SENTENZA N. 78
ANNO 2020
Commenti alla decisione di
I. Ilaria De Cesare, Il
ritardo dei pagamenti della PA: una disciplina a tutela della concorrenza,
per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
II. Monica Bergo, Legittime
le norme per garantire la puntualità dei pagamenti da parte degli enti del
Servizio sanitario nazionale. Brevi osservazioni a margine di Corte cost.,
sentenza n. 78 del 2020, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Marta CARTABIA;
Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano
AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto
Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca
ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 857, 859, 862,
863, 865 e 866, della legge
30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno
finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021),
promossi dalla Regione Lazio, dalla Regione Siciliana e dalle Province autonome
di Trento e di Bolzano con ricorsi notificati i primi tre il 1° marzo 2019, il
quarto il 1°-7 marzo 2019, depositati in cancelleria i primi tre il 7 marzo
2019, il quarto l’11 marzo 2019, iscritti rispettivamente ai numeri 36, 38, 39 e 45
del registro ricorsi 2019 e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica numeri 20, 21 e 23, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 25 febbraio 2020 il Giudice relatore Luca
Antonini;
uditi gli avvocati Francesco Saverio Marini per la Regione Lazio, Marina
Valli per la Regione Siciliana, Giandomenico Falcon e Andrea Manzi per la
Provincia autonoma di Trento, Renate von Guggenberg
per la Provincia autonoma di Bolzano e l’avvocato dello Stato Giulio Bacosi per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 9 marzo 2020.
1.– Con ricorso notificato il 1° marzo 2019, depositato in cancelleria il 7
marzo 2019 e iscritto al n. 36 del reg. ric. 2019, la Regione Lazio ha
impugnato l’art. 1, commi 857, 865 e 866, della legge 30 dicembre 2018, n. 145
(Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio
pluriennale per il triennio 2019-2021), in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 117, terzo, quarto e
sesto comma, 118,
primo e secondo comma, e 120, secondo comma,
della Costituzione.
1.1.– Tali disposizioni, insieme ad altre ricomprese nei commi da 849 a
872, riguardano il tema dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali
delle pubbliche amministrazioni.
In particolare, il comma 865 stabilisce che, per gli enti del Servizio
sanitario nazionale che non rispettano i tempi di pagamento previsti dalla
legislazione vigente, le Regioni e le Province autonome «provvedono ad
integrare i contratti dei relativi direttori generali e dei direttori
amministrativi inserendo uno specifico obiettivo volto al rispetto dei tempi di
pagamento ai fini del riconoscimento dell’indennità di risultato». La
disposizione prevede che la quota dell’indennità condizionata a tale obiettivo
non può essere inferiore al 30 per cento e declina poi singoli scaglioni che
modulano il riconoscimento di tale quota in base ai giorni di ritardo
registrati e alla riduzione del debito commerciale residuo.
Ai sensi del comma 860, per l’applicazione delle misure di cui al comma 865
si fa riferimento ai tempi di pagamento e al ritardo calcolati sulle fatture
ricevute e scadute nell’anno precedente e al debito commerciale residuo, di cui
all’art. 33 del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della
disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di
pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche
amministrazioni).
A norma del comma 857, inoltre, nell’anno 2020 la quota dell’indennità di
risultato condizionata al rispetto dei tempi di pagamento è raddoppiata «nei
confronti degli enti di cui al comma 849 che non hanno richiesto
l’anticipazione di liquidità entro il termine di cui al comma 853 e che non
hanno effettuato il pagamento dei debiti entro il termine di cui al comma 854».
Infine, il comma 866 prevede che le Regioni trasmettono «una relazione in
merito all’applicazione e agli esiti del comma 865» al Tavolo di verifica degli
adempimenti regionali di cui all’art. 12 dell’intesa sancita il 23 marzo 2005
dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le
Province autonome di Trento e di Bolzano, aggiungendo che «[l]a trasmissione
della relazione costituisce adempimento anche ai fini e per gli effetti
dell’articolo 2, comma 68, lettera c), della legge 23 dicembre 2009, n. 191»:
disposizione questa che, al fine di consentire l’erogazione di una quota del
finanziamento del Servizio sanitario nazionale (SSN) a cui concorre
ordinariamente lo Stato, la condiziona alla verifica positiva degli adempimenti
regionali, previsti dalla normativa vigente e dalla stessa legge n. 191 del
2009. Infine, l’ultimo periodo del comma 866 prevede che «[l]e regioni a
statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano relazionano al
citato Tavolo sullo stato di applicazione del comma 865».
1.2.– Con una prima censura, la Regione Lazio lamenta la violazione del
principio di leale collaborazione «ex artt. 5 e 120 Cost.»: il legislatore
avrebbe omesso ogni concertazione con le Regioni sia nella fase ascendente, in
sede di adozione delle disposizioni impugnate, sia in quella discendente,
relativa all’attuazione delle stesse. Tale concertazione sarebbe da ritenersi,
invece, necessaria in entrambi i casi, in quanto l’intervento del legislatore
intersecherebbe diverse materie relative sia alla competenza concorrente –
«coordinamento della finanza pubblica» e «tutela della salute» – che a quella
residuale – «ordinamento e organizzazione amministrativa regionale» e
«organizzazione e funzionamento della Regione» –, con un inestricabile
intreccio e senza che possa individuarsi la prevalenza di una competenza
esclusiva statale.
Inoltre, con specifico riferimento alla disciplina della dirigenza
sanitaria regionale, che la giurisprudenza di questa Corte avrebbe
costantemente ricondotto «al prevalente ambito della tutela della salute», la
ricorrente richiama la sentenza n. 251 del
2016, segnalando che il legislatore si è uniformato al rispetto della leale
collaborazione, imposto dalla suddetta pronuncia, nell’adozione del decreto
legislativo 26 luglio 2017, n. 126, recante «Disposizioni integrative e
correttive al decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 171, di attuazione della
delega di cui all’articolo 11, comma 1, lettera p), della legge 7 agosto 2015,
n. 124, in materia di dirigenza sanitaria». Del decreto attuativo della delega
si richiama, peraltro, l’art. 2, comma 3, che prevede anche un accordo in
Conferenza Stato-Regioni per definire i criteri e le procedure per la valutazione
dell’attività dei direttori generali.
Infine, la ricorrente precisa che la violazione del principio di leale
collaborazione ridonderebbe sulle competenze legislative attribuite alla
Regione e sulle corrispondenti funzioni amministrative ai sensi degli artt.
114, 117, terzo, quarto e sesto comma, nonché 118, primo e secondo comma, Cost.
1.3.– La seconda censura si incentra sulla violazione dell’art. 117, terzo,
quarto e sesto comma, Cost., ribadendo che le disposizioni impugnate – e in
particolare quelle recate dai commi 857 e 865 sulla dirigenza sanitaria – non
sarebbero ascrivibili in maniera prevalente al coordinamento della finanza
pubblica e che in ogni caso non si atteggerebbero a principi fondamentali:
contraddicendo l’autoqualificazione operata dal comma
858 dell’art. 1 della stessa legge n. 145 del 2018, a causa del loro carattere
di «massimo dettaglio» non avrebbero, infatti, lasciato alcun margine di
autonomia all’ente regionale.
1.4.– La ricorrente prospetta, infine, la violazione degli artt. 3, 97 e
118, primo e secondo comma, Cost. argomentandola con l’irragionevolezza e il
difetto di proporzionalità delle disposizioni impugnate, nonché rilevando la
ridondanza sulle competenze regionali ai sensi dell’art. 117, terzo, quarto e
sesto comma, Cost.
Al riguardo, si sostiene che per l’effetto delle suddette norme
risulterebbe irragionevolmente sacrificata la possibilità di orientare l’azione
amministrativa regionale, «in violazione dei principi di buon andamento,
differenziazione e adeguatezza», a obiettivi prioritari più attinenti alla
tutela della salute, tra cui il perseguimento di un più alto livello di
erogazione dei livelli essenziali di assistenza.
Il denunciato difetto di proporzionalità deriverebbe invece dalla mancata
considerazione di circostanze significative quali «il debito commerciale
complessivo, i progressi nei termini di pagamento rispetto agli esercizi
precedenti, le cause del ritardo, le eventuali responsabilità o al contrario i
progressi ottenuti dal singolo dirigente rispetto alla progressiva riduzione
del debito commerciale e dei termini di pagamento».
La censura in esame colpirebbe in maniera ancor più evidente la norma
contenuta nell’impugnato comma 866. La possibile mancata erogazione della
«quota di finanziamento del SSN cui concorre lo Stato» discenderebbe in maniera
automatica dal ritardo dei pagamenti, senza che sia dato rilievo ai progressi
ottenuti rispetto all’obiettivo e alle specifiche responsabilità in materia,
nonché alla complessiva riduzione del debito commerciale residuo.
Inoltre, tale norma sconterebbe un difetto di chiarezza, destinato a
incidere «sulla sua intrinseca ragionevolezza», perché non chiarirebbe se
l’adempimento da essa richiesto sia riferibile alla sola trasmissione della
relazione regionale o alla concreta gestione delle indennità di risultato.
Intesa in tale secondo significato, «che sembra plausibile in ragione
dell’inciso, contenuto nel comma 866» relativo alle autonomie speciali, la
norma non sarebbe comunque idonea a raggiungere lo scopo che si prefigge: la
mancata erogazione della quota di finanziamento statale potrebbe, infatti,
incidere ulteriormente sul ritardo dei pagamenti.
2.– Con atto depositato il 10 aprile 2019 si è costituito il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo il rigetto del ricorso.
2.1.– La difesa erariale richiama la finalità del quadro normativo in cui
le disposizioni impugnate si inseriscono, che è quella di assicurare il
tempestivo pagamento dei debiti commerciali delle pubbliche amministrazioni, a
tutela soprattutto delle piccole imprese che operano con queste. L’intervento
dello Stato, garante dell’attuazione della normativa europea che tale finalità
prevede, sarebbe necessitato dal perdurare di una situazione di criticità.
In questo senso, sarebbe corretta la qualificazione delle norme impugnate
come principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, operata dal
comma 858 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018.
2.2.– L’Avvocatura generale, inoltre, esclude che nella specie sia
coinvolta anche la competenza concorrente regionale in tema di tutela della
salute in quanto il legislatore non avrebbe inciso i profili
pubblicistico-organizzativi della dirigenza pubblica, ma avrebbe operato sui
contratti di lavoro dei dirigenti, al fine di rendere questi ultimi
effettivamente coinvolti nella corretta gestione del sistema dei pagamenti. Lo
Stato avrebbe, dunque, esercitato una competenza «assolutamente generale e
prevalente» rispetto a quella che la Regione ritiene lesa, «non appalesandosi
necessaria l’adozione di iniziative di condivisione con gli enti territoriali».
Sotto altro profilo, a parere della difesa erariale non sarebbero stati
superati i limiti della competenza statale esercitata, anche perché nella
valutazione dei principi di coordinamento della finanza pubblica questa Corte
in più occasioni avrebbe escluso «criteri formalistici e meramente
"quantitativi”» (è richiamata la sentenza n. 137 del
2018) valorizzando, invece, le finalità perseguite da tali norme.
2.3.– Le norme impugnate sarebbero, inoltre, pienamente ragionevoli e
proporzionate laddove, in maniera non illogica né gravosa, prescrivono modalità
di monitoraggio e, eventualmente, interventi correttivi. Quanto all’impugnato
comma 866, la difesa statale richiama a confutazione delle censure la
giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale la piena attuazione del
coordinamento della finanza pubblica implicherebbe, oltre all’esercizio del
potere legislativo, anche quello di poteri di ordine amministrativo, di
regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo.
3.– Con ricorso notificato il 1° marzo 2019, depositato il 7 marzo 2019 e
iscritto al n. 38 del reg. ric. del 2019, la Regione Siciliana ha impugnato
l’art. 1, commi 857, 859, 862 e 863, della legge n. 145 del 2018.
3.1.– Secondo la ricorrente, tali norme violerebbero, nel complesso, gli
artt. 3, primo comma, 97, secondo comma, 117, quarto comma, e 120 Cost. – in
riferimento, quest’ultimo, al principio di leale collaborazione – nonché gli
artt. 20 e 36 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455
(Approvazione dello statuto della Regione siciliana), convertito in legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2.
La norma su cui si incentrano le censure è quella contenuta nel comma 862,
che prevede l’obbligo, per le amministrazioni diverse da quelle dello Stato che
adottano la contabilità finanziaria, di stanziare nella parte corrente del
proprio bilancio «un accantonamento denominato Fondo di garanzia debiti
commerciali, sul quale non è possibile disporre impegni e pagamenti, che a fine
esercizio confluisce nella quota libera del risultato di amministrazione». Tale
obbligo scatta al ricorrere delle condizioni previste dal comma 859, ossia
quando nell’esercizio precedente: a) il debito commerciale residuo di cui
all’art. 33 del d.lgs. n. 33 del 2013 non si sia ridotto nella misura richiesta
oppure b) l’indicatore di ritardo annuale dei pagamenti – calcolato sulle
fatture ricevute e scadute nell’anno ancora precedente – non rispetti i termini
di pagamento delle transazioni commerciali fissati dall’art. 4 del decreto
legislativo 9 ottobre 2002, n. 231 (Attuazione della direttiva 2000/35/CE
relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali).
Le disposizioni impugnate, inoltre, prevedono che l’accantonamento debba
essere quantificato in misura crescente rispetto ai ritardi registrati, in
relazione agli stanziamenti riguardanti nell’esercizio in corso la spesa per
acquisto di beni e servizi (comma 862), e che debba essere adeguato, nel corso
dell’esercizio stesso, alle variazioni di bilancio relative ai predetti
stanziamenti (comma 863).
Nell’argomentare le censure, la ricorrente premette che, se tutto il
sistema delineato dalla legge di bilancio sembrerebbe muovere dall’assunto che
i ritardi nei pagamenti delle amministrazioni pubbliche «siano da imputare
esclusivamente a mancanza di liquidità», nella Regione Siciliana, invece, il
ritardo registrato non sempre dipenderebbe dalla suddetta motivazione,
richiamandosi al riguardo una – peraltro non specificata – dichiarazione della
ragioneria generale dell’ente.
Pertanto, le disposizioni impugnate recherebbero alla Regione Siciliana «un
pregiudizio in termini finanziari la cui consistenza appare sproporzionata
rispetto alle eventuali violazioni rilevate».
3.2.– Con specifico riferimento alla disposizione di cui al comma 862, il
ricorso osserva che, ove si realizzino le condizioni da essa previste, lo
stanziamento del fondo di garanzia debiti commerciali, secondo la stima operata
dalla ragioneria generale della Regione riferita all’anno 2019, oscillerebbe da
un minimo di euro 6.908.299 a un massimo di euro 34.541.496 (in ragione del
criterio progressivo previsto dal richiamato comma 859).
L’accantonamento previsto determinerebbe quindi, in forza del divieto di
disporre impegni e pagamenti a valere sul fondo da istituire,
«l’indisponibilità di risorse finanziarie con effetti negativi sugli equilibri
del bilancio regionale».
Inoltre, richiamando la sentenza n. 272 del
2015, la ricorrente sostiene che le modalità individuate dal legislatore
statale per raggiungere l’obiettivo di evitare i ritardi nei pagamenti non
supererebbero il test di proporzionalità. Omettendo di considerare la causa del
ritardo esse, infatti, risulterebbero inidonee a conseguire la loro finalità
perché, qualora il ritardo stesso sia «derivante da difficoltà oggettive o da
fattori esterni», l’effetto auspicato non sarebbe raggiunto né dalla facoltà di
accedere all’anticipazione di liquidità prevista dalla legge n. 145 del 2018,
che finirebbe per assumere il carattere della doverosità, né dall’obbligo di
prevedere in bilancio l’accantonamento.
Secondo la ricorrente, da tanto conseguirebbe che «il sistema sanzionatorio
introdotto dalle disposizioni della Legge di Bilancio per il 2019» sarebbe in
contrasto sia con il principio di proporzionalità di cui all’art. 3, primo
comma, Cost., sia con il principio di buon andamento di cui all’art. 97,
secondo comma, Cost., ridondando in una lesione dell’autonomia finanziaria e
organizzativa della Regione.
Sotto altro profilo l’obbligo di stanziare gli importi prefissati nel fondo
di garanzia lederebbe le norme di cui agli artt. 20 e 36 dello statuto reg.
Siciliana, sia perché inciderebbe sull’autonomia organizzativa della Regione,
sia perché la relativa compressione dell’autonomia finanziaria ne limiterebbe
lo «svolgimento delle funzioni pubbliche».
Infine, la ricorrente evidenzia che una soluzione al problema dei ritardi
nei pagamenti avrebbe potuto essere individuata «legittimamente e più utilmente»
nell’ambito degli accordi in materia finanziaria tra Stato e Regione Siciliana,
in ossequio al principio di leale collaborazione, che risulterebbe, invece,
parimenti violato dalle disposizioni impugnate.
4.– Con atto depositato il 10 aprile 2019 si è costituito il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo il rigetto del ricorso.
4.1.– Nel merito delle censure, l’Avvocatura ritiene che le disposizioni
introdotte dall’art. 1, commi da 858 a 873, della legge n. 145 del 2018 non
avrebbero natura sanzionatoria, dovendo piuttosto «inquadrarsi come misure di
garanzia» rivolte alle pubbliche amministrazioni che dimostrano di «non essere
in grado di effettuare una programmazione della spesa efficiente». In questo
senso, la disciplina del fondo determinerebbe la formazione di economie di
spesa e di maggiori giacenze di cassa, così favorendo il pagamento dei residui.
Infatti, l’accantonamento non costituisce un prelievo a carico del bilancio regionale,
«in quanto a fine esercizio confluisce nella quota libera dell’avanzo di
amministrazione».
Analogamente, la previsione di cui al comma 857 realizzerebbe un
potenziamento delle misure di garanzia di cui ai successivi commi 862, 864 e
865 per i casi di mancata richiesta dell’anticipazione di liquidità da parte
delle pubbliche amministrazioni inadempienti.
4.2.– L’Avvocatura, inoltre, contesta l’assimilazione delle disposizioni
oggetto del giudizio a quelle dichiarate costituzionalmente illegittime dalla sentenza n. 272 del
2015, in quanto le prime risultano modulate proporzionalmente alla gravità
della violazione rispetto ai tempi medi di pagamento, mentre le seconde
prescindevano da ciò.
Quanto alla censura sull’inidoneità delle misure, che non darebbero rilievo
alla causa del ritardo, la difesa erariale ricorda che il Governo nell’ultimo
quinquennio ha posto in essere numerose iniziative per contenere il fenomeno
dei ritardi dei pagamenti e che «le pubbliche Amministrazioni tuttora
inadempienti hanno avuto a disposizione un lasso di tempo più che adeguato per
porre rimedio» sia alle cause di ritardo derivanti da ragioni di ordine
finanziario sia a quelle derivanti da disfunzioni organizzative o strutturali.
Sottolinea quindi che dai dati risultanti dal sistema della «Piattaforma
per i crediti commerciali» (PCC) emerge che nel 2018 i fornitori della Regione
Siciliana sono stati pagati mediamente con un ritardo variabile dai 29 ai 19
giorni.
Il rimedio ora adottato dal legislatore statale non potrebbe quindi
ritenersi irragionevole anche in relazione alla Regione ricorrente.
Parimenti infondata sarebbe la censura di violazione dei parametri
statutari, atteso che l’impugnato comma 862 non costituirebbe norma di
dettaglio ma misura di carattere strumentale finalizzata a favorire la
riduzione dei tempi di pagamento dei debiti commerciali e, in quanto tale,
espressione di un principio fondamentale di coordinamento della finanza
pubblica vincolante anche per le Regioni a statuto speciale (si richiamano le sentenze n. 175
e n. 39 del 2014).
Infine, non fondata risulterebbe anche la censura sulla violazione del
principio di leale collaborazione: lo Stato, essendo garante del rispetto dei
tempi di pagamento sanciti «da una normativa europea e nazionale di
recepimento», non potrebbe stipulare accordi derogatori a tale normativa e
differenziati con i diversi livelli di governo.
5.– Con ricorso notificato il 1° marzo 2019, depositato il 7 marzo 2019 e
iscritto al n. 39 del reg. ric. del 2019, la Provincia autonoma di Trento ha
impugnato l’art. 1, commi 857, 865 e 866, della legge n. 145 del 2018.
Secondo la ricorrente, tali norme violerebbero, nel complesso, gli artt. 3,
117, terzo comma, 119 – in combinato disposto con l’art. 10 della legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda
della Costituzione) – e 120, secondo comma, Cost. – in riferimento,
quest’ultimo, al principio di leale collaborazione –, nonché gli artt. 8,
numero 1), 9, numero 10), 16 e 79 del decreto del Presidente della Repubblica
31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del Testo unico delle leggi costituzionali
concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige) e l’art. 2 del
decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto
speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra gli atti
legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale
di indirizzo e coordinamento).
5.1.– La ricorrente premette che la Provincia autonoma di Trento e i suoi
enti, tra cui quelli del servizio sanitario, «non sono interessati dal fenomeno
del ritardo nei pagamenti dei debiti commerciali, dal momento che la Provincia
ha messo in atto, da molti anni, buone prassi, che hanno condotto l’ente e le
sue agenzie ad avere, fin dal 2016, un indicatore di tempestività dei pagamenti
negativo, cioè dimostrativo di un anticipo dei pagamenti sulla scadenza delle
fatture».
Inoltre, rileva che la clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 1,
comma 1130, della legge n. 145 del 2018 non opererebbe per le disposizioni
impugnate, poiché queste menzionano espressamente le Province autonome e hanno
un contenuto precettivo prevalente sulla generale clausola di garanzia.
Tanto premesso, la ricorrente – pur condividendo la piena vigenza e
operatività, anche in relazione alla propria amministrazione, «del principio di
tempestività dei pagamenti dei debiti commerciali delle pubbliche
amministrazioni» – ritiene che le disposizioni degli impugnati commi 865 e 866
invadano le competenze provinciali.
5.2.– In particolare, il disposto del comma 865, relativo, come si è visto,
alla disciplina dell’indennità di risultato dei direttori generali e
amministrativi degli enti del servizio sanitario, viene censurato sotto più
profili.
5.2.1.– Una prima violazione è ravvisata con riferimento all’art. 79, comma
4, dello statuto reg. Trentino-Alto Adige, poiché questo consentirebbe allo
Stato di dettare norme di coordinamento finanziario condizionanti le potestà
legislative delle Province autonome «solo nella misura in cui tali norme
articolino limiti statutari alle competenze provinciali».
Inoltre, tale norma, da un lato autoqualificandosi
come principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica e,
dall’altro, incidendo «ratione materiae
sulla organizzazione del sistema sanitario», risulterebbe illegittima perché
quello della Provincia autonoma è un sistema sanitario interamente finanziato
con risorse proprie, per cui lo Stato non avrebbe titolo per dettare norme di
coordinamento finanziario (è richiamata la sentenza n. 125 del
2015).
In ogni caso, la disposizione impugnata sarebbe illegittima per violazione
dell’art. 79 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige, o comunque degli artt.
117, terzo comma, e 119, secondo comma, Cost., nelle parti applicabili alle
Province autonome ai sensi dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, perché
quello contenuto nel comma 865 sarebbe «un minuto precetto di dettaglio» che
non lascia all’ente autonomo «alcuna libertà in ordine ai modi con i quali
conseguire il risultato».
5.2.2.– In quanto norma che incide sulla organizzazione amministrativa e
sanitaria della Provincia autonoma, il comma 865 si porrebbe inoltre in
contrasto con gli artt. 8, numero 1), 9, numero 10), e 16 dello statuto reg.
Trentino-Alto Adige ovvero, se più favorevole, con l’art. 117, terzo comma,
Cost., con riferimento alla materia della «tutela della salute», in combinato
disposto con l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001.
L’ambito materiale regolato dalla norma impugnata inciderebbe, infatti,
sulle materie di competenza legislativa primaria della organizzazione
amministrativa e del personale e sulla materia di competenza concorrente
relativa a igiene e sanità, comprensiva dell’assistenza sanitaria e
ospedaliera, ovvero su quella della tutela della salute, ai sensi dell’art.
117, terzo comma, Cost., se più favorevole; la disposizione statale, inoltre,
conformerebbe in modo diretto anche l’esercizio delle funzioni amministrative
che l’art. 16 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige riserva alla Provincia
autonoma.
D’altro canto, la ricorrente evidenzia di avere già compiutamente regolato
tale settore con la legge della Provincia autonoma di Trento 23 luglio 2010, n.
16 (Tutela della salute in provincia di Trento); e, con specifico riferimento
alla figura del direttore generale, precisa che la citata disciplina affida
alla Giunta provinciale sia il compito di approvare lo schema di contratto
(art. 28, comma 6), sia quello di stabilire «criteri e modalità per la
valutazione dell’attività del direttore generale, con riferimento agli
obiettivi assegnatigli e alla qualità complessiva dell’offerta assistenziale
assicurata dall’azienda» (art. 28, comma 7).
In tale contesto, la norma impugnata non potrebbe essere qualificata né
come norma fondamentale di grande riforma né come principio fondamentale della
materia «igiene e sanità» o «tutela della salute», in ragione del suo carattere
estremamente dettagliato e dell’assenza «di collegamento teleologico con le
specifiche materie interessate dalla misura».
5.2.3.– Il richiamato comma 865 sarebbe, in ogni caso, illegittimo in
quanto norma immediatamente applicabile e, quindi, lesiva dell’art. 2 del
d.lgs. n. 266 del 1992. Tale disposizione di attuazione statutaria prevede,
infatti, un mero obbligo di adeguamento della legislazione provinciale da
realizzare entro sei mesi dalla pubblicazione dell’atto legislativo dello Stato
recante principi e norme costituenti limiti indicati dagli artt. 4 e 5 dello
statuto reg. Trentino-Alto Adige.
5.3.– Per quanto riguarda la disposizione di cui all’art. 1, comma 866,
della legge n. 145 del 2018, la ricorrente appunta l’impugnazione sul suo terzo
periodo; questo prevede che le Regioni a statuto speciale e le Province
autonome relazionano al Tavolo di verifica degli adempimenti regionali di cui
all’art. 12 dell’intesa raggiunta in Conferenza Stato-Regioni il 23 marzo 2005
«sullo stato di applicazione del comma 865».
Ove il comma 866 sia inteso come statuente un vero e proprio obbligo a
carico della Provincia autonoma, la ricorrente ne ravvisa un primo motivo di
illegittimità in via consequenziale dagli stessi argomenti di censura del comma
865, essendo gli obblighi sanciti da entrambe le disposizioni strutturalmente
inscindibili. Una volta dichiarata la illegittimità di quest’ultimo, l’obbligo
previsto dal comma successivo diverrebbe privo di oggetto o comunque del tutto
irragionevole, con violazione dell’art. 3, primo comma, Cost.
La norma sarebbe comunque elusiva dell’intesa del 23 marzo 2005 in quanto
neutralizzerebbe la clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 13 di tale
accordo a tutela delle autonomie speciali, rendendo direttamente applicabile un
monitoraggio che l’intesa non prevedeva come obbligatorio. E ciò dimostrerebbe
la violazione anche del principio di leale collaborazione radicato nell’art.
120, secondo comma, Cost. e del principio di ragionevolezza ricavabile
dall’art. 3, primo comma, Cost., in quanto la legge ordinaria dello Stato non
potrebbe strumentalizzare l’istituto del tavolo tecnico di monitoraggio
neutralizzando le specifiche condizioni in base alle quali esso è stato
attivato.
La denunciata irragionevolezza ridonderebbe, secondo la ricorrente,
sull’esercizio delle funzioni provinciali, poiché costringerebbe l’ente a
un’attività di monitoraggio e di redazione di particolari relazioni «non
correlata ad una esigenza propria della funzione provinciale».
5.4.– Infine, il comma 857 è impugnato ove interpretato nel senso che il
raddoppio della quota dell’indennità di risultato dei dirigenti sanitari
apicali condizionata al rispetto dei tempi di pagamento sia disposto per il
solo fatto dell’assenza della richiesta di anticipazione della liquidità: se
così fosse, ne conseguirebbe «un obbligo di ricorrere a tali anticipazioni al
solo fine di evitare la responsabilità per il tardivo pagamento dei debiti»,
con violazione per difetto di ragionevolezza e proporzionalità dell’art. 3,
primo comma, Cost., con riflesso sull’autonomia finanziaria dell’ente e
sull’esercizio delle funzioni attribuite alle Province autonome dagli artt. 8,
9 e 16 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige e dall’art. 117, terzo comma,
Cost., per effetto dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001. Si prospetta
inoltre la violazione dell’autonomia finanziaria e di bilancio riconosciuta
alla Provincia autonoma dal Titolo VI dello statuto reg. Trentino-Alto Adige e
dall’art. 119 Cost., anche in relazione con l’art. 10 della legge cost. n. 3
del 2001.
6.– Con atto depositato il 10 aprile 2019 si è costituito il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo il rigetto del ricorso.
6.1.– Preliminarmente, la difesa erariale afferma che le disposizioni in
questione introdurrebbero principi fondamentali di coordinamento della finanza
pubblica, applicabili in quanto tali anche alle autonomie speciali, come
sarebbe stato affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (sono richiamate,
tra le altre, le sentenze
n. 103 del 2018 e n. 62 del 2017).
6.2.– In merito alle censure mosse al comma 865 dell’art. 1 della legge n.
145 del 2018, l’Avvocatura osserva che questo, in coerenza con il principio di
proporzionalità, gradua le misure di garanzia in relazione alla gravità
dell’inadempimento. D’altronde, poiché il presupposto per l’applicazione di
tali disposizioni è il mancato rispetto dei tempi di pagamento, nulla sarebbe
innovato «per gli enti virtuosi come la Provincia dichiara di essere».
Infondate sarebbero, inoltre, le censure basate sulle specificità del
sistema di finanziamento sanitario provinciale e sulla conseguente carenza di
titolo da parte dello Stato a disciplinare la materia: la ratio delle norme di
cui si tratta sarebbe del tutto svincolata dal mancato concorso dello Stato al
finanziamento del servizio sanitario provinciale.
Quanto all’asserito contrasto con lo statuto di autonomia e con la
disciplina di settore di fonte provinciale nella materia della «tutela della
salute», l’Avvocatura vi oppone che nella specie è stata in realtà esercitata
la funzione di coordinamento della finanza pubblica, anche per superare le
censure formulate dalla Commissione europea, che ha introdotto innanzi alla
Corte di giustizia dell’Unione europea un ricorso contro l’Italia per
violazione della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali.
6.3.– Con riferimento al comma 866 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018,
l’Avvocatura ritiene che la piena attuazione del coordinamento della finanza
pubblica implica anche l’esercizio di poteri di ordine amministrativo, di
regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo (sono richiamate le sentenze n. 229
e n. 122 del
2011). Le censure sarebbero, quindi, infondate attesa la funzione di
controllo assolta dalla disposizione in esame.
6.4.– Quanto all’impugnativa in via cautelativa del comma 857 della legge
n. 145 del 2018, se ne ritiene evidente la infondatezza, non essendo state in
alcun modo violate le prerogative provinciali. Infatti, la disposizione non si
applicherebbe all’ente che sia abitualmente rispettoso dei termini di pagamento
dei debiti commerciali e degli obblighi di riduzione del debito residuo e che
non evidenzi, quindi, un «comportamento incauto».
7.– Con ricorso notificato il 1°-7 marzo 2019, depositato l’11 marzo 2019 e
iscritto al n. 45 del reg. ric. del 2019, la Provincia autonoma di Bolzano ha
impugnato l’art. 1, commi 865 e 866, della legge n. 145 del 2018.
7.1.– Secondo la ricorrente, tali norme violerebbero, nel complesso, gli
artt. 3, 117, terzo e quarto comma, 119, secondo comma, – questi ultimi due in
combinato disposto con l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001 – e 120,
Cost., in riferimento al principio di leale collaborazione; gli artt. 4, numero
7), 8, numero 1), 9, numero 10), 16, 79, 103, 104 e 107, il Titolo II e il
Titolo VI dello statuto reg. Trentino-Alto Adige; il decreto legislativo 16
marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il
Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale); l’art. 2
del decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 1975, n. 474 (Norme di
attuazione dello statuto per la regione Trentino-Alto Adige in materia di
igiene e sanità); l’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992, nonché l’accordo
concluso tra il Governo, la Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol e le
Province autonome di Trento e di Bolzano il 15 ottobre 2014.
7.2.– La ricorrente osserva che l’impugnazione sarebbe necessaria perché le
disposizioni dei commi 865 e 866 del citato art. 1 si riferiscono espressamente
anche alle Province autonome, vanificando la garanzia della clausola di
salvaguardia contenuta nel comma 1130 del medesimo art. 1.
7.3.– A sostegno del ricorso si premette che l’autoqualificazione
operata dal legislatore nel comma 858 – a mente del quale le disposizioni di
cui ai commi da 859 a 872 costituiscono principi fondamentali di coordinamento
della finanza pubblica – non sarebbe corretta, in quanto le norme impugnate non
esprimerebbero principi bensì «norme specifiche e di estremo dettaglio che
pretendono di trovare diretta applicazione nell’ordinamento provinciale».
In particolare le disposizioni del comma 865 violerebbero l’autonomia della
Provincia autonoma di Bolzano come definita dagli artt. 4, numero 7), 8, numero
1), 9, numero 10), e 16 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige e dalle relative
norme di attuazione; tale violazione sarebbe altresì rilevabile in riferimento
all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., «in combinato disposto con
l’articolo 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3», con riguardo
alla «materia "tutela della salute”».
Del resto, quand’anche le disposizioni di cui al comma 865 costituissero
principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, sarebbe comunque
violato l’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992, perché le disposizioni medesime
pretenderebbero di far valere immediatamente e direttamente la propria
efficacia anche nel territorio delle Province autonome. In via subordinata,
sarebbe violato l’art. 107 statuto reg. Trentino-Alto Adige in relazione al
procedimento dallo stesso disciplinato per l’emanazione delle relative norme di
attuazione.
Inoltre, la ricorrente aggiunge che, essendo il servizio sanitario
provinciale finanziato autonomamente, non sarebbe consentita allo Stato
«l’imposizione di vincoli di spesa in materia sanitaria» (è citata la sentenza n. 231 del
2017), risultando quindi violati gli artt. 117, terzo e quarto comma, e
119, secondo comma, Cost.
Viene quindi richiamato il quadro delle relazioni finanziarie tra Stato e
Provincia autonoma di Bolzano e in particolare l’accordo sottoscritto con lo
Stato il 15 ottobre 2014, nonché gli artt. 79, 103 e 104 dello statuto reg.
Trentino-Alto Adige: la norma censurata si porrebbe in violazione di tale
assetto, contrastando anche con il principio di leale collaborazione di cui
all’art. 120 Cost.
Sulla scorta delle medesime considerazioni appena esposte sarebbe
censurabile anche il comma 866, nella parte in cui impone alle Province
autonome l’obbligo di relazionare al Tavolo di verifica degli adempimenti
regionali sullo stato di applicazione del comma 865, poiché l’intesa tra lo
Stato, le Regioni e le Province autonome raggiunta il 23 marzo 2005 conterrebbe
un’espressa disposizione di salvaguardia della specialità di queste ultime.
Tale disposizione, pertanto, si porrebbe in contrasto con le norme
costituzionali e statutarie prima richiamate nonché con il principio di leale
collaborazione, anche in relazione all’art. 120 Cost., e quello di
ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost.
8.– Con atto depositato il 12 aprile 2019 si è costituito il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo il rigetto del ricorso.
8.1.– Gli argomenti esposti sono in buona sostanza gli stessi contenuti
nell’atto di costituzione nel giudizio promosso dalla Provincia autonoma di
Trento.
Con specifico riferimento al merito delle censure prospettate dalla
Provincia autonoma di Bolzano, l’Avvocatura ne ritiene errato il presupposto:
sarebbe infatti evidente che le disposizioni impugnate non incidono minimamente
sull’ordinamento degli enti sanitari, né sulla organizzazione degli uffici e
che esse nemmeno impongono misure a carico delle finanze provinciali. Da
escludere sarebbe anche la loro riconducibilità alla competenza in materia di
salute, essendo il riflesso in tale ambito soltanto indiretto.
Altresì infondata sarebbe la qualificazione delle disposizioni impugnate
come norme di dettaglio, travalicanti la competenza statale, ciò sia perché
alla Provincia autonoma sarebbe lasciato comunque un margine di intervento, sia
perché nella valutazione dei principi di coordinamento della finanza pubblica
questa Corte in più occasioni avrebbe escluso «criteri formalistici e meramente
"quantitativi”» valorizzando, invece, le finalità perseguite da tali norme.
9.– In prossimità dell’udienza, tutte le ricorrenti hanno depositato una
memoria, con cui hanno ribadito e approfondito le ragioni espresse nei ricorsi.
9.1.– La Regione Lazio evidenzia preliminarmente che, limitatamente alla
disposizione del comma 857 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018, si sarebbe
determinata la cessazione della materia del contendere: infatti, il comma
citato – che avrebbe trovato applicazione «nell’anno 2020» – è stato abrogato
dall’art. 50, comma 1, lettera a), del decreto-legge 26 ottobre 2019, n. 124
(Disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili),
convertito, con modificazioni, in legge 19 dicembre 2019, n. 157.
Con riferimento al motivo di ricorso incentrato sulla violazione del
principio di leale collaborazione, e in replica all’atto di costituzione del
Presidente del Consiglio dei ministri, la Regione approfondisce il presupposto
dell’esistenza di un inestricabile intreccio di competenze, esplicitando che le
norme di cui al comma 865 afferirebbero anche alla materia «tutela della
salute», in quanto portatrici di una «disciplina che interv[iene]
sullo statuto giuridico ed economico della dirigenza sanitaria». Regolandone il
trattamento economico, il legislatore statale avrebbe, infatti, indirizzato
dettagliatamente gli obiettivi della dirigenza stessa, di competenza regionale,
e inciso comunque sulla disciplina pubblicistica del rapporto.
Quanto al secondo motivo, riferito alla impossibilità di considerare le
disposizioni impugnate come espressione di principi fondamentali, la memoria,
replicando al resistente, esclude che vi siano margini di intervento rimessi al
legislatore regionale.
9.2.– Anche la memoria della Regione Siciliana ha preso atto della intervenuta
abrogazione del comma 857 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018, auspicando
di poter comunicare in udienza la valutazione del Presidente della Regione
circa l’eventuale cessazione della materia del contendere.
Quanto alle modifiche che, successivamente al deposito del ricorso, hanno
riguardato i parimenti impugnati commi 859, 862 e 863, la difesa regionale le
ritiene non satisfattive delle censure mosse nei loro confronti e alle quali si
richiama.
9.3.– Con la propria memoria, la Provincia autonoma di Trento dichiara di
non avere interesse a coltivare l’impugnazione del comma 857, per la quale
ritiene possa essere dichiarata la cessazione della materia del contendere.
Nel replicare alle deduzioni della difesa erariale la ricorrente precisa di
non disconoscere che la responsabilità finale per il rispetto sui tempi di
pagamento delle pubbliche amministrazioni rimane allo Stato anche se sono
coinvolte amministrazioni autonome.
Segnalando al riguardo la pubblicazione, nelle more del ricorso, della sentenza
della Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, in causa
C-122/18, 28 gennaio 2020, Commissione europea contro Repubblica italiana,
dove tale responsabilità è stata affermata indipendentemente dall’ente la cui
azione o inerzia abbia dato luogo all’inadempimento, precisa tuttavia che con
le norme impugnate lo Stato avrebbe esercitato «in via preventiva un potere
sostitutivo nei confronti dell’ente sanitario provinciale», che precluderebbe
alla Provincia, qualora in futuro dovesse versare nella situazione (al momento
esclusa) di ritardo nei pagamenti, di scegliere altri mezzi per la risoluzione
del problema.
La ricorrente ribadisce inoltre la censura sul carattere tipicamente di
dettaglio delle disposizioni impugnate, precisando che nel diritto
costituzionale «il fine» (nel caso di specie il coordinamento della finanza
pubblica) «non giustifica qualunque mezzo», potendo tale fine essere attuato,
in questo caso, solo con norme di principio.
Infine, con riferimento alla violazione dell’art. 79, comma 4, dello
statuto reg. Trentino-Alto Adige, precisa che le norme di coordinamento, per
essere vincolanti per la Provincia autonoma, «debbono essere anche norme di
grande riforma, se la materia è in potestà primaria, o principi fondamentali
della materia, se la competenza è concorrente»; qualità che le norme impugnate,
che incidono, «quoad obiectum,
nella materia della organizzazione amministrativa della Provincia e dei suoi
enti», «all’evidenza non rivestono».
9.4.– La memoria della Provincia autonoma di Bolzano richiama gli argomenti
già illustrati nel ricorso.
10.– In udienza le parti hanno illustrato gli argomenti a sostegno delle
rispettive richieste. La difesa della Regione Siciliana, in particolare, ha
dichiarato di prendere atto della intervenuta abrogazione del comma 857
dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018, rimettendosi alla valutazione della
Corte per la eventuale cessazione della materia.
1.– Con separati ricorsi, iscritti rispettivamente ai numeri 36, 39 e 45
del registro ricorsi 2019, la Regione Lazio e le Province autonome di Trento e
di Bolzano hanno impugnato l’art. 1, commi 865 e 866, della legge 30 dicembre
2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e
bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021). Dello stesso art. 1, la
Regione Lazio e la Provincia autonoma di Trento hanno impugnato anche il comma
857.
Inoltre, con ricorso iscritto al n. 38 del registro ricorsi 2019, la
Regione Siciliana ha impugnato l’art. 1, commi 857, 859, 862 e 863, della
richiamata legge n. 145 del 2018.
2.– I giudizi promossi vanno riuniti per essere definiti con un’unica
pronuncia, avendo a oggetto questioni relative alle medesime norme, censurate
in riferimento a parametri in buona parte coincidenti, e, per il resto,
questioni relative a norme comunque oggettivamente connesse.
3.– Si esaminano innanzi tutto le questioni promosse dalla Regione Lazio e
dalle Province autonome di Trento e di Bolzano, le quali riguardano misure
introdotte dal legislatore statale in tema di ritardo dei pagamenti nelle
transazioni commerciali degli enti del Servizio sanitario nazionale (SSN).
L’art. 1, comma 865, della legge n. 145 del 2018 stabilisce che per gli
enti del SSN «che non rispettano i tempi di pagamento previsti dalla
legislazione vigente, le regioni e le province autonome provvedono ad integrare
i contratti dei relativi direttori generali e dei direttori amministrativi
inserendo uno specifico obiettivo volto al rispetto dei tempi di pagamento ai
fini del riconoscimento dell’indennità di risultato. La quota dell’indennità di
risultato condizionata al predetto obiettivo non può essere inferiore al 30 per
cento». In base al ritardo registrato, la norma gradua poi il riconoscimento di
tale quota, fino a escluderlo per ritardi superiori a sessanta giorni oppure in
caso di mancata riduzione di almeno il 10 per cento del debito commerciale
residuo.
Il successivo comma 866 prevede che «[l]e regioni trasmettono al Tavolo di
verifica degli adempimenti regionali di cui all’articolo 12 dell’intesa tra lo
Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, del 23 marzo
2005 […] una relazione in merito all’applicazione e agli esiti del comma 865.
La trasmissione della relazione costituisce adempimento anche ai fini e per gli
effetti dell’articolo 2, comma 68, lettera c), della legge 23 dicembre 2009, n.
191 […]. Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di
Bolzano relazionano al citato Tavolo sullo stato di applicazione del comma
865». In sostanza, solo per le Regioni a statuto ordinario la trasmissione
della relazione costituisce adempimento rilevante ai fini della erogazione
della quota cosiddetta premiale del finanziamento del SSN a cui concorre
ordinariamente lo Stato, condizionata appunto alla verifica positiva degli
adempimenti regionali previsti dalla richiamata intesa e dalla legislazione
vigente.
È opportuno segnalare che, ai sensi del comma 860, per l’applicazione delle
misure di cui al comma 865 si fa riferimento ai tempi di pagamento e al ritardo
calcolati sulle fatture ricevute e scadute nell’anno precedente e al debito
commerciale residuo, di cui all’art. 33 del decreto legislativo 14 marzo 2013,
n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli
obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni).
Infine, a norma del comma 857, nell’anno 2020 la quota dell’indennità di risultato
condizionata al rispetto dei tempi di pagamento è raddoppiata nei confronti
degli enti che non hanno richiesto l’anticipazione di liquidità – oggetto della
disposizione di cui al comma 849 – entro il termine di cui al comma 853
(fissato al 28 febbraio 2019) e che, avendola ottenuta, non hanno poi
effettuato il pagamento dei debiti nel termine fissato.
3.1.– La Regione Lazio lamenta in primo luogo che tutte le disposizioni
impugnate avrebbero violato il principio di leale collaborazione di cui agli
artt. 5 e 120 della Costituzione, in quanto esse intersecherebbero materie di
competenza concorrente (tutela della salute e coordinamento della finanza
pubblica) e altre di competenza residuale (ordinamento e organizzazione
amministrativa regionale) senza che possa individuarsi una materia prevalente.
In presenza di un intreccio inestricabile, quindi, il legislatore statale
avrebbe dovuto prevedere uno strumento partecipativo delle Regioni, tanto a
monte, in sede di adozione delle disposizioni impugnate, quanto a valle, nella
fase di attuazione delle stesse; quale espressione di tale principio, la
ricorrente richiama i cosiddetti patti per la salute e la vigente disciplina
sulla dirigenza sanitaria, che, in ottemperanza alla sentenza di questa
Corte n. 251 del 2016, è stata preceduta da intesa (decreto legislativo 26 luglio
2017, n. 126, recante «Disposizioni integrative e correttive al decreto
legislativo 4 agosto 2016, n. 171, di attuazione della delega di cui
all’articolo 11, comma 1, lettera p), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in
materia di dirigenza sanitaria»). Del decreto attuativo della delega si
richiama, peraltro, l’art. 2, comma 3, che prevede anche un accordo in
Conferenza Stato-Regioni per definire i criteri e le procedure per la
valutazione dell’attività dei direttori generali.
Con una seconda censura la ricorrente prospetta la violazione dell’art.
117, terzo, quarto e sesto comma, Cost.: contraddicendo l’autoqualificazione
in tal senso operata dal legislatore, le disposizioni impugnate (in particolare
quelle di cui ai commi 857 e 865 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018) non
sarebbero ascrivibili in maniera prevalente al coordinamento della finanza
pubblica né, comunque, potrebbero essere considerate principi fondamentali di
tale materia o di quella della tutela della salute, dato il loro carattere dettagliato
e puntuale che precluderebbe qualsiasi possibilità di autonomo adeguamento da
parte delle Regioni.
Infine, ad avviso della Regione Lazio, le norme impugnate contrasterebbero
con gli artt. 3, 97 e 118, primo e secondo comma, Cost., in quanto difetterebbero
di ragionevolezza e proporzionalità, con ridondanza sulle competenze regionali
ai sensi dell’art. 117, terzo, quarto e sesto comma, Cost.
Al riguardo, si sostiene che per l’effetto delle suddette norme
risulterebbe irragionevolmente sacrificata la possibilità di orientare l’azione
amministrativa regionale, «in violazione dei principi di buon andamento,
differenziazione e adeguatezza», a obiettivi prioritari più attinenti alla
tutela della salute, tra cui il perseguimento di un più alto grado di erogazione
dei livelli essenziali di assistenza.
Il denunciato difetto di proporzionalità deriverebbe invece dalla mancata
considerazione di circostanze significative quali «il debito commerciale
complessivo, i progressi nei termini di pagamento rispetto agli esercizi
precedenti, le cause del ritardo, le eventuali responsabilità o al contrario i
progressi ottenuti dal singolo dirigente rispetto alla progressiva riduzione
del debito commerciale e dei termini di pagamento».
La censura in esame colpirebbe in maniera ancor più evidente la norma
contenuta nell’impugnato comma 866. La possibile mancata erogazione della
«quota di finanziamento del SSN cui concorre lo Stato» discenderebbe in maniera
automatica dal ritardo dei pagamenti, senza che sia dato rilievo ai progressi
ottenuti rispetto all’obiettivo e alle specifiche responsabilità in materia,
nonché alla complessiva riduzione del debito commerciale residuo.
Inoltre, tale norma sconterebbe un difetto di chiarezza, destinato a
incidere «sulla sua intrinseca ragionevolezza», perché non chiarirebbe se
l’adempimento da essa richiesto sia riferibile alla sola trasmissione della
relazione regionale o alla concreta gestione delle indennità di risultato.
Intesa in tale secondo significato, «che sembra plausibile in ragione
dell’inciso, contenuto nel comma 866» relativo alle autonomie speciali, la
norma non sarebbe comunque idonea a raggiungere lo scopo che si prefigge: la
mancata erogazione della quota di finanziamento statale potrebbe, infatti,
incidere ulteriormente sul ritardo dei pagamenti.
3.2.– Le censure articolate dalla Provincia autonoma di Trento nei
confronti dei commi 857, 865 e 866 della legge n. 145 del 2018, muovono dal
presupposto – fin d’ora valutabile corretto – che per le disposizioni impugnate
non operi la clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 1, comma 1130, della
legge n. 145 del 2018, poiché esse menzionano espressamente le Province
autonome e hanno un contenuto precettivo prevalente sulla generale clausola di
garanzia.
La ricorrente premette anche che la Provincia autonoma di Trento e i suoi
enti, tra cui quelli del servizio sanitario, «non sono interessati dal fenomeno
del ritardo nei pagamenti dei debiti commerciali, dal momento che la Provincia
ha messo in atto, da molti anni, buone prassi, che hanno condotto l’ente e le
sue agenzie ad avere, fin dal 2016, un indicatore di tempestività dei pagamenti
negativo, cioè dimostrativo di un anticipo dei pagamenti sulla scadenza delle
fatture».
Segnala quindi, nella memoria integrativa, la pubblicazione, nelle more del
ricorso, della sentenza
della Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, in causa
C-122/18, Commissione europea contro Repubblica italiana, che ha affermato
la responsabilità finale dello Stato italiano indipendentemente dall’ente la
cui azione o inerzia abbia dato luogo all’inadempimento. Precisa tuttavia che
con le norme impugnate «lo Stato si sta intestando e sta esercitando in via
preventiva un potere sostitutivo nei confronti dell’ente sanitario
provinciale», alterando il riparto interno delle competenze, al punto di
precludere alla Provincia, qualora in futuro dovesse versare nella situazione
(al momento esclusa) di ritardo nei pagamenti, di scegliere altri mezzi per la
risoluzione del problema.
Nello specifico, nei confronti della disposizione di cui al comma 865 del
richiamato art. 1, la ricorrente ravvisa una prima violazione con riferimento
all’art. 79, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto
1972, n. 670 (Approvazione del Testo unico delle leggi costituzionali
concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), poiché questo
consentirebbe allo Stato di dettare norme di coordinamento finanziario condizionanti
le potestà legislative delle Province autonome «solo nella misura in cui tali
norme articolino limiti statutari alle competenze provinciali», circostanza che
nella specie non ricorrerebbe.
Inoltre, tale norma, da un lato autoqualificandosi
come principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica e,
dall’altro, incidendo «ratione materiae
sulla organizzazione del sistema sanitario», risulterebbe illegittima perché
quello della Provincia autonoma è un sistema sanitario interamente finanziato
con risorse proprie, per cui lo Stato non avrebbe titolo per dettare norme di
coordinamento finanziario.
In ogni caso, la disposizione impugnata sarebbe illegittima per violazione
dell’art. 79 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige, o comunque degli artt.
117, terzo comma, e 119, secondo comma, Cost., nelle parti applicabili alle
Province autonome ai sensi dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre
2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione),
perché quello contenuto nel comma 865 sarebbe «un minuto precetto di dettaglio»
che non lascia all’ente autonomo «alcuna libertà in ordine ai modi con i quali
conseguire il risultato».
Al riguardo la ricorrente, nella memoria integrativa, precisa che nel
diritto costituzionale «il fine» (nel caso di specie il coordinamento della
finanza pubblica) «non giustifica qualunque mezzo», potendo tale fine essere
attuato, in questo caso, solo con norme di principio.
In quanto norma che incide sulla organizzazione amministrativa e sanitaria
della Provincia autonoma, il comma 865 si porrebbe inoltre in contrasto con gli
artt. 8, numero 1), 9, numero 10), e 16 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige
ovvero, se più favorevole, con l’art. 117, terzo comma, Cost., con riferimento
alla materia della «tutela della salute», in combinato con l’art. 10 della
legge cost. n. 3 del 2001.
L’ambito materiale regolato dalla norma impugnata inciderebbe, infatti,
sulle materie di competenza legislativa primaria dell’organizzazione
amministrativa e del personale e sulla materia di competenza concorrente
relativa a igiene e sanità, comprensiva dell’assistenza sanitaria e
ospedaliera, ovvero su quella della tutela della salute, ai sensi dell’art.
117, terzo comma, Cost., se più favorevole; la disposizione statale, inoltre,
conformerebbe in modo diretto anche l’esercizio delle funzioni amministrative
che l’art. 16 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige riserva alla Provincia.
D’altro canto, la ricorrente evidenzia di avere già compiutamente regolato
tale settore con la legge della Provincia autonoma di Trento 23 luglio 2010, n.
16 (Tutela della salute in provincia di Trento); e, con specifico riferimento
alla figura del direttore generale, precisa che la citata disciplina affida
alla Giunta provinciale sia il compito di approvare lo schema di contratto
(art. 28, comma 6), sia quello di stabilire «criteri e modalità per la
valutazione dell’attività del direttore generale, con riferimento agli
obiettivi assegnatigli e alla qualità complessiva dell’offerta assistenziale assicurata
dall’azienda» (art. 28, comma 7).
In tale contesto, la norma impugnata non potrebbe essere qualificata né
come norma fondamentale di grande riforma né come principio fondamentale della
materia «igiene e sanità» o «tutela della salute», in ragione del suo carattere
estremamente dettagliato e dell’assenza «di collegamento teleologico con le
specifiche materie interessate dalla misura».
Il richiamato comma 865 sarebbe, in ogni caso, illegittimo in quanto norma
immediatamente applicabile e, quindi, lesiva dell’art. 2 del decreto
legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale
per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra gli atti legislativi
statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo
e coordinamento), che prevede, invece, un mero obbligo di adeguamento della
legislazione provinciale.
Per quanto riguarda la disposizione di cui all’art. 1, comma 866, della
legge n. 145 del 2018, la ricorrente appunta l’impugnazione sul suo terzo periodo,
laddove si prevede che le Regioni a statuto speciale e le Province autonome
relazionano «sullo stato di applicazione del comma 865» al Tavolo di verifica
degli adempimenti regionali di cui all’art. 12 dell’intesa raggiunta in
Conferenza Stato-Regioni il 23 marzo 2005.
Ove il comma 866 sia inteso come statuente un vero e proprio obbligo a
carico della Provincia autonoma, la ricorrente ne ravvisa un primo motivo di
illegittimità in via consequenziale dagli stessi argomenti di censura del comma
865, essendo gli obblighi sanciti da entrambe le disposizioni strutturalmente
inscindibili. Una volta dichiarata la illegittimità di quest’ultimo, l’obbligo
previsto dal comma successivo diverrebbe dunque privo di oggetto o comunque del
tutto irragionevole, con violazione dell’art. 3, primo comma, Cost.
La norma sarebbe comunque elusiva dell’intesa del 23 marzo 2005 in quanto
neutralizzerebbe la clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 13 di tale
accordo, rendendo direttamente applicabile un monitoraggio che l’intesa non
prevedeva come obbligatorio. E ciò dimostrerebbe la violazione anche del
principio di leale collaborazione radicato nell’art. 120, secondo comma, Cost.
e del principio di ragionevolezza ricavabile dall’art. 3, primo comma, Cost.,
in quanto la legge ordinaria dello Stato non potrebbe strumentalizzare
l’istituto del tavolo tecnico di monitoraggio neutralizzando le specifiche
condizioni in base alle quali esso è stato attivato.
La denunciata irragionevolezza ridonderebbe, secondo la ricorrente, sull’esercizio
delle funzioni provinciali, poiché costringerebbe l’ente a un’attività di
monitoraggio e di redazione di particolari relazioni «non correlata a una
esigenza propria della funzione provinciale».
Infine, il comma 857 è impugnato ove interpretato nel senso che il
raddoppio della quota dell’indennità di risultato dei dirigenti sanitari
apicali condizionata al rispetto dei tempi di pagamento sia disposto per il
solo fatto dell’assenza della richiesta di anticipazione della liquidità: se
così fosse, ne conseguirebbe «un obbligo di ricorrere a tali anticipazioni al
solo fine di evitare la responsabilità per il tardivo pagamento dei debiti»,
con violazione per difetto di ragionevolezza e proporzionalità dell’art. 3,
primo comma, Cost., con riflesso sull’autonomia finanziaria dell’ente e
sull’esercizio delle funzioni attribuite alle Province autonome dagli artt. 8,
9 e 16 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige e dall’art. 117, terzo comma,
Cost., per effetto dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001. Si prospetta
inoltre la violazione dell’autonomia finanziaria e di bilancio riconosciuta
alla Provincia autonoma dal Titolo VI dello statuto reg. Trentino-Alto Adige e
dall’art. 119 Cost., anche in relazione con l’art. 10 della legge cost. n. 3
del 2001.
3.3.– Anche il ricorso della Provincia autonoma di Bolzano correttamente
esclude che per le disposizioni impugnate possa trovare applicazione la
generale clausola di salvaguardia contenuta nella legge n. 145 del 2018;
parimenti, ritiene non corretta l’autoqualificazione
affermata dall’art. 1, comma 858, della stessa legge.
Quanto alla disposizione di cui al comma 865, la ricorrente ne ravvisa la
illegittimità sia con riferimento ai parametri prospettati dall’altra
Provincia, sia ad altri. In particolare, la violazione delle competenze
legislative provinciali e delle corrispondenti funzioni amministrative in
materia di organizzazione amministrativa e di tutela della salute viene
prospettata anche con riferimento all’art. 4, numero 7), dello statuto reg.
Trentino-Alto Adige e all’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 28
marzo 1975, n. 474 (Norme di attuazione dello statuto per la regione
Trentino-Alto Adige in materia di igiene e sanità); infatti, sulla base di tali
previsioni, l’art. 1 della legge della Regione autonoma Trentino-Alto Adige 20
gennaio 1992, n. 1 (Norme sulle modalità di gestione delle funzioni dirette
alla tutela della salute), attribuisce alla potestà legislativa delle Province
autonome di Trento e di Bolzano la competenza in materia di dimensioni, numero,
modalità di funzionamento e organizzazione delle aziende sanitarie.
A tale riguardo, la ricorrente rileva di avere esercitato le proprie
competenze con la legge della Provincia autonoma di Bolzano 21 aprile 2017, n.
3 (Struttura organizzativa del Servizio sanitario provinciale).
Quanto ai profili di censura delle norme impugnate ove ricondotte alla
materia del coordinamento finanziario, la ricorrente li articola evocando i
parametri già richiamati nell’esposizione del ricorso precedente nonché gli
artt. 103, 104 e 107, il Titolo II e il Titolo VI dello statuto reg.
Trentino-Alto Adige, l’intero decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 268 (Norme
di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di
finanza regionale e provinciale) e l’accordo concluso tra il Governo, la
Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol e le Province autonome di Trento
e di Bolzano il 15 ottobre 2014. Nel complesso, contesta la incoerenza delle
disposizioni impugnate con il quadro delle relazioni finanziarie tra Stato e
Provincia autonoma di Bolzano e in ogni caso lamenta la loro adozione in via
unilaterale e immediatamente vincolante, in contrasto con il principio di leale
collaborazione e delle procedure di modifica statutaria.
Comuni al ricorso dell’altra Provincia sono poi la censura motivata sul
finanziamento con risorse proprie provinciali del servizio sanitario, che
precluderebbe allo Stato di esercitare la competenza di coordinamento
finanziario, e quella sulla violazione del meccanismo di adeguamento previsto
dall’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992, cui si aggiunge, in via subordinata, la
prospettata violazione dell’art. 107 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige in
relazione al procedimento dallo stesso disciplinato per l’emanazione delle
relative norme di attuazione.
Infine, comuni al ricorso dell’altra Provincia sono le censure rivolte alla
norma di cui al comma 866.
3.4.– Alle censure mosse dalle ricorrenti, l’Avvocatura generale dello
Stato oppone una preliminare considerazione, basata sulla persistenza di
ritardi, registrati da numerose amministrazioni pubbliche, nel pagamento dei
debiti commerciali. Considerato che del rispetto di tale normativa, di fonte
europea, è responsabile lo Stato, l’adozione delle disposizioni impugnate – e
delle altre a queste connesse – sarebbe stata necessaria, anche per rispondere
al ricorso presentato nei confronti dell’Italia dalla Commissione europea per
infrazione alla direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del
16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali.
Pertanto, le disposizioni impugnate introdurrebbero legittimamente principi
di coordinamento della finanza pubblica, applicabili anche alle autonome
speciali; non sarebbe direttamente coinvolta la materia della tutela della
salute, né altre materie di competenza regionale o provinciale, in quanto il
legislatore non avrebbe inciso i profili pubblicistico-organizzativi della
dirigenza pubblica, ma operato sui contratti di lavoro dei dirigenti, al fine
di rendere questi ultimi effettivamente coinvolti nella corretta gestione del
sistema dei pagamenti.
Lo Stato avrebbe, dunque, esercitato una competenza «assolutamente generale
e prevalente» rispetto a quella ritenuta lesa dalle ricorrenti, «non
appalesandosi necessaria l’adozione di iniziative di condivisione con gli enti
territoriali».
Si precisa inoltre, da un lato, che il comma 865, in coerenza con il
principio di proporzionalità, gradua le misure di garanzia in relazione alla
gravità dell’inadempimento. Dall’altro, che nulla sarebbe innovato per gli enti
virtuosi in quanto il presupposto per l’applicazione della norma è il mancato
rispetto dei tempi di pagamento.
Infondate sarebbero anche le censure fondate sulle specificità del sistema
di finanziamento sanitario provinciale e sulla conseguente carenza di titolo da
parte dello Stato a disciplinare la materia: la ratio delle norme impugnate
sarebbe del tutto svincolata dal mancato concorso dello Stato al finanziamento
del servizio sanitario provinciale.
Quanto alle censure sul carattere eccessivamente dettagliato della norma,
l’Avvocatura generale dello Stato replica sia sostenendo che alle Regioni e
alle Province autonome sarebbe lasciato comunque un margine di intervento, sia
ricordando che nella valutazione dei principi di coordinamento della finanza
pubblica questa Corte in più occasioni avrebbe escluso «criteri formalistici e
meramente "quantitativi”» valorizzando, invece, le finalità perseguite da tali
norme.
Le norme impugnate sarebbero, inoltre, pienamente ragionevoli e
proporzionate laddove, in maniera non illogica né gravosa, prescrivono modalità
di monitoraggio e, eventualmente, interventi correttivi.
Al riguardo la previsione dell’impugnato comma 866 darebbe piena attuazione
al coordinamento della finanza pubblica, il quale implicherebbe, oltre
all’esercizio del potere legislativo, anche quello di poteri di ordine
amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo.
L’Avvocatura generale dello Stato ritiene infine infondate le censure sul
comma 857, in quanto la disposizione non si applicherebbe all’ente che sia
abitualmente rispettoso dei termini di pagamento dei debiti commerciali e degli
obblighi di riduzione del debito residuo e che non evidenzi, quindi, un
«comportamento incauto».
4.– Preliminarmente, va rilevato che l’impugnato comma 857 dell’art. 1
della legge n. 145 del 2018 è stato abrogato dall’art. 50, comma 1, lettera a),
del decreto-legge 29 ottobre 2019, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia
fiscale e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, in legge
19 dicembre 2019, n. 157. Come riconosciuto dalle ricorrenti, lo ius superveniens è di per sé
idoneo a soddisfare le loro pretese e, d’altro canto, il contenuto precettivo
della norma impugnata è tale che questa non può avere ricevuto applicazione
medio tempore: infatti, essa era destinata a operare «[n]ell’anno
2020», sì che la sua abrogazione è intervenuta prima che il meccanismo del
"raddoppio” dalla stessa congegnato divenisse applicabile.
Va pertanto dichiarata cessata la materia del contendere delle questioni
che hanno a oggetto il comma 857 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018,
sussistendo entrambe le condizioni richieste dalla consolidata giurisprudenza
della Corte (da ultimo, sentenza n. 287 del
2019).
5.– L’esame del merito delle residue disposizioni impugnate rende opportuno
precisare il contesto in cui esse si inseriscono, che è quello del ritardo nel
pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni, considerato sotto i suoi
profili macroeconomici.
La disciplina dell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie dei soggetti
pubblici ha infatti una notevole incidenza sul sistema economico, in
considerazione del ruolo di acquirenti di beni, servizi e prestazioni rivestito
dalle amministrazioni pubbliche e dell’ingente quantità di risorse a tal fine
impiegate.
L’importanza del fenomeno è stata recepita dalla direttiva 2011/7/UE, sia
rimarcando la necessità di «un passaggio deciso verso una cultura dei pagamenti
rapidi» (considerando n. 12), sia evidenziando che i «ritardi di pagamento
influiscono negativamente sulla liquidità e complicano la gestione finanziaria
delle imprese. Essi compromettono anche la loro competitività e redditività
quando il creditore deve ricorrere ad un finanziamento esterno a causa di
ritardi nei pagamenti. Il rischio di tali effetti negativi aumenta
considerevolmente nei periodi di recessione economica, quando l’accesso al
finanziamento diventa più difficile» (considerando n. 3).
D’altronde i tardivi pagamenti rischiano di pregiudicare anche «il corretto
funzionamento del mercato interno», nonché «la competitività delle imprese e in
particolare delle PMI», valori che la direttiva, all’art. 1, eleva a suoi
principali obiettivi.
Il legislatore italiano, conformandosi a tale direttiva e in risposta
all’ingente ammontare maturato dei debiti commerciali delle pubbliche
amministrazioni, nell’ultimo decennio ha dato avvio a specifiche misure per
incidere su tale patologica situazione.
Del resto, la stessa giurisprudenza di questa Corte, già a ridosso del
recepimento della direttiva 2011/7/UE, ha sottolineato la gravità del problema,
evidenziando che «il pagamento dei debiti scaduti della pubblica
amministrazione è obiettivo prioritario […] non solo per la critica situazione
economica che il ritardo ingenera nei soggetti creditori, ma anche per la
stretta connessione con l’equilibrio finanziario dei bilanci pubblici, il quale
viene intrinsecamente minato dalla presenza di situazioni debitorie non onorate
tempestivamente» (sentenza
n. 250 del 2013). Va infatti considerato anche il rilevante tema
dell’esposizione debitoria per interessi passivi per ritardati pagamenti che,
in considerazione anche del loro specifico e oneroso criterio di calcolo,
riduce le effettive risorse da destinare alle finalità istituzionali.
Nello specifico le misure adottate dal legislatore italiano si sono mosse
principalmente in tre direzioni: a) imposizione di limiti più stringenti ai
tempi di pagamento: decreto legislativo 9 novembre 2012, n. 192 (Modifiche al
decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, per l’integrale recepimento della
direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali, a norma dell’articolo 10, comma 1, della legge 11
novembre 2011, n. 180); b) incentivazione della cessione a intermediari
finanziari dei crediti vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni e
della utilizzazione degli stessi in compensazione di debiti tributari: art. 7,
comma 1, del decreto-legge 8 aprile 2013, n. 35 (Disposizioni urgenti per il
pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il
riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in materia di
versamento di tributi degli enti locali), convertito, con modificazioni, in
legge 6 giugno 2013, n. 64; art. 12, comma 7-bis, del decreto-legge 23 dicembre
2013, n. 145 (Interventi urgenti di avvio del piano "Destinazione Italia”, per
il contenimento delle tariffe elettriche e del gas, per
l’internazionalizzazione, lo sviluppo e la digitalizzazione delle imprese,
nonché misure per la realizzazione di opere pubbliche ed EXPO 2015),
convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 9; c) concessione
straordinaria di liquidità agli enti debitori per ridurre lo stock del debito
accumulato: artt. 1, 2 e 3 del d.l. n. 35 del 2013, come convertito, nonché
articoli da 32 a 35 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per
la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, in
legge 23 giugno 2014, n. 89.
5.1.– Le riforme introdotte e le risorse stanziate per correggere tale
patologia, se hanno consentito indubbi miglioramenti rispetto alla situazione
preesistente, non sono state però sufficienti a riportare a dimensioni
fisiologiche il problema.
Nell’ultimo referto al Parlamento sulla gestione finanziaria dei Servizi
sanitari regionali, riferita all’esercizio 2017, approvato dalla Corte dei
conti, sezione delle autonomie, con delibera 12 giugno 2019, n. 13, la
situazione dei tempi di pagamento e dell’entità complessiva del debito
commerciale risultava ancora alquanto variegata. A fronte del diffuso
miglioramento che pure è stato riscontrato, il referto invita a non
«affievolire le iniziative intraprese dai diversi livelli di governo per
ridurre e tendere alle tempistiche prescritte dalla normativa sia europea, sia
nazionale», tuttora non assicurate in numerose Regioni; a tal fine, sottolinea
l’utilità della introduzione della fatturazione elettronica e di altri
strumenti e procedure di gestione della liquidità che, sperimentati in alcune
realtà regionali, hanno contribuito alla riduzione dell’esposizione debitoria e
dei tempi medi dei pagamenti.
Infine, nella causa C-122/18 – a seguito del ricorso per inadempimento, ai
sensi dell’art. 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE),
come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e
ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, proposto il 14 febbraio 2018
dalla Commissione europea – con sentenza
pubblicata il 28 gennaio 2020, la Corte di giustizia, grande sezione,
rimarcando la necessità di «un passaggio deciso verso una cultura dei pagamenti
rapidi», ha dichiarato – in base alla situazione che si presentava alla
scadenza del termine stabilito nel parere motivato (16 aprile 2017) – il venir
meno della Repubblica italiana agli obblighi che discendono dall’art. 4
(«Transazioni fra imprese e pubbliche amministrazioni»), paragrafi 3 e 4, della
direttiva 2011/7/UE.
Nella motivazione la sentenza
ha peraltro precisato che l’inadempimento di uno Stato membro può, in linea di
principio, essere dichiarato ai sensi dell’art. 258 TFUE anche se derivante
dall’azione o dall’inerzia di un’istituzione costituzionalmente autonoma: ne
consegue che lo Stato italiano è considerato responsabile anche dei ritardi
degli enti territoriali.
5.2.– È questo dunque il contesto in cui devono essere considerate le
disposizioni impugnate che si inseriscono a loro volta in un insieme
sistematico di ulteriori interventi predisposto dalla stessa legge n. 145 del
2018 per contrastare il fenomeno dei ritardi dei pagamenti delle pubbliche
amministrazioni.
Si tratta di interventi riconducibili a una duplice direttrice: a)
l’ampliamento della possibilità, per gli enti territoriali (anche per conto dei
rispettivi enti del SSN), di ricorrere nel 2019 ad «anticipazioni di liquidità»
(comma 849 e commi da 850 a 856); b) l’introduzione di misure finalizzate a
conseguire il rispetto dei tempi di pagamento e a ridurre l’importo del debito
commerciale residuo da parte delle amministrazioni pubbliche diverse dallo
Stato, differenziate a seconda della natura dell’amministrazione e della
relativa disciplina contabile (commi da 859 a 866).
5.3.– Tanto premesso le questioni sollevate dalle ricorrenti con riguardo
al comma 865 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018, che si colloca all’interno
del secondo ordine di interventi, non sono fondate.
Al fine della valutazione delle censure esposte nei ricorsi è necessario,
anzitutto, individuare a quali titoli di competenza sia riconducibile la
disposizione in oggetto, non essendo decisiva in tal senso, come del resto
riconosciuto da tutte le ricorrenti, l’autoqualificazione
in termini di «princìpi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica,
ai sensi degli articoli 117, terzo comma, e 119, secondo comma, della
Costituzione» che ne dispone il comma 858 dell’art. 1 della legge n. 145 del
2018.
Secondo l’orientamento consolidato di questa Corte, infatti, l’autoqualificazione non ha carattere precettivo e vincolante
al punto da porsi quale presupposto indiscusso per la valutazione della
legittimità costituzionale della norma cui essa si riferisce (ex multis, sentenze n. 246
e n. 94 del 2018):
la natura della stessa va, infatti, comunque verificata con riguardo
«all’oggetto, alla ratio e alla finalità» (sentenza n. 164 del
2019) che ne costituiscono l’effettiva sostanza.
A questo riguardo si deve rilevare che oggetto della norma impugnata sono i
singoli contratti di lavoro dei direttori generali e dei direttori
amministrativi degli enti sanitari delle Regioni e delle Province autonome, che
ricadono, in quanto tali, nell’ambito dell’ordinamento civile.
Infatti, secondo l’art. 3-bis, comma 8, del decreto legislativo 30 dicembre
1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma
dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), «[i]l rapporto di lavoro
del direttore generale, del direttore amministrativo e del direttore sanitario
è esclusivo ed è regolato da contratto di diritto privato, di durata non
inferiore a tre e non superiore a cinque anni, rinnovabile, stipulato in
osservanza delle norme del titolo terzo del libro quinto del codice civile».
In questo ambito la norma impugnata interviene, con una disciplina
indubbiamente di dettaglio, a limitare l’autonomia delle parti per quanto
attiene alla specifica componente del trattamento economico costituita dalla
indennità di risultato: ove l’ente non abbia rispettato i tempi di pagamento
previsti dalla legislazione vigente, per un verso viene prescritto l’inserimento
nel contratto di uno specifico obiettivo volto al rispetto di tali tempi,
mentre, per altro verso, si stabilisce che a questo obiettivo va condizionata
una quota della indennità non inferiore al 30 per cento di quella
contrattualmente prevista, prescrivendosi altresì il criterio per il suo
riconoscimento, graduato in funzione della maggiore o minore consistenza del
ritardo nei pagamenti.
La norma impugnata incide, in questi termini, sul trattamento economico di
dirigenti, anche già in servizio, negli enti sanitari regionali, dettando, al
verificarsi del mancato rispetto dei tempi di pagamento previsti dalla
legislazione vigente, una disciplina speciale e dettagliata dell’indennità di
risultato.
Secondo il costante orientamento di questa Corte il trattamento economico
dei dipendenti pubblici – compresa la disciplina «delle varie componenti della
retribuzione» (sentenza
n. 19 del 2013) – «va ricondotto alla materia dell’"ordinamento civile”,
prevalendo quest’ultimo ambito di competenza su ogni tipo di potestà
legislativa delle Regioni» (sentenza n. 153 del
2015; nello stesso senso, sentenza n. 196 del
2018) e anche delle autonomie speciali (da ultimo, sentenza n. 138 del
2019).
Con la disposizione in esame, dunque, il legislatore ha utilizzato una
norma, il cui oggetto è un istituto retributivo di contratti di natura privata,
per realizzare in via mediata una finalità che è, questa sì, riconducibile al
coordinamento dinamico della finanza pubblica, in quanto diretta a
«"riorientare” la spesa pubblica» (sentenza n. 272 del
2015) verso il rispetto dei tempi di pagamento stabiliti dalla direttiva
2011/7/UE e dalla pertinente legislazione nazionale.
Tale intervento statale ha bensì riflessi sulle diverse competenze
regionali e provinciali relative alla organizzazione sanitaria evocate dalle
ricorrenti, ma si tratta a ben vedere di una incidenza mediata, inevitabilmente
connessa al carattere trasversale delle competenze statali cui tale intervento
è comunque riconducibile in via prevalente; inoltre, con riguardo alla
specifica censura delle Province autonome, va anche precisato che – come
rilevato dalla difesa erariale – la ratio della norma è del tutto svincolata
dal mancato concorso dello Stato al finanziamento del servizio sanitario di
queste ultime.
Peraltro, l’autonomia regionale e provinciale, così come declinata dalle
ricorrenti in relazione allo specifico oggetto, non è stata svuotata o
intaccata nel suo nucleo essenziale dal perseguimento di tale finalità di
coordinamento, ma soltanto limitata: la quota dell’indennità di risultato
stabilita direttamente dalla legge statale è, infatti, circoscritta alla
percentuale del 30 per cento, senza incidere su quella restante.
Tale conclusione porta a escludere che, come invece suggestivamente
sostenuto dalla Provincia autonoma di Trento, il legislatore statale abbia
abusato del mezzo (la norma di dettaglio) per perseguire un determinato fine
(pur riconosciuto come meritorio): al contrario, quest’ultimo (riconducibile
nell’ambito del coordinamento della finanza pubblica) è stato perseguito dal
legislatore statale attraverso l’utilizzo, prevalente e non eccessivamente
invasivo, del proprio titolo di competenza in materia di ordinamento civile.
Ciò che fa venir meno ogni questione sollevata sul carattere di dettaglio della
disposizione censurata e sulla violazione dell’autonomia regionale e
provinciale, destituendo di fondamento anche le censure sollevate dalle
Province autonome con riguardo al meccanismo di adeguamento (che non trova
applicazione nelle ipotesi in cui venga in rilievo una competenza legislativa
esclusiva dello Stato) previsto dall’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992 (sentenza n. 28 del
2014) e richiamato anche dall’art. 79, comma 4, dello statuto reg.
Trentino-Alto Adige.
Da tutto ciò discende, infine, che, siccome in relazione alla norma
impugnata non sussiste quell’inestricabile intreccio di competenze statali e
regionali che in altra occasione – quando però la disciplina statale
coinvolgeva anche precipui aspetti pubblicistici della dirigenza sanitaria – ha
condotto questa Corte ad affermare la necessità della leale collaborazione (sentenza n. 251 del
2016), risulti infondata anche la censura svolta in tal senso dalla Regione
Lazio e dalla Provincia autonoma di Bolzano.
Né una contraria conclusione può discendere dalla considerazione dell’art.
2, comma 3, del decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 171, recante «Attuazione
della delega di cui all’articolo 11, comma 1, lettera p), della legge 7 agosto
2015, n. 124, in materia di dirigenza sanitaria», evocato dalla Regione Lazio
in quanto assume a presupposto della sua attuazione un accordo da sancire in
sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le
Province autonome di Trento e di Bolzano.
Basta infatti rilevare che se da un lato tale norma, nell’ambito della
disciplina dei criteri e delle procedure per valutare e verificare l’attività
dei direttori generali, si riferisce alla programmazione regionale per la
definizione degli obiettivi (lettera a), tuttavia, dall’altro, alla lettera d),
fa riferimento anche a «ulteriori adempimenti previsti dalla legislazione
vigente»: fattispecie in cui può già direttamente sussumersi (prima quindi
dell’accordo, che ancora non è intervenuto) anche quanto introdotto dalla
disposizione censurata.
5.3.1.– Il comma 865 dell’art. 1 è impugnato in particolare dalla sola
Regione Lazio anche per violazione degli artt. 3, 97 e 118, primo e secondo
comma, Cost., per difetto di ragionevolezza e proporzionalità.
Le censure sono ammissibili perché la ricorrente ne ha sufficientemente
motivato, come si è in precedenza descritto, la ridondanza sulle attribuzioni
ad essa costituzionalmente garantite.
Anche tali censure sono infondate.
La norma in oggetto, con la quale, come detto, è stato disciplinato un
istituto retributivo per finalizzarlo al conseguimento di un obiettivo di
coordinamento della finanza pubblica, si differenzia da altre norme statali,
parimenti dirette alle medesime finalità ma dal carattere marcatamente
"lineare”, che sono state in passato dichiarate costituzionalmente illegittime
da questa Corte.
In particolare, nella sentenza n. 272 del
2015 il mancato superamento del test di proporzionalità discendeva da una
duplice considerazione: in primo luogo perché la norma impugnata determinava,
per il mancato rispetto, anche minimo, dei tempi di pagamento previsti, una
completa e automatica compressione dell’autonomia regionale attraverso la
sanzione del blocco totale delle assunzioni; in secondo luogo perché essa
finiva per penalizzare maggiormente quelle Regioni che avevano virtuosamente
ridotto la propria spesa per il personale, impedendo ad esse di potenziare la
propria dotazione di personale anche quando questa fosse stata funzionale
proprio a rispondere al problema dei tardivi pagamenti.
Ben diversa è la struttura della norma censurata nel presente giudizio,
perché essa: a) esclude l’applicazione delle misure in questa contenute qualora
l’ente rispetti i tempi di pagamento (per cui, come rilevato dalla difesa
statale, nulla è innovato «per gli enti virtuosi») e in ogni caso gradua tali
misure in relazione alla gravità dell’inadempimento; b) non determina, come già
rilevato al punto precedente, uno svuotamento dell’autonomia regionale, bensì
una sua circoscritta limitazione: tenuto anche conto della sopravvenuta
abrogazione del comma 857 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018 e del
possibile "raddoppio” da esso previsto, la percentuale della indennità
espressamente correlata al singolo obiettivo del rispetto dei tempi di
pagamento non è tale da sbilanciare il meccanismo su cui si basa l’indennità di
risultato, lasciando infatti ampio margine (il restante 70 per cento
dell’indennità) per la remunerazione del complesso degli altri obiettivi
contrattualmente assegnati al dirigente. Non si può quindi ritenere che sia
stata eccessivamente sacrificata, in violazione dei principi di «buon
andamento, differenziazione e adeguatezza», come invece ritenuto dalla
ricorrente, la possibilità di orientare l’azione amministrativa regionale ad
altri obiettivi ritenuti prioritari, come quello di un più alto grado di
erogazione dei livelli essenziali di assistenza.
Va poi considerato che la ratio della disposizione impugnata è compatibile
con la funzione della indennità di risultato. Infatti, l’accentuazione dei
profili manageriali del rapporto di lavoro proprio del direttore generale (e in
sostanza anche del direttore amministrativo che lo coadiuva) degli enti
sanitari – rinvenibile nel riconoscimento che egli «è responsabile della
gestione complessiva» dell’azienda e che a lui sono riservati «[t]utti i poteri di gestione» (così l’art. 3, commi 1-quater e
6, del d.lgs. n. 502 del 1992) – fa sì che la disciplina della specifica
componente retributiva in esame si giustifichi in relazione all’ampiezza dei
poteri decisionali e operativi che ineriscono alle obbligazioni
contrattualmente assunte dal direttore generale, potendo egli indirizzare il
funzionamento delle strutture verso il raggiungimento dell’obiettivo cui è
condizionata la quota della indennità.
Nemmeno si può ritenere che il denunciato difetto di proporzionalità
deriverebbe, come sostenuto dalla ricorrente, dalla mancata considerazione di
circostanze significative quali «il debito commerciale complessivo, i progressi
nei termini di pagamento rispetto agli esercizi precedenti, le cause del
ritardo, le eventuali responsabilità o al contrario i progressi ottenuti dal
singolo dirigente rispetto alla progressiva riduzione del debito commerciale e
dei termini di pagamento».
È pur vero che nella sentenza n. 272 del
2015 è stato dato rilievo, nel test di proporzionalità, anche alla «mancata
considerazione della causa del ritardo» e al fatto che questo poteva derivare
anche «dal mancato trasferimento di risorse da parte di altri soggetti», ma
tale argomentazione – certamente plausibile in un sistema rimasto ancora
largamente strutturato in termini di finanza derivata – non appare decisiva
nella presente valutazione di costituzionalità, in ragione del limitato impatto
che la norma censurata, a differenza di quella considerata nel precedente
citato, produce sulla autonomia regionale.
Da un lato quindi, per le ragioni sottolineate al punto 5., si deve
riscontrare la legittimità dello scopo perseguito dal legislatore nazionale e,
dall’altro, per le considerazioni appena svolte, si può concludere che i mezzi
approntati per rispondervi, anche in considerazione della gravità del problema,
superino il vaglio di questa Corte alla luce degli standard di necessità e
proporzionalità.
5.4. – Infine, neppure le censure sollevate dalle ricorrenti con riguardo
al comma 866 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018 sono fondate.
Preliminarmente va rilevato che le censure riferite agli artt. 3, 97 e 118,
primo e secondo comma, Cost., per difetto di ragionevolezza e proporzionalità
dalla Regione Lazio e quelle riferite all’art. 3, Cost., per difetto di
ragionevolezza, dalle Province autonome sono ammissibili perché le ricorrenti,
come si è in precedenza descritto, ne hanno sufficientemente motivato la
ridondanza sulle loro attribuzioni costituzionalmente garantite.
Nel merito occorre innanzitutto premettere che la disposizione censurata
non si connota come del tutto innovativa, poiché in concreto si limita ad
ampliare un obbligo di trasmissione al Tavolo di verifica degli adempimenti
regionali già disposto dall’art. 41, comma 4, del d.l. n. 66 del 2014, come
convertito.
In base a tale disposizione, infatti, le Regioni, con riferimento agli enti
del SSN, devono trasmettere al menzionato Tavolo di verifica una relazione
contenente: a) le informazioni sulle attestazioni dell’importo dei pagamenti
effettuati oltre il termine di legge nonché quelle sull’indicatore annuale di tempestività
dei pagamenti e b) le iniziative assunte in caso di superamento dei tempi di
pagamento previsti dalla legislazione vigente. È già altresì previsto che «[l]a
trasmissione della relazione e l’adozione da parte degli enti delle misure
idonee e congrue eventualmente necessarie a favorire il raggiungimento
dell’obiettivo del rispetto della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 16 febbraio 2011, sui tempi di pagamenti costituisce
adempimento regionale» ai fini e per gli effetti della erogazione della quota
premiale del finanziamento statale al SSN.
Rispetto quindi alla struttura normativa previgente la norma impugnata
aggiunge unicamente l’obbligo della trasmissione di una «relazione in merito
all’applicazione e agli esiti del comma 865», senza farne in alcun modo
discendere le conseguenze paventate dalla ricorrente Regione Lazio, secondo cui
la erogazione della quota premiale spetterebbe solo se ai direttori venisse
riconosciuta per intero la quota di indennità di risultato di cui al comma 865.
Infatti, ciò che costituisce adempimento regionale è, in base alla norma
impugnata, unicamente la mera trasmissione della relazione, non il
raggiungimento dell’obiettivo, che invece in tal senso può rilevare per
l’effetto della previgente disposizione del citato art. 41, comma 4, e non di
quella qui in oggetto.
La norma impugnata, infine, chiarisce che per le Regioni a statuto speciale
e le Province autonome di Trento e di Bolzano, l’obbligo è meramente quello di
relazionare al suddetto Tavolo «sullo stato di applicazione del comma 865»,
senza prevedere che l’eventuale inadempimento rilevi ai fini e per gli effetti
della erogazione della quota premiale del finanziamento statale al SSN, atteso
che le suddette Province finanziano i rispettivi servizi sanitari senza
partecipare al Fondo sanitario nazionale.
5.4.1. – Tanto chiarito le norme dettate dal comma 866, anche in disparte
l’autoqualificazione disposta dal comma 858 dell’art.
1 della stessa legge n. 145 del 2018, possono essere ricondotte nell’ambito dei
principi di coordinamento della finanza pubblica.
A tale affermazione non osta la peculiare formulazione del comma 866 che,
ad avviso delle ricorrenti, non sarebbe espressiva di un principio fondamentale
ma di una norma chiaramente di dettaglio.
Questa Corte, infatti, ha precisato che il carattere finalistico che
tipicamente caratterizza l’azione di coordinamento dinamico della finanza
pubblica – per sua natura spesso eccedente le possibilità di intervento dei
livelli territoriali sub-statali – giustifica l’esigenza che, in determinate
ipotesi, attraverso l’esercizio del relativo titolo di competenza, il
legislatore statale possa collocare a livello centrale anche poteri puntuali di
ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di
controllo, qualora questo sia indispensabile perché la finalità di
coordinamento venga concretamente realizzata (ex plurimis,
sentenza n. 229
del 2011).
In questo caso, infatti, anche «norme puntuali», adottate dal legislatore
per realizzare in concreto le finalità del coordinamento finanziario, «possono
essere ricondotte nell’ambito dei principi di coordinamento della finanza
pubblica» (sentenza
n. 153 del 2015): è il chiaro finalismo insito in tale genere di
disposizioni che porta ad escludere che in relazione a tali specifiche
fattispecie possa invece formalisticamente invocarsi, per sostenerne
l’illegittimità costituzionale, «la logica della norma di dettaglio» (sentenza n. 153 del
2015).
Nella specie l’obiettivo perseguito dalla norma impugnata è quello di
conseguire a livello nazionale puntuali informazioni sul rispetto degli impegni
assunti a livello europeo – dei quali, come visto, lo Stato è il responsabile
finale – in tema di tempestività dei pagamenti da parte di tutte le
amministrazioni pubbliche: poiché tale obiettivo, dato il suo carattere sovra
regionale, non potrebbe essere altrimenti efficacemente perseguito, si deve
ritenere altresì prevalente, in relazione alla specifica fattispecie, la competenza
azionata dal legislatore statale in materia di coordinamento della finanza
pubblica.
Ciò determina l’infondatezza delle censure delle ricorrenti basate sulla
violazione del riparto di competenze, nonché di quella sul principio di leale
collaborazione prospettata dalla Regione Lazio, rispetto alla quale va,
peraltro, anche rilevato che l’adempimento richiesto non risulta nemmeno
eccentrico rispetto ai caratteri degli adempimenti pattiziamente concordati
nell’intesa del 23 marzo 2005 (previsti dall’art. 6) e tradizionalmente oggetto
di monitoraggio da parte del Tavolo di verifica degli adempimenti regionali.
Infondate sono anche le restanti censure della Regione Lazio: i limitati
obblighi imposti all’autonomia regionale, infatti, si giustificano in presenza
di una situazione patologica, ossia quando gli enti del SSN non rispettano i
tempi di pagamento previsti dalla legislazione nazionale, a loro volta
richiesti da fonti europee. Non si può pertanto ritenere che la norma difetti
di proporzionalità e ragionevolezza: «[p]revisioni di questo tipo sono dirette
a fronteggiare una situazione che provoca gravi conseguenze per il sistema
produttivo (soprattutto per le piccole e medie imprese) e a favorire la ripresa
economica, con effetti positivi anche per la finanza pubblica» (sentenza n. 272 del
2015), senza che la rivendicazione dell’autonomia regionale possa
credibilmente contrapporsi al limitato obbligo imposto dalla norma censurata,
dal momento che questa, in sostanza, non si applica in presenza di una
situazione fisiologica.
Nemmeno fondate sono le altre censure sviluppate dalle Province autonome in
ordine all’obbligo di relazionare (in questo caso previsto, come si è detto,
senza ulteriore conseguenza) al suddetto Tavolo: quelle relative all’art. 3
Cost., per gli stessi argomenti testé esposti; quelle relative alla violazione
della clausola di salvaguardia prevista dall’art. 13 della ricordata intesa del
23 marzo 2005, perché questa non può costituire limite assoluto all’esercizio
della descritta competenza statale in materia di coordinamento della finanza
pubblica, che come si è visto, è stata esercitata in forma sostanzialmente
compatibile con lo statuto di autonomia e le relative norme di attuazione;
quelle relative al mancato rispetto dell’intermediazione del procedimento di
cui all’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992, perché la norma impugnata appresta
una misura di reazione a una (ipotetica) situazione di mancato rispetto dei
tempi di pagamento, sì che tale contenuto sanzionatorio, in forza della
necessaria omogeneità su base nazionale, non è idoneo a violare il citato art.
2 (sentenza n.
77 del 2019).
6.– Anche il ricorso della Regione Siciliana ha a oggetto misure in tema di
ritardo di pagamento nelle transazioni commerciali delle pubbliche
amministrazioni e, in particolare, le previsioni dettate dall’art. 1, commi
857, 859, 862 e 863, della legge n. 145 del 2018 per le amministrazioni diverse
da quelle dello Stato che adottano la contabilità finanziaria.
Nel loro combinato disposto, tali previsioni, inizialmente destinate a
divenire operative a partire dal 2020 e differite al 2021 per effetto dell’art.
1, comma 854, lettera a), della legge 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di
previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per
il triennio 2020-2022), impongono alle predette amministrazioni di stanziare in
bilancio un accantonamento denominato "fondo di garanzia debiti commerciali” se
nell’esercizio precedente hanno presentato un indicatore di ritardo annuale dei
pagamenti non rispettoso dei termini fissati dall’art. 4 del decreto
legislativo 9 ottobre 2002, n. 231 (Attuazione della direttiva 2000/35/CE
relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali); l’importo dell’accantonamento è graduato in percentuale crescente
in relazione all’entità del ritardo ed è riferito allo stanziamento della spesa
prevista per acquisto di beni e servizi. Analogo obbligo è previsto se il
debito commerciale residuo dell’ente non si sia ridotto di almeno il 10 per
cento nei due anni precedenti.
Sul fondo così stanziato non è possibile disporre impegni e pagamenti,
mentre è previsto che a fine esercizio esso confluisce nella quota libera del
risultato di amministrazione. Infine, l’accantonamento al predetto fondo deve
essere adeguato nel corso dell’esercizio alle eventuali variazioni di bilancio
relative agli stanziamenti della spesa per acquisto di beni e servizi.
Ai sensi del comma 857, poi, nell’anno 2020 l’accantonamento è raddoppiato
nei confronti degli enti che non hanno richiesto l’anticipazione di liquidità –
oggetto della disposizione di cui al comma 849 – entro il termine di cui al comma
853 (fissato al 28 febbraio 2019) e che, avendola ottenuta, non hanno
effettuato il pagamento dei debiti nel termine fissato.
6.1.– Ad avviso della ricorrente, il sistema delineato dalla legge di
bilancio muoverebbe dall’assunto che i ritardi nei pagamenti delle
amministrazioni pubbliche «siano da imputare esclusivamente a mancanza di
liquidità», senza considerare che nella Regione Siciliana non sempre questa ne
sarebbe la causa: si richiama al riguardo una – peraltro non specificata –
dichiarazione della ragioneria generale dell’ente.
Pertanto, le disposizioni impugnate recherebbero alla ricorrente «un
pregiudizio in termini finanziari la cui consistenza appare sproporzionata
rispetto alle eventuali violazioni rilevate».
L’accantonamento previsto determinerebbe infatti, in forza del divieto di
disporre impegni e pagamenti a valere sul fondo da istituire,
«l’indisponibilità di risorse finanziarie con effetti negativi sugli equilibri
del bilancio regionale».
Inoltre, richiamando la sentenza n. 272 del
2015, la ricorrente sostiene che le modalità individuate dal legislatore
statale per raggiungere l’obiettivo di evitare i ritardi nei pagamenti non
supererebbero il test di proporzionalità. Omettendo di considerare la causa del
ritardo esse, infatti, risulterebbero inidonee a conseguire la loro finalità
perché, qualora il ritardo stesso sia «derivante da difficoltà oggettive o da
fattori esterni», l’effetto auspicato non sarebbe raggiunto né dalla facoltà di
accedere all’anticipazione di liquidità prevista dalla legge n. 145 del 2018,
che finirebbe per assumere il carattere della doverosità, né dall’obbligo di
prevedere in bilancio l’accantonamento.
Secondo la ricorrente, da tanto conseguirebbe che «il sistema sanzionatorio
introdotto dalle disposizioni della Legge di Bilancio per il 2019» sarebbe in
contrasto sia con il principio di proporzionalità di cui all’art. 3, primo
comma, Cost., sia con il principio di buon andamento di cui all’art. 97,
secondo comma, Cost., ridondando in una lesione dell’autonomia finanziaria e
organizzativa della Regione.
Sotto altro profilo l’obbligo di stanziare gli importi prefissati nel fondo
di garanzia lederebbe le norme di cui agli artt. 20 e 36 del regio decreto
legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione
siciliana), convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, sia
perché inciderebbe sull’autonomia organizzativa della Regione, sia perché la
relativa compressione dell’autonomia finanziaria ne limiterebbe «lo svolgimento
delle funzioni pubbliche».
Infine, la ricorrente evidenzia che una soluzione al problema dei ritardi
nei pagamenti avrebbe potuto essere individuata «legittimamente e più
utilmente» nell’ambito degli accordi in materia finanziaria tra Stato e Regione
Siciliana, in ossequio al principio di leale collaborazione, che risulterebbe,
invece, parimenti violato dalle disposizioni impugnate.
6.2.– Nel contestare la fondatezza del ricorso, l’Avvocatura generale dello
Stato osserva che le disposizioni introdotte dall’art. 1, commi da 858 a 873,
della legge n. 145 del 2018 non avrebbero natura sanzionatoria, dovendo
piuttosto «inquadrarsi come misure di garanzia» rivolte alle pubbliche
amministrazioni che dimostrano di «non essere in grado di effettuare una
programmazione della spesa efficiente». In questo senso, la disciplina del
fondo determinerebbe la formazione di economie di spesa e di maggiori giacenze
di cassa, così favorendo il pagamento dei residui. Infatti, l’accantonamento
non costituisce un prelievo a carico del bilancio regionale, «in quanto a fine
esercizio confluisce nella quota libera dell’avanzo di amministrazione».
Analogamente, la previsione di cui al comma 857 realizzerebbe un
potenziamento delle misure di garanzia di cui ai successivi commi 862, 864 e
865 per i casi di mancata richiesta dell’anticipazione di liquidità da parte
delle pubbliche amministrazioni inadempienti.
L’Avvocatura, inoltre, contesta l’assimilazione delle disposizioni oggetto
del giudizio a quelle dichiarate illegittime dalla sentenza n. 272 del
2015, in quanto le prime risultano modulate proporzionalmente alla gravità
della violazione rispetto ai tempi medi di pagamento, mentre le seconde vi
prescindevano.
Quanto alla censura sull’inidoneità delle misure, che non darebbero rilievo
alla causa del ritardo, la difesa erariale ricorda che il Governo nell’ultimo
quinquennio ha posto in essere numerose iniziative per contenere il fenomeno
dei ritardi dei pagamenti e che «le pubbliche Amministrazioni tuttora
inadempienti hanno avuto a disposizione un lasso di tempo più che adeguato per
porre rimedio» sia alle cause di ritardo derivanti da ragioni di ordine
finanziario sia a quelle derivanti da disfunzioni organizzative o strutturali.
Sottolinea quindi che dai dati risultanti dal sistema della «Piattaforma
per i crediti commerciali» (PCC) emerge che nel 2018 i fornitori della Regione
Siciliana sono stati pagati mediamente con un ritardo variabile dai 29 ai 19
giorni.
Il rimedio ora adottato dal legislatore statale non potrebbe quindi
ritenersi irragionevole con riguardo alla Regione ricorrente.
Parimenti infondata sarebbe la censura di violazione dei parametri
statutari, atteso che l’impugnato comma 862 non costituirebbe norma di
dettaglio ma misura di carattere strumentale finalizzata a favorire la
riduzione dei tempi di pagamento dei debiti commerciali e, in quanto tale,
espressione di un principio fondamentale di coordinamento della finanza
pubblica vincolante anche per le Regioni a statuto speciale (si richiamano le sentenze n. 175
e n. 39 del 2014).
Infine, non fondata risulterebbe anche la censura sulla violazione del
principio di leale collaborazione: essendo lo Stato garante del rispetto dei
tempi di pagamento sanciti «da una normativa europea e nazionale di
recepimento» non potrebbe stipulare accordi derogatori a tale normativa e
differenziati con i diversi livelli di governo.
6.3.– Preliminarmente, e per le stesse motivazioni già svolte sulla
impugnativa della stessa disposizione da parte delle altre ricorrenti (supra, punto 4.), va dichiarata cessata la materia del
contendere delle questioni promosse nei confronti dell’art. 1, comma 857, della
legge n. 145 del 2018.
6.4.– Sempre in via preliminare, va rilevato che anche le altre
disposizioni impugnate sono state oggetto di modifiche successivamente
all’instaurazione del giudizio: il comma 859 e il comma 863, ad opera dell’art.
38-bis del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34 (Misure urgenti di crescita
economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi), convertito,
con modificazioni, in legge 28 giugno 2019, n. 58, mentre il comma 862 ad opera
del già citato art. 50, comma 1, del d.l. n. 124 del 2019. Il comma 859 è stato
poi ulteriormente modificato dal richiamato art. 1, comma 854, lettera a),
della legge n. 160 del 2019.
Peraltro, poiché le modifiche si appuntano su aspetti non centrali delle
disposizioni impugnate, comunque inidonei a ritenere soddisfatte le pretese
della ricorrente, l’oggetto del giudizio dovrà tenere in considerazione il
testo delle stesse, come novellato, sul quale le questioni vanno trasferite (ex
plurimis, sentenza n. 44 del
2018).
6.5.– Infine vanno ritenute ammissibili le censure riferite agli artt. 3 e
97 Cost., per difetto di ragionevolezza e proporzionalità, poiché la ricorrente
ne ha sufficientemente motivato la ridondanza sulle proprie attribuzioni
costituzionalmente garantite.
6.6.– Nel merito le questioni non sono fondate.
Le disposizioni impugnate sono infatti propriamente inquadrabili – in
disparte la complessiva autoqualificazione precisata
dal comma 858 dell’art. 1 della stessa legge n. 145 del 2018 in riferimento
all’intero blocco dei commi da 859 a 872 – nell’ambito della competenza statale
esclusiva relativa all’armonizzazione dei bilanci pubblici, di cui all’art.
117, secondo comma, lettera e), Cost.
Esse, infatti, hanno a oggetto il bilancio di previsione delle
amministrazioni pubbliche che adottano la contabilità finanziaria, prevedendo
l’obbligatoria istituzione di uno specifico fondo quando l’ente non rispetti i
tempi di pagamento o non riduca a sufficienza lo stock di debiti commerciali;
la disciplina di tale fondo indica il criterio di quantificazione e specifica
che il relativo appostamento rifluisce sul risultato di amministrazione,
accertato con l’approvazione del rendiconto.
Sotto questo profilo, le norme in questione integrano il decreto
legislativo 23 giugno 2011, n. 118 (Disposizioni in materia di armonizzazione
dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti
locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio
2009, n. 42) e, in particolare, l’art. 42 disciplinante appunto il risultato di
amministrazione e le destinazioni della quota libera dell’avanzo.
Quanto poi alla ratio delle norme, essa è chiaramente ravvisabile
nell’esigenza di sopperire alla incapacità dell’ente di coordinare l’assunzione
di obbligazioni (legittimamente iscritte in bilancio) con la effettiva
disponibilità della liquidità necessaria al loro pagamento alle scadenze di
legge. Per tale aspetto, dunque, le norme impugnate perseguono la finalità
propria dei principi di coordinamento della finanza pubblica, atteso il
fondamentale rilievo che, come si è visto, assume il rispetto dei termini di
pagamento previsti dal d.lgs. n. 231 del 2002 e dalla relativa normativa
europea.
Peraltro, come già ricordato, le disposizioni impugnate si raccordano con
quelle che la stessa legge n. 145 del 2018 ha introdotto (nei commi da 849 a
856 dell’art. 1) al fine di ampliare nel 2019, per le amministrazioni pubbliche
in ritardo nei pagamenti, la possibilità di conseguire anticipazioni di
liquidità da destinare a tale specifico utilizzo. Quando si trovi in questa
situazione, l’ente potrà dunque ricorrere a tale prestito esterno, utile a
regolarizzare i tempi di pagamento o quanto meno a ridurre i ritardi. Va anche
precisato che per la stessa finalità il legislatore è nuovamente intervenuto
con la legge di bilancio 2020 (art. 1, comma 556, della legge n. 160 del 2019),
prevedendo anche per tale anno analoghe anticipazioni di liquidità con
disposizioni del medesimo contenuto, la cui disciplina è stata inserita nel
corpo dell’art. 4 del d.lgs. n. 231 del 2002.
6.6.1.– Ciò precisato, non è ravvisabile nelle norme impugnate,
riconducibili quindi anch’esse alle finalità di contrasto ai tardivi pagamenti
delle pubbliche amministrazioni esposte ai punti 5. e 5.1., né la lesione al
principio di buon andamento dell’amministrazione, né un difetto di
proporzionalità.
Sotto un primo profilo, il fondo da appostare in bilancio rappresenta,
infatti, una soluzione contabile e gestionale funzionale a consentire
all’amministrazione di disporre di liquidità necessaria a velocizzare i
pagamenti delle proprie obbligazioni commerciali e a ridurre la relativa voce
di debito residuo. Il meccanismo approntato impedisce di effettuare impegni di
spesa e pagamenti a valere sulle somme accantonate nel fondo; ciò fa sì che a
fine esercizio le relative economie di spesa rifluiscono nella quota libera del
risultato di amministrazione e l’ente può utilizzare la giacenza di cassa in
tal modo formatasi per pagare i debiti arretrati.
Pertanto, se è pur vero che – imponendo l’obbligatorio accantonamento nel
fondo di nuova istituzione – le norme limitano la piena disponibilità delle
risorse dell’ente in sede di predisposizione del bilancio e di programmazione
della spesa, è tuttavia evidente che ciò rappresenta il coerente strumento con
cui le disposizioni stesse hanno inteso porre un rimedio all’accertata
violazione dei termini di pagamento. Difatti, quest’ultima patologica
situazione consegue di regola al fatto che l’ente, nell’esercizio della sua
autonomia gestionale e di bilancio, non ha coordinato la programmazione e
l’impegno delle proprie obbligazioni, legittimamente assunte e vincolanti, con
la disponibilità di cassa necessaria alle previste scadenze di pagamento.
Oltre a indurre l’ente a conseguire liquidità di cassa utile a velocizzare
i pagamenti commerciali, lo strumento del fondo di garanzia realizza anche
l’ulteriore e indiretto effetto positivo di ridurre l’esposizione
dell’amministrazione a titolo di interessi passivi sui pagamenti tardivi. Tali
importi sono del tutto improduttivi e, tenuto conto del criterio di
quantificazione degli interessi moratori di cui al d.lgs. n. 231 del 2002,
possono assumere dimensioni non trascurabili; pertanto, la loro diminuzione
consente all’ente di recuperare risorse da destinare ad attività istituzionali.
Queste positive ricadute sul funzionamento dell’ente appaiono quindi idonee
a confutare la censura di lesione del principio di buon andamento
dell’amministrazione.
Quanto poi al criterio di determinazione delle somme da accantonare, esso
appare razionalmente individuato sia sotto il profilo quantitativo che sotto
quello qualitativo. Per un verso, infatti, lo stanziamento introdotto aumenta
in relazione all’entità dei ritardi nei pagamenti che l’amministrazione ha
registrato, e perciò in coerenza con le prevedibili esigenze di liquidità; per
altro verso, il parametro su cui calcolare la percentuale è dato dalle spese
per gli acquisiti di beni e servizi, ossia l’aggregato di bilancio più
appropriato, trattandosi di debiti di natura commerciale.
Alla luce delle complessive considerazioni che precedono, le norme
impugnate superano il test di proporzionalità. Esse, infatti, si presentano
congrue rispetto allo scopo legittimamente perseguito dal legislatore e
approntano strumenti adeguati in relazione alla finalità di indurre l’ente a
conseguire giacenze di cassa proprio per estinguere le obbligazioni che esso ha
assunto.
Da questo punto di vista non appaiono conferenti i riferimenti della
ricorrente alla sentenza
n. 272 del 2015 in ordine alla mancata considerazione della causa del
ritardo: la Regione Siciliana, infatti, ha solo genericamente affermato che il
ritardo dei pagamenti imputabile all’ente non sempre dipenderebbe dalla carenza
di liquidità, rinviando a una non meglio specificata dichiarazione della
propria ragioneria generale.
Ne consegue che, sotto tale profilo, la ricorrente non ha offerto concreti
elementi (quali ad esempio il mancato trasferimento di risorse da parte dello
Stato: si veda al riguardo la sentenza n. 62 del
2020, punto 4.1. del Considerato in diritto) a sostegno della inidoneità
delle misure impugnate a raggiungere i fini che persegue.
6.6.2.– Parimenti infondate risultano le censure sulla violazione
dell’autonomia amministrativa e finanziaria riconosciuta dallo statuto e quella
del principio di leale collaborazione: le norme impugnate sono riconducibili
all’esercizio in via prevalente della competenza esclusiva statale
sull’armonizzazione dei bilanci pubblici e a quella sul coordinamento della
finanza pubblica, ciò che esclude sia la violazione delle evocate norme
statutarie sia l’operatività del principio invocato.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara cessata la materia
del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell’art.
1, comma 857, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione
dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio
2019-2021), promosse, dalla Regione Lazio, in riferimento agli artt. 3, 5, 97,
117, terzo, quarto e sesto comma, 118, primo e secondo comma, e 120, secondo
comma, della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe, e dalla
Provincia autonoma di Trento, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 117,
terzo comma, e 119, Cost., anche in relazione all’art. 10 della legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda
della Costituzione), nonché agli artt. 8, 9 e 16 e al Titolo VI del decreto del
Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del Testo
unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il
Trentino-Alto Adige), con il ricorso indicato in epigrafe;
2) dichiara non fondate le
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 865, della legge n.
145 del 2018, promosse, dalla Regione Lazio, in riferimento agli artt. 5, 117,
terzo, quarto e sesto comma, 118, primo e secondo comma, e 120, secondo comma,
Cost., con il ricorso indicato in epigrafe; dalla Provincia autonoma di Trento,
in riferimento agli artt. 117, terzo comma e 119, secondo comma, Cost., in
relazione all’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, nonché agli artt. 8,
numero 1), 9, numero 10), 16 e 79 dello Statuto reg. Trentino-Alto Adige e
all’art. 2 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione
dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra
gli atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà
statale di indirizzo e coordinamento), con il ricorso indicato in epigrafe;
dalla Provincia autonoma di Bolzano, in riferimento agli artt. 117, terzo e
quarto comma, 119, secondo comma, anche in combinato con l’art. 10 della legge
cost. n. 3 del 2001, e 120, Cost.; agli artt. 8, numero 1) (in relazione
all’art. 4, numero 7), 9, numero 10), 16, al Titolo II, al Titolo VI (e in
particolare all’art. 79), agli artt. 103, 104 e 107 dello statuto reg.
Trentino-Alto Adige; all’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 28
marzo 1975, n. 474 (Norme di attuazione dello statuto per la regione
Trentino-Alto Adige in materia di igiene e sanità); all’art. 2 del d.lgs. n.
266 del 1992; al decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione
dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza
regionale e provinciale) e all’accordo concluso tra il Governo, la Regione
autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol e le Province autonome di Trento e di
Bolzano il 15 ottobre 2014, con il ricorso indicato in epigrafe;
3) dichiara non fondate le
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 865, della legge n.
145 del 2018, promosse, in riferimento agli artt. 3, 97 e 118, primo e secondo
comma, Cost., dalla Regione Lazio, con il ricorso indicato in epigrafe;
4) dichiara non fondate le
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 866, della legge n.
145 del 2018, promosse, dalla Regione Lazio, in riferimento agli artt. 3, 5,
97, 117, terzo, quarto e sesto comma, 118, primo e secondo comma, e 120,
secondo comma, Cost., con il ricorso indicato in epigrafe; dalla Provincia
autonoma di Trento, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 117, terzo comma,
in combinato con l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, e 120, secondo
comma, Cost., agli artt. 8, numero 1), 9, numero 10), 16 e 79 dello statuto
reg. Trentino-Alto Adige e all’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992, con il
ricorso indicato in epigrafe; dalla Provincia autonoma di Bolzano, in
riferimento agli artt. 3, 117, terzo e quarto comma, 119, secondo comma, anche
in combinato con l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, e 120, Cost.; agli
artt. 8, numero 1) (in relazione all’art. 4, numero 7), 9, numero 10), 16, al
Titolo II, al Titolo VI (e in particolare all’art. 79), agli artt. 103, 104 e
107 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige; all’art. 2 del d.P.R. n. 474 del
1975; all’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992; al d.lgs. n. 268 del 1992 e
all’accordo concluso tra il Governo, la Regione autonoma Trentino-Alto
Adige/Südtirol e le Province autonome di Trento e di Bolzano il 15 ottobre
2014, con il ricorso indicato in epigrafe;
5) dichiara cessata la materia
del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell’art.
1, comma 857, della legge n. 145 del 2018, promosse, in riferimento agli artt.
3, primo comma, 97, secondo comma, 117, quarto comma, e 120, Cost. nonché agli
artt. 20 e 36 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455
(Approvazione dello statuto della Regione siciliana), convertito in legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, dalla Regione Siciliana, con il ricorso
indicato in epigrafe;
6) dichiara non fondate le
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 859, 862 e 863,
della legge n. 145 del 2018, promosse, in riferimento agli artt. 3, primo
comma, 97, secondo comma, 117, quarto comma, e 120, Cost. nonché agli artt. 20
e 36 dello statuto reg. Siciliana, dalla Regione Siciliana, con il ricorso
indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 9 marzo 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Luca ANTONINI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2020.