SENTENZA N. 284
ANNO 2005
Commento alla decisione di
I. Alfonso Celotto, Una inammissibilità che non persuade (per gentile concessione della Rivista telematica www.giustamm.it)
II. Francesco Sacco, Ancora una decisione della Corte costituzionale a proposito dell’ammissibilità dei conflitti tra poteri dello Stato su atti legislativi, (per gentile concessione del sito dell’AIC – Associazione Italiana dei Costituzionalisti
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Piero Alberto CAPOTOSTI Presidente
- Fernanda CONTRI Giudice
- Guido NEPPI MODONA “
- Annibale MARINI “
- Franco BILE “
- Giovanni Maria FLICK “
- Francesco AMIRANTE “
- Ugo DE SIERVO “
- Romano VACCARELLA “
- Paolo MADDALENA “
- Alfio FINOCCHIARO “
- Alfonso QUARANTA “
- Franco GALLO “
- Luigi MAZZELLA “
- Gaetano SILVESTRI “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito delle disposizioni di cui all’articolo 3, comma 57, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2004), e all’articolo 2, comma 3, del decreto legge 16 marzo 2004, n. 66 (Interventi urgenti per i pubblici dipendenti sospesi o dimessisi dall’impiego a causa di procedimento penale, successivamente conclusosi con proscioglimento), convertito con modificazioni dall’articolo 1 della legge 11 maggio 2004, n. 126, promosso con ricorso del Consiglio superiore della magistratura, notificato il 23 marzo 2005, depositato in cancelleria il 31 successivo ed iscritto al n. 16 del registro conflitti 2005.
Visti gli atti di costituzione della Camera dei deputati, del Senato della Repubblica, del Presidente del consiglio dei ministri, nonché l’atto di intervento di Carnevale Corrado;
udito nell’udienza pubblica del 5 luglio 2005 il Giudice relatore Ugo De Siervo;
uditi gli avvocati Federico Sorrentino per il Consiglio superiore della magistratura, Massimo Luciani per la Camera dei deputati, Nicolò Zanon per il Senato della Repubblica e l’avvocato dello Stato Ignazio Francesco Caramazza per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Con ricorso depositato il 13 dicembre 2004, il Consiglio superiore della magistratura – in persona del Vice Presidente pro-tempore – ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica e, «ove occorra» del Governo, in relazione alle disposizioni di cui all’art. 3, comma 57, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2004), e all’art. 2, comma 3, del decreto legge 16 marzo 2004, n. 66 (Interventi urgenti per i pubblici dipendenti sospesi o dimessisi dall’impiego a causa di procedimento penale, successivamente conclusosi con proscioglimento), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 11 maggio 2004, n. 126.
2. – Secondo la ricostruzione del ricorrente, il Governo sarebbe intervenuto in via d’urgenza sulla disciplina introdotta dall’art. 3, comma 57, della legge n. 350 del 2003, la quale aveva introdotto una peculiare tutela risarcitoria in forma specifica per quei pubblici dipendenti che «abbiano subito un’ingiusta sospensione o che siano stati indotti ad abbandonare il pubblico impiego in ragione di un procedimento penale» successivamente conclusosi con la loro assoluzione. Tuttavia, si osserva nel ricorso, mentre la citata disposizione legislativa – nella formulazione originaria – demandava la sua attuazione ad un regolamento, il Governo avrebbe ritenuto di provvedere mediante il decreto legge n. 66 del 2004.
La disciplina risultante dai due atti normativi richiamati individuerebbe quale beneficiario dell’intervento il pubblico dipendente che, essendo stato sospeso dal servizio o dalla funzione e comunque dall’impiego, o avendo chiesto di essere collocato anticipatamente in quiescenza a seguito di un procedimento penale, sia stato successivamente prosciolto. Risulterebbe, inoltre, una netta diversificazione a seconda che il provvedimento di proscioglimento sia stato adottato con formula assolutoria piena, ovvero con formule assolutorie diverse; nel primo caso il dipendente vanterebbe un vero e proprio diritto soggettivo perfetto al ripristino o prolungamento del rapporto d’impiego, a fronte del quale all’amministrazione non residuerebbe alcuno spazio per valutazioni discrezionali (art. 3, comma 57, della legge n. 350 del 2003); nel secondo caso, sulla domanda dell’interessato l’amministrazione avrebbe la facoltà di disporre il reintegro, previo accertamento negativo dei profili di responsabilità disciplinare (art. 3, comma 57-bis, della legge n. 350 del 2003).
Sempre secondo quanto si riferisce nel ricorso, alcuni magistrati, collocati anticipatamente in quiescenza a seguito di procedimenti penali dai quali sono poi risultati assolti con formula piena, avrebbero presentato istanza per essere riammessi in servizio. L’Assemblea plenaria del CSM, nella seduta del 3 novembre 2004, ritenendo la disciplina dettata dall’art. 3, comma 57, della legge n. 350 del 2003 e dall’art. 2, comma 3, del d.l. n. 66 del 2004 lesiva della sfera di attribuzioni garantita dall’art. 105 della Costituzione, ha ritenuto di sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato dinanzi a questa Corte.
3. – Il CSM lamenta anzitutto la lesione delle proprie prerogative di cui all’art. 10 della legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), in quanto il Governo, intervenendo con un decreto legge su norme concernenti l’amministrazione della giustizia e l’ordinamento giudiziario, avrebbe impedito che, a causa della ristrettezza dei termini per l’emanazione e la conversione del decreto legge, venisse chiesto il parere del CSM, reso necessario dal principio di leale collaborazione tra i poteri dello Stato.
Inoltre, il Consiglio risulterebbe esautorato delle sue funzioni più tipiche dall’introduzione di un automatico meccanismo di reintegrazione o di prolungamento del rapporto di lavoro dei magistrati, come si verificherebbe nell’ipotesi di istanza presentata a seguito di proscioglimento con formula piena, dal momento che l’organo dovrebbe «totalmente prescindere dalla valutazione circa la rilevanza disciplinare dei fatti che hanno formato oggetto di procedimento penale, ai fini dell’accertamento, in termini di attualità, della idoneità e delle attitudini del richiedente ad esercitare nuovamente le funzioni».
Ulteriore lesione delle competenze attribuite al CSM si riscontrerebbe nell’art. 2, comma 3, del decreto legge n. 66 del 2004, così come convertito nella legge n. 126 del 2004, laddove stabilisce che al magistrato riammesso in servizio venga conferita, in caso di anzianità non inferiore a dodici anni nell’ultima funzione esercitata, una funzione di livello immediatamente superiore, anche in soprannumero, previa valutazione della sola anzianità di ruolo e delle attitudini desunte dalle ultime funzioni esercitate e, nel caso di anzianità inferiore, una funzione, anche in soprannumero, dello stesso livello. Si osserva, al riguardo, che – nel caso di domanda dell’interessato di conferimento di funzioni di livello superiore – rimarrebbe al CSM la sola possibilità di assumere il provvedimento, valutando unicamente l’anzianità di ruolo del magistrato al momento della cessazione dal servizio, rimanendo ad esso sottratta la valutazione discrezionale in ordine alla «idoneità specifica, in concreto, del magistrato a rivestire quelle determinate funzioni in relazione al posto richiesto».
4. – Quanto all’ammissibilità del conflitto di attribuzione determinato da atti legislativi, il ricorrente richiama la giurisprudenza di questa Corte ed in particolare la sentenza n. 457 del 1999, secondo la quale qualora l’atto lesivo delle attribuzioni costituzionali sia un atto legislativo, lo strumento del conflitto sarebbe utilizzabile in via residuale rispetto alla questione di legittimità costituzionale in via incidentale.
A quanto si osserva nel ricorso, nel caso in questione non vi sarebbe «altro rimedio che l’elevazione del conflitto tra poteri per tutelare le attribuzioni», dal momento che il Consiglio non potrebbe dare attuazione parziale al disposto normativo provvedendo sulla domanda di riammissione ai fini della ricostruzione del solo rapporto di servizio senza procedere anche all’assegnazione delle funzioni giudiziarie. L’alternativa possibile consisterebbe, secondo il ricorrente, nel negare ai magistrati istanti il diritto che la legge ha voluto assicurare, attendendo eventuali ricorsi in sede amministrativa allo scopo di sollevare in via di eccezione la relativa questione di legittimità costituzionale; tale soluzione, tuttavia, sarebbe preclusa dal divieto, per l’amministrazione, di disapplicare leggi della cui costituzionalità si dubita. Comunque, la considerazione dell’astratta praticabilità del giudizio comune al fine di sollevare la questione di legittimità costituzionale in via incidentale farebbe dipendere la tutela delle attribuzioni costituzionali del CSM dall’eventuale impugnativa dei provvedimenti contra legem da parte degli interessati e dalla valutazione del giudice adito.
5. – Il ricorrente chiede, pertanto, a questa Corte di accertare se le attribuzioni costituzionali del CSM siano lese in relazione agli artt. 77, 97, 105 Cost., nonché al principio di leale collaborazione, dall’art. 3, comma 57, della legge n. 350 del 2003, nonché dall’art. 2, comma 3, del decreto legge n. 66 del 2004, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge n. 126 del 2004, «nella parte in cui prevedono che il CSM debba, senza procedere ad alcuna valutazione, riammettere in servizio il magistrato prosciolto in sede penale con una formula piena dopo che questi sia volontariamente cessato, a causa di tale pendenza, dall’ordine giudiziario, e laddove stabiliscono che a questi venga conferita, in casi di anzianità non inferiore a dodici anni nell’ultima funzione esercitata, una funzione di livello immediatamente superiore, previa valutazione della sola anzianità di ruolo e delle attitudini desunte dalle ultime funzioni esercitate, e, nel caso di anzianità inferiore, una funzione, anche in soprannumero, dello stesso livello».
Conseguentemente, il ricorrente chiede che la Corte dichiari:
– che non spetta al Parlamento, in violazione dell’art. 105 Cost. e del principio di leale collaborazione, convertire il decreto legge n. 66 del 2004, contrastante a sua volta con l’art. 77 Cost., senza avere previamente assunto il parere del CSM, ai sensi dell’art. 10 della legge n. 195 del 1958;
– che non spetta al Parlamento (né al Governo in sede di approvazione del decreto legge n. 66 del 2004) stabilire, in violazione dell’art. 105 Cost., che la riammissione in servizio dei magistrati ordinari prosciolti avvenga senza che il CSM possa valutare la rilevanza disciplinare dei fatti che hanno formato oggetto di procedimento penale e che l’attribuzione ad essi delle funzioni avvenga senza che il CSM possa valutare l’idoneità specifica, in concreto, del magistrato a rivestirle in relazione al posto richiesto;
– che spetta invece al CSM, in base all’art. 105 Cost. e al principio di leale collaborazione, fornire al Governo e al Parlamento il proprio parere in ordine ai progetti di legge in materia di ordinamento giudiziario;
– che spetta al CSM, ai sensi dell’art. 105 Cost., quando disponga la riammissione in servizio di magistrati ordinari prosciolti, valutare la rilevanza disciplinare dei fatti che hanno formato oggetto di procedimento penale e l’idoneità specifica, in concreto, del magistrato a rivestire quelle determinate funzioni in relazione al posto richiesto.
Per gli effetti, il CSM chiede, infine, che la Corte annulli l’art. 3, comma 57, della legge n. 350 del 2003, nella parte in cui non prevede che il CSM abbia il potere di valutare la rilevanza disciplinare dei fatti che hanno formato oggetto di procedimento penale e l’art. 2, comma 3, del decreto legge n. 66 del 2004, convertito nella legge n. 126 del 2004, nella parte in cui non prevede che il CSM abbia il potere di valutare l’idoneità specifica, in concreto, del magistrato a rivestire quelle determinate funzioni in relazione al posto richiesto.
6. – Questa Corte, con ordinanza n. 116 del 2005, ha dichiarato ammissibile il conflitto, disponendo la notifica del ricorso e della stessa ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri, alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica. Il ricorso e l’ordinanza di ammissibilità sono stati notificati al Presidente del Consiglio dei ministri e al Senato della Repubblica il 22 marzo 2005, alla Camera dei deputati il 23 marzo 2005 e sono stati depositati presso la cancelleria della Corte, con la prova delle avvenute notifiche, il 31 marzo 2005.
7. – La Camera dei deputati si è costituita in giudizio eccependo, preliminarmente, l’inammissibilità del conflitto, in quanto sollevato in relazione ad atti legislativi asseritamente lesivi delle attribuzioni costituzionalmente garantite.
Poiché la disciplina delle funzioni del CSM è coperta da riserve di legge (artt. 102, 105, 106, 107 e 108 Cost.), ritenere ammissibile il conflitto proposto avverso la fonte costituzionalmente necessaria equivarrebbe a stravolgere il sistema della riserva di legge, finendo per consentire a tutti gli organi le cui funzioni siano regolate con legge di dolersi del contenuto della medesima attraverso lo strumento del conflitto.
Verrebbe, altresì, alterato il sistema della giustizia costituzionale delineato dalla Carta fondamentale, incentrato sul giudizio in via incidentale e nel quale la possibilità di censurare le leggi con strumenti diversi sarebbe circoscritta a casi limite.
È ben vero, riconosce la difesa della Camera, che la Corte costituzionale, nelle sentenze n. 457 del 1999 e n. 221 del 2002 ha ammesso il conflitto di attribuzione avente ad oggetto un atto legislativo; tuttavia la fattispecie oggetto del presente conflitto sarebbe del tutto diversa da quelle considerate in tali sentenze. Mentre nelle pronunce richiamate la ricorrente Corte dei conti lamentava la sottrazione di alcune delle proprie competenze, nel caso in esame, invece, si avrebbe una «semplice regolazione di una competenza comunque appartenente al CSM». Pertanto, nelle prime due fattispecie l’instaurazione di un giudizio incidentale sarebbe stata difficile o impossibile mancando una competenza il cui esercizio fosse contestabile in sede giurisdizionale; nella fattispecie in esame, invece, la competenza ci sarebbe e dunque il suo esercizio ben potrebbe essere oggetto di sindacato giurisdizionale nel quale sarebbe possibile sollevare la questione incidentale di legittimità costituzionale.
Fuori delle ipotesi individuate nelle pronunce richiamate, il conflitto di attribuzione non potrebbe essere prospettato contro atti legislativi, se non nei casi puntualmente identificati dalla giurisprudenza, e cioè contro atti che comprimano diritti fondamentali e ne determinino un pregiudizio irreversibile e insanabile, così come chiarito nella sentenza n. 161 del 1995 e nell’ordinanza n. 73 del 1997 di questa Corte; e a ciò dovrebbe aggiungersi che, per quanto attiene al CSM, vi sarebbe una precedente pronuncia in termini con cui la Corte ha dichiarato l’inammissibilità di un conflitto identico a quello in esame (ordinanza n. 480 del 1995).
In ogni caso, secondo la difesa della Camera, sarebbe inammissibile la censura relativa alla pretesa violazione dell’art. 97 Cost., dal momento che in sede di conflitto di attribuzione non potrebbe essere lamentata la violazione di norme diverse da quelle che definiscono l’ambito delle attribuzioni riconosciute dalla Costituzione al ricorrente.
Infondate sarebbero poi le censure con cui il CSM lamenta la violazione dell’art. 10 della legge n. 195 del 1958, in conseguenza della mancata acquisizione del parere del Consiglio medesimo ai fini della adozione della legge di conversione del decreto legge n. 66 del 2004. Innanzitutto, osserva la Camera, detto parere sarebbe meramente facoltativo e non già obbligatorio, come sostenuto dal ricorrente. Inoltre, esso non sarebbe previsto dalla Costituzione, bensì da una legge ordinaria, e questa non potrebbe condizionare il procedimento di formazione delle leggi disciplinato dagli artt. 70 e ss. della Costituzione e dai regolamenti parlamentari.
Né la necessità dell’acquisizione del parere del CSM potrebbe desumersi dal principio di leale collaborazione, il quale non sarebbe invocabile in relazione alla funzione legislativa, anche tenuto conto del fatto che tale principio opera solo rispetto ad un procedimento nel quale partecipino soggetti diversi, mentre il CSM non parteciperebbe in alcun modo al procedimento legislativo.
Peraltro, anche con riguardo al CNEL che, a differenza del CSM, è espressamente qualificato dall’art. 99 Cost. come organo di consulenza delle Camere e del Governo, la Corte avrebbe negato l’obbligatorietà dei suoi pareri ai fini della adozione di leggi in materie di rilevanza economica e sociale (sentenza n. 44 del 1966).
Infondata sarebbe altresì la censura secondo cui la adozione di un decreto legge avrebbe leso le prerogative del CSM impedendogli di rendere il parere di cui all’art. 10 della legge n. 195 del 1958; infatti, l’art. 14 del regolamento del CSM prevederebbe una procedura d’urgenza e, in concreto, il Consiglio in più occasioni avrebbe espresso il proprio parere su decreti legge.
Inoltre, la disciplina di profili attinenti all’ordinamento giudiziario mediante la decretazione d’urgenza non solo sarebbe da ritenere pienamente ammissibile (sentenza n. 184 del 1974), ma di essa, nella specie, sussistevano tutti i presupposti, dovendosi dare sollecita attuazione alle guarentigie previste dall’art. 3 della legge n. 350 del 2003, attraverso le quali si sarebbe inteso tutelare il diritto al lavoro assicurando una sorta di risarcimento in forma specifica per i dipendenti che avessero subito una ingiusta sospensione dal lavoro o una cessazione dal medesimo.
Infondata sarebbe, inoltre, la doglianza relativa alla lesione delle prerogative del CSM assicurate dall’art. 105 Cost. a seguito della limitazione della discrezionalità nel valutare la domanda di riassunzione dei magistrati.
Innanzitutto, la Costituzione rinvia alla legge la disciplina dei poteri del Consiglio e la riserva di legge costituirebbe la migliore e più efficace garanzia dell’autonomia e indipendenza della magistratura. Peraltro, questa Corte avrebbe già chiarito che tale riserva deve intendersi rispettata allorché il legislatore enunci criteri sufficientemente precisi, in grado di orientare la discrezionalità dell’organo decidente (sentenza n. 72 del 1991). In sostanza, sarebbe la legge a definire i poteri del CSM, lasciando un margine di apprezzamento discrezionale, e sarebbe ancora la legge a definire e garantire l’interesse generale. In ogni caso, la limitazione, ad opera delle norme denunciate, dei poteri del Consiglio si giustificherebbe in ragione della adozione di speciali strumenti di tutela dei diritti fondamentali dei singoli.
Quanto alla lamentata lesione delle prerogative del ricorrente a far valere eventuali profili di responsabilità disciplinare, la difesa della Camera ritiene tale censura innanzitutto inammissibile, sia in quanto le prerogative in materia di azione disciplinare spetterebbero a soggetti diversi dal Consiglio, sia in quanto, in tale materia, la facoltà di promuovere il conflitto di attribuzione spetterebbe non al Consiglio nella sua collegialità, ma alla sua sezione disciplinare.
La censura sarebbe comunque infondata, dal momento che la scelta legislativa sarebbe non solo ragionevole, ma anche doverosa, tenuto conto della ingiustizia che il magistrato avrebbe subito essendo stato sottoposto a procedimento penale dal quale è stato poi assolto. La previsione della riammissione in servizio avrebbe dunque valore di risarcimento in forma specifica del danno subito.
La lamentata lesione delle attribuzioni costituzionali del CSM in forza della compressione del suo potere di apprezzamento discrezionale nel decidere sulla domanda del magistrato di riammissione in servizio in una funzione immediatamente superiore, sarebbe inammissibile, dal momento che, in tal modo, il Consiglio – chiamato ad adottare provvedimenti amministrativi – censurerebbe la legge che delimita la sua discrezionalità nell’adozione degli atti amministrativi medesimi. La previsione legislativa non sarebbe comunque irragionevole, dal momento che il CSM manterrebbe il potere di valutare le attitudini del magistrato desumendole dalle funzioni già esercitate e ciò si giustificherebbe in quanto solo con riferimento a tali funzioni sarebbe possibile la valutazione, essendosi il rapporto di lavoro successivamente interrotto.
8. – Anche il Senato della Repubblica si è costituito in giudizio eccependo preliminarmente l’inammissibilità del conflitto in quanto proposto nei confronti di una legge.
Rileva innanzitutto la difesa del Senato che una decisione di tal genere non sarebbe preclusa dall’ordinanza con cui è stato dichiarato ammissibile il conflitto, trattandosi di una pronuncia emessa in limine litis.
In particolare, non ricorrerebbe nella fattispecie uno dei casi particolari in cui la Corte ha ammesso il conflitto di attribuzione in relazione ad atti legislativi e mancherebbe quel requisito della residualità del medesimo in forza del quale il conflitto dovrebbe escludersi nei casi in cui la legge da cui deriva la lesione delle competenze sia denunciabile dal soggetto interessato nel giudizio incidentale.
Nel caso di specie un tale giudizio sarebbe pienamente configurabile. Il CSM, infatti, non si sarebbe trovato nell’alternativa indicata nel ricorso tra applicare la legge ovvero disapplicarla, ma avrebbe potuto darne un’interpretazione conforme a Costituzione (secondo la propria prospettazione) e, enfatizzando il profilo della previa valutazione delle attitudini, avrebbe potuto negare, in ipotesi, il ripristino del rapporto di servizio. A ciò sarebbe seguito un giudizio amministrativo nel quale il Consiglio avrebbe potuto prospettare la propria lettura delle norme e, in subordine, eccepirne l’incostituzionalità.
Il Senato rileva inoltre l’anomalia di un conflitto con cui si chiede alla Corte un controllo astratto di costituzionalità di una legge, nonché la pronuncia di sentenze di annullamento additive.
Nel merito, il ricorso sarebbe infondato. Le riserve di legge previste dalla Costituzione in materia di ordinamento giudiziario (art. 108) e in materia di poteri del CSM (art. 105), siano esse da intendere come assolute, ovvero come relative, farebbero sì che sia pur sempre la legge a stabilire i criteri cui deve essere ancorato l’esercizio della discrezionalità del Consiglio.
Invece, ad avviso della difesa del Senato, il ricorso si baserebbe sulla pretesa del CSM di sovrapporre le proprie scelte discrezionali a quelle legislative.
Peraltro, la disciplina legislativa sarebbe del tutto ragionevole. Per i magistrati che siano stati assolti nel giudizio penale con formula «non piena», il Consiglio avrebbe solo una facoltà di ripristinare il rapporto di impiego, nonché la possibilità di verificare se risultino elementi di responsabilità disciplinare o contabile. Nel caso di assoluzione con formula «piena», vi sarebbe invece l’obbligo della riassunzione del magistrato e sarebbe esclusa l’autonoma valutazione della rilevanza disciplinare dei fatti che hanno formato oggetto del giudizio penale. In sostanza, il legislatore avrebbe differenziato le due ipotesi, bilanciando diversamente i valori in gioco, da un lato, i diritti soggettivi e gli interessi legittimi dell’istante, dall’altro, il prestigio e la considerazione di cui deve godere l’ordine giudiziario.
Infondata sarebbe, comunque, l’asserita sottrazione di poteri valutativi circa la rilevanza disciplinare dei fatti oggetto del processo penale, dal momento che dopo la riammissione in servizio, il magistrato ben potrebbe essere sottoposto a procedimento disciplinare, ricorrendone le condizioni.
Inoltre, a differenza di quanto sostenuto nel ricorso, la legge n. 350 del 2003 e il decreto legge n. 66 del 2004 non escluderebbero il potere del Consiglio di valutare l’idoneità specifica ed in concreto del magistrato a rivestire le funzioni in relazione al posto richiesto, essendo anzi espressamente previsto che debbano essere valutate le sue attitudini desunte dalle funzioni da ultimo esercitate.
Sostiene, ancora, il Senato che non spetterebbe al CSM un potere di consultazione preventiva su tutte le materie che attengono all’ordinamento giudiziario: esso contrasterebbe con il procedimento costituzionalmente previsto di approvazione delle leggi, nell’ambito del quale neppure sarebbe ipotizzabile un principio di leale collaborazione. Inoltre, destinatario del parere previsto dall’art. 10 della legge n. 195 del 1958 sarebbe il Ministro della giustizia e non il Parlamento.
9. – Anche il Presidente del Consiglio dei ministri si è costituto in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo «l’inammissibilità del ricorso per conflitto contro il Governo per difetto di legittimazione passiva».
Il conflitto, infatti, sarebbe sorto a seguito della adozione di normativa primaria da parte del Parlamento cui il Governo avrebbe partecipato solo in via parziale e temporanea, cioè attraverso l’adozione di un decreto legge, destinato tuttavia, come tale, a «tramutarsi» in legge. Pertanto, a seguito della conversione in legge del suddetto decreto, la legittimazione passiva del Governo sarebbe venuta meno retroattivamente.
Comunque, la funzione consultiva del CSM, prevista dall’art. 10 della legge n. 195 del 1958 di cui si afferma la lesione, sarebbe estranea all’esercizio dell’autogoverno.
10. – In prossimità della data fissata per l’udienza pubblica, il CSM ha depositato una memoria nella quale replica alle eccezioni sollevate dalla Camera e dal Senato.
Con riguardo al profilo della ammissibilità del conflitto, il ricorrente osserva che, in base alla giurisprudenza costituzionale, mentre il conflitto di attribuzione su norma di legge sarebbe strumento di difesa delle attribuzioni del ricorrente, la proposizione della questione di legittimità costituzionale sarebbe un generale e oggettivo mezzo di controllo della costituzionalità delle leggi, nel quale la norma sarebbe «scrutinata in base alla sua conformità a qualunque parametro costituzionale».
Lo strumento del conflitto di attribuzione sarebbe perciò inutilizzabile allorché il potere dello Stato, che si assume leso, abbia la possibilità di ricorrere davanti al giudice contro l’atto applicativo della norma che ritiene invasiva delle proprie attribuzioni, in quanto in tal caso otterrebbe uno scrutinio «ampio» ed «una più completa soddisfazione della propria pretesa». Viceversa, quando non vi sia un atto applicativo della norma lesiva, o quando esso non sia impugnabile da parte dello stesso organo o soggetto che si afferma leso, non sarebbe configurabile un idoneo giudizio.
Nel caso in esame, l’ammissibilità del conflitto proposto dal CSM discenderebbe dall’obbligo imposto dalla legge di «riammettere in servizio, assegnando loro le relative funzioni» i magistrati, obbligo che determinerebbe la lesione delle attribuzioni costituzionali del ricorrente, anche indipendentemente dalla sua esecuzione.
Inconsistente sarebbe poi l’eccezione di inammissibilità del ricorso fondata sulla esistenza di una riserva di legge, posta dalla Costituzione, in ordine alla disciplina delle funzioni del CSM. Tale riserva, infatti, non escluderebbe la sanzionabilità da parte della Corte in sede di conflitto della «esorbitanza della legge dai propri limiti costituzionali».
Infondata sarebbe, altresì, l’eccezione secondo cui la legittimazione a sollevare il conflitto spetterebbe alla sezione disciplinare del Consiglio e non già al plenum, dal momento che, se è vero che la Corte ha riconosciuto che tale sezione possa promuovere direttamente il conflitto avverso atti che ostacolano l’esercizio del potere disciplinare ad essa attribuito dalla legge, ciò peraltro non escluderebbe che la funzione disciplinare sia attribuita dalla Costituzione direttamente al Consiglio, che potrebbe pertanto rivendicarne la titolarità.
Il ricorrente, inoltre, precisa che oggetto della propria contestazione è che la legge escluda la possibilità per il CSM di «valutare sotto il profilo disciplinare, ai fini della assegnazione delle funzioni ai magistrati cessati dal servizio, i medesimi fatti che furono oggetto del giudizio penale»; di conseguenza, unico organo legittimato a proporre il conflitto sarebbe il plenum.
Nel merito, la difesa del CSM ritiene che l’esistenza di una riserva di legge non escluda affatto la discrezionalità dell’organo di autogoverno della magistratura ma che semplicemente la delimiti. Tale conclusione sarebbe coerente con la giurisprudenza costituzionale, secondo la quale detta riserva non comporta che i criteri fissati dal legislatore siano così analitici e dettagliati da rendere vincolate le scelte del Consiglio. Viceversa, l’art. 3, comma 57, della legge n. 350 del 2003 avrebbe escluso qualsiasi discrezionalità del CSM, privandolo di ogni possibilità di apprezzamento e di valutazione nelle scelte concernenti le competenze attribuitegli dall’art. 105 Cost.
Sostiene, poi, il ricorrente che, a differenza di quanto prospettato dalla difesa del Senato, non sarebbe esperibile un’interpretazione adeguatrice delle disposizioni in esame. Infatti, la diversa disciplina dettata dall’art. 3, comma 57, della legge n. 350 del 2003 per i magistrati assolti con formula piena, rispetto alla disciplina prevista dal comma 57-bis dello stesso articolo per i magistrati assolti con formule diverse – per i quali sarebbe espressamente consentito all’amministrazione di valutare elementi di responsabilità disciplinare e contabile – renderebbe evidente che, nel primo caso, la responsabilità disciplinare e contabile non potrebbe essere valutata.
Il ricorrente lamenta, ancora, che la delimitazione, ai fini della assegnazione delle funzioni, delle valutazioni che il Consiglio potrebbe effettuare precluderebbe l’accertamento delle attitudini effettive ed attuali in relazione allo svolgimento delle funzioni richieste, in tal modo sottraendo al CSM «il proprium delle scelte in materia di promozione dei magistrati, in contrasto con l’art. 105 Cost.».
Per quanto attiene, infine, alla lamentata violazione del principio di leale collaborazione, in riferimento alla mancata acquisizione del parere del CSM, il ricorrente precisa che, trattandosi appunto dell’invocazione di un «principio» e non di una «regola», essa ben potrebbe coesistere con le norme concernenti il procedimento di formazione delle leggi.
11. – Nella memoria depositata in prossimità dell’udienza il Senato ribadisce l’inammissibilità del conflitto sollevato dal CSM, sostenendo che esso darebbe luogo ad una anomala impugnazione diretta della legge, pur essendo facilmente attivabile un giudizio incidentale. Oltre all’ipotesi indicata nell’atto di costituzione, la difesa del Senato ritiene che un tale giudizio sarebbe configurabile anche nel caso in cui il Consiglio disattenda semplicemente la domanda del magistrato che si trovi nelle condizioni previste dalla legge, ovvero nel caso in cui un magistrato che si ritenga «scavalcato» impugni il provvedimento che attribuisce la funzione al soggetto istante.
Il conflitto sarebbe inammissibile in quanto sollevato avverso un atto legislativo anche perché, diversamente opinando, si arriverebbe alla conseguenza inaccettabile di istituzionalizzare una corsia preferenziale in favore del CSM per impugnare le leggi sospettate di incostituzionalità.
Seguendo la prospettazione del ricorrente, secondo il Senato, si determinerebbe, altresì, una alterazione del procedimento di formazione delle leggi in materia di giustizia, dal momento che si renderebbe partecipe necessario il Consiglio, in tal modo alterando anche il principio di separazione dei poteri dello Stato per lo spazio pervasivo che verrebbe riconosciuto ad un organo che dovrebbe invece occuparsi degli aspetti amministrativi della gestione dell’ordine giudiziario.
Nella memoria si ribadisce, poi, l’inesistenza di un potere del CSM di rendere pareri direttamente al Parlamento, dal momento che destinatario di essi sarebbe, ai sensi dell’art. 10 della legge n. 195 del 1958, il Ministro della giustizia. Da ciò discenderebbe l’assenza di qualunque rapporto tra Consiglio e Parlamento e la conseguente impossibilità di invocare in materia il principio di leale collaborazione.
Un rapporto diretto tra Parlamento e Consiglio non sarebbe configurabile neppure con riguardo alla relazione al Parlamento sullo stato della giustizia, prevista dall’art. 28 del regolamento interno del CSM, in quanto, in realtà, destinatario della medesima sarebbe il Ministro della giustizia che se ne servirebbe per «affinare ed integrare la propria relazione alle Camere». Neppure darebbe luogo ad un rapporto giuridico la previsione contenuta nell’art. 13 del medesimo regolamento in merito a eventuali udienze conoscitive del Parlamento o comunque in merito a richieste circa il funzionamento della giustizia, dal momento che si tratterebbe di una norma interna che non troverebbe riscontro nei regolamenti parlamentari.
Inammissibile sarebbe, poi, la lamentata lesione delle prerogative del CSM conseguente alla scelta di non dare rilievo disciplinare ai fatti oggetto del giudizio penale, dal momento che il Consiglio non sarebbe titolare dell’iniziativa disciplinare. Comunque, il legislatore, esercitando in modo ragionevole la propria discrezionalità, avrebbe deciso che il procedimento disciplinare non possa essere attivato ai fini della valutazione della riassunzione in servizio.
Anche ove si interpretassero le disposizioni censurate nel senso di escludere una valutazione sulla rilevanza disciplinare dei fatti, oggetto del procedimento penale, autonoma ed indipendente dalla apertura di un vero procedimento disciplinare, e dunque solo al fine di valutare l’opportunità della riassunzione in servizio, le censure sarebbero infondate. In sostanza, infatti, il Consiglio pretenderebbe di valutare la rilevanza disciplinare di un comportamento in presenza di una legge che stabilisce che tale rilevanza non c’è, allorché vi sia stata assoluzione con formula «piena». Inoltre, la pretesa del ricorrente porterebbe a configurare una sorta di sanzione disciplinare atipica e anomala, «consistente nel mancato reintegro», irrogata in assenza di un’iniziativa disciplinare vera e propria e al di fuori delle regole del procedimento disciplinare.
In ogni caso, la materia disciplinare, con riguardo ai magistrati, sarebbe coperta da riserva di legge e, nel caso di specie, la legge n. 350 del 2003 e il decreto legge n. 66 del 2004 – nell’escludere che possa essere valutato il rilievo disciplinare dei fatti oggetto del giudizio penale, ai fini della riammissione in servizio – avrebbero effettuato una tipizzazione in negativo degli illeciti disciplinari.
Infine, le disposizioni legislative in esame avrebbero apportato solo limitate deroghe alla disciplina generale vigente in tema di assegnazione di funzioni e progressione in carriera, deroghe che, oltre ad essere giustificate dallo scopo risarcitorio che ne sarebbe alla base, non lederebbero le attribuzioni costituzionali del CSM, il quale dovrebbe comunque valutare la specifica idoneità del magistrato a rivestire le funzioni richieste, senza che la legge imponga al Consiglio una scelta vincolata.
12. – L’Avvocatura dello Stato, nella memoria presentata in prossimità dell’udienza, ribadisce il difetto di legittimazione passiva del Governo in ordine al conflitto proposto dal CSM.
Ciò impedirebbe, altresì, qualsiasi contestazione attinente al procedimento di formazione del decreto con riguardo alla mancata assunzione del parere del CSM da parte del Ministro della giustizia, parere che – peraltro – sarebbe previsto dall’art. 10 della legge n. 195 del 1958 soltanto in relazione ai «disegni di legge» concernenti l’ordinamento giudiziario, e «non anche con riguardo ai provvedimenti aventi forza di legge adottati dal Governo».
Peraltro, secondo la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri, sussistevano nella fattispecie i presupposti di necessità ed urgenza per l’emanazione del decreto legge n. 66 del 2004, a seguito della scadenza del termine originariamente previsto dall’art. 3, comma 57, della legge n. 350 del 2003 per l’adozione del regolamento attuativo volto a rendere operativa la tutela risarcitoria in forma specifica prevista da detta disposizione.
Infine, ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, la funzione consultiva invocata dal ricorrente avrebbe carattere meramente facoltativo.
13. – Anche la Camera dei deputati ha depositato una memoria in prossimità dell’udienza, riproponendo l’eccezione di inammissibilità del conflitto in quanto concernente atto legislativo, dal momento che l’esperibilità di tale strumento sarebbe condizionata alla impossibilità di attivare il rimedio del giudizio incidentale.
Il ricorso sarebbe, altresì, inammissibile, in quanto con esso si chiede alla Corte una pronuncia additiva, mentre una tale pronuncia non è prevista nell’ambito del giudizio per conflitto di attribuzione, il quale è volto a dichiarare l’ordine delle attribuzioni ed eventualmente ad annullare l’atto adottato in violazione di quell’ordine e non già a dichiararlo incostituzionale.
In ogni caso, anche in relazione alle questioni incidentali, le pronunce additive sarebbero ammissibili solo nel caso in cui fossero a «rime obbligate», mentre nell’ipotesi in esame esisterebbe una pluralità di opzioni alternative.
Quanto alla censura concernente la violazione del principio di leale collaborazione, la Camera osserva che essa sarebbe inammissibile in quanto priva del petitum, dal momento che ad essa avrebbe dovuto fare seguito la domanda di annullamento del decreto legge n. 66 del 2004 e della relativa legge di conversione. Ulteriore profilo di inammissibilità di tale censura deriverebbe dal fatto che nella delibera del CSM relativa al promovimento del conflitto non vi sarebbe alcun riferimento ad essa.
In relazione al merito del ricorso, la difesa della Camera sostiene che la normativa in questione darebbe «attuazione a fondamentali esigenze costituzionali di giustizia» riguardando soggetti che sarebbero stati lesi, nel diritto al lavoro e alla onorabilità della propria figura professionale, dal semplice fatto dell’assoggettamento a procedimento penale.
14. – In data 24 giugno 2005, e pertanto fuori termine, ha depositato atto d’intervento ad opponendum il dott. Corrado Carnevale, concludendo per l’ammissibilità del conflitto, ma per la sua infondatezza nel merito.
Considerato in diritto
1. – Il Consiglio superiore della magistratura ha sollevato il presente conflitto lamentando la lesione delle proprie attribuzioni costituzionali, in relazione agli artt. 77, 97, 105 Cost., nonché al principio di leale collaborazione, ad opera dell’art. 3, comma 57, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2004), nonché dell’art. 2, comma 3, del decreto legge 16 marzo 2004, n. 66 (Interventi urgenti per i pubblici dipendenti sospesi o dimessisi dall’impiego a causa di procedimento penale, successivamente conclusosi con proscioglimento), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 11 maggio 2004, n. 126, «nella parte in cui prevedono che il CSM debba, senza procedere ad alcuna valutazione, riammettere in servizio il magistrato prosciolto in sede penale con una formula piena dopo che questi sia volontariamente cessato, a causa di tale pendenza, dall’ordine giudiziario, e laddove stabiliscono che a questi venga conferita, in casi di anzianità non inferiore a dodici anni nell’ultima funzione esercitata, una funzione di livello immediatamente superiore, previa valutazione della sola anzianità di ruolo e delle attitudini desunte dalle ultime funzioni esercitate, e, nel caso di anzianità inferiore, una funzione, anche in soprannumero, dello stesso livello».
2. – Il ricorso per conflitto di attribuzione è inammissibile.
3. – Nell’ordinanza n. 116 del 2005, a conclusione della fase preliminare di delibazione in punto di ammissibilità del conflitto, questa Corte ha esplicitamente affermato che «solo in seguito alla piena esplicazione del contraddittorio», in particolare sul problema dell’«idoneità di atti aventi natura legislativa a determinare conflitto», avrebbe potuto «adottarsi una decisione definitiva».
A seguito dell’instaurazione del giudizio a cognizione piena nel contraddittorio di tutte le parti coinvolte, è ora possibile pronunciarsi definitivamente sul punto.
Secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 457 del 1999), l’ammissibilità del conflitto tra poteri dello Stato non può essere negata sulla sola base della natura legislativa degli atti ai quali venga ascritta, dal ricorrente, la lesione delle attribuzioni costituzionali in gioco. Deve, peraltro, «escludersi, nella normalità dei casi, l’esperibilità del conflitto tutte le volte che la legge, dalla quale, in ipotesi, deriva la lesione delle competenze, sia denunciabile dal soggetto interessato nel giudizio incidentale» (cfr., al riguardo, anche sent. n. 221 del 2002).
Questi principi hanno trovato ulteriore conferma nell’ordinanza n. 343 del 2003, là dove si è riconosciuto che il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato è configurabile anche in relazione ad atti di rango legislativo «ove da essi possano derivare lesioni dirette all’ordine costituzionale delle competenze, ma solo nel caso in cui non esista un giudizio nel quale questi debbano trovare applicazione e quindi possa essere sollevata la questione di legittimità costituzionale in via incidentale».
Non sussistendo alcuna valida ragione per discostarsi da tale orientamento, né essendo emersi elementi in tal senso nel corso del giudizio, deve essere ribadito che il conflitto avverso atto legislativo è sollevabile, di norma, da un potere dello Stato solo a condizione che non sussista la possibilità, almeno in astratto, di attivare il rimedio della proposizione della questione di legittimità costituzionale nell’ambito di un giudizio comune.
Nel caso di specie, è determinante la circostanza che il CSM, nel corso di uno dei giudizi comuni che possono essere attivati dagli interessati a seguito dell’adozione, da parte dello stesso CSM, dei provvedimenti regolati dalle norme de quibus, o comunque a seguito dell’inerzia serbata su istanze tendenti alla emanazione di tali provvedimenti, dispone della possibilità di eccepire, in via incidentale, l’illegittimità costituzionale delle norme legislative presentate in questa sede come asseritamente lesive delle proprie attribuzioni.
La possibilità che le disposizioni contestate siano scrutinate in via incidentale nel corso di simili giudizi, nei quali il Consiglio superiore può far valere le proprie ragioni, comporta, pertanto, la dichiarazione di inammissibilità del ricorso per conflitto di attribuzione.
Restano assorbite le ulteriori eccezioni di inammissibilità prospettate dalle parti, nonché la questione dell’eventuale ammissibilità dell’intervento in giudizio della parte privata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dal Consiglio superiore della magistratura, indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2005.
Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente
Ugo DE SIERVO, Redattore
Depositata in Cancelleria il 15 luglio 2005.