l’effetto di questa disposizione sarebbe «quello di anticipare l’autorizzazione paesaggistica ai piani di gestione e assestamento forestale, e al piano poliennale di taglio di cui agli articoli 13 e 14 della legge regionale n. 39 del 2002, ove siano previsti interventi su beni tutelati, esonerando poi dal rilascio dell’autorizzazione i singoli interventi». Ciò determinerebbe il contrasto con gli artt. 146 e 149 del d.lgs. n. 42 del 2004, in base ai quali tutti gli interventi sui beni tutelati devono essere previamente autorizzati (art. 146), salvo che non ricadano nelle ipotesi di espressa esclusione stabilite dal legislatore statale (art. 149).

La difesa statale non esclude che sia ipotizzabile l’espressione di un «parere paesaggistico» preliminare in relazione al piano, in analogia a quanto previsto in materia urbanistica, ma precisa che non può essere esclusa «la necessità, a valle, di autorizzare i singoli interventi conformi al piano assentito, prendendo in considerazione tutti gli aspetti di dettaglio di tali interventi, pena la violazione del regime di tutela stabilito dal Codice». Sono al riguardo richiamate alcune decisioni di questa Corte (sentenze n. 189 del 2016, n. 235 del 2011, n. 101 del 2010 e n. 232 del 2008), secondo cui non sarebbe consentito alle regioni introdurre deroghe alla legislazione statale in materia di autorizzazione paesaggistica, recante regole uniformi su tutto il territorio nazionale.

Anche nel caso di specie sarebbe quindi violata la competenza legislativa esclusiva dello Stato di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. e alle relative norme interposte di cui agli artt. 146 e 149 cod. beni culturali; sarebbe inoltre inciso il livello della tutela del paesaggio, stabilito in via uniforme sul tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. Infine, anche in questo caso, l’abbassamento della tutela determinerebbe la violazione dell’art. 9 Cost.

1.5.– Infine, è impugnato l’art. 10, comma 11, della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 – rubricato «Disposizioni in materia di fonti energetiche rinnovabili» – per violazione degli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 135, 143 e 145 del d.lgs. n. 42 del 2004. La norma impugnata ha aggiunto, dopo l’art. 3 della legge della Regione Lazio 16 dicembre 2011, n. 16 (Norme in materia ambientale e di fonti rinnovabili), l’art. 3.1, rubricato «Localizzazione di impianti fotovoltaici in zona agricola».

Il ricorrente premette che la disposizione in esame «riconferma il ruolo fondamentale e strategico del piano energetico regionale (PER), come strumento di programmazione della produzione di energia da fonti rinnovabili e del risparmio energetico in agricoltura per le zone “E”», e ribadisce «la necessità che tale programmazione venga effettuata in coordinamento con il piano agricolo regionale (PAR) di cui all’art. 52 della legge regionale n. 38 del 1999». La difesa statale aggiunge che, al momento, il PER non risulta ancora approvato, «nonostante abbia concluso il procedimento di VAS e disponga da luglio 2018 del parere motivato necessario per essere approvato».

Alla luce di quanto detto, l’art. 3.1 della legge reg. n. 16 del 2011, introdotto dalla norma impugnata, «omette[rebbe] il necessario richiamo al piano paesaggistico e alla sua disciplina programmatoria e pianificatoria, benché soltanto quest’ultimo piano possa orientare l’individuazione delle aree, sia in negativo quali aree escluse, sia in positivo quali aree idonee all’installazione delle diverse tipologie di impianti destinati alla produzione di energia da fonti rinnovabili e i limiti del relativo dimensionamento».

Sotto altro profilo, il ricorrente individua una contraddizione tra quanto affermato nel comma 3 del citato art. 3.1 – secondo cui, nelle more dell’entrata in vigore del PER, le aree idonee all’installazione degli impianti sono identificate dai Comuni nel rispetto di una serie di criteri e non possono includere comunque oltre il 3 per cento delle aree classificate come agricole (zone E) dagli strumenti urbanistici – e il successivo comma 5 – il quale stabilisce che, «[n]elle more delle previsioni di cui al comma 1, resta sempre consentita la produzione di energia da fonti rinnovabili con le modalità previste dalla legge regionale 2 novembre 2006, n. 14 (Norme in materia di diversificazione delle attività agricole) e successive modifiche per la quale non trovano applicazione le limitazioni di cui al comma 3».

Al riguardo, la difesa statale ritiene che la necessità di «un espresso richiamo al piano paesaggistico» non possa essere esclusa da quanto previsto dall’art. 54, comma 3, della legge reg. Lazio n. 38 del 1999. Quest’ultima disposizione prevede, infatti, l’approvazione di un piano di utilizzazione ambientale (PUA), ai sensi dell’art. 57-bis, per poter esercitare le sole attività di cui al comma 2, lettera b), del medesimo art. 54 (cioè «trasformazione e vendita diretta dei prodotti derivanti dall’esercizio delle attività agricole tradizionali») e non anche per le attività di «produzione delle energie rinnovabili» (art. 54, comma 2, lettera f) localizzate all’interno dell’azienda agricola.

Pertanto, il combinato disposto del nuovo testo del comma 2 dell’art. 54 della legge reg. Lazio n. 38 del 1999 (sostituito dall’art. 6, comma 1, lettera b, della legge reg. n. 1 del 2020, oggetto di impugnazione per le ragioni illustrate al precedente punto 1.2.1) e dell’art. 3.1, comma 5, della legge reg. Lazio n. 16 del 2011 (introdotto dall’impugnato art. 10, comma 11, della legge reg. n. 1 del 2020) comporta «la possibilità di realizzare impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili in aree agricole, al di fuori non solo del piano energetico regionale, ma soprattutto del quadro programmatorio condiviso con il Ministero a monte, nell’ambito del piano paesaggistico, che costituisce la sede propria nell’ambito della quale deve essere valutata la compatibilità paesaggistica del complesso degli interventi». In merito, il ricorrente ribadisce la necessità di assicurare una visione d’insieme degli impianti realizzati e da realizzare.

La mancata approvazione del PER aggraverebbe, poi, il quadro, in quanto le «numerose» richieste di realizzazione di impianti fotovoltaici di rilevanti estensioni in zone agricole, classificate e tutelate dal PTPR quali paesaggi agrari di valore o di elevato valore, finirebbero con l’essere autorizzate caso per caso con provvedimenti regionali, ai sensi dell’art. 27-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), nonostante il parere negativo del Ministero.

In definitiva, il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che l’art. 10, comma 11, della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 sia costituzionalmente illegittimo per due ordini di ragioni: innanzitutto, perché, «introducendo l’art. 3.1 nella legge reg. Lazio n. 16 del 2011, non subordina la programmazione della produzione di energia da fonti rinnovabili e del risparmio energetico in agricoltura per le zone omogenee “E” di cui al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 alla pianificazione paesaggistica elaborata previa intesa con il Ministero»; in secondo luogo, «nella parte in cui, mediante la previsione del comma 5 del predetto art. 3.1, consente, in attesa del PER, la realizzazione degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili in aree agricole senza alcuna programmazione».

Per le ragioni anzidette la norma impugnata violerebbe la competenza legislativa esclusiva dello Stato di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione alle norme interposte di cui agli artt. 135, 143 e 145 del d.lgs. n. 42 del 2004. Sarebbe inoltre leso il principio fondamentale della tutela del paesaggio, di cui all’art. 9 Cost., in quanto il quadro della regolamentazione che deriva dall’entrata in vigore della legge regionale impugnata determinerebbe un evidente abbassamento del livello della sua tutela, a causa dell’indiscriminata localizzazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili nelle aree agricole.

2.– La Regione Lazio si è costituita in giudizio, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale promosse siano dichiarate inammissibili o infondate e argomentando quanto segue.

2.1.– In riferimento alle censure mosse all’art. 5 della legge reg. Lazio n. 1 del 2020, la difesa regionale evidenzia anzitutto come i motivi dell’impugnazione dell’intero articolo, da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, riguardino la mancata previsione, nell’ambito delle procedure di approvazione degli strumenti urbanistici comunali, di misure di adeguamento e conformazione di tali strumenti alle previsioni del piano paesaggistico regionale, anche con riferimento al necessario coinvolgimento del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, ai sensi degli artt. 143 e 145 del d.lgs. n. 42 del 2004.

La resistente rileva come, nell’ambito dell’art. 5, comma 1, solo le lettere a), b) ed f) del comma 1, concernenti l’approvazione dei piani attuativi o l’introduzione di varianti urbanistiche semplificate, abbiano «attinenza con le procedure di approvazione/modifica di strumenti urbanistici». Per converso, le restanti disposizioni di cui l’art. 5 si compone – comma 1, lettera c) (permesso di costruire convenzionato), lettera d) (permesso di costruire in deroga), lettera e) (termini per approvare i piani attuativi), lettera g) (destinazioni d’uso degli edifici), comma 2, lettere a) e b) (finalità generali in tema di rigenerazione urbana e di recupero edilizio) – non riguardano «in alcun modo procedure relative a strumenti urbanistici e dunque per esse non viene in rilievo alcuna questione di rispetto della pianificazione paesaggistica e del ruolo del Ministero».

Pertanto, a parere della Regione, «[l]’impugnazione dell’intero art. 5, senza distinzioni», si traduce in «una vera e propria erronea identificazione delle norme oggetto di censura». Di qui l’«inammissibilità del ricorso».

2.1.1.– Ribadita la necessità di circoscrivere le censure alle lettere a), b) ed f) dell’art. 5, comma 1, della legge reg. Lazio n. 1 del 2020, la Regione ritiene «infondati e non pertinenti» i rilievi mossi a queste norme. Le disposizioni di cui alle lettere a) e b) hanno introdotto puntuali e specifiche modifiche agli artt. 1, commi 2 e 3, e 1-bis, commi 1, 2, 3 e 3-ter, della legge della Regione Lazio 2 luglio 1987, n. 36 (Norme in materia di attività urbanistico-edilizia e snellimento delle procedure), relativi alle procedure di approvazione, da parte dei comuni, degli strumenti urbanistici attuativi.

La resistente – premessa la competenza regionale nella materia dell’urbanistica, rientrante, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., nel «governo del territorio» – rileva come le modifiche operate dalla legge reg. Lazio n. 1 del 2020, oggi impugnate, intervengano sulla legge reg. Lazio n. 36 del 1987, vale a dire su una normativa esistente da oltre trent’anni e già oggetto di numerose modifiche, nei medesimi contestati commi sia dell’art. 1 sia dell’art. 1-bis. Tutto ciò senza che le novelle, pur prive di «elementi di raccordo con la pianificazione paesaggistica», abbiano destato alcun dubbio di legittimità costituzionale.

D’altra parte, ad avviso della Regione, le modifiche operate dalle lettere a) e b) dell’art. 5, comma 1, della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 non apportano alcuna novità sostanziale sotto il profilo paesaggistico alle procedure urbanistiche in vigore. Esse, infatti, se esaminate in dettaglio, dimostrano di non integrare in alcun modo «un nuovo ed inedito procedimento urbanistico», ma di consistere in «puntuali e limitate modifiche, relative ad una procedura urbanistica già in vigore», le quali «non poss[o]no essere in contrasto con principi di rango costituzionale solo perché non recano profili di raccordo con la pianificazione paesistica».

In particolare, la legge reg. Lazio n. 1 del 2020 non metterebbe in discussione il principio della prevalenza e dell’inderogabilità della strumentazione e della disciplina paesaggistica, ma si limiterebbe a regolare i soli profili urbanistici del procedimento di approvazione dei piani attuativi.

D’altro canto, ad avviso della resistente, l’ordinamento giuridico regionale avrebbe già ampiamente recepito il principio che si assume violato. E ciò, tanto con l’art. 2, comma 8, del PTPR, il quale prevede espressamente che le disposizioni prescrittive del piano «prevalgono sulle disposizioni incompatibili contenute nella vigente strumentazione territoriale urbanistica e settoriale», quanto con l’ulteriore disposizione dell’art. 62, comma 4, in base alla quale il PTPR è sovraordinato alla pianificazione urbanistica.

L’ampio recepimento del principio di prevalenza della disciplina di pianificazione urbanistica nella legislazione regionale «rende[rebbe] superfluo», quindi, il suo richiamo nel dettaglio di ogni normativa urbanistica, ed in tal senso «si è […] sempre regolato il legislatore regionale». Ciò non toglie che «tutti gli strumenti urbanistici, sia generali che attuativi, sono sempre stati, e continueranno ad essere, sottoposti alla verifica di coerenza e di conformità con il piano paesaggistico ad essi sovraordinato e con le altre norme paesaggistiche cogenti».

Al riguardo, la Regione sottolinea come neppure le procedure urbanistiche delineate dal legislatore statale rechino «previsioni di raccordo con la disciplina paesaggistica e con l’adeguamento o conformazione ad essa». Sono richiamate al riguardo: la variante speciale per gli insediamenti produttivi di cui all’art. 8 del d.P.R. 7 settembre 2010, n. 160 (Regolamento per la semplificazione ed il riordino della disciplina sullo sportello unico per le attività produttive, ai sensi dell’articolo 38, comma 3, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), la variante per le opere pubbliche di cui all’art. 19 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità (Testo A)», la variante per mezzo di accordi di programma di cui all’art. 34 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) e la formazione e approvazione degli strumenti urbanistici generali di cui agli artt. 8, 9 e 10 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica).

Analogamente, la disciplina regionale recata dalla legge reg. Lazio n. 38 del 1999 non conterrebbe «elementi di raccordo con la materia paesaggistica», né a proposito degli strumenti urbanistici generali (piani urbanistici comunali generali), né di quelli attuativi (piani urbanistici operativi comunali). In questo senso si muoverebbe anche la legge reg. Lazio n. 36 del 1987.

In definitiva, «la prevalenza ed inderogabilità del piano paesaggistico e della disciplina paesaggistica in genere rispetto alla strumentazione urbanistica di qualsivoglia livello costitui[rebbero] principio generale dell’ordinamento […], che vale e si impone di per sé, senza che debba ogni volta essere richiamato dalle varie normative, in quanto “immanente” all’ordinamento giuridico». Ciò spiegherebbe perché sia la legislazione urbanistica di rango statale sia quella regionale non prevedono, nelle relative procedure, «puntuali rimandi alla supremazia della disciplina paesaggistica ed alla necessaria conformità degli strumenti urbanistici al piano paesaggistico», senza che ciò le renda costituzionalmente illegittime.

Anche l’esame degli effetti dell’eventuale accoglimento del ricorso confermerebbe la mancanza del vulnus lamentato. Ed infatti, la caducazione dell’art. 5 porterebbe ad una naturale reviviscenza della previgente versione della legge reg. Lazio n. 36 del 1987, da cui la disposizione impugnata «differi[rebbe] per marginali aspetti legati alla tempistica, alle conseguenze del silenzio, ad alcune fattispecie specifiche di modifiche, profili tutti che non riguardano la materia paesaggistica». Dunque, l’ipotetico accoglimento del ricorso «non [sarebbe] comunque idoneo a sortire alcun effetto concreto quanto al bene/interesse che si lamenta essere stato violato».

2.1.2.– Ad analoghi risultati, ad avviso della Regione, conduce l’esame dei rilievi mossi alla lettera f) del comma 1 dell’art. 5 della legge reg. Lazio n. 1 del 2020, il quale ha introdotto nella legge reg. Lazio n. 36 del 1987, l’art. 6-bis, che prevede una «procedura urbanistica semplificata per l’approvazione di specifiche e determinate tipologie di varianti urbanistiche», disponendo, per le medesime, tempi accelerati e una specifica valenza di assenso al silenzio regionale.

Orbene, anche in tal caso risulterebbe evidente la prevalenza del principio di pianificazione paesaggistica e la superfluità di specifiche norme di raccordo. L’eventuale caducazione della norma comporterebbe l’unico effetto della «eliminazione dal mondo giuridico di una procedura urbanistica, strutturata in forma snella e semplificata per specifiche varianti minori, pur di vedere affermato il principio generale, che tale normativa non nega affatto, della prevalenza della pianificazione paesaggistica». D’altra parte, l’inserimento nella richiamata disciplina di norme di raccordo con la disciplina paesaggistica determinerebbe l’equivoco che il riferimento a tale disciplina debba ritenersi necessario solo per tale, minore, variante e non per le altre fattispecie di varianti (artt. 4, comma 5, 5 e 6 della legge reg. Lazio n. 36 del 1987).

In definitiva, ad avviso della Regione, i rilievi mossi all’art. 5, comma 1, lettera f), risultano infondati perché relativi non a ciò che la norma dice, ma a ciò che essa non dice e che ha ragione di non dire in quanto principio generale e prevalente dell’ordinamento.

2.2.– Analogamente infondate risulterebbero, a parere della Regione, le censure a carico dell’art. 6, comma 1, lettere b), c), d) ed e), della legge reg. Lazio n. 1 del 2020.

2.2.1.– Quanto alla lettera b), che ha sostituito l’art. 54, comma 2, della legge reg. Lazio n. 38 del 1999, la resistente rileva che il Presidente del Consiglio dei ministri contesta la nuova formulazione dell’art. 54 che, nel consentire tra le attività multimprenditoriali in zona agricola, la produzione di energie rinnovabili, permetterebbe tali interventi anche in zone paesaggisticamente vincolate. Tale contestazione avverrebbe «per il solo fatto che non viene espressamente richiamato il principio di prevalenza della disciplina paesaggistica».

A tal proposito, la difesa regionale sottolinea che la legge reg. Lazio n. 38 del 1999 disciplina le trasformazioni, dal punto di vista urbanistico ed edilizio, delle aree classificate come agricole, prevedendo che «in esse è possibile esclusivamente lo svolgimento dell’attività agricola, comprensiva delle attività multimprenditoriali con essa integrate e complementari». Si tratterebbe, dunque, anche in questo caso, di normativa che non contiene «alcuna previsione di deroga» alle disposizioni di tutela paesaggistica del PTPR, il quale, per tutte le aree sottoposte a vincolo paesaggistico, costituisce la normativa prevalente, essendo principio immanente nell’ordinamento.

D’altra parte, ricorda la Regione, la diversificazione in forma di multimprenditorialità non rappresenta una diversa destinazione d’uso del territorio, non conforme agli strumenti di pianificazione adottati, ma si configura «quale temporaneo cambio di funzioni del bene strumento delle attività multimprenditoriali (manufatti e/o terreni) per limitate e ben individuate finalità, comunque compatibili con la destinazione d’uso agricolo del territorio».

2.2.2.– Con riferimento all’art. 6, comma 1, lettere c), d) ed e) della legge reg. Lazio n. 1 del 2020, che ha modificato gli artt. 55, 57, e 57-bis della legge reg. Lazio n. 38 del 1999, la Regione contesta il rilievo di parte ricorrente secondo cui la novella consentirebbe di realizzare manufatti connessi alle attività agricole, ivi comprese le piscine, ampliando, di fatto, la categoria delle attività agricole tradizionali connesse e compatibili, e senza prevedere la specifica compatibilità con la disciplina di tutela paesaggistica.

A tal proposito, la Regione obietta che la materia delle trasformazioni in zona agricola rientra nella competenza regionale e che la norma impugnata non fa alcun riferimento, tra i manufatti che sarebbe consentito realizzare, alla tipologia delle “piscine”. Peraltro, la loro realizzazione, laddove non in contrasto con le superiori esigenze di tutela paesaggistico-ambientale, sempre giuridicamente immanenti, appare «compatibile con l’esercizio di pratiche consentite nell’ambito della multimprenditorialità e multifunzionalità aziendale».

2.2.3.– La Regione confuta, altresì, l’ulteriore rilievo mosso dalla ricorrente, secondo cui la norma in esame renderebbe possibile anche interventi su manufatti di interesse culturale, tutelati ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. n. 42 del 2004, con conseguente violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

In merito, la difesa regionale definisce «generiche [e] slegate da ogni concreto richiamo alle norme in questione» le censure mosse dalla ricorrente e precisa che la normativa de qua non ha alcun effetto su beni di interesse culturale, ribadendo che le novelle, apportate dall’art. 6 della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 alla normativa previgente, «hanno valenza esclusivamente urbanistica ed edilizia e non negano assolutamente la prevalenza della normativa paesaggistica, sempre immanente».

Più in generale, la resistente sottolinea come il ricorso sembri obliterare la circostanza che la cogenza della disciplina paesistica si verifica solo laddove vengano in rilievo beni paesaggistici da tutelare e non per qualsiasi tipologia di intervento in zona agricola.

2.2.4.– A margine delle superiori argomentazioni la Regione osserva che gli interventi censurati si inquadrano in un’azione legislativa di più ampio respiro che discende dalla Politica agricola comunitaria (sono richiamati: il regolamento UE n. 1303/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo, sul Fondo di coesione, sul Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale e sul Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca e disposizioni generali sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo, sul Fondo di coesione e sul Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca, e che abroga il regolamento CE n. 1083/2006 del Consiglio; il regolamento UE n. 1305/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale, FEASR, e che abroga il regolamento CE n. 1698/2005 del Consiglio) e che mira proprio a incentivare la diversificazione delle attività agricole in senso multifunzionale, per far fronte «ai problemi che incombono sul territorio aperto su scala continentale: dall’abbandono delle campagne allo spopolamento delle zone montane». D’altra parte, i concetti di “multimprenditorialità” e “multifunzionalità aziendale”, discendono dal decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228 (Orientamento e modernizzazione del settore agricolo, a norma dell’articolo 7 della legge 5 marzo 2001, n. 57), che ha inserito nell’art. 2135 del codice civile le «attività connesse» e che disciplina attualmente il settore.

2.3.– La Regione argomenta, altresì, l’infondatezza delle censure a carico dell’art. 7, comma 7, lettera c), della legge reg. Lazio n. 1 del 2020, il quale inserisce il comma 2-quater nell’art. 10 della legge reg. Lazio n. 53 del 1998.

La difesa regionale richiama le medesime argomentazioni svolte in relazione alle altre censure e, in particolare, la generale prevalenza della pianificazione paesaggistica come «principio immanente nell’ordinamento», per cui «il mancato richiamo» a questi strumenti «non vale a negare la valenza di tale principio». Si precisa, altresì, che la norma utilizza la locuzione «nel rispetto», e non – come sostenuto dal ricorrente – «sulla base»; ciò, a parere della resistente, equivarrebbe a dire che la norma censurata non è «l’unica di riferimento, ma deve, viceversa, essere letta in combinato con le altre norme di settore, in primis la citata L.R. n. 14/1999 e tutte le norme comunitarie, nazionali e regionali che regolano le utilizzazioni del demanio marittimo».

Ciò premesso, la Regione sostiene che argomenti a sostegno della non fondatezza si ricavino anche da un giudizio prognostico sulle conseguenze dell’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma. Infatti, il successivo comma 8 dell’art. 7 – non impugnato nell’odierno giudizio – determina, in ogni caso, lo spostamento dalla Regione ai comuni della competenza al rilascio di concessioni del demanio marittimo, a far data dal termine individuato nel comma 10 del medesimo art. 7 della legge reg. Lazio n. 1 del 2020.

2.4.– Quanto alle censure mosse al comma 9, lettera d), numero 1), dell’art. 9 della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 – che, nell’abbassare la quota al di sotto della quale gli ecosistemi forestali a prevalenza di faggio sono definiti tali (da 800 metri a 300 metri sul livello del mare), ne renderebbe possibile una più ampia utilizzazione per finalità produttiva, di fatto, incidendo sulla tutela paesaggistica – la difesa regionale evidenzia che la novella riguarda «esclusivamente la nozione forestale [di “faggeta depressa”] e non quella paesaggistica» delle aree boscate. Sicché, la modifica non avrebbe alcun effetto sulla tutela paesaggistica, che quindi risulterebbe inalterata e comunque sempre prevalente. Pertanto la censura sarebbe infondata.

Con riferimento, invece, al comma 16 del medesimo art. 9, la Regione si limita ad osservare che, «anche in questo caso, si parte dall’erroneo presupposto della non centralità della normativa paesaggistica e del PTPR».

2.5.– La difesa regionale argomenta, altresì, il rigetto delle censure mosse a carico dell’art. 10, comma 11, della legge reg. Lazio n. 1 del 2020, che introduce l’art. 3.1 nella legge reg. Lazio n. 16 del 2011.

Anche in tal caso, in merito all’omesso richiamo al piano paesaggistico in materia di localizzazioni di impianti fotovoltaici in zona agricola, la resistente sottolinea l’assoluta prevalenza del piano paesaggistico, per cui siffatto mancato richiamo «non comporta incostituzionalità della norma» e, dunque, alcun «contrasto con gli articoli 9 e 117, secondo comma, lett. s), Cost., in riferimento agli artt. 135, 143 e 145 del codice dei beni culturali (norme interposte)». L’omesso riferimento al PTPR – aggiunge la Regione – deriverebbe dalla circostanza che la materia coinvolta dalla norma impugnata riguarda il «governo del territorio» e sarebbe regolata – nell’ambito delle zone agricole “E”, di cui si occupa la norma de qua – «dagli strumenti urbanistici generali vigenti e strutturati obbligatoriamente in ossequio al Piano Territoriale Paesistico».

Ciò premesso, la Regione si sofferma sull’ulteriore «incongruenza» rilevata dal ricorrente, in particolare tra il comma 3 dell’art. 3.1, introdotto dalla norma impugnata, e il successivo comma 5. Il comma 3 attribuisce ai comuni, nelle more dell’entrata in vigore del piano energetico regionale (PER), la competenza ad individuare «le aree idonee per l’istallazione degli impianti fotovoltaici a terra per una superfice complessiva non superiore al 3 per cento delle zone omogenee “E”».

Tale previsione sembrerebbe essere posta nel nulla, a parere del ricorrente, dal successivo comma 5. Quest’ultimo, infatti, nel prevedere che, «[n]elle more delle previsioni di cui al comma 1, resta sempre consentita la produzione di energia da fonti rinnovabili, con le modalità previste dalla legge regionale 2 novembre 2006, n. 14», consentirebbe l’installazione di tali impianti in maniera indiscriminata e «al di fuori non solo del piano energetico regionale, ma soprattutto del quadro programmatorio condiviso con il Ministero».

La Regione osserva, a tal proposito, come la previsione di cui al comma 5 dell’art. 3.1 si riferisca alle attività rurali aziendali, individuate all’art. 2 della legge della Regione Lazio 2 novembre 2006, n. 14 (Norme in materia di diversificazione delle attività agricole), le quali sono comprensive, altresì, delle attività multimprenditoriali. Nell’ambito di queste ultime rientrerebbe, ai sensi dell’art. 54, comma 3, della legge reg. Lazio n. 38 del 1999 – così come modificato dalla stessa legge reg. Lazio n. 1 del 2020, impugnata nell’odierno giudizio – la produzione di energie rinnovabili. Né rileverebbe, ad avviso della Regione, l’osservazione del ricorrente secondo cui la subordinazione di tali attività all’approvazione di un PUA di cui al comma 2, lettera b), dell’art. 54 della legge reg. Lazio n. 38 del 1999, in tema di attività agricole multimprenditoriali, si riferirebbe esclusivamente alla localizzazione all’interno dell’azienda agricola di attività di «trasformazione e vendita diretta dei prodotti derivanti dall’esercizio delle attività agricole tradizionali» (lettera h – recte: b – del medesimo comma 2) e non anche alla produzione di energia. Sarebbero, pertanto, evidentemente escluse da tale autorizzazione rilasciata con il PUA proprio le «attività di “produzione delle energie rinnovabili”», di cui alla lettera f) del medesimo art. 54. La mancata previsione del PUA consentirebbe, quindi, la produzione di energia senza le adeguate garanzie.

Inoltre, proprio in virtù delle modifiche introdotte dall’art. 6 della legge regionale impugnata al comma 2 dell’art. 54 della legge reg. Lazio n. 38 del 1999, ogni attività multimprenditoriale deve svolgersi ai sensi dell’art. 3, comma 1-bis, della legge reg. Lazio n. 14 del 2006, in regime di connessione con l’impresa agricola. Regime di connessione per il quale, ricorda la difesa regionale, gli artt. 7 e 8 del regolamento della Giunta della Regione Lazio 5 gennaio 2018, n. 1, recante «Disposizioni attuative per le attività integrate e complementari all’attività agricola ai sensi dell’articolo 57-bis della legge regionale 22 dicembre 1999, n. 38 e successive modifiche. Abrogazione del regolamento regionale 2 settembre 2015, n. 11 (Attuazione della ruralità multifunzionale ai sensi dell’articolo 57 della legge regionale 22 dicembre 1999, n. 38 e successive modifiche)», richiedono, ai fini autorizzatori, la presentazione di un PUA.

Ne deriverebbe che, allo stato dell’attuale normativa regionale, nessun impianto fotovoltaico può essere realizzato al di fuori di un’azienda agricola, mentre, all’interno delle aziende agricole, essi possono essere realizzati, ma solo attraverso la presentazione di un PUA.

3.– In prossimità della data fissata per l’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria nella quale replica ai rilievi della Regione e insiste nelle domande già rassegnate nel ricorso.

Considerato in diritto

1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 46 del 2020), questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, 6, comma 1, lettere b), c), d) ed e), 7, comma 7, lettera c), 9, commi 9, lettera d), numero 1), e 16, e 10, comma 11, della legge della Regione Lazio 27 febbraio 2020, n. 1 (Misure per lo sviluppo economico, l’attrattività degli investimenti e la semplificazione), per violazione degli artt. 9 e 117, secondo comma, lettere m) ed s), della Costituzione e delle norme interposte di cui agli artt. 20, 21, 135, 142, 143, 145, 146 e 149 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137).

2.– Preliminarmente deve essere sottolineato come il ricorrente lamenti – in termini sostanzialmente coincidenti in tutte le censure – la lesione delle competenze statali in materia di tutela del paesaggio (di qui l’asserita violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.) a causa del mancato richiamo dei vincoli paesaggistici previsti dalla normativa statale interposta e, in via mediata, dell’omesso riferimento al Piano territoriale paesistico (PTPR) della Regione Lazio. In relazione ad alcune delle norme impugnate è altresì lamentata la violazione dell’art. 9 Cost., in conseguenza dell’asserito vulnus al valore paesaggistico.

In considerazione della sostanziale coincidenza delle singole censure o almeno della gran parte di esse, prima del loro esame occorre svolgere qualche considerazione preliminare sul quadro normativo in cui si collocano le norme impugnate.

La Regione Lazio si era dotata di un proprio PTPR con deliberazione del Consiglio della Regione Lazio 2 agosto 2019, n. 5, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione 13 febbraio 2020, n. 13. Questo Piano, giunto all’esito di un iter lungo e travagliato, era stato definitivamente approvato dal Consiglio regionale, dopo essere stato adottato dalla Giunta regionale con la deliberazione 25 luglio 2007, n. 556, poi modificata, integrata e rettificata dalla deliberazione della Giunta 21 dicembre 2007, n. 1025.

Il suddetto PTPR era stato però elaborato senza il necessario coinvolgimento del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo (MiBACT), oggi Ministero della cultura (MIC), dopo la ridenominazione operata dal decreto-legge 1° marzo 2021, n. 22 (Disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni dei Ministeri), convertito, con modificazioni, nella legge 22 aprile 2021, n. 55. Di questo mancato coinvolgimento si era lamentato il Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso per conflitto di attribuzione (reg. confl. enti n. 2 del 2020). Questa Corte ha accolto, con la sentenza n. 240 del 2020, il ricorso de quo, annullando, per l’effetto, la deliberazione del Consiglio regionale n. 5 del 2019 e la nota della Direzione regionale per le politiche abitative e la pianificazione territoriale, paesistica e urbanistica della Regione Lazio del 20 febbraio 2020, prot. 0153503.

In particolare, nella pronunzia citata, questa Corte ha affermato «la necessità che la pianificazione paesaggistica regionale si esprima attraverso una generale condivisione dell’atto che la realizza, ciò che risulta tanto più evidente in una Regione, il Lazio, in cui, come ricordano entrambe le parti del presente giudizio, più del 70 per cento del territorio è sottoposto a vincoli paesaggistici». Al riguardo, si è ulteriormente ribadito che «[l]’unitarietà del valore della tutela paesaggistica comporta […] l’impossibilità di scindere il procedimento di pianificazione paesaggistica in subprocedimenti che vedano del tutto assente la componente statale». Nella specie, questa Corte – dopo aver sottolineato che il principio di leale collaborazione deve concretizzarsi in «un confronto costante, paritario e leale tra le parti, che deve caratterizzare ogni fase del procedimento e non seguire la sua conclusione» – ha concluso nel senso che «l’approvazione e poi la pubblicazione della deliberazione del Consiglio regionale n. 5 del 2019 hanno determinato una soluzione di continuità nell’iter collaborativo avviato tra Stato e Regione, hanno prodotto l’affermazione unilaterale della volontà di una parte e si sono tradotte in un comportamento non leale, nella misura in cui – a conclusione del (e nonostante il) percorso di collaborazione – la Regione ha approvato un piano non concordato, destinato a produrre i suoi effetti nelle more dell’approvazione di quello oggetto di accordo con il MiBACT».

Già subito dopo la deliberazione impugnata con il menzionato ricorso per conflitto, e, ancora di più, dopo la sentenza n. 240 del 2020 che lo ha deciso, sono riprese le trattative tra la Regione Lazio e il Ministero, che – come segnalato dalla difesa regionale nel corso della udienza di discussione dell’odierno giudizio di legittimità costituzionale – hanno consentito al Consiglio regionale di pervenire, nella seduta del 21 aprile 2021, all’approvazione di un nuovo PTPR.

Nel periodo intercorso tra la pubblicazione della sentenza di questa Corte n. 240 del 2020 e la pubblicazione della suddetta delibera consiliare hanno trovato applicazione le disposizioni di cui all’art. 21, comma 1, secondo periodo, della legge della Regione Lazio 6 luglio 1998, n. 24 (Pianificazione paesistica e tutela dei beni e delle aree sottoposti a vincolo paesistico), secondo cui, «[d]ecorso inutilmente tale termine [quello di approvazione del PTPR], operano esclusivamente le norme di tutela di cui al Capo II e, nelle aree sottoposte a vincolo paesistico con provvedimento dell’amministrazione competente, sono consentiti esclusivamente interventi di ordinaria e straordinaria manutenzione, risanamento, recupero statico ed igienico e restauro conservativo». La portata applicativa di queste disposizioni è stata peraltro oggetto di alcune precisazioni da parte dell’Ufficio legislativo del MiBACT, con nota del 2 dicembre 2020, e della Direzione regionale per le politiche abitative e la pianificazione territoriale, paesistica e urbanistica della Regione Lazio, con la direttiva 3 dicembre 2020, n. 1056599.

In questa più ampia cornice di riferimento – nella quale, anche prima dell’approvazione del nuovo PTPR, non mancavano i vincoli a tutela del paesaggio – devono essere inquadrate le odierne censure.

3.– La prima questione formulata dal ricorrente investe l’art. 5 della legge reg. Lazio n. 1 del 2020, rubricato «Semplificazioni procedimentali in materia di varianti urbanistiche. Modifiche alla legge regionale 2 luglio 1987, n. 36 “Norme in materia di attività urbanistico-edilizia e snellimento delle procedure” e alla legge regionale 18 luglio 2017, n. 7 “Disposizioni per la rigenerazione urbana e per il recupero edilizio” e successive modifiche». Questo articolo è impugnato per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 143 e 145 del d.lgs. n. 42 del 2004 (d’ora in avanti anche: cod. beni culturali), in quanto non conterrebbe alcun richiamo «né alle procedure di adeguamento e conformazione degli strumenti urbanistici al Piano paesaggistico, né alla partecipazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo al procedimento di conformazione e adeguamento, che la Regione deve obbligatoriamente assicurare ai sensi dell’art. 145, commi 4 e 5, del Codice dei beni culturali e del paesaggio».

3.1.– Preliminarmente deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità formulata dalla difesa regionale, la quale rileva come solo alcune disposizioni dell’art. 5 (lettere a, b ed f del comma 1) abbiano attinenza con le procedure di approvazione di strumenti urbanistici. Per converso, nei confronti delle restanti disposizioni dell’art. 5 non verrebbe in rilievo alcuna questione di rispetto della pianificazione paesaggistica e del ruolo del Ministero. Pertanto, il ricorrente avrebbe erroneamente impugnato l’intero art. 5, con la conseguenza dell’inammissibilità delle relative questioni.

L’eccezione è fondata.

Le questioni promosse nei confronti dell’art. 5 investono l’intero articolo, il quale presenta un contenuto alquanto ampio e complesso e consta di una molteplicità di disposizioni accomunate solo genericamente dall’obiettivo di realizzare una serie di semplificazioni procedimentali in materia di varianti urbanistiche. L’impossibilità di riferire a singole disposizioni la generica censura formulata nel ricorso e l’altrettanto evidente impossibilità di operare una sua resecazione, limitandola alle sole parti dell’art. 5 che riguardano direttamente gli strumenti urbanistici, ne determinano l’inammissibilità. Non risulta, infatti, soddisfatto il requisito minimo di «una motivazione adeguata e non meramente apodittica», richiesto da questa Corte nei giudizi in via principale (da ultimo, sentenze n. 82 e n. 78 del 2021; in senso analogo, sentenze n. 279 e n. 143 del 2020).

4.– Le restanti censure – prospettate in relazione agli artt. 6, comma 1, lettere b), c), d) ed e), 7, comma 7, lettera c), 9, commi 9, lettera d), numero 1), e 16, e 10, comma 11, della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 – pur nella diversità delle materie disciplinate, possono essere oggetto di una comune trattazione preliminare in ragione dell’identico percorso argomentativo sviluppato dal ricorrente. In riferimento alle norme anzidette, infatti, il Presidente del Consiglio dei ministri lamenta la violazione degli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., poiché il legislatore regionale non avrebbe espressamente richiamato l’operatività dei vincoli derivanti dalla normativa statale in materia di tutela del paesaggio e il conseguente rispetto del PTPR. Siffatta omissione sarebbe aggravata dalla «mancanza, nel territorio regionale, di un piano paesaggistico oggetto di pianificazione congiunta con il Ministero».

Questa Corte, ancora di recente, ha ribadito che «[i]l principio di prevalenza della tutela paesaggistica deve essere declinato nel senso che al legislatore regionale è impedito […] adottare normative che deroghino o contrastino con norme di tutela paesaggistica che pongono obblighi o divieti, ossia con previsioni di tutela in senso stretto» (sentenza n. 74 del 2021; nello stesso senso, anche sentenze n. 101, n. 54 e n. 29 del 2021).

Su tale presupposto, ripetutamente affermato (tra le tante, sentenze n. 240 del 2020, n. 86 del 2019, n. 178, n. 68 e n. 66 del 2018), questa Corte ha escluso l’illegittimità costituzionale di norme regionali che non deroghino ai principi della pianificazione paesaggistica (sentenze n. 74, n. 54 e n. 29 del 2021), valorizzando in via interpretativa il dato legislativo regionale (come è espressamente riconosciuto nelle sentenze n. 101 e n. 54 del 2021).

Su queste premesse si può procedere all’esame delle singole norme oggetto di censura.

5.– In relazione all’art. 6, comma 1, della legge reg. Lazio n. 1 del 2020, che reca la rubrica «Semplificazione istruttoria per l’approvazione degli strumenti urbanistici generali e dei piani attuativi. Modifiche alla legge regionale 22 dicembre 1999, n. 38 “Norme sul governo del territorio” e successive modifiche», il ricorrente e la resistente distinguono, in ragione del loro oggetto, le questioni concernenti la lettera b) da quelle relative alle lettere c), d) ed e). Non vi è motivo per discostarsi dall’impostazione seguita dalle parti.

5.1.– Con riguardo alla lettera b), il ricorrente sottolinea come, a seguito delle modifiche operate dalla norma impugnata, l’attività di «produzione delle energie rinnovabili» sia «espressamente inclusa tra le attività “multimprenditoriali”, generalmente consentite in zona agricola». In questo modo la Regione Lazio avrebbe ampliato in maniera significativa il novero delle attività ritenute «compatibili» con il territorio agricolo, al fine di agevolare il suo utilizzo «per la produzione di energia da fonti rinnovabili».

In particolare, la norma impugnata ometterebbe «l’imprescindibile espresso richiamo alla necessità di adeguarsi alle previsioni della pianificazione paesaggistica, previamente condivisa mediante intesa con lo Stato, oltre che del PER e delle altre leggi regionali». La mancanza di questo richiamo ne determinerebbe l’illegittimità costituzionale per violazione della sfera di competenza esclusiva riservata allo Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione alle norme interposte di cui agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali. Sarebbe inoltre pregiudicato «l’interesse costituzionale alla tutela del paesaggio», con conseguente violazione dell’art. 9 Cost., che costituisce valore primario e assoluto.

La difesa regionale sottolinea che la legge della Regione Lazio 22 dicembre 1999, n. 38 (Norme sul governo del territorio) disciplina le trasformazioni, dal punto di vista urbanistico ed edilizio, delle aree classificate come agricole, prevedendo che «in esse è possibile esclusivamente lo svolgimento dell’attività agricola, comprensiva delle attività multimprenditoriali con ess[a] integrate e complementari». La normativa non conterrebbe, dunque, «alcuna previsione di deroga» alle disposizioni di tutela del PTPR, il quale, per tutte le aree sottoposte a vincolo paesaggistico, costituisce la normativa prevalente, secondo un principio immanente nell’ordinamento.

D’altra parte, ricorda ancora la Regione, la diversificazione in forma di multimprenditorialità non rappresenta una diversa destinazione d’uso del territorio, non conforme agli strumenti di pianificazione adottati, ma «si configura, quale temporaneo cambio di funzioni del bene strumento delle attività multimprenditoriali (manufatti e/o terreni) per limitate e ben individuate finalità, comunque compatibili con la destinazione d’uso agricolo del territorio».

5.1.1.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, lettera b), della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 non è fondata, nei termini di seguito indicati.

Preliminarmente va precisato che l’art. 6, nel suo complesso, apporta modifiche alla legge reg. Lazio n. 38 del 1999, ascrivibile, in virtù sia del suo titolo, sia, soprattutto, del contenuto delle sue disposizioni, alla competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio.

Sempre in via preliminare, la censura statale deve essere circoscritta alla sola lettera f) del comma 2 dell’art. 54 della legge reg. Lazio n. 38 del 1999, nel testo sostituito dalla norma impugnata, cioè all’inclusione della «produzione delle energie rinnovabili» tra le attività multimprenditoriali che sono consentite nelle zone agricole. Come si è già detto, questa previsione è impugnata non in sé, ma solo per il mancato richiamo del rispetto del piano paesaggistico.

Alla luce della giurisprudenza citata sopra (al punto 4 del Considerato in diritto), questa Corte è chiamata a verificare se la disposizione impugnata si ponga in contrasto con il principio di prevalenza della pianificazione paesaggistica, o rechi a esso una deroga. Nel caso di specie, il legislatore regionale ha previsto che tra le attività multimprenditoriali – comprese tra le attività rurali aziendali, «consentite» nelle zone agricole «[n]el rispetto degli articoli 55, 57 e 57-bis e dei regolamenti ivi previsti» – rientra anche la «produzione delle energie rinnovabili».

Sulla base del suo chiaro dato letterale si deve escludere che la previsione – impugnata solo per il mancato richiamo dei vincoli paesaggistici – concretizzi un’ipotesi di deroga o di contrasto al principio di prevalenza della pianificazione paesaggistica, i cui vincoli permangono inalterati, con la conseguenza che lo svolgimento delle suddette attività multimprenditoriali nelle zone agricole resta pur sempre subordinato al rispetto della normativa in materia di autorizzazione paesaggistica e delle prescrizioni del PTPR o comunque dei vincoli operanti nelle more della sua definitiva entrata in vigore.

5.2.– Le disposizioni introdotte con le lettere c), d) ed e) del comma 1 dell’art. 6, relative all’edificazione in zona agricola e ai piani di utilizzazione aziendale (PUA) – modificative degli artt. 55, 57 e 57-bis della legge reg. Lazio n. 38 del 1999 – sono impugnate in quanto consentirebbero «di realizzare manufatti connessi alle attività agricole, ampliando sensibilmente le relative categorie mediante il riferimento “alle attività agricole tradizionali, connesse e compatibili” e prevedendo, tra i vari interventi possibili, perfino la realizzazione di piscine», «senza una definizione preventiva degli interventi compatibili con il contesto, che deve avvenire nell’ambito [del] piano paesaggistico previamente elaborato d’intesa con lo Stato».

Il Presidente del Consiglio dei ministri riferisce quindi anche alle norme qui in esame le considerazioni già svolte per la lettera b) e in particolare ribadisce che, nel quadro della pianificazione concordata, delineata dal codice dei beni culturali e del paesaggio, il legislatore statale assegna al piano paesaggistico una posizione di assoluta preminenza nel contesto della pianificazione territoriale. Più precisamente, poiché gli artt. 143, comma 9, e 145, comma 3, del d.lgs. n. 42 del 2004 sanciscono «l’inderogabilità delle previsioni del predetto strumento da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico e la loro cogenza rispetto agli strumenti urbanistici, nonché […] l’immediata prevalenza del piano paesaggistico su ogni altro atto della pianificazione territoriale e urbanistica», le norme regionali impugnate si porrebbero «in conflitto con la normativa statale, laddove consentono trasformazioni del territorio agricolo, anche paesaggisticamente vincolato, in contrasto con la vocazione naturale del territorio e a discapito della sua conservazione e integrità, senza richiamare espressamente la disciplina dettata al riguardo dal piano paesaggistico».

Un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale sarebbe rinvenibile nel caso in cui gli interventi resi possibili dalle disposizioni impugnate riguardino manufatti di interesse culturale, tutelati ai sensi della Parte II del codice dei beni culturali e del paesaggio. L’art. 20 del d.lgs. n. 42 del 2004 vieta, infatti, che i beni culturali siano «distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione».

La Regione non potrebbe pertanto dettare una disciplina volta a individuare le modificazioni e gli interventi consentiti sugli immobili sottoposti a tutela ai sensi della Parte II del codice dei beni culturali e del paesaggio.

La resistente contesta l’affermazione del ricorrente secondo cui la novella consentirebbe di realizzare manufatti connessi alle attività agricole, ivi comprese le piscine, di fatto ampliando la categoria delle attività agricole tradizionali connesse e compatibili, senza prescriverne la specifica compatibilità con la disciplina di tutela paesaggistica. A tale proposito, la Regione rileva, innanzitutto, che la materia delle trasformazioni in zona agricola rientra nella competenza regionale e che la norma censurata non fa alcun riferimento, tra i manufatti che sarebbe consentito realizzare, alla tipologia delle “piscine”. Afferma poi che la realizzazione di interventi di questo tipo, laddove non siano in contrasto con le superiori esigenze di tutela paesaggistico-ambientale, appare «compatibile con l’esercizio di pratiche consentite nell’ambito della multimprenditorialità e multifunzionalità aziendale».

La Regione contesta, altresì, l’ulteriore rilievo mosso dal ricorrente secondo cui la norma in esame renderebbe possibili tali interventi anche su manufatti di interesse culturale, tutelati ai sensi dell’art. 20 cod. beni culturali, con conseguente violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

5.2.1.– Nemmeno la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, lettere c), d) ed e), della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 è fondata nei termini di seguito precisati.

Valgono anche per questa censura le considerazioni già svolte in relazione alla lettera b), dello stesso comma dell’art. 6, sia quanto all’ambito materiale nel quale la disposizione ricade («governo del territorio»), sia quanto ai termini delle questioni promosse, trattandosi di un’impugnativa fondata sull’assunta violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), e dell’art. 9 Cost. A ciò si aggiunga che tutte le norme del comma 1 dell’art. 6 impugnate con il presente ricorso (lettere b, c, d ed e) modificano disposizioni (artt. 54, 55, 57 e 57-bis) contenute nel medesimo Capo II («Edificazione in zona agricola») del Titolo IV («Tutela e disciplina dell’uso agro-forestale del suolo») della legge reg. Lazio n. 38 del 1999.

In particolare, gli artt. 55, 57 e 57-bis di quest’ultima legge regionale disciplinano rispettivamente: a) i limiti all’edificazione in zona agricola; b) il contenuto e le modalità di elaborazione e di presentazione dei piani di utilizzazione aziendale (PUA), finalizzati all’attuazione dei programmi di miglioramento aziendale delle aziende agricole; c) la possibilità di svolgere le attività multimprenditoriali di cui all’art. 2 della legge della Regione Lazio 2 novembre 2006, n. 14 (Norme in materia di diversificazione delle attività agricole), all’interno dell’azienda agricola, previa approvazione di un PUA.

Le modifiche introdotte dalle norme impugnate consistono: a) per l’art. 55, nella introduzione dei commi 5-bis, 5-ter e 5-quater, che definiscono i concetti di «superficie aziendale asservita», «fabbricati aziendali» e «annessi agricoli» (a loro volta, distinti in tamponati, stamponati, produttivi e misti), in alcune modifiche dei commi 6, 7 e 9, e nell’introduzione del comma 13-bis; b) per l’art. 57, nella modifica dei commi 1, 2, 3, 6, 7, 8 e 10; c) per l’art. 57-bis, nella modifica dei commi 1, 2, 3, 4, 5, 8, 12 e 13, e nell’abrogazione del comma 9.

Le innovazioni sono sicuramente accomunate dalla finalità di ampliare le potenzialità edificatorie delle zone agricole, rispetto alle quali il ricorrente lamenta il mancato richiamo dei vincoli paesaggistici e in particolare di quelli discendenti dal PTPR.

Per tale motivo si può ritenere che valgano anche in questo caso le considerazioni svolte in relazione alla censura promossa nei confronti della lettera b) del comma 1 dell’art. 6, nel senso che questa Corte è chiamata a verificare se le disposizioni impugnate – accomunate da un’unica ragione di censura – si pongano in contrasto o rechino una deroga al principio di prevalenza della pianificazione paesaggistica. Nel caso di specie, dal dato letterale delle disposizioni impugnate ciò non è desumibile. Si deve pertanto ritenere che tutti gli interventi edificatori consentiti dalle norme regionali impugnate siano subordinati al rispetto della normativa in materia di autorizzazione paesaggistica e delle prescrizioni del PTPR o comunque dei vincoli operanti nelle more della sua definitiva entrata in vigore.

6.– L’art. 7, comma 7, lettera c), della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 – rubricato «Riordino dei procedimenti amministrativi concernenti concessioni su beni demaniali e non demaniali regionali» – è impugnato per violazione degli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 135, 142, 143 e 145 del d.lgs. n. 42 del 2004.

Con la norma contestata il legislatore regionale ha modificato il comma 1 dell’art. 10 della legge della Regione Lazio 11 dicembre 1998, n. 53 (Organizzazione regionale della difesa del suolo in applicazione della legge 18 maggio 1989, n. 183), inserendo, dopo il numero 2-ter) della lettera a), il numero 2-quater). In base a esso, in materia di difesa del suolo sono attribuite ai comuni le funzioni amministrative concernenti «il rilascio delle concessioni dei beni del demanio marittimo e di zone del mare territoriale per finalità diverse da quelle di approvvigionamento di fonti di energia, ivi compresi i porti turistici, gli approdi turistici ed i punti di ormeggio, fatte salve le concessioni riservate allo Stato ai sensi della normativa vigente, nonché le funzioni e i compiti amministrativi delegati ai comuni relativi alle aree del demanio marittimo per finalità turistico e ricreative, il rilascio delle concessioni di cui al presente comma avviene nel rispetto di quanto stabilito dal PUA (Piano di utilizzazione degli arenili) regionale e dai rispettivi PUA comunali. Il comune può determinare oneri istruttori per i procedimenti relativi all’esercizio delle funzioni ad esso attribuite» (art. 7, comma 7, lettera c, numero 1, della legge reg. Lazio n. 1 del 2020).

La norma impugnata ha inoltre inserito – dopo la lettera a) del medesimo comma 1 dell’art. 10 della legge reg. Lazio n. 53 del 1998 – la lettera a-bis) del seguente tenore: «le funzioni amministrative concernenti la gestione delle infrastrutture insistenti sulle aree portuali lacuali» (art. 7, comma 7, lettera c, numero 2, della legge reg. Lazio n. 1 del 2020).

Il ricorrente si duole del fatto che la norma in esame, nell’attribuire ai comuni le funzioni relative al «rilascio della concessione dei beni del demanio marittimo per i porti turistici, gli approdi turistici e punti di ormeggio», non avrebbe fatto alcun riferimento «alla necessità di verificare la coerenza dei [PUA] con la disciplina di tutela delle fasce costiere marittime, e quindi degli arenili, contenuta nel piano paesaggistico». In altre parole, il legislatore regionale avrebbe indicato come «preciso parametro di riferimento per il rilascio dei titoli da parte dei comuni» i PUA regionale e comunale, ma non avrebbe stabilito che, ai sensi dell’art. 145, comma 5, cod. beni culturali, «tali strumenti poss[o]no costituire un punto di riferimento soltanto se e in quanto conformi a un piano paesaggistico approvato previa intesa con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, ai sensi degli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio».

Pertanto, la norma impugnata sarebbe costituzionalmente illegittima «in quanto rende[rebbe] possibile il rilascio delle concessioni, sulla base dei PUA, al di fuori del quadro della pianificazione paesaggistica definita previa intesa con il competente Ministero». In particolare, essa «“sfugg[irebbe]” al piano paesaggistico sottraendo alla “sede” stabilita per legge la pianificazione delle aree costiere, sottoposte a tutela paesaggistica ope legis, ai sensi dell’art. 142, comma 1, lettera a), del Codice, proprio per la loro fragilità, in considerazione dell’uso massiccio delle coste per finalità turistiche, economiche, commerciali, ecc.».

La difesa regionale ribadisce, anche in relazione a questa censura, che la generale prevalenza della pianificazione paesaggistica costituisce «principio “immanente” all’ordinamento», tale per cui «il mancato richiamo» a questi strumenti «non vale a negare la valenza di tale principio». Precisa, altresì, che la norma utilizza la locuzione «nel rispetto», e non – come sostenuto dal ricorrente – «sulla base», ciò che confermerebbe il carattere non esclusivo del vincolo ivi previsto.

6.1.– Preliminarmente si deve delimitare il thema decidendum. Il ricorrente impugna, infatti, l’intera lettera c) del comma 7 dell’art. 7 della legge reg. Lazio n. 1 del 2020, la quale lettera – come già visto – si compone di due numeri (1 e 2). Con il numero 1) si introduce il numero 2-quater) nell’art. 10, comma 1, lettera a), della legge reg. Lazio n. 53 del 1998; con il numero 2) si introduce la lettera a-bis) nell’art. 10, comma 1, della medesima legge reg. Lazio n. 53 del 1998.

La censura statale non fa alcun riferimento alle funzioni amministrative concernenti la gestione delle infrastrutture insistenti sulle aree portuali lacuali di cui al citato numero 2). Pertanto, l’impugnativa proposta deve ritenersi limitata alla sola previsione di cui all’art. 7, comma 7, lettera c), numero 1), della legge reg. Lazio n. 1 del 2020.

Sempre in via preliminare, si deve rilevare che l’art. 15, comma 3, della legge della Regione Lazio 23 novembre 2020, n. 16 (Disposizioni modificative di leggi regionali) ha modificato la disposizione oggetto di impugnazione, sostituendo l’inciso da «di cui» a «PUA comunali» con il seguente: «per finalità turistico-ricreative avviene nel rispetto di quanto stabilito dal PUA regionale e dai PUA comunali; il rilascio delle concessioni di zone di mare territoriale per l’esercizio dell’attività di acquacoltura avviene in coerenza con la mappatura delle zone idonee e delle zone precluse all’esercizio di detta attività, così come individuate dall’apposita Carta regionale elaborata dalla Regione».

Tale modifica non incide però sui termini delle odierne questioni di legittimità costituzionale, che pertanto devono essere esaminate nel merito.

6.2.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 7, lettera c), numero 1), della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 non è fondata, nei termini di seguito precisati.

Come anticipato, la disposizione impugnata ha aggiunto il numero 2-quater) nella lettera a) del comma 1 dell’art. 10 della legge reg. Lazio n. 53 del 1998. L’art. 10, rubricato «Funzioni dei Comuni», dispone l’attribuzione ai comuni di una serie di funzioni amministrative in materia di difesa del suolo, a seguito del loro trasferimento dallo Stato alle regioni operato con gli artt. 51 e seguenti e 86 e seguenti del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59).

La norma de qua – la quale prevede il rilascio, da parte dei comuni, di concessioni demaniali per porti, approdi e punti di ormeggio «nel rispetto» di quanto stabilito dal PUA (piano di utilizzazione degli arenili) regionale e dai rispettivi PUA comunali – è impugnata perché non conterrebbe anche la previsione del rispetto delle norme del piano paesaggistico (con particolare riferimento alla «disciplina di tutela delle fasce costiere marittime»).

Non è dunque in contestazione l’attribuzione ai comuni delle citate funzioni amministrative, bensì, ancora una volta, il mancato richiamo del rispetto delle prescrizioni paesaggistiche relative alle fasce costiere marittime.

Per le ragioni esposte in relazione alle precedenti censure e sulla scorta della giurisprudenza richiamata supra al punto 4, questa Corte è chiamata a verificare se la disposizione impugnata si ponga in contrasto o rechi una deroga al principio di prevalenza della pianificazione paesaggistica. Nel caso di specie, nulla di tutto questo è rinvenibile nella previsione di cui al numero 2-quater), introdotto dalla disposizione impugnata. Deve quindi ritenersi che i comuni, nel provvedere al «rilascio delle concessioni dei beni del demanio marittimo e di zone del mare territoriale per finalità diverse da quelle di approvvigionamento di fonti di energia, ivi compresi i porti turistici, gli approdi turistici ed i punti di ormeggio», non possano prescindere dai vincoli paesaggistici cui soggiacciono le fasce costiere marittime.

7.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha, inoltre, impugnato i commi 9, lettera d), numero 1), e 16 dell’art. 9 della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 – rubricato «Disposizioni di semplificazione in materia ambientale» – per violazione degli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 135, 142, 143, 145, 146 e 149 cod. beni culturali.

7.1.– Con la lettera d), numero 1), del comma 9 del citato art. 9 il legislatore regionale ha sostituito, nel comma 2 dell’art. 34-bis della legge della Regione Lazio 28 ottobre 2002, n. 39 (Norme in materia di gestione delle risorse forestali), le parole «degli 800 m s.l.m.» con le seguenti: «dei 300 m s.l.m.». In questo modo è stata modificata la definizione di «faggeta depressa» contenuta nel medesimo comma 2 dell’art. 34-bis, abbassando da 800 a 300 metri sul livello del mare la quota al di sotto della quale gli ecosistemi forestali governati a fustaia a prevalenza di faggio sono definiti tali.

Il ricorrente rileva che la modifica legislativa impugnata incide sull’ambito applicativo della disposizione contenuta al comma 3, ultimo periodo, dello stesso art. 34-bis della legge reg. Lazio n. 39 del 2002, ove si stabilisce che «[p]er le faggete depresse di cui al comma 2 sono vietate le utilizzazioni per finalità produttive fatto salvo i tagli necessari per la conservazione della faggeta o per motivi di pubblica incolumità».

Dopo aver sottolineato che «i territori coperti da foreste e da boschi» sono sottoposti a tutela paesaggistica ai sensi dell’art. 142, comma 1, lettera g), del d.lgs. n. 42 del 2004, la difesa statale sostiene che «[l]’effetto della norma regionale censurata è […] quello di prevedere in modo indiscriminato, per tutto il territorio regionale, e al di fuori della pianificazione paesaggistica, una norma applicabile in modo uniforme alle aree boscate a faggeta, diminuendo […] il livello della relativa tutela». Ne deriverebbe la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. e delle norme interposte di cui agli artt. 135, 142, 143 e 145 cod. beni culturali, nonché la lesione del principio fondamentale della tutela del paesaggio, di cui all’art. 9 Cost.

Per parte sua la resistente osserva che la novella riguarderebbe «esclusivamente la nozione forestale di “faggeta depressa” e non quella paesaggistica» delle aree boscate, con la conseguenza che la modifica non avrebbe alcun effetto sulla tutela paesaggistica, che quindi resterebbe inalterata e comunque sempre prevalente. Pertanto la censura non sarebbe fondata.

7.1.1.– Come detto, la norma impugnata ha sostituito le parole «degli 800 m s.l.m.» con le parole «dei 300 m s.l.m.» nel comma 2, ultimo periodo, dell’art. 34-bis della legge reg. Lazio n. 39 del 2002, che nel testo oggi vigente recita: «1. Ai fini della conservazione della biodiversità e del patrimonio naturale regionale, la Regione tutela le formazioni forestali definite […] faggete depresse. 2. […] Si definiscono faggete depresse gli ecosistemi forestali governati a fustaia a prevalenza di faggio (Fagus sylvatica L.) che ricadono sotto la quota dei 300 m s.l.m. 3. […] Per le faggete depresse di cui al comma 2 sono vietate le utilizzazioni per finalità produttive fatto salvo i tagli necessari per la conservazione della faggeta o per motivi di pubblica incolumità. 4. I piani di assestamento forestale tengono conto di quanto previsto al comma 3. I progetti attuativi di taglio che riguardano le formazioni forestali di cui al comma 2 devono essere sottoposti al parere preventivo degli uffici regionali competenti in materia forestale. […]».

L’art. 34-bis è stato aggiunto, nel corpo della legge reg. Lazio n. 39 del 2002, dall’art. 17, comma 30, della legge della Regione Lazio 14 agosto 2017, n. 9 (Misure integrative, correttive e di coordinamento in materia di finanza pubblica regionale. Disposizioni varie). Il suo comma 1 impegna la Regione Lazio a tutelare sia le foreste vetuste sia le faggete depresse, queste ultime in rilievo nel presente giudizio. La loro definizione, come visto, è contenuta nel secondo periodo del comma 2 del medesimo articolo, dove si precisa che «[s]i definiscono faggete depresse gli ecosistemi forestali governati a fustaia a prevalenza di faggio (Fagus sylvatica L.) che ricadono sotto la quota dei 300 m s.l.m.» e ai quali è riservata la speciale protezione prevista dalla stessa legge.

L’intervento legislativo censurato, che riduce da 800 a 300 metri sul livello del mare la quota al di sotto della quale «gli ecosistemi forestali governati a fustaia a prevalenza di faggio» sono considerati «faggete depresse», esclude dunque dalla specifica tutela prevista nella legge stessa per le faggete depresse gli ecosistemi di quel tipo che si trovano fra gli 800 e i 300 metri sul livello del mare, per i quali invece prima valeva – così come per gli altri posti a quota inferiore ai 300 metri – il divieto di utilizzazione per finalità produttive, salvi i tagli necessari per la conservazione della faggeta o per motivi di pubblica incolumità.

Al di là – e prima ancora – della definizione legislativa operata dalla Regione al fine di delimitare l’ambito di applicazione della sua norma, la faggeta depressa corrisponde, nei fatti, a un fenomeno naturale ben conosciuto in botanica e in geografia. Si tratta invero di un tipo di faggeta, presente in alcune regioni italiane, fra cui il Lazio, che si caratterizza per la sua capacità di sopravvivere – all’interno delle cosiddette nicchie ecologiche, che assicurano un livello adeguato di umidità atmosferica anche nel periodo estivo – a quote altimetriche più basse rispetto a quelle nelle quali normalmente boschi a fustaia a prevalenza di faggio vegetano, sia sulle Alpi che sugli Appennini; da cui l’aggettivo “depressa”. La sua sopravvivenza a basse quote costituisce il frutto di un eccezionale adattamento, dopo l’ultima glaciazione, al microclima dei luoghi in cui originariamente sorgeva. Più precisamente, per quanto riguarda la sua presenza sugli Appennini, ove la fascia di normale insediamento delle faggete si colloca fra i 1000 e i 1700 metri sul livello del mare, si considera depressa la faggeta presente a quote significativamente inferiori.

Così stando le cose, si può osservare che la protezione accordata in precedenza dalla legge regionale alle faggete poste sotto gli 800 metri sul livello del mare si fondava su una corretta rappresentazione del fenomeno naturale preso in considerazione.

Secondo il ricorrente, la lesione lamentata deriverebbe dal combinato disposto del nuovo secondo periodo del comma 2, che ridefinisce nei termini detti la nozione di faggeta depressa, e dell’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 34-bis della legge reg. n. 39 del 2002, in quanto l’abbassamento della soglia al di sotto della quale operano i divieti di utilizzazione delle faggete depresse per finalità produttive ridurrebbe la protezione di un bene paesaggisticamente tutelato, determinando in questo modo un vulnus al paesaggio.

La difesa statale individua le norme interposte violate negli artt. 135, 142, 143 e 145 del d.lgs. n. 42 del 2004, motivando però solo in relazione all’art. 142, comma 1, lettera g), secondo cui «i territori coperti da foreste e da boschi» sono comunque di interesse paesaggistico e sottoposti alla relativa tutela.

7.1.2.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 9, lettera d), numero 1), della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 è fondata.

La norma impugnata non si è limitata a modificare una precedente legge regionale che aveva introdotto un vincolo in assenza di precisi e corrispondenti limiti derivanti dalla disciplina statale, ma, abbassando la quota altimetrica al di sotto della quale operano le norme di tutela delle faggete depresse, ha surrettiziamente aggirato il vincolo posto dalla norma interposta costituita dall’art. 142, comma 1, lettera g), del d.lgs. n. 42 del 2004.

Quest’ultima disposizione stabilisce che «[s]ono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni [del Titolo I “Tutela e valorizzazione” della Parte terza “Beni paesaggistici” del d.lgs. n. 42 del 2004]: […] g) i territori coperti da foreste e da boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento, come definiti dall’articolo 2, commi 2 e 6, del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 227».

Il decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 227 (Orientamento e modernizzazione del settore forestale, a norma dell’articolo 7 della legge 5 marzo 2001, n. 57), cui rinvia il citato art. 142, comma 1, lettera g), del d.lgs. n. 42 del 2004, è stato abrogato dall’art. 18, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2018, n. 34 (Testo unico in materia di foreste e filiere forestali), e la definizione di bosco, originariamente contenuta nell’art. 2 del d.lgs. n. 227 del 2001, è confluita nell’art. 3 del d.lgs. n. 34 del 2018.

Il citato art. 3, dopo aver stabilito che «[i] termini bosco, foresta e selva sono equiparati» (comma 1), distingue a seconda che la definizione di bosco riguardi ambiti rientranti nelle materie di competenza esclusiva dello Stato (comma 3) o in quelle di competenza delle Regioni (comma 4). In relazione alle prime, il comma 3 dell’art. 3 definisce bosco «le superfici coperte da vegetazione forestale arborea, associata o meno a quella arbustiva, di origine naturale o artificiale in qualsiasi stadio di sviluppo ed evoluzione, con estensione non inferiore ai 2.000 metri quadri, larghezza media non inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale maggiore del 20 per cento». Mentre, in relazione alle seconde (nel comma 4), prevede che le regioni, «per quanto di loro competenza e in relazione alle proprie esigenze e caratteristiche territoriali, ecologiche e socio-economiche, possono adottare una definizione integrativa di bosco rispetto a quella dettata al comma 3, nonché definizioni integrative di aree assimilate a bosco e di aree escluse dalla definizione di bosco di cui, rispettivamente, agli articoli 4 e 5, purché non venga diminuito il livello di tutela e conservazione così assicurato alle foreste come presidio fondamentale della qualità della vita».

Le regioni possono dunque intervenire sia sulla definizione di bosco sia su quelle di aree assimilate e di aree escluse, fermo restando che non possono in nessun caso ridurre il livello di tutela e conservazione assicurato dalla normativa statale sopra richiamata.

è nel contesto normativo appena ricostruito che va inquadrata l’odierna questione di legittimità costituzionale.

Se è vero che nella legislazione statale non esiste una definizione di «faggeta depressa», né è fissata una quota altimetrica al di sotto della quale le faggete possono definirsi tali, non si può non rilevare che la scelta del legislatore regionale di proteggere tale ambito boschivo vale ad attrarre il bosco stesso – nei termini in cui la Regione ha ritenuto di tutelarlo – nella categoria dei boschi e delle foreste protetti dal citato art. 142, comma 1, lettera g), del d.lgs. n. 42 del 2004.

Ora, la norma regionale impugnata, che tiene ferma la scelta di proteggere le faggete depresse – e quindi la loro attrazione nell’ambito della sfera di protezione dei boschi ai sensi della legislazione statale – ma ne modifica, come visto irragionevolmente, la definizione, produce l’effetto di escludere dalla specifica tutela assicurata dall’art. 34-bis della legge reg. Lazio n. 39 del 2002 la gran parte delle faggete depresse (situate per lo più sopra i 300 metri sul livello del mare) e di rendere possibili «le utilizzazioni per finalità produttive» per le faggete poste al di sopra dei 300 metri sul livello del mare, ossia in buona sostanza per la parte più grande delle faggete depresse.

In tal modo il legislatore regionale ha di fatto svuotato il contenuto di tutela che aveva in precedenza scelto di adottare per la faggeta depressa, attraverso un intervento sulla definizione di tale particolare fenomeno naturale, che è frutto, più ancora che di una forzatura, di una vera e propria falsa rappresentazione della realtà.

Da questo punto di vista, coglie nel segno la censura statale che imputa il vulnus al valore paesaggistico al combinato disposto del nuovo secondo periodo del comma 2 e dell’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 34-bis della legge reg. n. 39 del 2002. Come detto, infatti, la norma impugnata – vista in relazione alla previsione che consente le utilizzazioni, per finalità produttive, delle faggete depresse sopra i 300 metri sul livello del mare – si pone in contrasto con la previsione dell’art. 142, comma 1, lettera g), cod. beni culturali.

I canoni di giudizio individuati nelle decisioni indicate supra al punto 4 e richiamati in relazione alle altre questioni promosse con il ricorso qui in esame non consentono, nel caso di specie, l’interpretazione conforme a Costituzione, possibile invece con riferimento alle altre norme impugnate.

Si deve, pertanto, concludere per la fondatezza della questione promossa nei confronti dell’art. 9, comma 9, lettera d), numero 1), della legge reg. Lazio n. 1 del 2020.

7.2.– Oggetto di impugnazione è anche il comma 16 dell’art. 9 della legge reg. Lazio n. 1 del 2020, il quale stabilisce che, «[a]l fine di semplificare le procedure di approvazione della pianificazione forestale aziendale, i procedimenti di approvazione dei piani predisposti ai sensi degli articoli 13 e 14 della legge regionale 28 ottobre 2002, n. 39 (Norme in materia di gestione delle risorse forestali), che contemplano interventi a carico dei beni ai sensi degli articoli 136 e 142 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) e successive modifiche, sono soggetti all’acquisizione dell’autorizzazione di cui all’articolo 146 del d.lgs. 42/2004. Tale preventiva autorizzazione paesaggistica si intende acquisita per tutti gli interventi previsti nei piani stessi e resi esecutivi. Resta salvo quanto previsto dall’articolo 149, comma 1, lettere b) e c), del d.lgs. 42/2004 in merito agli interventi esonerati dall’obbligo di acquisire l’autorizzazione paesaggistica».

Secondo il ricorrente questa disposizione «anticip[erebbe] l’autorizzazione paesaggistica ai piani di gestione e assestamento forestale, e al piano poliennale di taglio di cui agli articoli 13 e 14 della legge regionale n. 39 del 2002, ove siano previsti interventi su beni tutelati, esonerando poi dal rilascio dell’autorizzazione i singoli interventi». Di qui la violazione degli artt. 146 e 149 del d.lgs. n. 42 del 2004, in base ai quali tutti gli interventi sui beni tutelati devono essere previamente autorizzati (art. 146), salvo che non ricadano nelle ipotesi di espressa esclusione stabilite dal legislatore statale (art. 149).

Anche nel caso di specie sarebbe quindi violata la competenza legislativa esclusiva dello Stato di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. e alle relative norme interposte di cui ai citati artt. 146 e 149 cod. beni culturali; sarebbe inoltre inciso il livello della tutela del paesaggio, stabilito in via uniforme su tutto il territorio nazionale, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. Infine, l’abbassamento della tutela determinerebbe la violazione dell’art. 9 Cost.

La Regione si limita ad osservare che, «anche in questo caso, si parte dall’erroneo presupposto della non centralità della normativa paesaggistica e del PTPR».

7.2.1.– La questione di legittimità costituzionale del comma 16 dell’art. 9 della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 è fondata.

è persuasiva sul punto la ricostruzione operata dal ricorrente, il quale correttamente individua l’effetto della disposizione impugnata, per un verso, nell’anticipazione dell’autorizzazione paesaggistica ai piani di gestione e assestamento forestale e al piano poliennale di taglio di cui agli artt. 13 e 14 della legge reg. Lazio n. 39 del 2002, ove siano previsti interventi su beni tutelati, e, per altro verso, nell’esonero dal rilascio dell’autorizzazione per i singoli interventi posti a valle.

Quella anzidetta non è però una mera anticipazione temporale dell’autorizzazione paesaggistica, ma determina un autentico stravolgimento della ratio del d.lgs. n. 42 del 2004 e in particolare dell’art. 146, che è la norma centrale in materia di controllo e gestione dei beni soggetti a tutela paesaggistica.

L’art. 146 prevede, infatti, che «[i] proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge, a termini dell’articolo 142, o in base alla legge, a termini degli articoli 136, 143, comma 1, lettera d), e 157 […] hanno l’obbligo di presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli interventi che intendano intraprendere, corredato della prescritta documentazione, ed astenersi dall’avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l’autorizzazione» (commi 1 e 2). Inoltre, «[l]a documentazione a corredo del progetto è preordinata alla verifica della compatibilità fra interesse paesaggistico tutelato ed intervento progettato» (comma 3). «L’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio» (comma 4). Ed ancora, «[l]’amministrazione competente al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, ricevuta l’istanza dell’interessato, verifica se ricorrono i presupposti per l’applicazione dell’articolo 149, comma 1, alla stregua dei criteri fissati ai sensi degli articoli 140, comma 2, 141, comma 1, 141-bis e 143, comma 1, lettere b), c) e d)» (comma 7). Infine, «[i]l soprintendente rende il parere di cui al comma 5, limitatamente alla compatibilità paesaggistica del progettato intervento nel suo complesso ed alla conformità dello stesso alle disposizioni contenute nel piano paesaggistico ovvero alla specifica disciplina di cui all’articolo 140, comma 2, entro il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti. Il soprintendente, in caso di parere negativo, comunica agli interessati il preavviso di provvedimento negativo ai sensi dell’articolo 10-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241. Entro venti giorni dalla ricezione del parere, l’amministrazione provvede in conformità» (comma 8).

La disamina delle disposizioni contenute nell’art. 146 cod. beni culturali consente di dedurre che il sistema elaborato dal legislatore statale si basa sulla centralità dell’esame, singulatim svolto, dei progetti relativi a interventi su immobili e aree di interesse paesaggistico. Si coglie così il senso della tutela assicurata dal codice dei beni culturali e del paesaggio, fondata su una prospettiva unitaria in cui le specificità dei singoli progetti non sfumano in una indeterminata visione d’insieme ma danno concretezza a un quadro che non può non essere unico.

Per le anzidette ragioni e in considerazione della giurisprudenza di questa Corte indicata supra al punto 4, si deve concludere nel senso che la norma impugnata, prevedendo l’esonero dalle autorizzazioni sui singoli interventi, reca una deroga alle previsioni dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, con conseguente violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

Di qui la fondatezza delle relative questioni e il conseguente assorbimento delle altre censure.

8.– L’art. 10, comma 11, della legge reg. Lazio n. 1 del 2020 – rubricato «Disposizioni in materia di fonti energetiche rinnovabili» – è impugnato per violazione degli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali. La norma impugnata ha aggiunto, dopo l’art. 3 della legge della Regione Lazio 16 dicembre 2011, n. 16 (Norme in materia ambientale e di fonti rinnovabili), l’art. 3.1, rubricato «Localizzazione di impianti fotovoltaici in zona agricola».

Quest’ultima disposizione «omette[rebbe] il necessario richiamo al piano paesaggistico e alla sua disciplina programmatoria e pianificatoria, benché soltanto quest’ultimo piano possa orientare l’individuazione delle aree, sia in negativo quali aree escluse, sia in positivo quali aree idonee all’installazione delle diverse tipologie di impianti destinati alla produzione di energia da fonti rinnovabili e i limiti del relativo dimensionamento».

Il ricorrente individua inoltre una contraddizione tra quanto affermato nel comma 3 del citato art. 3.1 – secondo cui, nelle more dell’entrata in vigore del PER, le aree idonee all’installazione degli impianti sono identificate dai comuni nel rispetto di una serie di criteri e non possono includere comunque oltre il 3 per cento delle aree classificate come agricole (zone E) dagli strumenti urbanistici – e il successivo comma 5 – il quale stabilisce che, «[n]elle more delle previsioni di cui al comma 1, resta sempre consentita la produzione di energia da fonti rinnovabili con le modalità previste dalla legge regionale 2 novembre 2006, n. 14 (Norme in materia di diversificazione delle attività agricole) e successive modifiche per la quale non trovano applicazione le limitazioni di cui al comma 3».

Al riguardo, la difesa statale ritiene che la necessità di «un espresso richiamo al piano paesaggistico» non possa essere esclusa da quanto previsto dall’art. 54, comma 3, della legge reg. Lazio n. 38 del 1999. Quest’ultima disposizione prevede, infatti, l’approvazione di un piano di utilizzazione ambientale (PUA), ai sensi dell’art. 57-bis, per poter esercitare le sole attività di cui al comma 2, lettera b), del medesimo art. 54 (cioè «trasformazione e vendita diretta dei prodotti derivanti dall’esercizio delle attività agricole tradizionali») e non anche per le attività di «produzione delle energie rinnovabili» (art. 54, comma 2, lettera f) localizzate all’interno dell’azienda agricola.

Pertanto, il combinato disposto del nuovo testo del comma 2 dell’art. 54 della legge reg. Lazio n. 38 del 1999 (sostituito dall’art. 6, comma 1, lettera b, della legge reg. n. 1 del 2020, oggetto di impugnazione per le ragioni illustrate in precedenza) e dell’art. 3.1, comma 5, della legge reg. Lazio n. 16 del 2011 (introdotto dall’impugnato art. 10, comma 11, della legge reg. n. 1 del 2020) comporterebbe «la possibilità di realizzare impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili in aree agricole, al di fuori non solo del piano energetico regionale, ma soprattutto del quadro programmatorio condiviso con il Ministero a monte, nell’ambito del piano paesaggistico, che costituisce la sede propria nell’ambito della quale deve essere valutata la compatibilità paesaggistica del complesso degli interventi». In merito, il ricorrente ribadisce la necessità di assicurare una visione d’insieme degli impianti realizzati e da realizzare.

Per le ragioni anzidette la norma impugnata violerebbe la competenza legislativa esclusiva dello Stato di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 135, 143 e 145 del d.lgs. n. 42 del 2004. Sarebbe inoltre leso il principio fondamentale della tutela del paesaggio, di cui all’art. 9 Cost., in quanto il quadro della regolamentazione che deriva dall’entrata in vigore della legge regionale impugnata determinerebbe un evidente abbassamento del livello della tutela del bene paesaggistico, a causa dell’indiscriminata localizzazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili nelle aree agricole.

La resistente sottolinea l’assoluta prevalenza del piano paesaggistico, cui conseguirebbe che il mancato richiamo alla tutela paesaggistica del PTPR «non comporta incostituzionalità della norma» e, dunque, alcun «contrasto con gli articoli 9 e 117, secondo comma, lett. s), Cost., in riferimento agli artt. 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali (norme interposte)». L’omesso riferimento al PTPR – aggiunge la Regione – deriverebbe dalla circostanza che la materia coinvolta dalla norma impugnata riguarda il «governo del territorio» e sarebbe regolata – nell’ambito delle zone agricole “E”, di cui si occupa la norma de qua – «dagli strumenti urbanistici generali vigenti e strutturati obbligatoriamente in ossequio al Piano Territoriale Paesistico».

Quanto all’«incongruenza», rilevata dal ricorrente, tra il comma 3 dell’art. 3.1, introdotto dalla norma impugnata, e il successivo comma 5, la Regione rileva come quest’ultimo si riferisca alle attività rurali aziendali, individuate all’art. 2 della legge della Regione Lazio 2 novembre 2006, n. 14 (Norme in materia di diversificazione delle attività agricole), le quali sono comprensive, altresì, delle attività multimprenditoriali. Nell’ambito di queste ultime rientrerebbe, ai sensi dell’art. 54, comma 3, della legge reg. Lazio n. 38 del 1999 – così come modificato dalla stessa legge reg. Lazio n. 1 del 2020, impugnata nell’odierno giudizio – la produzione di energie rinnovabili.

La Regione aggiunge che, proprio in virtù delle modifiche introdotte dall’art. 6 della legge regionale impugnata al comma 2 dell’art. 54 della legge reg. Lazio n. 38 del 1999, ogni attività multimprenditoriale deve svolgersi, ai sensi dell’art. 3, comma 1-bis, della legge reg. Lazio n. 14 del 2006, in regime di connessione con l’impresa agricola. Regime di connessione per il quale, ricorda la difesa regionale, gli artt. 7 e 8 del regolamento della Giunta della Regione Lazio 5 gennaio 2018, n. 1, recante «Disposizioni attuative per le attività integrate e complementari all’attività agricola ai sensi dell’articolo 57-bis della legge regionale 22 dicembre 1999, n. 38 e successive modifiche. Abrogazione del regolamento regionale 2 settembre 2015, n. 11 (Attuazione della ruralità multifunzionale ai sensi dell’articolo 57 della legge regionale 22 dicembre 1999, n. 38 e successive modifiche)», richiedono, ai fini autorizzatori, la presentazione di un PUA.

Ne deriverebbe che, allo stato dell’attuale normativa regionale, nessun impianto fotovoltaico può essere realizzato al di fuori di un’azienda agricola, mentre, all’interno delle aziende agricole, impianti di questo tipo possono essere realizzati, ma solo attraverso la presentazione di un PUA.

8.1.– Preliminarmente, occorre dare atto della sopravvenuta modifica dell’art. 3.1 della legge reg. Lazio n. 16 del 2011, introdotto dall’impugnato comma 11 dell’art. 10 della legge reg. n. 1 del 2020. In particolare, l’art. 8, comma 1, lettera b), della legge della Regione Lazio 23 novembre 2020, n. 16 (Disposizioni modificative di leggi regionali) ha capovolto l’impostazione originaria della disposizione impugnata, disponendo che siano individuate le aree «non idonee» (mentre prima era previsto che fossero individuate quelle «idonee»), e, nel nuovo comma 4-bis dell’art. 3.1, ha previsto che l’individuazione di queste aree avvenga in coerenza, tra l’altro, con le disposizioni del PTPR.

Tale ius superveniens non risulta però satisfattivo delle censure di parte ricorrente, poiché quest’ultima imputa il vulnus lamentato non solo alla mancata espressa previsione del rispetto del PTPR ma anche a una contraddizione esistente tra il comma 3 e il comma 5 dello stesso art. 3.1 che si tradurrebbe in una lesione del valore paesaggistico.

Sempre in via preliminare, è utile ricordare che il Piano energetico regionale (PER Lazio) è lo strumento con il quale vengono attuate le competenze regionali in materia di pianificazione energetica, per quanto attiene all’uso razionale dell’energia, al risparmio energetico e all’utilizzo delle fonti rinnovabili. Con la deliberazione della Giunta della Regione Lazio 17 ottobre 2017, n. 656, recante «Adozione della proposta del nuovo “Piano Energetico Regionale” (PER Lazio) e del relativo Rapporto Ambientale, ai fini della Valutazione Ambientale Strategica (VAS)», è stata adottata la proposta di PER (l’ultimo in vigore è stato approvato dal Consiglio regionale del Lazio con deliberazione n. 45 del 2001). Dopo un percorso di consultazione pubblica con i cosiddetti “stakeholder”, il PER Lazio, il Rapporto ambientale e la dichiarazione di sintesi del processo di Valutazione ambientale strategica (VAS) sono stati adottati con deliberazione della Giunta della Regione Lazio 10 marzo 2020, n. 98, recante «Proposta di deliberazione consiliare concernente: “Approvazione del nuovo Piano Energetico Regionale (PER Lazio)” e dei relativi allegati ai sensi dell’art. 12 della legge regionale n. 38 del 22 dicembre 1999» e trasmessi al Consiglio regionale, che non ha ancora provveduto all’approvazione.

8.2.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 11, della legge reg. n. 1 del 2020 non è fondata, nei termini di seguito indicati.

La norma de qua è impugnata per violazione degli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost. in relazione alle norme interposte di cui agli artt.135, 143 e 145 del d.lgs. n. 42 del 2004. Anche in questo caso la ragione di censura è rinvenibile nel mancato richiamo del rispetto della pianificazione paesaggistica elaborata previa intesa con il Ministero. Da questo punto di vista, la stessa lamentata incongruenza tra i commi 3 e 5 dell’art. 3.1 della legge reg. Lazio n. 16 del 2011 è riconducibile al mancato richiamo – anche per il periodo transitorio, cioè nelle more dell’entrata in vigore del PER – del vincolo derivante dalla pianificazione paesaggistica, in ragione del fatto che, secondo il ricorrente, la previsione del comma 5 consentirebbe la realizzazione degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili in aree agricole senza alcuna programmazione.

Si tratta quindi, alla luce delle decisioni di questa Corte più volte richiamate e più precisamente indicate supra al punto 4, di verificare se la norma impugnata determini un contrasto o una deroga al principio della necessaria prevalenza della pianificazione paesaggistica.

Da nessuna delle disposizioni di cui si compone l’art. 3.1 della legge reg. Lazio n. 16 del 2011, introdotto dalla norma impugnata, emerge un contrasto o una deroga al suddetto principio. Né può essere utilizzata come argomento contrario la sopravvenuta disposizione recata dal comma 4-bis, che impone il rispetto del PTPR, poiché essa non è preclusiva della possibilità di interpretare anche il testo originario (in vigore dal 28 febbraio al 24 novembre 2020) in modo rispettoso di tutti i vincoli paesaggistici e quindi conforme a Costituzione.

Per le anzidette ragioni si deve concludere per la non fondatezza, nei termini dianzi indicati, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 11, della legge reg. Lazio n. 1 del 2020.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 9, lettera d), numero 1), della legge della Regione Lazio 27 febbraio 2020, n. 1 (Misure per lo sviluppo economico, l’attrattività degli investimenti e la semplificazione);

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 16, della legge reg. Lazio n. 1 del 2020;

3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge reg. Lazio n. 1 del 2020, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, in relazione agli artt. 143 e 145 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe;

4) dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 6, comma 1, lettere b), c), d) ed e), 7, comma 7, lettera c), numero 1), e 10, comma 11, della legge reg. Lazio n. 1 del 2020, promosse, in riferimento agli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 20, 21, 135, 142, 143 e 145 del d.lgs. n. 42 del 2004, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 maggio 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Daria de PRETIS, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria l'8 luglio 2021.