SENTENZA
N. 229
ANNO
2018
Commenti alla decisione di
I.
Guglielmo Leo, La
Corte costituzionale sulle prerogative del Pubblico Ministero in merito alla
diffusione di informazioni concernenti investigazioni in atto, per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
II.
Luca Vespignani, La
legge del conflitto. riflessioni circa i conflitti di attribuzione su atti
legislativi a margine della sentenza della corte costituzionale n. 229 del 2018,
per g.c. della Rivista
AIC
III.
Giuseppe Laneve,
I rapporti tra Pubblico ministero e polizia
giudiziaria dinanzi la Corte costituzionale: una prima (e per nulla marginale)
questione relativa ai conflitti tra poteri su atto legislativo…, per g.c. di Diritti
fondamentali
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME
DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI
Giudice
- Marta
CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de
PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto
Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
- Luca ANTONINI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione tra
poteri dello Stato sorto a seguito dell’approvazione dell’art. 18, comma 5, del
decreto
legislativo 19 agosto 2016, n. 177, recante «Disposizioni in materia di
razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale
dello Stato, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera a), della legge 7
agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni
pubbliche», promosso dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale
ordinario di Bari nei confronti del «Presidente del Consiglio dei ministri» con
ricorso
notificato il 18-22 gennaio 2018, depositato in cancelleria il 1° febbraio
2018, iscritto al n. 3 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2017 e
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie
speciale, dell’anno 2018, fase di merito.
Visto l’atto di
costituzione del Governo della Repubblica, in persona del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza
pubblica del 6 novembre 2018 il Giudice relatore Nicolò Zanon;
uditi gli avvocati Alfonso
Celotto e Giorgio Costantino per il Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale ordinario di Bari e l’avvocato dello Stato
Leonello Mariani per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto
in fatto
1.– Il Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale ordinario di Bari, con ricorso depositato il 25 luglio 2017 ed
iscritto al n. 3 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2017, ha
promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato – per violazione
degli artt. 76, 109 e 112 della Costituzione
– nei confronti del «Presidente del Consiglio dei ministri», in relazione
all’art. 18, comma 5, del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177, recante
«Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e
assorbimento del Corpo forestale dello Stato, ai sensi dell’articolo 8, comma
1, lettera a), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di
riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche».
1.1.– Il ricorrente ricorda che la disposizione
asseritamente lesiva delle proprie attribuzioni testualmente prevede: «[…] al
fine di rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti ad evitare
duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace e omogeneo
coordinamento informativo, il capo della polizia-direttore generale della
pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite
istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia
interessato, trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro
delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli
obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale».
Tale disposizione, a suo giudizio, avrebbe
«parzialmente abrogato, in parte qua, il segreto investigativo disposto
dall’art. 329 cod. proc. pen.», la violazione del
quale è sanzionata dall’art. 326 del codice penale.
Il Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Bari in particolare rileva come «l’intervento normativo
dell’Esecutivo abbia leso prerogative di rango costituzionale pertinenti
all’Autorità Giudiziaria requirente, con riferimento al principio di
obbligatorietà dell’azione penale, ex art. 112 Cost., cui il segreto
investigativo strettamente inerisce, nonché in relazione alla statuizione della
diretta dipendenza della polizia giudiziaria dall’autorità giudiziaria
affermata dall’art. 109» Cost.
1.2.– Sulla scorta di queste premesse, il
ricorrente chiede alla Corte costituzionale di dichiarare ammissibile il
conflitto.
1.2.1.– Al fine di dimostrare, anzitutto, il
proprio interesse a promuovere il conflitto di attribuzione tra poteri dello
Stato, evidenzia l’ambito applicativo «di estesa diffusione» della norma,
«destinata a trovare indiscriminata applicazione nella totalità dei casi di
inoltro di notizie di reato (circa 50.000 nuove in totale ogni anno per questa
Procura, in grandissima percentuale denunciate proprio dalla polizia
giudiziaria!) ed informative successive».
1.2.2.– Ritenuta pacifica la legittimazione
attiva del Procuratore della Repubblica e quella passiva del Presidente del
Consiglio dei ministri «allorquando, come nella specie, si denunci il conflitto
di potere con riferimento ad un atto del Governo (per tutte: Corte cost., sent.
n. 420/1995)», il ricorrente – richiamando la giurisprudenza della Corte
costituzionale (in particolare, le sentenze n. 221 del
2002 e n.
457 del 1999) – sottolinea che il conflitto sarebbe ammissibile anche se
promosso per l’annullamento di una fonte primaria, in quanto si tratterebbe
dell’unico rimedio esperibile. A suo avviso, «la normativa impugnata, con la
previsione della deroga in parte qua alle disposizioni del codice di rito
penale che vincolano al segreto investigativo, non consente l’instaurazione di
un giudizio, nell’ambito del quale sia possibile sollevare questione incidentale
di costituzionalità». In base alla giurisprudenza costituzionale (vengono
richiamate le ordinanze
n. 16 del 2013 e n. 343 del 2003),
il conflitto di attribuzione in relazione ad una norma «recata da una legge o
da un atto avente forza di legge» risulterebbe ammissibile tutte le volte in
cui da essa «possono derivare lesioni dirette dell’ordine costituzionale delle
competenze», ad eccezione dei casi in cui esista un giudizio nel quale la norma
debba trovare applicazione e quindi possa essere sollevata la questione
incidentale sulla legge.
1.3.– Il ricorrente espone, quindi, le ragioni
per le quali ritiene che la disposizione impugnata sia lesiva delle proprie
attribuzioni costituzionali, riportando ampi stralci della delibera adottata
dal Consiglio superiore della magistratura nella seduta del 14 giugno 2017 (recte: 15 giugno 2017), recante «Proposta ex art. 10, comma
2, legge n. 195 del 1958 al Ministro della giustizia finalizzata ad una
modifica normativa dell’art. 18, comma 5, del decreto legislativo 19 agosto
2016, n. 177». A tale delibera il Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Bari ha dichiarato di aderire integralmente.
1.3.1.– Il ricorrente afferma anzitutto che la
disposizione impugnata sarebbe viziata da eccesso di delega, non trovando
adeguata copertura nella legge di delega e, in particolare, nell’art. 8, comma
1, lettera a), della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia
di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche), il quale autorizzava il
Governo a razionalizzare e potenziare l’«efficacia delle funzioni di polizia
anche in funzione di una migliore cooperazione sul territorio al fine di
evitare sovrapposizioni di competenze e di favorire la gestione associata dei
servizi strumentali […]». Tale previsione – preordinata, in conformità alla
ratio ispiratrice dell’intera legge di delega, ad esigenze di semplificazione e
razionalizzazione di uffici, servizi ed impiego del personale – non sarebbe
stata sufficiente a giustificare l’introduzione della disposizione oggetto del
conflitto.
Il ricorrente evidenzia, inoltre, che non vi
sarebbe alcun accenno, nei lavori parlamentari che hanno condotto
all’approvazione della legge di delega, alla possibilità di prevedere, a carico
dei responsabili di ciascun presidio di polizia giudiziaria, una comunicazione
in via gerarchica di notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità
giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice
di procedura penale. Tale disposizione trova, invece, origine
dall’accoglimento, da parte del Governo, di una delle osservazioni avanzate in
data 12 luglio 2016, in sede di parere sullo schema di decreto legislativo,
dalle Commissioni I e IV della Camera dei deputati. Con decisione assunta a
maggioranza, le suddette Commissioni riunite avevano infatti suggerito di
estendere a tutte le Forze di polizia la previsione di cui all’art. 237 del
d.P.R. 15 marzo 2010, n. 90 (Testo unico delle disposizioni regolamentari in
materia di ordinamento militare, a norma dell’articolo 14 della legge 28
novembre 2005, n. 246).
1.3.2.– In secondo luogo, il ricorrente lamenta
la violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui
all’art. 112 Cost.
A suo avviso, sussisterebbe un «nesso
strumentale» tra tale principio e la direttiva della disponibilità diretta
della polizia giudiziaria in favore dell’autorità giudiziaria.
L’art. 112 Cost., infatti, garantirebbe
l’indipendenza funzionale del pubblico ministero da ogni altro potere e, in
particolare, dal potere esecutivo, ma il principio di obbligatorietà
dell’azione penale «potrebbe essere sostanzialmente eluso dalla concreta
organizzazione della polizia giudiziaria»: a parere del ricorrente, infatti,
«chi gestisce la polizia giudiziaria può condizionarne l’iniziativa
determinando un rafforzamento della sua dipendenza dal potere esecutivo», in
quanto gli organi di polizia giudiziaria, nelle loro diverse articolazioni,
integrano strutture gerarchicamente dipendenti dal Governo.
Altrettanto evidente sarebbe la stretta
correlazione esistente tra azione penale obbligatoria e segretezza delle
indagini, la deroga alla quale sarebbe «in concreto foriera di rischi per
l’esito positivo delle investigazioni e, per ciò stesso, dell’effettività ed
efficacia dell’esercizio dell’azione penale», a tutela delle quali sarebbero
appunto posti, dal codice di procedura penale, «limiti e tempi precisi e
rigorosi per la segretezza»: tali regole sarebbero «disinvoltamente» superate
dalla disposizione oggetto del sollevato conflitto, «peraltro a beneficio di
organi dell’Amministrazione neppure dotati della connotazione di appartenenti
alla polizia giudiziaria», come tali privi di legittimazione all’accesso
all’attività d’indagine.
1.3.3.– Il ricorrente prospetta, infine, la
violazione delle prerogative costituzionali di cui all’art. 109 Cost.
Richiamando alcune pronunce della Corte
costituzionale (in particolare le sentenze n. 94 del
1963 e n.
114 del 1968), il ricorrente evidenzia che l’art. 109 Cost., nel conferire
all’autorità giudiziaria il potere di disporre direttamente della polizia
giudiziaria, troverebbe la sua piena giustificazione nelle superiori esigenze
della funzione requirente e giudiziaria e nella necessità di garantire alla
magistratura la più sicura e autonoma disponibilità dei mezzi d’indagine. La
norma costituzionale, a prescindere dalle sue possibili implicazioni di
carattere organizzativo, istituirebbe un rapporto di dipendenza funzionale
della polizia giudiziaria dall’autorità giudiziaria, escludendo interferenze di
altri poteri nella condotta delle indagini, in modo che la direzione di queste
ultime risulti effettivamente riservata alla autonoma iniziativa dell’autorità
giudiziaria medesima.
La comunicazione in via gerarchica delle
informazioni, prevista dalla disposizione oggetto del conflitto, senza alcun
filtro o controllo del pubblico ministero procedente, a beneficio, fra l’altro,
anche di soggetti che non rivestono la qualifica di ufficiale di polizia
giudiziaria e che, per la loro posizione apicale, vedono particolarmente
stretto il rapporto di dipendenza organica dalle articolazioni del potere
esecutivo, non appare al ricorrente in linea con le prerogative riconosciute al
pubblico ministero nell’esercizio dell’attività d’indagine. Tali informazioni
sarebbero infatti portate a conoscenza di «soggetti esterni al perimetro
dell’indagine stessa, e non per determinazione autonoma del magistrato (come
pure può accadere per le necessità organizzative o logistiche delle indagini)»,
ma per vincolo di legge, con il rischio di possibili interferenze
nell’esercizio dell’azione penale.
1.3.4.– Il ricorrente, conclusivamente, osserva
che l’espressione, contenuta nella disposizione impugnata, «trasmettono alla
propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di
reato», potrebbe essere intesa in senso sia restrittivo che estensivo.
Nel primo significato, si tratterebbe di
trasmettere, non le informative, ma solo le «notizie relative» ad esse, ossia
il fatto di aver inoltrato all’autorità giudiziaria «una certa informativa
riguardante un certo reato, il tutto ai soli fini del coordinamento». Così
intesa, la disposizione non violerebbe alcun segreto o alcuna prerogativa
dell’autorità giudiziaria, ma – ad avviso del ricorrente – si rivelerebbe priva
di senso, poiché il coordinamento presuppone la conoscenza del contenuto e
degli sviluppi dell’attività investigativa.
Nel secondo significato, la disposizione
imporrebbe invece la trasmissione ai superiori gerarchici delle notizie relative
al contenuto ed agli sviluppi dell’attività investigativa, proprio ai fini
dell’effettivo coordinamento, con ciò pregiudicando le attribuzioni
dell’autorità giudiziaria.
In ogni caso – osserva ancora il ricorrente – il
«coordinamento» affidato alla «gerarchia» delle Forze di polizia si
risolverebbe in una interferenza nelle indagini condotte dal pubblico
ministero, come dimostrato dal fatto che l’ordinamento già affida tale compito
alla sola autorità giudiziaria (ad esempio, alle Direzioni, nazionale e distrettuali,
antimafia, e alle Procure presso la Corte di cassazione e le corti d’appello),
in virtù di specifiche norme sui conflitti positivi e negativi di competenza,
«al limite con la partecipazione consultiva delle Forze dell’Ordine».
1.4.– Per le ragioni illustrate, il Procuratore
della Repubblica presso il Tribunale di Bari chiede che la Corte
costituzionale, considerato ammissibile il conflitto, dichiari che «non
spettava al Presidente del Consiglio dei Ministri, poiché incompetente alla
luce dei disposti degli articoli 112 e 109 Costituzione, adottare, in
violazione di dette norme della Carta costituzionale, le disposizioni dell’art.
18, co. 5, d.lgs. 19 agosto 2016, n. 177», nella parte in cui prevedono: «[…]
al fine di rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti ad evitare
duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace e omogeneo
coordinamento informativo, il capo della polizia-direttore generale della
pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite
istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia
interessato trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative
all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria,
indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura
penale».
Conseguentemente, chiede alla Corte
costituzionale di annullare tale disposizione.
2.– In data 30 ottobre 2017, il Procuratore
della Repubblica presso il Tribunale di Bari ha depositato una memoria, con la quale
ha ulteriormente illustrato le ragioni a sostegno dell’ammissibilità del
sollevato conflitto.
Nell’approfondire la questione relativa alla
sussistenza del requisito della residualità, richiesto dalla giurisprudenza
costituzionale in caso di conflitto sollevato contro un atto avente forza di
legge, rileva come, a suo avviso, non vi sarebbero giudizi nei quali la
questione di legittimità costituzionale della norma denunciata potrebbe essere
sollevata.
Sarebbe anzitutto impossibile che si instauri un
giudizio amministrativo di impugnazione delle «istruzioni» dei vertici delle
Forze di polizia, la cui adozione è prevista dalla disposizione censurata, in
quanto tale giudizio presuppone che le «istruzioni» siano contenute in un atto
o in un provvedimento amministrativo impugnabile. Ma – osserva il ricorrente –
nonostante notizie di stampa in relazione ad una circolare che sarebbe stata
emanata dal Capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza in
data 8 ottobre 2016, nessun atto di questo tipo sarebbe mai stato pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale o comunicato alle procure della Repubblica presso i
tribunali ordinari, sicché eventuali istruzioni diramate rivestirebbero il
valore di «atto meramente interno alla pubblica amministrazione», con conseguente
inconfigurabilità di un interesse del ricorrente alla
loro impugnazione, non potendosi considerare alla stregua di regolamenti
amministrativi, come tali impugnabili innanzi al giudice amministrativo.
Quanto ad un ipotetico giudizio penale, per violazione
del segreto investigativo, contro l’ufficiale di polizia giudiziaria che abbia
trasmesso alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle
informative di reato all’autorità giudiziaria, il ricorrente qualifica tale
ipotesi «di dubbia rilevanza penale», in quanto, rispetto al reato di cui
all’art. 326 cod. pen., opererebbe, in funzione di
scriminante, proprio la disposizione censurata.
Ad avviso del ricorrente, dovrebbe in radice
escludersi anche un giudizio penale per omissione di atti di ufficio, in quanto
l’ufficiale di polizia giudiziaria potrebbe sempre obiettare che l’atto
rifiutato non era compreso nel novero di quelli da compiersi senza ritardo e
«per ragioni di giustizia», come richiesto dal primo comma dell’art. 328 cod. pen., e che l’omissione o il ritardo nella trasmissione
alla scala gerarchica erano pienamente giustificati dall’esigenza di «rendere
possibile o più agevole l’attività … del pubblico ministero». Anche in tal
caso, dunque, l’ufficiale di polizia giudiziaria non sarebbe punibile e non
esisterebbe un giudizio nell’ambito del quale sollevare la questione di
legittimità costituzionale sulla norma denunciata.
A non diverse conclusioni il ricorrente giunge
in relazione all’ipotesi, astrattamente configurabile, del giudizio civile o
amministrativo conseguente al procedimento disciplinare nei confronti
dell’ufficiale di polizia giudiziaria che abbia omesso di operare la
trasmissione alla scala gerarchica. Alla controversia instaurata dall’ufficiale
di polizia giudiziaria, innanzi al giudice fornito di giurisdizione e per
contestare la legittimità della sanzione irrogata, sarebbe infatti estraneo il
pubblico ministero e non avrebbero alcuna rilevanza le questioni relative alle
prerogative costituzionali di quest’ultimo. Inoltre, il giudice, ordinario o
speciale, avrebbe sempre «il potere di disapplicare le disposizioni secondarie»
poste a fondamento della sanzione irrogata.
3.– Il ricorso per conflitto di attribuzione è
stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 273
del 2017. La Corte, in base all’art. 24, comma 3, delle Norme integrative
per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, ha assegnato al ricorrente
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari il termine di sessanta
giorni, con decorso dalla comunicazione dell’ordinanza, per notificare al
Governo della Repubblica, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri,
il ricorso e l’ordinanza dichiarativa dell’ammissibilità, e ha assegnato
l’ulteriore termine di trenta giorni dalla notificazione per il deposito dei
medesimi atti nella cancelleria di questa Corte.
L’ordinanza n. 273
del 2017 è stata comunicata dalla cancelleria di questa Corte al ricorrente
il 19 dicembre 2017.
Il ricorrente ha proceduto alla notifica al
Governo il 18 gennaio 2018 e ha poi depositato il 1° febbraio 2018 nella
cancelleria della Corte costituzionale il ricorso e l’ordinanza notificati.
4.– Il Governo della Repubblica, in persona del
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, ha depositato in data 9 marzo 2018 atto di costituzione
in giudizio, eccependo l’inammissibilità del conflitto e, nel merito, la non
fondatezza dei motivi di ricorso.
4.1.– Assume, in primo luogo, il resistente che
il conflitto sarebbe inammissibile, in quanto il ricorrente non lamenterebbe
una lesione attuale, concreta e diretta delle proprie attribuzioni, bensì una
possibile lettura della disposizione impugnata.
Ad avviso dell’Avvocatura generale, il
ricorrente avrebbe invece dovuto dapprima verificare se l’art. 18, comma 5, del
d.lgs. n. 177 del 2016 sia stato effettivamente inteso e univocamente applicato
nel senso temuto dal ricorrente – ossia quale disposizione che impone la
trasmissione, da parte della polizia giudiziaria alla propria scala gerarchica,
non solo di mere notizie relative all’avvenuto invio di informative di reato,
bensì anche di ragguagli in merito al contenuto e agli sviluppi dell’attività
investigativa conseguentemente avviata – e, solo in seguito, in caso di
risposta affermativa, promuovere il conflitto.
L’ipoteticità del
conflitto risulterebbe avvalorata dallo stesso contenuto precettivo della
disposizione legislativa impugnata, che rimanda «a future istruzioni operative
[…] l’indicazione delle concrete modalità con cui i responsabili di ciascun
presidio di polizia interessato sono tenuti a trasmettere alla propria scala
gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato
all’autorità giudiziaria». Ad avviso dell’Avvocatura generale, il conflitto
avrebbe dovuto semmai essere sollevato nei confronti delle istruzioni
operative, quando adottate dalle varie Forze di polizia, e non avverso la
disposizione legislativa, di per sé suscettibile di plurime interpretazioni.
Eccepisce, in secondo luogo, il resistente che
il conflitto sarebbe inammissibile per carenza «del requisito della
residualità», avendo ad oggetto una disposizione legislativa suscettibile di
essere censurata, sotto il profilo della legittimità costituzionale,
nell’ambito di un giudizio ordinario.
A dimostrazione di tale assunto, l’Avvocatura
generale menziona la pendenza di un giudizio avente ad oggetto una sanzione
disciplinare irrogata ad un dipendente della Polizia di Stato per la violazione
delle indicazioni operative adottate in attuazione dell’impugnato art. 18,
comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016, nel quale sarebbe stata eccepita proprio
la questione di legittimità costituzionale di quest’ultimo.
Potendo, dunque, la disposizione impugnata
venire in rilievo, oltre che in procedimenti penali concernenti violazioni del
segreto investigativo, anche in giudizi in cui siano in contestazione
provvedimenti disciplinari, il conflitto sarebbe inammissibile, alla luce della
giurisprudenza costituzionale che esclude l’esperibilità del conflitto di
attribuzioni in relazione ad atti legislativi ogniqualvolta sia ipotizzabile un
giudizio comune nel quale la norma sia suscettibile di trovare applicazione e
possa, dunque, essere promosso un giudizio in via incidentale.
Eccepisce, infine, il resistente che il
conflitto sarebbe altresì inammissibile per difetto di motivazione, essendosi
il ricorrente limitato a trascrivere acriticamente parti della delibera assunta
dal Consiglio superiore della magistratura in data 14 giugno 2017 (recte: 15 giugno 2017), senza specificare le ragioni per le
quali l’atto impugnato comporterebbe un effettivo vulnus alle proprie
attribuzioni. Nel ricorso mancherebbe – ad avviso dell’Avvocatura generale –
un’autonoma elaborazione ed argomentazione dei motivi di ricorso e, in
particolare, dei profili di lesione delle attribuzioni del ricorrente.
4.2.– Quanto al primo motivo di doglianza, ossia
la violazione dell’art. 76 Cost., il resistente ne eccepisce l’inammissibilità
e, in subordine, la non fondatezza.
Argomenta, anzitutto, l’Avvocatura generale che,
nel conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, è possibile lamentare
solo la lesione dei parametri costituzionali che delineano le competenze del
potere cui appartiene l’organo ricorrente. Al contrario, il Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Bari lamenterebbe «un vizio di eccesso di
delega ex art. 77 Cost.», afferente «all’astratta legittimità costituzionale
della disposizione censurata, di per sé non idoneo a determinare alcuna
invasione o minaccia di lesione delle proprie attribuzioni».
Qualora dichiarato ammissibile, tale motivo di
doglianza sarebbe comunque non fondato.
Osserva l’Avvocatura generale che il d.lgs. n.
177 del 2016 è stato emanato sulla base della delega recata nell’art. 8, comma
1, lettera a), della legge n. 124 del 2015, con cui il Governo è stato
autorizzato a realizzare, attraverso l’adozione di uno o più decreti
legislativi, un ampio processo riformatore della pubblica amministrazione
statale «e, nello specifico, delle Forze di polizia». Il citato art. 8 prevede
che gli interventi legislativi delegati si ispirino a criteri di
«razionalizzazione e potenziamento dell’efficacia delle funzioni di polizia,
anche in funzione di una migliore cooperazione sul territorio, al fine di
evitare sovrapposizioni di competenze». A tale finalità risponderebbe la
disposizione impugnata, nella parte in cui intensifica il coordinamento
informativo tra le Forze di polizia.
Ricorda quindi il resistente che furono le
Commissioni riunite I e IV della Camera dei deputati, nel parere reso sullo
schema di decreto legislativo, a chiedere al Governo di valutare l’opportunità
di estendere a tutte le Forze di polizia le previsioni già stabilite, solo per
l’Arma dei carabinieri, dall’art. 237 del d.P.R. n. 90 del 2010, il quale
dispone che, indipendentemente dagli obblighi prescritti dal codice di
procedura penale, i comandi dell’Arma dei carabinieri danno notizia alla
propria scala gerarchica delle informative di reato, secondo modalità fissate
con apposite istruzioni dal Comandante generale. La disposizione ora impugnata
sarebbe stata dunque inserita nel testo definitivo del decreto legislativo per
dare seguito alla richiesta avanzata in sede parlamentare.
Osserva l’Avvocatura generale che, del resto, la
legge delega invitava il Governo ad introdurre disposizioni che migliorassero
la «cooperazione sul territorio» tra le varie Forze di polizia; che tale
finalità può essere perseguita, oltre che con misure di carattere organizzativo
o logistico, anche sul versante del «coordinamento informativo ed operativo»; che
il circuito del coordinamento informativo non riguarda solo il rapporto tra
autorità di pubblica sicurezza e Forze di polizia, bensì anche il rapporto tra
Forze di polizia e autorità giudiziaria (come testimoniato da altre norme del
codice di procedura penale e da disposizioni contenute in altre leggi); che, in
definitiva, la previsione contenuta nell’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177
del 2016 si inserisce a pieno titolo nel quadro di rafforzamento delle misure
di coordinamento informativo a cui fa riferimento la legge delega, afferendo ad
uno degli aspetti principali del sistema della pubblica sicurezza e ponendosi
altresì in un rapporto di assoluta coerenza e continuità con la legislazione
precedente.
Conclude sul punto il resistente rilevando che la
delega conferita al Governo era «particolarmente ampia», in quanto suscettibile
di investire diversi e plurimi aspetti dell’organizzazione e del funzionamento
dell’intero comparto della pubblica sicurezza; che, rispetto a deleghe
legislative «c.d. "vaste o con plurimi oggetti”», la stessa Corte
costituzionale avrebbe riconosciuto al Governo una discrezionalità altrettanto
ampia nell’individuare le soluzioni più idonee a dare concreta attuazione ai
criteri direttivi; che, «[i]n questo senso», il limite al potere legislativo
delegato non si rinverrebbe «tanto nella lettera dei medesimi criteri, bensì
nel dovere di "non porsi in contrasto” con le finalità indicate dal
Parlamento».
4.3.– Quanto alle prospettate lesioni delle
prerogative costituzionali presidiate dagli artt. 109 e 112 Cost., l’Avvocatura
generale ne sostiene l’insussistenza.
4.3.1.– In relazione all’art. 112 Cost., in
particolare, evidenzia come non sia corretto l’assunto secondo il quale il
fondamento del segreto di indagine si debba rinvenire nell’evocato parametro
costituzionale, venendo in rilievo un istituto processuale posto a presidio di
un valore diverso, rappresentato dalla necessità di garantire il buon esito
dell’azione penale, sotto il profilo della ricerca della verità, dell’acquisizione
delle prove e della genuinità di queste ultime.
In questa prospettiva, allora, il segreto di
indagine dovrebbe ascriversi, a parere dell’Avvocatura generale, ai principi
recati in generale dall’art. 111 Cost. in materia di esercizio della giurisdizione
penale.
A sostegno della valutazione di non conferenza
del parametro evocato dal ricorrente, aggiunge che, nonostante l’art. 112 Cost.
assolva anche ad una funzione di garanzia dell’indipendenza del pubblico
ministero, la posizione di questi sarebbe tuttavia caratterizzata da specifiche
peculiarità rispetto agli altri magistrati appartenenti all’ordine giudiziario,
in quanto la garanzia della sua indipendenza – a prescindere dagli ambiti nei
quali la sua posizione sarebbe «omologa a quella del giudice» e come tale
tutelata dagli artt. 105, 106 e 107 Cost. – sarebbe rimessa alla legge
ordinaria, la quale non detterebbe «norme volte a sancire l’intangibilità in
assoluto» del segreto investigativo, prevedendo, anzi, numerose deroghe volte
alla tutela di altri interessi costituzionalmente rilevanti, addirittura
"esterni” al processo, di cui sarebbero portatori altri poteri dello Stato.
A titolo esemplificativo, l’Avvocatura generale
richiama le deroghe al segreto investigativo previste in favore di alcune commissioni
parlamentari dalle relative leggi istitutive oppure, in favore del Ministro
dell’interno e del Presidente del Consiglio dei ministri, rispettivamente dagli
artt. 118 e 118-bis cod. proc. pen.
Ciò sarebbe indicativo del fatto che la deroga
al segreto investigativo, prevista per legge, non implicherebbe, di per sé, una
lesione ai principi che governano l’azione penale, sotto il profilo
dell’obbligatorietà del suo esercizio: la legittimità costituzionale di simili
limiti e deroghe dipenderebbe unicamente dal rispetto del principio di
ragionevolezza, il quale imporrebbe di calibrarne l’esercizio sui parametri di
effettiva necessità e di «non ostacolo» all’esercizio dell’azione penale. Sotto
tale profilo, si sarebbe in presenza di una deroga al segreto investigativo
«del tutto ragionevole e proporzionata, in quanto sottoposta a limiti esterni
(in ragione delle finalità perseguite) ed interni (riferiti al contenuto delle
informazioni suscettibili di essere trasmesse alla scala gerarchica), tali da
evitare qualsiasi interferenza con l’esercizio dell’azione penale». A tali
limiti si sarebbero attenuti i vertici delle Forze di polizia nell’emanare le
direttive autorizzate dalla disposizione impugnata, essendosi, in esse,
precisato «che la comunicazione alla scala gerarchica deve essere circoscritta
ai dati e alle notizie strettamente indispensabili all’esercizio delle funzioni
di coordinamento», pure strumentali – al pari del segreto investigativo – al
fruttuoso esercizio dell’azione penale.
A tale proposito, osserva ancora l’Avvocatura
generale, la trasmissione alla scala gerarchica della Forza di polizia di
notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità
giudiziaria non comporterebbe un mutamento della "qualità” della notizia, che
continuerebbe ad essere e a rimanere segreta, tanto più considerando che essa
verrebbe partecipata a soggetti particolarmente qualificati, per il ruolo
apicale rivestito in seno alla Forza di polizia e, comunque, tenuti anch’essi
all’osservanza del segreto in ragione dell’ufficio rivestito.
4.3.2.– In relazione all’art. 109 Cost.,
l’Avvocatura generale evidenzia come il Costituente abbia scelto di non imporre
la creazione di un autonomo corpo di polizia giudiziaria, svincolato dall’esecutivo
e posto alle esclusive dipendenze della magistratura, sicché il legislatore
ordinario avrebbe optato per la creazione di un sistema (giudicato coerente con
il dettato costituzionale dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 114 del
1968 e n. 94
del 1963) in cui gli organi delle Forze di polizia deputati a svolgere
compiti di polizia giudiziaria vengono a trovarsi in un regime di "doppia
dipendenza”: di tipo funzionale dall’autorità giudiziaria e di tipo
organizzativo dall’esecutivo.
Avendo la Corte costituzionale affermato – nella
successiva sentenza
n. 122 del 1971, in tema di disciplina (all’epoca vigente) dei poteri
disciplinari e di controllo della magistratura sulla polizia giudiziaria – che
non spetterebbe al giudice costituzionale stabilire se il sistema, così come
concretamente realizzato, corrisponda in tutto all’intento perseguito dal
Costituente, sarebbe escluso che possano formare oggetto del conflitto
«situazioni di ordine meramente pratico e applicativo dei precetti legislativi
che, a vario titolo, possano chiamare in causa l’attuazione dei principi
dell’art. 109», poiché simili situazioni sarebbero «giustiziabili con i rimedi
"ordinari” previsti dall’ordinamento».
La disposizione censurata, in altre parole, non
inciderebbe in alcun modo sul rapporto di dipendenza funzionale della polizia
giudiziaria dal pubblico ministero – non comportando alcuna ingerenza sul
potere di direzione delle indagini, per come disciplinato dal codice di
procedura penale – né sui poteri di vigilanza e controllo, anche disciplinare,
di cui la magistratura è titolare nei confronti della polizia giudiziaria.
Proprio il fatto che la notizia relativa
all’informativa di reato debba essere fornita alla scala gerarchica solo dopo
la sua acquisizione o, comunque, non prima del suo inoltro all’autorità
giudiziaria escluderebbe, in radice, che l’esecutivo possa, attraverso la
stessa scala gerarchica, dispiegare forme di ingerenza nella conduzione delle
indagini.
Per questo motivo, la disposizione impugnata non
troverebbe applicazione alle «sezioni» di polizia giudiziaria di cui all’art.
58, comma 3, cod. proc. pen., trattandosi di uffici
operanti alle esclusive dipendenze del pubblico ministero e, quindi, non
facenti parte della «struttura burocratica» di ciascuna Forza di polizia.
L’Avvocatura generale, piuttosto, sottolinea che
gli apparati di polizia sono caratterizzati da un’organizzazione di carattere
gerarchico, sicché i responsabili dei vari uffici e comandi sono tenuti ad
esercitare, in ragione della loro posizione sovraordinata, funzioni di
vigilanza e controllo che non possono essere trascurate, «pena un grave
pregiudizio in termini di funzionalità».
Ciò sarebbe dimostrato dalla vigenza
nell’ordinamento di altra norma, omologa a quella impugnata, specificamente
riferita all’Arma dei carabinieri (e contenuta nell’art. 237 del d.P.R. n. 90
del 2010) che non avrebbe mai creato, nella prassi operativa, alcuno dei
problemi paventati dal ricorrente: la disposizione impugnata, allora, dettando,
con forza di legge, una disciplina organica e comune a tutti gli apparati di
polizia, introdurrebbe un elemento di chiarezza e trasparenza, senza incidere
in alcun modo sul corretto svolgimento delle indagini e sulla tenuta
complessiva del segreto investigativo.
5.– In data 2 ottobre 2018 il Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Bari ha depositato un’ulteriore memoria, in
cui approfondisce le ragioni che, a suo avviso, depongono per la fondatezza del
conflitto.
5.1.– In merito all’asserita lesione dell’art.
76 Cost., il ricorrente ribadisce che nessuno dei principi e criteri direttivi
indicati nella legge delega permette di ritenere, neppure implicitamente, che
il Governo fosse stato autorizzato ad introdurre un obbligo di comunicazione in
via gerarchica delle notizie relative alle informative di reato, né – a suo
avviso – un principio o criterio direttivo in tal senso potrebbe essere
ricavato per relationem.
Pur ricordando che la Corte costituzionale
consente al legislatore delegato di introdurre norme che rappresentino un
«coerente sviluppo e completamento della scelta espressa dal legislatore
delegante e dalle ragioni ad essa sottese», il ricorrente evidenzia, inoltre,
che, nel caso di specie, tale coerenza non sarebbe in alcun modo ravvisabile,
risultando al contrario irragionevole l’introduzione di una disposizione lesiva
degli artt. 109 e 112 Cost.
Osserva ancora il Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Bari che l’incoerenza della disposizione impugnata
rispetto alla ratio della legge delega sarebbe dimostrata dall’analisi dei
lavori parlamentari e, in particolare, dal fatto che la norma sarebbe stata
introdotta «autonomamente» dal Governo solo a seguito di una osservazione
proveniente dalle Commissioni I e IV della Camera dei deputati.
Precisa infine il ricorrente che la disposizione
impugnata non potrebbe neppure dirsi attuativa dell’art. 17, lettera u), della
legge delega, concernente la «razionalizzazione dei flussi informativi dalle
amministrazioni pubbliche alle amministrazioni centrali e concentrazione degli
stessi in ambiti temporali definiti», poiché trattasi di disposizione
chiaramente riferita alla disciplina del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche.
5.2.– In ordine all’asserita violazione
dell’art. 112 Cost., il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Bari ribadisce gli argomenti illustrati nel ricorso introduttivo e nella
memoria depositati il 30 ottobre 2017.
Secondo il ricorrente, il meccanismo di
comunicazione introdotto dalla disposizione impugnata, avendo come destinatari
organi dell’amministrazione non appartenenti alla polizia giudiziaria (e, come
tali, privi della legittimazione all’accesso alle informazioni concernenti le
attività d’indagine), arrecherebbe un evidente pregiudizio all’obbligo previsto
a carico del pubblico ministero di attivare l’azione penale davanti a tutte le
notizie di reato, finendo per minare il carattere di indipendenza che, invece,
la norma costituzionale di cui all’art. 112 Cost. garantisce all’organo
requirente.
Tale propalazione di notizie, in particolare,
arrecherebbe danno all’indipendenza funzionale del pubblico ministero, anche a
causa dei condizionamenti, delle pressioni e/o delle influenze che, una volta
diffusa la notizia relativa all’inoltro di un’informativa all’autorità
giudiziaria, potrebbero provenirgli dall’esterno, con particolare riguardo al
potere esecutivo, in occasione della decisione sull’esercizio dell’azione
penale. Con conseguente vulnus anche ai principi dell’effettività e
dell’efficacia dell’azione penale.
5.3.– Con riferimento all’asserita violazione
dell’art. 109 Cost., il ricorrente richiama tutti gli argomenti già illustrati
in ricorso.
Ribadisce, in particolare, che il rapporto di
dipendenza funzionale, che la Costituzione stabilisce debba intercorrere tra
autorità giudiziaria e polizia giudiziaria, sarebbe primariamente finalizzato a
evitare qualsivoglia tipo di interferenza, nella conduzione delle indagini, da
parte di poteri altri e distinti da quello della magistratura inquirente,
sicché la disposizione impugnata, «determinando la fuoriuscita di informazioni
sensibili al di fuori del circuito costituzionalmente previsto», finirebbe per
ledere le prerogative costituzionalmente riconosciute all’autorità requirente,
ingenerando il concreto rischio che il potere esecutivo, da cui sono
strettamente dipendenti, da un punto di vista organico, i destinatari
dell’informativa, in quanto collocati in posizione apicale, possa indebitamente
ingerirsi nello svolgimento dell’attività investigativa.
6.– In prossimità dell’udienza pubblica, in data
16 ottobre 2018, il Governo della Repubblica, in persona del Presidente del
Consiglio dei ministri, ha depositato una memoria, in cui chiede che il ricorso
per conflitto sia dichiarato inammissibile e, nel merito, non fondato.
6.1.– Quanto all’ammissibilità, l’Avvocatura
generale insiste, con ulteriori argomenti, sull’assenza del requisito della
residualità. In particolare, replicando alle osservazioni contenute nella
memoria del ricorrente del 30 ottobre 2017, contesta che le istruzioni emanate
dalle autorità di polizia non possano essere impugnate in sede giurisdizionale,
ritenendo che si debba piuttosto distinguere tra atti interni meramente
interpretativi, effettivamente non impugnabili in via immediata e diretta, e
atti interni recanti istruzioni vincolanti, i quali, invece, essendo destinati
a conformare l’azione dei pubblici poteri nei rapporti esterni, assumono i
caratteri dell’immediata lesività e possono, per ciò, essere impugnati. Poiché
gli atti amministrativi emanati dalle Forze di polizia ai sensi dell’art. 18,
comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016 assumerebbero – ad avviso dell’Avvocatura
generale – la natura di istruzioni operative vincolanti per i pubblici
ufficiali, come tali idonee a conformarne l’azione rispetto a soggetti esterni,
essi sarebbero immediatamente censurabili in sede giudiziaria.
Osserva, inoltre, l’Avvocatura generale che la
mancata pubblicazione o comunicazione non assume rilevanza al fine di
ricostruire il regime giuridico degli atti con particolare riferimento alla
sindacabilità in sede giurisdizionale. Nel caso di specie, peraltro, le
istruzioni sarebbero certamente conosciute dalle autorità giudiziarie.
Sempre al fine di argomentare l’assenza di
residualità del conflitto, l’Avvocatura generale afferma di non condividere la
tesi del ricorrente, secondo cui la questione di legittimità costituzionale del
citato art. 18, comma 5, non potrebbe essere sollevata nell’ambito di un
processo penale promosso ai sensi dell’art. 326 cod. pen.,
in quanto la Corte costituzionale ben può essere investita del giudizio sulle
norme penali di favore.
Osserva ancora l’Avvocatura generale – a
differenza di quanto sostenuto dalla difesa del ricorrente – che la questione
di legittimità costituzionale potrebbe essere promossa anche nell’ambito di
giudizi penali nei confronti di ufficiali di polizia giudiziaria imputati del
reato di cui all’art. 328 cod. pen., non potendo tali
soggetti invocare l’esimente costituita dall’art. 18, comma 5, del d.lgs. n.
177 del 2016.
Parimenti, la questione di legittimità
costituzionale della disposizione impugnata potrebbe essere eccepita in un
giudizio amministrativo avverso il provvedimento disciplinare emesso contro
l’ufficiale di polizia giudiziaria che abbia rifiutato di inoltrare alla scala
gerarchica la comunicazione delle notizie di reato. Sul punto, ricorda ancora
l’Avvocatura generale che tuttora pende, innanzi al Consiglio di Stato, un
giudizio di questo tipo.
Rileva, infine, che il difetto di residualità
non potrebbe comunque essere escluso dalla circostanza che il Procuratore della
Repubblica non è parte del giudizio amministrativo, in quanto – a suo avviso –
il requisito della residualità non potrebbe essere inteso in senso soggettivo
«come impossibilità per il ricorrente di sollevare personalmente la questione
di legittimità costituzionale in altro giudizio in via incidentale», dovendo
piuttosto essere ricostruito «in senso oggettivo in ragione, del resto, della
natura di diritto oggettivo della giurisdizione costituzionale, la quale è
esercitata non tanto per la tutela di situazioni giuridiche soggettive attive
dei singoli, quanto a garanzia dell’unità e della legittimità
dell’ordinamento». Ciò sarebbe confermato dal fatto che il giudizio incidentale
di costituzionalità, anche nei processi in cui è parte il pubblico ministero,
non viene comunque introdotto dalla parte pubblica, bensì solo dal giudice
procedente.
6.2.– Quanto al merito del conflitto,
l’Avvocatura generale, al fine di argomentare la non violazione dell’art. 76
Cost., sottolinea ancora come la disposizione impugnata risponda solo a
finalità di coordinamento informativo ed operativo. Essa si limiterebbe,
infatti, a riprodurre, «con formula sostanzialmente identica», la disposizione
già contenuta nell’art. 237 del d.P.R. n. 90 del 2010, la quale «non risulta
aver mai determinato alcuna lesione delle attribuzioni costituzionalmente
garantite degli Uffici di Procura», ma anzi «dimostra l’essenzialità del
coordinamento informativo in funzione del buon andamento degli uffici
pubblici».
Si tratterebbe, dunque, di una disposizione
certamente compatibile con la legge delega, la quale ha autorizzato il Governo
a razionalizzare e potenziare l’esercizio delle funzioni di polizia anche
nell’ottica di una migliore «cooperazione sul territorio».
In merito alla asserita violazione degli artt.
109 e 112 Cost., l’Avvocatura generale ribadisce gli argomenti già illustrati
nell’atto di costituzione in giudizio.
Aggiunge, con riferimento alla prospettata
violazione di entrambi i parametri da ultimo citati, che l’obbligo di
comunicazione alla scala gerarchica di notizie relative alle informative di
reato sorge «solo dopo l’acquisizione e la comunicazione di queste all’autorità
giudiziaria», in tal modo «evitando qualsivoglia previa (illecita) interferenza
da parte dei superiori gerarchici dei segnalanti».
Considerato
in diritto
1.– Il Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale ordinario di Bari ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri
dello Stato nei confronti del «Presidente del Consiglio dei ministri», per
violazione degli articoli 76, 109 e 112 della Costituzione, in relazione
all’art. 18, comma 5, del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177, recante
«Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e
assorbimento del Corpo forestale dello Stato, ai sensi dell’articolo 8, comma
1, lettera a), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di
riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche».
Tale disposizione prevede che, a scopo di
rafforzare gli interventi di razionalizzazione, per evitare «duplicazioni e
sovrapposizioni», anche mediante forme di «coordinamento informativo», il Capo
della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza e i vertici delle
altre Forze di polizia adottino «apposite istruzioni», affinché i «responsabili
di ciascun presidio di polizia interessato» trasmettano alla «propria scala
gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato
all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle
norme del codice di procedura penale».
Ritiene il ricorrente che la citata disposizione
del d.lgs. n. 177 del 2016 sarebbe stata adottata in eccesso di delega, con
lesione dell’art. 76 Cost., e al tempo stesso avrebbe violato prerogative di
ordine costituzionale direttamente pertinenti all’autorità giudiziaria
requirente. In particolare, introducendo una penetrante deroga al segreto
investigativo disposto dall’art. 329 del codice di procedura penale, essa
avrebbe leso il principio di obbligatorietà dell’azione penale tutelato
dall’art. 112 Cost., cui il segreto investigativo sarebbe strettamente
inerente, nonché l’art. 109 Cost., secondo il quale l’autorità giudiziaria
dispone direttamente della polizia giudiziaria.
L’eccesso di delega risulterebbe palese, ad
avviso del ricorrente, poiché nessuno dei principi e criteri della legge delega
7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche) avrebbe autorizzato il Governo a introdurre una
disposizione quale quella impugnata. L’art. 8, comma 1, lettera a), di tale
legge avrebbe bensì delegato il Governo a razionalizzare e potenziare le
funzioni delle diverse Forze di polizia previste dall’ordinamento, anche in
vista di una loro migliore cooperazione sul territorio, al fine di evitare
sovrapposizioni di competenze e di favorire la gestione associata dei servizi
strumentali. Ma tale criterio direttivo – rivolto a soddisfare, in conformità
alla ratio ispiratrice dell’intera legge di delega, esigenze di semplificazione
e razionalizzazione di uffici, servizi ed impiego del personale – non sarebbe
sufficiente a giustificare l’introduzione di una disciplina in tema di
coordinamento informativo avente ad oggetto la trasmissione ai propri superiori
gerarchici, da parte dei responsabili degli uffici di polizia, delle
informative di reato inoltrate all’autorità giudiziaria.
Sostiene inoltre il ricorrente che le
informazioni di cui ragiona l’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016
sarebbero portate a conoscenza di «soggetti esterni al perimetro dell’indagine
stessa, e non per determinazione autonoma del magistrato (come pure può
accadere per le necessità organizzative o logistiche delle indagini)», ma per
vincolo di legge, con conseguenti possibili interferenze nell’esercizio
dell’azione penale. Anche in virtù della stretta correlazione esistente tra
azione penale obbligatoria, tutelata dall’art. 112 Cost., e segretezza delle
indagini, la deroga a quest’ultima sarebbe in concreto foriera di rischi per
l’esito positivo delle investigazioni e minaccerebbe, per ciò stesso,
l’effettività ed efficacia dell’esercizio dell’azione penale, a protezione
delle quali sarebbero appunto poste, dal codice di procedura penale, regole che
prescrivono «limiti e tempi precisi e rigorosi per la segretezza». Regole,
invece, «disinvoltamente» superate dalla disposizione oggetto del conflitto,
«peraltro a beneficio di organi dell’Amministrazione neppure dotati della
connotazione di appartenenti alla polizia giudiziaria», come tali privi di
legittimazione all’accesso all’attività d’indagine.
In terzo luogo, ad avviso del ricorrente,
emergerebbe la violazione dell’art. 109 Cost., e cioè del principio della
dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dall’autorità giudiziaria.
La comunicazione in via gerarchica delle
informazioni, prevista dalla disposizione oggetto del conflitto, senza alcun
filtro o controllo del pubblico ministero procedente, a beneficio, come
ricordato, anche di soggetti che non rivestono la qualifica di ufficiale di
polizia giudiziaria e che, per la loro posizione apicale, vedono
particolarmente stretto il rapporto di dipendenza organica dalle articolazioni
del potere esecutivo, finirebbe per rafforzare, nella polizia giudiziaria, tale
ultimo tipo di dipendenza, a tutto danno della dipendenza funzionale
dall’autorità giudiziaria scolpita nell’art. 109 Cost., la cui lesione viene
dunque lamentata.
2.– Va confermata, ai sensi dell’art. 37 della
legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della
Corte costituzionale), l’ammissibilità del conflitto – già dichiarata da questa
Corte, in sede di prima e sommaria delibazione, con l’ordinanza n. 273
del 2017 – sussistendone i presupposti soggettivi e oggettivi.
2.1.– In relazione al profilo soggettivo, deve
essere ribadita la natura di potere dello Stato del pubblico ministero, e in
particolare del Procuratore della Repubblica (art. 1, comma 1, del decreto
legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, recante «Disposizioni in materia di
riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, a norma dell’articolo 1,
comma 1, lettera d), della legge 25 luglio 2005, n. 150»), in quanto autorità giudiziaria
che dispone direttamente della polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 109
Cost., e perciò titolare delle attività d’indagine finalizzate all’esercizio
obbligatorio dell’azione penale in virtù dell’art. 112 Cost. (sentenze n. 1 del
2013, n. 88
e n. 87 del 2012
e n. 420 del 1995;
ordinanza n. 17
del 2013).
Nessun dubbio, inoltre, sussiste in ordine alla
legittimazione del Governo, in persona del Presidente del Consiglio dei
ministri, ad essere parte nel conflitto, posto che l’atto asseritamente lesivo
– la disposizione di un decreto legislativo – è imputabile al potere esecutivo
nella sua interezza (sentenza n. 420 del
1995; ordinanze
n. 16 del 2013, n. 23 del 2000
e n. 323 del
1999).
2.2.– Quanto al profilo oggettivo, nella
ricordata ordinanza
n. 273 del 2017 questa Corte ha affermato che l’idoneità di un atto avente
natura legislativa a determinare conflitto sussiste tutte le volte in cui dalla
norma primaria «derivino in via diretta lesioni dell’ordine costituzionale
delle competenze», salvo che sia configurabile un giudizio nel quale la norma
primaria risulti applicabile e quindi possa essere su di essa sollevata, in via
incidentale, questione di legittimità costituzionale. Si era aggiunto, sempre
nell’ordinanza in parola, che, nel caso di specie, l’«effettiva configurabilità
di un tale giudizio» non emergeva prima facie, ma che
ogni diversa valutazione restava impregiudicata e avrebbe dovuto essere
approfondita in seguito al «pieno dispiegarsi del contraddittorio tra le
parti».
Proprio in virtù del dispiegarsi del
contraddittorio, questa Corte è chiamata ad affrontare, in via preliminare,
l’eccezione d’inammissibilità del conflitto per carenza del requisito
oggettivo, avanzata dall’Avvocatura generale dello Stato in rappresentanza del
Governo, costituitosi in giudizio in persona del Presidente del Consiglio dei
ministri.
Rileva, in particolare, l’Avvocatura generale la
carenza del «requisito della residualità», poiché il ricorso avrebbe ad oggetto
una disposizione legislativa suscettibile di essere censurata, sotto il profilo
della legittimità costituzionale, nell’ambito di un comune giudizio.
Riferisce, tra l’altro, l’Avvocatura generale
che – a seguito di un provvedimento disciplinare inflitto ad un ufficiale di
polizia giudiziaria, incolpato del rifiuto di trasmettere ai propri superiori
gerarchici la comunicazione di notizie emerse nell’ambito di indagini
preliminari – il giudice amministrativo, di fronte al quale il provvedimento
disciplinare è stato impugnato, è risultato effettivamente investito
dell’eccezione d’illegittimità costituzionale della stessa disposizione oggetto
del presente conflitto, posta a fondamento del provvedimento disciplinare.
Aggiunge la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri che il giudice
amministrativo di primo grado ha ritenuto la questione di legittimità
costituzionale non rilevante per la decisione del ricorso (Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima-quater, sentenza del 26
giugno 2018, n. 7147), ma che la sentenza è stata appellata, sicché di fronte
al Consiglio di Stato l’eccezione ben potrebbe essere ripresentata, e la
carenza del requisito di "residualità del conflitto”, nel caso in esame,
risulterebbe perciò evidente.
L’eccezione non è fondata e l’ammissibilità del
conflitto va perciò confermata anche sotto il profilo oggettivo.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, un
conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato ben può essere originato anche
dall’approvazione di un atto avente valore di legge, in quanto l’istituto del
conflitto tra poteri è primariamente preordinato a garantire l’integrità della
sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri dalle disposizioni
costituzionali, a prescindere dalla natura dell’atto che si assume lesivo di
tali attribuzioni (sentenze n. 221 del
2002, n. 139
del 2001 e n.
457 del 1999). La giurisdizione costituzionale sui conflitti tra poteri si
fonda, infatti, in primo luogo, sulla natura dei soggetti che confliggono e
sulle competenze costituzionali che essi difendono in giudizio.
Ben vero che nel nostro sistema di giustizia
costituzionale gli atti aventi valore di legge sono solitamente sottoposti al
controllo di costituzionalità attraverso il giudizio di legittimità
costituzionale (a seconda dei casi, in via incidentale o principale). Per
questo, nella generalità dei casi va esclusa l’esperibilità del ricorso per
conflitto tra poteri, tutte le volte che l’atto legislativo – al quale sia in
ipotesi imputata una lesione di attribuzioni costituzionali – può pacificamente
trovare applicazione in un giudizio, nel corso del quale la relativa questione
di legittimità costituzionale può essere eccepita, e sollevata. Ed è pure vero,
con riferimento a casi rispetto ai quali nessun dubbio poteva in proposito
essere prospettato, che la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto
inammissibile il ricorso per conflitto su atto legislativo, appunto sul
presupposto che «esista un giudizio» in cui l’atto legislativo può trovare
applicazione (sentenza
n. 284 del 2005; ordinanze n. 17
e n. 16 del 2013,
n. 38 del 2008,
n. 343 del 2003
e n. 144 del
2000; nello stesso senso ordinanze n. 14 e n. 1 del 2009).
Tuttavia, in altre pronunce, questa Corte ha già
avuto modo di precisare che l’ammissibilità del ricorso per conflitto su atto
legislativo è altresì subordinata alla circostanza che la lesione delle
attribuzioni costituzionali non possa essere rilevata, sotto forma di eccezione
di legittimità costituzionale nel giudizio in via incidentale, proprio dal
soggetto direttamente interessato (sentenza n. 457 del
1999; ordinanza
n. 38 del 2001). Da questo punto di vista, non è la mera configurabilità di
un giudizio nel quale la disposizione può trovare applicazione a ostacolare
l’ammissibilità del conflitto: deve trattarsi di un giudizio in cui il soggetto
(o meglio: il potere dello Stato), che ha ritenuto di lamentare la lesione
della propria sfera di attribuzioni attraverso il ricorso per conflitto,
avrebbe la possibilità di proporre l’eccezione di legittimità costituzionale.
Deve cioè trattarsi di un giudizio in cui quel soggetto sia o possa essere a
tutti gli effetti parte.
Così, ad esempio, nella sentenza n. 284 del
2005, pronunciando l’inammissibilità di un conflitto tra poteri dello Stato
sollevato dal Consiglio superiore della Magistratura nei confronti delle Camere
e del Governo, in relazione a disposizioni contenute in un decreto-legge e in
una legge, questa Corte motivò non solo riferendosi alle varie ipotesi in cui
sulle disposizioni impugnate avrebbe potuto essere sollevata una questione di
legittimità costituzionale in via incidentale, ma anche precisando che si
trattava sempre di giudizi comuni nell’ambito dei quali «il Consiglio superiore
può far valere le proprie ragioni».
A ben vedere, tuttavia, solo l’autorità
giurisdizionale giudicante, e purché nell’esercizio delle proprie funzioni, ha
la sicura potestà di attivare effettivamente, promuovendolo d’ufficio, il
giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, ai sensi dell’art.
23 della legge n. 87 del 1953 (ordinanza n. 144
del 2000), alla condizione che la questione o le questioni sollevate risultino
dotate del requisito della rilevanza (sentenza n. 164 del
2017). E, perciò, solo in relazione ad essa, non già invece in relazione
all’autorità giudiziaria requirente, potrebbe in via di principio esser
predicato il rispetto del requisito della cosiddetta residualità del conflitto
su atto avente valore legislativo.
Stando così le cose, non è sufficiente, per
accogliere l’eccezione d’inammissibilità ora in discussione, enumerare le diverse
ipotesi, peraltro di non facile realizzazione, in cui la disposizione impugnata
per conflitto risulterebbe applicabile e perciò eventuale oggetto di una
questione di costituzionalità sollevabile in via incidentale, si tratti di
giudizi solo astrattamente ipotizzabili o effettivamente instaurati e
addirittura pendenti.
Infatti, in questa prospettiva, la possibile
tutela delle attribuzioni costituzionali del pubblico ministero finirebbe per
essere affidata alla volontà di altro soggetto, che dovrebbe eccepire una
questione di legittimità costituzionale, la cui rilevanza e non manifesta
infondatezza dovrebbero essere infine vagliate dal giudice. Con la conseguenza
che questa Corte, concretamente investita da un potere dello Stato, quale è
l’ufficio del pubblico ministero, del giudizio sull’asserita lesione delle sue
attribuzioni costituzionali, dovrebbe considerare inammissibile il conflitto,
sulla base della futura e solo eventuale possibilità che altro soggetto
eccepisca la questione e che il giudice ritenga di sollevarla: conseguenza,
come si vede, contraria al principio di effettività della tutela delle
attribuzioni costituzionali.
Ma quel che più conta è che il ricorso
presentato dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari porta
alla valutazione di questa Corte un vero e proprio conflitto tra poteri dello
Stato, in cui una disposizione contenuta in un decreto legislativo è supposta
pregiudicare immediatamente le attribuzioni costituzionali dell’autorità
giudiziaria requirente, prevedendo, in capo agli appartenenti alla polizia
giudiziaria e a beneficio dei superiori gerarchici di quest’ultimi, obblighi
informativi sulle notizie di reato, ponendo quindi le relative informazioni
nella disponibilità di una "scala gerarchica” che conduce potenzialmente fino
ai vertici del potere esecutivo. In una tale situazione, considerare
inammissibile il ricorso in ragione della sola natura dell’atto in ipotesi
lesivo (quello con valore legislativo) nonché in ragione della eventuale,
futura, configurabilità, su quell’atto, di un giudizio in via incidentale,
risulterebbe contrario alla logica e alla natura stessa dell’istituto del
conflitto tra poteri.
Il giudizio in via incidentale nasce da un caso,
e quindi da un processo, in cui sono in discussione situazioni soggettive,
mentre il conflitto tra poteri trova la propria ragion d’essere nella necessità
di delimitare le rispettive sfere di attribuzione, delineate dalla
Costituzione, per i vari poteri dello Stato, secondo la formula dell’art. 37
della legge n. 87 del 1953. Inoltre, mentre il controllo in via incidentale di
legittimità costituzionale delle leggi, pur nascendo a tutela di diritti in
ipotesi violati in un singolo caso, assume la natura oggettiva ed astratta di
un controllo di conformità della fonte di rango primario, in riferimento a
qualsiasi parametro costituzionale risulti invocato dal giudice a quo, il
conflitto tra poteri dello Stato è un giudizio tra parti e, quand’anche abbia
ad oggetto un atto di valore legislativo, resta necessariamente e strettamente
ancorato, come si avrà più avanti occasione di precisare, alla verifica del
rispetto delle relative sfere di attribuzione dei poteri in contrasto, e quindi
delle sole disposizioni costituzionali relative al rapporto tra questi ultimi.
Nient’affatto priva di rilievo, infine, è la
circostanza che l’incidente di costituzionalità può non costituire rimedio
tempestivo rispetto all’asserita lesione delle sfere di attribuzioni
costituzionali del potere ricorrente, tanto più in un’ipotesi, come quella in
esame, nel quale la disposizione del decreto legislativo impugnato ha incidenza
continua e quotidiana, sia sulla funzione investigativa del pubblico ministero,
sia sui compiti informativi della polizia giudiziaria: una situazione nella
quale, dunque, l’attendere che la questione di legittimità costituzionale venga
eventualmente sollevata per la via incidentale potrebbe frustrare l’esigenza di
tutela immediata perseguibile attraverso il ricorso per conflitto. Già nella sentenza n. 161 del
1995 fu precisato che il conflitto contro l’atto avente valore di legge è
ammissibile se incide sulla materia costituzionale e determina situazioni non
più reversibili né sanabili anche a seguito della perdita di efficacia della
norma, non solo quando ciò accada a causa dell’impiego della decretazione
d’urgenza, ma anche laddove le situazioni in parola siano provocate da una
legge o da un decreto legislativo.
2.3.– Non fondata è altresì l’ulteriore eccezione
d’inammissibilità del conflitto, avanzata dall’Avvocatura generale in quanto il
ricorrente non lamenterebbe una lesione attuale, concreta e diretta delle
proprie competenze, ma si dorrebbe solo di una possibile lettura della
disposizione impugnata, derivandone la natura meramente ipotetica del
conflitto.
Assume, in particolare, la difesa del Governo
che il ricorrente avrebbe articolato i motivi di doglianza unicamente per il
caso in cui dovesse accogliersi un’interpretazione estensiva dell’art. 18, comma
5, del d.lgs. n. 177 del 2016: per l’ipotesi, cioè, in cui la trasmissione
d’informazioni dalla polizia giudiziaria ai superiori gerarchici non dovesse
riguardare la «mera notizia relativa all’avvenuto invio di informative di reato
all’autorità giudiziaria», attività che lo stesso ricorrente riterrebbe non
lesiva delle prerogative dell’autorità giudiziaria, «ma anche di ragguagli in
merito al contenuto e agli sviluppi dell’attività investigativa
conseguentemente avviata».
Anche a prescindere dalla circostanza che il
ricorrente, pur ammettendo che della disposizione impugnata possono darsi
diverse interpretazioni, ritiene che essa sia in ogni caso lesiva delle proprie
attribuzioni, quel che conta è che la giurisprudenza di questa Corte ha
costantemente affermato la sufficienza, ai fini della configurabilità
dell’interesse a ricorrere e quindi dell’ammissibilità del conflitto, anche
della sola minaccia di lesione, purché attuale e concreta, e non meramente
congetturale (sentenze
n. 379 del 1996 e n. 420 del 1995).
Nel presente caso, il tenore della disposizione impugnata contiene ed esprime
in modo chiaro ed inequivoco la possibilità che la trasmissione delle notizie
avvenga secondo modalità che incidono sulle attribuzioni del ricorrente,
manifestando così l’attualità della lesione.
La sussistenza dell’interesse a ricorrere,
peraltro, non è affatto impedita dalla circostanza che l’asserita violazione
delle attribuzioni costituzionali del ricorrente provenga da una disposizione
contenuta in un decreto legislativo. Infatti, anche l’entrata in vigore di un
atto normativo – per sua natura generale ed astratto – integra di per sé un
comportamento idoneo a far insorgere nel ricorrente l’interesse alla
eliminazione del pregiudizio che, a suo avviso, ne deriva alle proprie
attribuzioni costituzionali, «e ciò senza che occorra attendere il concreto
esercizio delle medesime in relazione ad un caso specifico (quasi a voler
applicare anche nei giudizi sui conflitti il requisito della "rilevanza” tipico
dei giudizi incidentali), condizione non richiesta dall’ordinamento per
l’insorgere di un conflitto di attribuzione» (sentenza n. 420 del
1995; in senso analogo, ordinanza n. 521
del 2000).
Nel caso di specie, comunque, si ha notizia
dell’esistenza di atti applicativi della disposizione impugnata (si fa
riferimento alle istruzioni per la comunicazione di notizie relative alle
informative di reato diramate dal Capo della polizia-direttore generale della
pubblica sicurezza con circolari dell’8 ottobre 2016 e del 10 novembre 2016,
del resto allegate all’atto di costituzione dell’Avvocatura generale). Né
sarebbe necessario attendere l’evenienza di un caso specifico che renda
concreta la lesione, poiché lo stesso ricorrente ha precisato che la
disposizione impugnata è destinata a trovare indiscriminata e immediata
applicazione nella totalità dei casi di inoltro di notizie di reato da parte
della polizia giudiziaria, notizie che ogni anno, per la sola Procura
ricorrente, ammonterebbero a circa cinquantamila.
2.4.– Al medesimo esito di non fondatezza è
destinata anche l’eccezione d’inammissibilità del conflitto per carenza di
motivazione, che l’Avvocatura generale ricava dalla circostanza
dell’inclusione, nel ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale
di Bari, di ampie parti della delibera adottata dal Consiglio superiore della
Magistratura in data 15 giugno 2017, recante «Proposta ex art. 10, comma 2,
legge n. 195 del 1958 al Ministro della giustizia finalizzata ad una modifica
normativa dell’art. 18, comma 5, del decreto legislativo 19 agosto 2016, n.
177».
Sostiene, in particolare, la difesa del Governo
che il ricorso consisterebbe nella mera ed acritica trascrizione, per le parti
ritenute rilevanti, della delibera citata, ciò che non soddisferebbe il
requisito dell’esposizione delle ragioni del conflitto, richiesto dall’art. 24
delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale e dallo
stesso art. 37 della legge n. 87 del 1953.
Questa Corte, tuttavia, attraverso l’ordinanza n. 273
del 2017, ha già ritenuto che nel presente caso esiste materia di un
conflitto la cui risoluzione spetta alla sua competenza, così implicitamente
escludendo carenze di motivazione o di impostazione del ricorso, rilevabili
d’ufficio, che avrebbero potuto inficiare in via preliminare l’ammissibilità
del conflitto.
In ogni caso, l’infondatezza dell’eccezione
consegue al rilievo che il ricorrente, pur riportando letteralmente ampi stralci
della delibera ricordata, afferma con chiarezza di farla propria, evidenziando
come, a suo avviso, l’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016
pregiudicherebbe la segretezza delle indagini, l’esercizio indipendente
dell’azione penale e la diretta disponibilità della polizia giudiziaria da
parte dell’autorità giudiziaria. Non si è perciò in presenza di una mera
argomentazione per relationem.
3.– Confermata l’ammissibilità del conflitto, la
delimitazione dei termini in cui esso si presenta comporta il preliminare esame
dell’ulteriore eccezione, formulata in subordine dall’Avvocatura generale,
volta a sostenere l’inammissibilità del primo motivo di ricorso, ossia la
violazione dell’art. 76 Cost. ad opera dell’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177
del 2016.
Assume, in particolare, la difesa del Governo
che nel conflitto fra poteri dello Stato sarebbe possibile lamentare la sola
lesione dei parametri costituzionali che delineano le attribuzioni del potere
cui appartiene l’organo ricorrente, mentre non sarebbe consentito dolersi della
violazione di una disposizione costituzionale, quale l’art. 76 Cost., che,
riguardando i rapporti tra legge delega e decreto legislativo delegato, attiene
al corretto atteggiarsi del sistema delle fonti del diritto.
La prospettazione dell’Avvocatura generale è
corretta e l’eccezione è dunque fondata.
In linea di principio, l’organo ricorrente per
conflitto di attribuzione deve lamentare una diretta lesione delle sfere di
competenze che la Costituzione gli riconosce, e tale esigenza è, se possibile,
ancor più stringente laddove il conflitto tra poteri dello Stato abbia ad
oggetto un atto avente valore legislativo. In assenza di tale limitazione, il
significato del ricorso al rimedio del conflitto tra poteri potrebbe risultarne
alterato in misura significativa, fino a trasformarsi in un controllo di
conformità di una disposizione legislativa alla luce di qualunque parametro
costituzionale, controllo che investirebbe il potere dello Stato ricorrente di
una inesistente funzione di vigilanza costituzionale e del compito di
sollecitare a questo scopo l’intervento della Corte costituzionale. Questa
considerazione risulterebbe ancor più evidente proprio in riferimento all’art.
76 Cost., in virtù della natura logicamente preliminare dello scrutinio che lo
assume a parametro, che involge il corretto esercizio della funzione
legislativa (ex plurimis, sentenze n. 51 del
2017 e n.
250 del 2016).
Allegando la violazione dell’art. 76 Cost.,
ritiene, in particolare, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Bari che la disposizione impugnata per conflitto, contenuta in un decreto
legislativo, non troverebbe fondamento in alcun principio e criterio direttivo
della legge n. 124 del 2015. L’art. 8, comma 1, lettera a), di quest’ultima,
infatti, si sarebbe limitato ad autorizzare il Governo a razionalizzare e
potenziare le attività di polizia, anche in funzione di una migliore
cooperazione sul territorio, al fine di evitare sovrapposizioni di competenze e
di favorire la gestione associata dei servizi strumentali. Tale previsione –
preordinata, in conformità alla ratio ispiratrice dell’intera legge di delega,
ad esigenze di semplificazione e razionalizzazione di uffici, servizi ed
impiego del personale – non sarebbe sufficiente, ad avviso della Procura
ricorrente, a giustificare l’introduzione della disposizione oggetto del
conflitto.
Il ricorrente, per vero, non ragiona
esplicitamente di una "ridondanza” dell’asserita violazione dei principi e dei
criteri direttivi della delega sulle proprie attribuzioni costituzionali di cui
agli artt. 109 e 112 Cost.: ma, anche a voler ritenere che tale asserzione sia
implicita nel ricorso, è agevole osservare che la lamentata incisione sulle sue
attribuzioni, da parte della disposizione impugnata per conflitto, deriverebbe
non già dall’eventuale eccesso di delega imputabile all’art. 18, comma 5, del
d.lgs. n. 177 del 2016, bensì, in via diretta e immediata, dalla violazione dei
parametri costituzionali, prima ricordati, pertinenti alle attribuzioni del
pubblico ministero.
In definitiva, quand’anche conseguente ad un
intervento che un potere dello Stato abbia compiuto in asserita carenza di
potere (per avere adottato una disposizione di decreto legislativo reputata in
eccesso di delega), il pregiudizio lamentato resta arrecato alla sola sfera di
attribuzioni direttamente e specificamente riconosciuta dalla Costituzione al
ricorrente. E il ricorso al rimedio del conflitto è dato solo per la tutela di
tali attribuzioni, alla luce dei parametri costituzionali che delimitano, tra i
poteri in conflitto, il perimetro delle rispettive competenze.
Del resto, nella più recente pronuncia che
decise un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dalla Corte
dei conti, nel quale era allegata la violazione proprio dell’art. 76 Cost.,
questa Corte affermò con chiarezza che «il soggetto costituzionale confliggente
può far valere nel conflitto esclusivamente le norme della Costituzione che ne
configurano le attribuzioni» (sentenza n. 221 del
2002; in senso parzialmente analogo, sentenze n. 139 del
2001 e n.
457 del 1999). Se in quella pronuncia tra tali norme fu ricompreso l’art.
76 Cost., ciò derivò dalla specificità del caso e dalla posizione del potere
ricorrente, appunto la Corte dei conti.
4.– Nel merito, il ricorso è fondato, essendo
stata lesa la sfera di attribuzioni costituzionali del ricorrente delineata
dall’art. 109 Cost.
Nel presente caso, le peculiarità della
disposizione oggetto di conflitto pongono innanzitutto in discussione la
diretta dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dall’autorità
giudiziaria. L’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016 prevede infatti, in
capo alla polizia giudiziaria, obblighi informativi in deroga al segreto
investigativo in favore di soggetti, estranei al perimetro della polizia
giudiziaria stessa, che si identificano nei superiori gerarchici dei responsabili
dei presidi di polizia di volta in volta interessati. Proprio questo aspetto
pone in tensione il principio delineato dall’art. 109 Cost., con assorbimento,
invece, delle censure relative all’asserita lesione dell’art. 112 Cost.
4.1.– La disposizione impugnata è inserita nel
contesto di un atto normativo attraverso il quale il Governo, in attuazione
della legge di delega n. 124 del 2015, persegue lo scopo di riorganizzare
l’assetto delle Forze di polizia (ben cinque, due delle quali con competenze
generali) e la loro presenza e attività sul territorio. In estrema sintesi, per
raggiungere tale scopo, il d.lgs. n. 177 del 2016 prevede una (relativa)
specializzazione dei compiti, per evitare sovrapposizione di competenze; una
migliore dislocazione sul territorio, che impedisca duplicazioni e consenta un
razionale impiego del personale; una gestione associata dei servizi strumentali
e degli acquisti, a fini di risparmio; infine, l’assorbimento del Corpo
forestale dello Stato nell’Arma dei carabinieri.
Si tratta di una riorganizzazione assai
complessa, che incide in profondità sulle strutture e sul personale di tutte le
Forze di polizia, e il cui completamento comporta l’approvazione di vari
provvedimenti di attuazione.
L’impugnato art. 18, comma 5, del d.lgs. in
questione è rubricato sotto il titolo «Disposizioni di coordinamento,
transitorie e finali». Dopo aver stabilito che alcuni dei provvedimenti
attuativi devono essere adottati entro sei mesi dalla data di entrata in vigore
del decreto legislativo e trovare applicazione dal 1° gennaio 2017, il comma
impugnato testualmente dispone: «Entro il medesimo termine, al fine di
rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti ad evitare duplicazioni e
sovrapposizioni, anche mediante un efficace e omogeneo coordinamento
informativo, il capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza
e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite istruzioni
attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato,
trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle
informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi
prescritti dalle norme del codice di procedura penale».
Il periodo citato, che coincide con la parte di
disposizione oggetto di conflitto, non compariva nell’originario schema di
decreto legislativo, predisposto dal Governo e sottoposto al parere del
Consiglio di Stato e delle Commissioni parlamentari. Esso fu infatti introdotto
nel testo finale per dar seguito all’invito delle Commissioni I e IV della
Camera dei deputati, formulato in occasione dell’espressione del parere sullo
schema di decreto legislativo (analogo suggerimento non si trova, invece, nel
parere del Senato della Repubblica).
In tale parere, approvato nella seduta del 12
luglio 2016, viene suggerito al Governo, per «garantire un coordinamento anche
informativo al fine di evitare duplicazioni e sovrapposizioni», di valutare
«l’opportunità di applicare la previsione di cui all’articolo 237 del T.U.O.M.
(Testo Unico delle disposizioni in materia di ordinamento militare) a tutte le
Forze di polizia di cui al presente decreto».
Tale ultima disposizione, di rango
regolamentare, prevede che, «[i]ndipendentemente
dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale, i comandi
dell’Arma dei carabinieri competenti all’inoltro delle informative di reato
all’autorità giudiziaria, danno notizia alla scala gerarchica della
trasmissione, secondo le modalità stabilite con apposite istruzioni del Comandante
generale dell’Arma dei carabinieri».
Nella impugnata disposizione del d.lgs. n. 177
del 2016 viene quindi inserita una norma che – a prescindere da qualche
difformità lessicale – riprende nella sostanza la formulazione già contenuta in
una norma di carattere regolamentare, prevista per la sola Arma dei
carabinieri. L’efficacia di una norma del genere è così estesa a tutte le Forze
di polizia, e la sua forza diventa quella di una fonte primaria.
4.2.– La previsione, a carico degli ufficiali di
polizia giudiziaria, di un obbligo informativo ai propri superiori gerarchici
in ordine all’inoltro di notizie di informative di reato all’autorità
giudiziaria pone in primo luogo la questione del rapporto tra tale obbligo e la
disciplina contenuta nell’art. 329 cod. proc. pen.,
in tema di segreto investigativo.
Nell’attuale sistema del codice di rito, il
segreto investigativo è un segreto "specifico”, cioè relativo a singoli atti
d’indagine, non perpetuo ma, normalmente, limitato nel tempo. Esso deve
assistere gli atti d’indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia
giudiziaria fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque,
non oltre la chiusura delle indagini preliminari. Tra gli atti coperti da tale
forma di segreto rientra, indubbiamente, quello attraverso il quale, ai sensi
dell’art. 347 cod. proc. pen., la polizia
giudiziaria, acquisita la notizia di un reato, ne riferisce senza ritardo e per
iscritto al pubblico ministero.
Impedendo che sia conosciuto il contenuto di un
atto d’indagine, il segreto investigativo, secondo la giurisprudenza di questa
Corte (sentenze
n. 420 e n.
59 del 1995), si appalesa strumentale al più efficace esercizio dell’azione
penale, al fine di scongiurare ogni possibile pregiudizio alle indagini,
innanzitutto a causa di un’anticipata conoscenza delle stesse da parte della
persona indagata. Il collegamento del segreto con l’efficacia delle
investigazioni è confermato dalla circostanza che viene riconosciuto al
pubblico ministero l’ulteriore potere di vietare la pubblicazione di atti non
più coperti dal segreto, in caso di specifiche esigenze attinenti all’attività
d’indagine (art. 391-quinquies cod. proc. pen.).
D’altra parte, la giurisprudenza costituzionale
(ancora sentenza
n. 420 del 1995) ha già riconosciuto che «l’inderogabilità del segreto
investigativo non riceve, in assoluto, "copertura” nell’art. 112 della
Costituzione, nel senso che non qualsiasi deroga all’obbligo del segreto sugli
atti d’indagine […] integra di per sé lesione dell’indicato precetto, ben
potendo tale obbligo subire limitazioni od attenuazioni a tutela di altri
interessi di rilievo costituzionale». E, in effetti, diverse norme del codice
di procedura penale prevedono deroghe all’art. 329 cod. proc. pen, per finalità varie (si pensi, ad esempio, agli artt.
117, 118 e 118-bis cod. proc. pen.). Ma, nello stesso
sistema del codice di rito, resta fermo che ogni deroga al segreto
investigativo avviene previo vaglio della stessa autorità giudiziaria
competente, che ben può rigettare, motivandone le ragioni, una richiesta di
atti e informazioni: ciò che, come si dirà meglio più avanti, la disposizione
impugnata invece non prevede.
4.3.– La prassi risulta peraltro aver fornito
una modalità di composizione, in via interpretativa, del problematico rapporto
tra tale complessiva disciplina del segreto investigativo e l’originaria
disposizione, di rango solo regolamentare, contenuta nell’art. 237, comma 1,
del d.P.R. n. 90 del 2010, relativo unicamente ai comandi dell’Arma dei
carabinieri. Attraverso una serie di disposizioni a carattere interno all’Arma,
è stato infatti stabilito – come emerge dalla ricordata delibera del Consiglio
superiore della Magistratura del 15 giugno 2017 – che le segnalazioni ai
superiori gerarchici debbano limitarsi a riportare gli elementi essenziali del
fatto, escludendo qualsiasi aspetto di interesse investigativo e con
l’osservanza degli obblighi di cui al cod. proc. pen.
e delle relative norme di attuazione.
Si è trattato, d’altra parte, di
un’interpretazione imposta dallo stesso sistema delle fonti, giacché una disposizione
di rango regolamentare non avrebbe mai potuto validamente derogare alla
disciplina in tema di segreto investigativo, introdotta dall’art. 329 cod.
proc. pen. con superiore forza di legge. Così,
l’espressione «indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del
codice di procedura penale», attraverso un sia pur generoso ricorso alla natura
polisensa dell’avverbio iniziale, è stata fin dall’origine intesa nel senso che
tali obblighi devono essere "fatti salvi”; ed essendosi dunque esclusa, perché
impedita dal rango della fonte, ogni deroga al segreto investigativo, l’art.
237 del d.P.R. n. 90 del 2010 è stato infine effettivamente applicato solo in
vista di un coordinamento informativo a finalità organizzative.
Mette conto ricordare che, anche dopo l’entrata
in vigore della disposizione impugnata, il Comando generale dell’Arma dei
carabinieri, con nota del 13 marzo 2017, ha chiarito che deve essere tenuta
ferma la ricordata interpretazione del citato art. 237, con applicazione delle
connesse istruzioni operative.
La trasposizione in fonte primaria di una norma
analoga a quella di fonte regolamentare solleva all’evidenza una serie di
questioni ulteriori, non foss’altro perché l’equiparazione di grado delle due
fonti di disciplina, quella in tema di segreto investigativo e quella che
prescrive obblighi informativi della polizia giudiziaria alla propria scala
gerarchica, pone le norme da ciascuna rispettivamente contenuta in posizione
potenzialmente antagonista, non escludendo, in principio, la conseguenza che il
ricordato coordinamento informativo a finalità organizzative trasmodi in una
forma di coordinamento investigativo alternativa a quello affidato al pubblico
ministero, proprio perché condotto non già "fatti salvi” gli obblighi previsti dal
codice di procedura penale, ma in deroga ad essi.
5.– Ricalcato, ma solo in parte, sul ricordato
art. 237 del d.P.R. n. 90 del 2010, l’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del
2016 precisa che suo obbiettivo, in coerenza con il contenuto del decreto legislativo
in cui viene inserito, è «rafforzare gli interventi di razionalizzazione»
nell’impiego delle diverse Forze di polizia sul territorio, per «evitare
duplicazioni e sovrapposizioni». Lo strumento viene identificato in un
«efficace e omogeneo coordinamento informativo», che richiede ai responsabili
di ciascun presidio di polizia di trasmettere «alla propria scala gerarchica le
notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità
giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice
di procedura penale».
Sul versante dell’attività di polizia, la
disposizione impugnata disciplina senza dubbio interessi meritevoli di tutela,
così come lo sono, sul versante delle indagini condotte dall’autorità
giudiziaria, le esigenze relative all’efficace conduzione delle investigazioni
e alla diretta disponibilità della polizia giudiziaria. Il coordinamento
informativo tra le diverse Forze di polizia e all’interno di ciascuna di esse,
la più razionale dislocazione del personale e delle risorse strumentali sul
territorio, in quanto destinate a favorire l’opera di prevenzione e repressione
dei reati, e quindi la garanzia della sicurezza pubblica, sono esigenze di
rango costituzionale. Proprio in quanto finalizzati alla garanzia della
sicurezza pubblica, un razionale impiego e un’efficace dislocazione sul
territorio degli apparati personali e strumentali delle Forze di polizia
possono anche comportare la trasmissione di notizie relative alle indagini, ma
va da sé che questa deve essere regolata secondo un attento e ragionevole
bilanciamento tra interessi e principi potenzialmente confliggenti.
5.1.– La verifica delle concrete modalità
attraverso le quali il legislatore ha realizzato il bilanciamento in parola
costringe a rilevare, innanzitutto, profili di significativa incongruità
rispetto agli obbiettivi che la stessa disposizione in premessa espone.
È bene chiarire subito che, in riferimento
all’ultimo inciso dell’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016, non è
percorribile la via di un’interpretazione che legga l’espressione
«indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di
procedura penale» nel senso che tali obblighi siano "fatti salvi”, ricorrendo
alla stessa generosa lettura data, peraltro solo in sede amministrativa ed
operativa, all’art. 237 d.P.R. n. 90 del 2010.
Osta a tale via un evidente argomento letterale.
Il significato più comune e diffuso dell’avverbio «indipendentemente», subito
percepibile dall’interprete, è quello che allude a una eccezione o deroga, al
prescindere da qualcosa. Non è senza significato che l’Avvocatura generale
abbia esplicitamente rivendicato proprio la natura derogatoria, rispetto agli
obblighi prescritti dal codice di rito, dei compiti informativi imposti agli
ufficiali di polizia giudiziaria dalla disposizione impugnata, accostandola ad
altre previsioni legislative che recano eccezione al segreto investigativo,
dimenticando, tuttavia, che tutte tali altre deroghe, come s’è visto,
richiedono l’assenso della stessa autorità giudiziaria competente, mentre di un
tale assenso non v’è traccia nell’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016.
Così come non è secondario che la natura derogatoria di quei compiti sia
esplicitamente presupposta dalle ricordate istruzioni del Capo della
polizia-direttore generale della pubblica sicurezza (che ragionano di una, sia
pur «limitata», «eccezione al regime di riservatezza degli atti delle indagini
preliminari stabiliti dall’art. 329 c.p.p. o derivanti dall’esercizio del
potere di segretazione devoluto al Pubblico Ministero dal successivo art.
391-quinquies»).
Da questo punto di vista, il tenore letterale
dell’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016 è chiaro, così come chiara è
la prospettazione del ricorrente, che domanda a questa Corte la difesa della
propria sfera di attribuzioni assumendo, appunto, che la disposizione
legislativa oggetto di conflitto quel significato derogatorio contenga e
permetta, senza alcun vaglio preliminare affidato all’autorità giudiziaria che
conduce le indagini.
Risulterebbe del resto singolare che il
manifesto significato della disposizione, inteso concordemente in questo modo
dalle stesse parti del giudizio (che pur ne fanno conseguire opposte
valutazioni), venga piegato secondo ciò che una prassi operativa antiletterale ha dovuto escogitare, allo scopo di evitare
l’illegittimità di altra analoga fonte, peraltro di rango regolamentare.
5.2.– Chiara nella sola introduzione di una
deroga ad obblighi del codice di rito, la disposizione impugnata lo è assai
meno nelle altre parti del suo contenuto precettivo. Essa si limita a indicare
in termini di larga massima obbiettivi e contenuto dell’intervento normativo,
che si avvale peraltro di una tecnica lessicale incerta e fonte di ambiguità, e
prevede che le indispensabili precisazioni e dettagli siano contenute in
apposite «istruzioni» adottate dal Capo della polizia-direttore generale della
pubblica sicurezza e dai vertici delle altre Forze di polizia (per ciò che
concerne la Polizia di Stato, tali istruzioni sono state adottate in data 8
ottobre 2016, e ulteriormente precisate in data 10 novembre 2016; il Comando
generale della Guardia di Finanza risulta aver proceduto con atto in data 13
marzo 2017, che si segnala per un esplicito riferimento alla necessità di tener
conto del «dibattito istituzionale» originato dall’art. 18, comma 5, del d.lgs.
n. 177 del 2016; il Comando generale dell’Arma dei carabinieri, come già
ricordato, ha confermato le istruzioni operative già impartite in relazione
all’art. 237 del d.P.R. n. 90 del 2010).
Già sotto questo preliminare profilo, l’art. 18,
comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016 si appalesa frutto di un bilanciamento
inadeguato fra esigenze, come detto, entrambe meritevoli di tutela.
In connessione al significato, prima ricordato,
dell’avverbio «indipendentemente», appaiono infatti incongrue
l’indeterminatezza e la genericità di vari aspetti del contenuto precettivo
recato dalla disposizione, nonché la circostanza che esse siano da colmarsi
attraverso l’adozione di istruzioni da parte dei vertici di ogni Forza di
polizia. Al contrario, proprio una disposizione che intende introdurre, per
finalità di coordinamento informativo e organizzativo, una deroga a obblighi
previsti dal codice di procedura penale, posti a tutela del principio di
segretezza delle investigazioni, deve specificare nel dettaglio i confini della
deroga stessa.
La definizione del preciso perimetro di questi
ultimi è invece affidata a circolari interne, adottate dalle stesse
amministrazioni interessate, coinvolgendo la specificazione di alcuni elementi
essenziali dell’obbligo informativo posto a carico degli ufficiali di polizia
giudiziaria.
Ciò accade per la stessa delimitazione
dell’ambito soggettivo di applicazione della disposizione in esame, che si
riferisce genericamente, da un lato, ai «responsabili di ciascun presidio di
polizia interessato», e dall’altro alla «scala gerarchica» di riferimento di
tali responsabili, senza ulteriori specificazioni ma con sicuro rinvio a
soggetti che per definizione non rivestono la qualifica di ufficiali di polizia
giudiziaria. Sotto il primo profilo, quello dei soggetti sui quali grava
l’obbligo d’informazione, ciò ha determinato incertezze che hanno, ad esempio,
indotto il Capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza, in
una corrispondenza intrattenuta con alcuni procuratori della Repubblica, a
chiarire, con nota del 6 marzo 2017, peraltro senza alcun aggancio testuale
nell’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016, che l’obbligo informativo
non varrebbe a carico dei componenti le sezioni di polizia giudiziaria
istituite presso ogni procura della Repubblica; in relazione al secondo
aspetto, quello dei beneficiari dell’obbligo, la disposizione rende del tutto
probabile che notizie coperte dal segreto investigativo finiscano nella sfera
di conoscenza di una platea ampia di soggetti che non hanno alcun titolo a
rapportarsi con l’autorità giudiziaria concretamente competente sull’attività d’indagine.
Né varrebbe osservare che essi sono tenuti a rispettare il segreto d’ufficio,
giacché – a prescindere dal loro numero potenzialmente assai elevato, ciò che
rende la riservatezza delle notizie illusoria – il nucleo del segreto
d’indagine è stato ormai infranto, quanto meno a loro beneficio.
Un medesimo sostanziale rinvio della definizione
del perimetro applicativo della disposizione alle istruzioni impartite dai
vertici delle Forze di polizia si verifica anche in relazione alla
identificazione dell’ambito oggettivo di ciò che deve essere comunicato ai
superiori: la locuzione utilizzata («notizie relative all’inoltro delle
informative di reato all’autorità giudiziaria») lascia l’interprete nel dubbio
se oggetto dell’obbligo di trasmissione sia l’informativa di reato, oppure solo
la notizia relativa al suo inoltro, e se perciò le informazioni da comunicare
debbano essere limitate a dati esteriori effettivamente utili al coordinamento
informativo e organizzativo (numero degli indagati, tipologia di reati,
complessità delle indagini), oppure debbano ricomprendere dati di interesse
investigativo (ad esempio, il nome degli indagati o dei destinatari di attività
d’intercettazione in corso, il contenuto di singoli atti investigativi,
eccetera).
Ancora, interrogativi riguardano la stessa
ampiezza complessiva delle informazioni da trasmettere, poiché la disposizione
impugnata non chiarisce se l’obbligo informativo riguardi tutte,
indiscriminatamente, le notitiae criminis,
ovvero solo una selezione delle più rilevanti tra di esse, lasciando anche qui
spazio a istruzioni che mettono in risalto un’ampia discrezionalità degli
ufficiali di polizia giudiziaria nella scelta di quanto effettivamente
inoltrare al livello superiore. Con ulteriori interrogativi circa il destino e
il trattamento di questa massa, potenzialmente assai ampia, di dati e
informazioni personali, che per definizione rientrano, alla luce della
disciplina vigente, tra i dati oggetto di particolarissime cautele in termini
di conservazione, trattamento e, naturalmente, tutela della riservatezza. Si
tratta, infatti, di dati rientranti nel novero di quelli «giudiziari» protetti
da una speciale disciplina, dettata dapprima dall’art. 4, comma 1, lettera e),
del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione
dei dati personali) e, ora, dall’art. 10 del Regolamento (UE) n. 679/16 del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016 (regolamento generale
sulla protezione dei dati).
Qualche incertezza, inoltre, emerge in ordine
all’eventuale esaurirsi dell’obbligo d’informazione con la prima trasmissione
dell’iniziale notizia di reato, oppure al suo estendersi (come esige
esplicitamente la circolare del Capo della polizia-direttore generale della
pubblica sicurezza prima ricordata), anche ai cosiddetti seguiti d’indagine, in
quanto rilevanti per l’esercizio dell’attività di raccordo informativo.
6.– I dubbi e gli interrogativi suscitati dal
tenore testuale dell’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016 rafforzano
gli argomenti con i quali il Procuratore della Repubblica ricorrente lamenta la
lesione, ad opera di tale disposizione, della propria sfera di attribuzioni
delineata dall’art. 109 Cost.
È risalente la giurisprudenza con la quale
questa Corte (sentenze
n. 114 del 1968 e n. 94 del 1963)
ha chiarito che l’art. 109 Cost., prevedendo che l’autorità giudiziaria dispone
direttamente della polizia giudiziaria, ha il preciso e univoco significato di
istituire un rapporto di dipendenza funzionale della seconda nei confronti
della prima, escludendo interferenze di altri poteri nella conduzione delle
indagini, in modo che la direzione di queste ultime ne risulti effettivamente
riservata all’autonoma iniziativa e determinazione dell’autorità giudiziaria
medesima.
Tale rapporto di subordinazione funzionale, se
non collide con l’organico rapporto di dipendenza burocratica e disciplinare
della polizia giudiziaria nei confronti del potere esecutivo (secondo la logica
della duplice soggezione, che lo stesso art. 109 Cost. delinea: sentenza n. 394 del
1998), non ammette invece che si sviluppino, foss’anche per legittime
esigenze informative ed organizzative, forme di coordinamento investigativo
alternative a quello condotto dal pubblico ministero competente.
Come si è visto, le ambiguità testuali
disseminate, sotto vari profili, nella disposizione impugnata, non escludono
affatto che gli obblighi d’informazione nei confronti dei superiori gerarchici,
alla luce dell’autorizzata deroga al rispetto degli obblighi previsti dal
codice di procedura penale a tutela del segreto investigativo, finiscano invece
per concentrare presso soggetti posti ai vertici delle Forze di polizia una
notevole quantità di dati e informazioni di significato investigativo, ultronei
rispetto alle necessità di coordinamento e di organizzazione.
Tali soggetti non rivestono, come ricordato, la
qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 57 cod. proc. pen., ma detengono, del tutto legittimamente, un potere di
controllo e condizionamento nei confronti degli ufficiali di polizia
giudiziaria, derivante dallo stesso modello organizzativo che l’art. 109 Cost.
ha accolto.
Proprio per questa ragione, non è astratto il
pericolo che ne risultino interferenze nella diretta conduzione delle indagini
da parte dell’autorità giudiziaria, in lesione, innanzitutto, dell’art. 109
Cost. Inoltre, la comunicazione ai superiori gerarchici di informazioni di
significato investigativo, indipendentemente da un vaglio preliminare affidato
al prudente apprezzamento dell’autorità giudiziaria, carica di significati
indebiti la stessa dipendenza burocratica degli appartenenti alla polizia
giudiziaria rispetto a tali loro superiori, rischiando per converso di
indebolirne la dipendenza funzionale rispetto al pubblico ministero, con
elusione del delicato equilibrio scolpito nella disposizione costituzionale in
questione.
Le importanti esigenze di coordinamento
informativo e di razionale organizzazione e dislocazione sul territorio delle
Forze di polizia, in funzione di tutela della sicurezza, meritano una
disciplina attenta alla protezione di tutti gli interessi potenzialmente
confliggenti, non già una regolamentazione dai tratti incerti e palesemente
sproporzionati all’obbiettivo perseguito.
Il coordinamento informativo e quello
organizzativo non coincidono con quello investigativo. Si tratta di funzioni
diverse, che la legislazione ordinaria non può confondere o sovrapporre, a
prezzo di violare il sistema costituzionale, dal quale si deduce che tali
funzioni devono restar disciplinate secondo logiche e competenze distinte. Vi possono
ben essere, tra di esse, inevitabili e finanche utili connessioni, allo scopo
di consentire il migliore utilizzo, e la più razionale dislocazione, delle
Forze di polizia sul territorio. In tali casi, se lo richiedono siffatte
esigenze di coordinamento informativo e organizzativo, può essere prevista
dalla legge la trasmissione di notizie relative ad atti del procedimento.
Essendo però necessario rispettare il delicato equilibrio delineato dall’art.
109 Cost., deve essere in ogni caso riconosciuto all’autorità giudiziaria il
potere di stabilire il quando, il quomodo e il
quantum delle notizie riferibili.
I complessivi difetti, fin qui descritti, della
disposizione impugnata determinano la trasformazione di un legittimo
coordinamento informativo e organizzativo in una forma indebita di
coordinamento investigativo, in lesione delle attribuzioni dell’autorità
giudiziaria.
In conclusione, non spetta al Governo della
Repubblica approvare una disciplina come quella contenuta nel secondo periodo
dell’art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016, che va pertanto annullata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
che
non spettava al Governo della Repubblica adottare l’art. 18, comma 5, del
decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177, recante «Disposizioni in materia di
razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale
dello Stato, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera a), della legge 7
agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni
pubbliche», nella parte in cui prevede che «[e]ntro
il medesimo termine, al fine di rafforzare gli interventi di razionalizzazione
volti ad evitare duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace e
omogeneo coordinamento informativo, il capo della polizia-direttore generale
della pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano
apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di
polizia interessato trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie
relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria,
indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura
penale», e conseguentemente annulla tale disposizione nella parte indicata.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 novembre 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2018.