SENTENZA N. 394
ANNO 1998
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
- Prof. Annibale MARINI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 16, 17 e 18 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), promosso con ordinanza emessa il 24 settembre 1997 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da Angelo Siciliano, iscritta al n. 877 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 53, prima serie speciale, dell’anno 1997.
Udito nella camera di consiglio del 6 maggio 1998 il Giudice relatore Cesare Mirabelli.
Ritenuto in fatto
Nel corso di un giudizio promosso da un sottufficiale dei carabinieri, il quale aveva proposto ricorso contro la decisione della commissione di disciplina di secondo grado per gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria che lo aveva ritenuto responsabile di illecito disciplinare applicando la sanzione della censura, la Corte di cassazione, con ordinanza emessa il 24 settembre 1997, ha sollevato, in riferimento all'art. 102, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 16, 17 e 18 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale).
Le disposizioni denunciate, inserite nel capo che raccoglie le disposizioni relative alla polizia giudiziaria, regolamentano le sanzioni, il procedimento ed i ricorsi disciplinari per gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria relativamente alle trasgressioni che si riferiscono all’esercizio di tali loro funzioni. L’omissione o il ritardo, senza giustificato motivo, nel riferire all’autorità giudiziaria la notizia del reato, ovvero nell’esecuzione di un ordine della stessa, le negligenze o le violazioni di altre disposizioni di legge relative alle funzioni di polizia giudiziaria, sono comportamenti sanzionati con la censura e, nei casi più gravi, con la sospensione dall’impiego per un tempo non eccedente sei mesi; per le altre trasgressioni gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria rimangono soggetti alle sanzioni disciplinari stabilite dai propri ordinamenti (art. 16). L’azione disciplinare é promossa dal procuratore generale presso la corte d’appello nel cui distretto l’ufficiale o l’agente presta servizio; competente a giudicare é una commissione composta da due magistrati, nominati dal consiglio giudiziario, e da un ufficiale di polizia giudiziaria, nominato dall’amministrazione di appartenenza dell’incolpato (art. 17). Contro la decisione della commissione può essere proposto ricorso a una commissione di secondo grado, che ha sede presso il ministero di grazia e giustizia, composta anch’essa da due magistrati, nominati dal Consiglio superiore della magistratura, e da un ufficiale di polizia giudiziaria, della stessa amministrazione dell’incolpato; contro le decisioni di secondo grado può essere direttamente proposto ricorso per cassazione per violazione di legge (art. 18).
Il giudice rimettente ritiene che il sistema, così congegnato, configuri l’istituzione di un giudice speciale, vietata dall’art. 102, secondo comma, della Costituzione. Difatti sarebbero state create commissioni che, considerata la natura delle sanzioni che esse possono infliggere, avrebbero carattere amministrativo, ma che invece esercitano funzioni giurisdizionali, giacchè contro le loro decisioni può essere proposto ricorso solo alla Corte di cassazione per violazione di legge. Quest’ultimo elemento caratterizzerebbe la natura giurisdizionale di un sistema che riguarda esclusivamente una limitata tipologia di violazioni disciplinari: quelle inerenti all’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria. Le commissioni di disciplina sarebbero organi di giurisdizione speciale, in quanto istituiti per il giudizio su alcuni tipi di controversie e nei confronti di determinate categorie di persone, mentre gli organi di giurisdizione ordinaria sarebbero competenti per la generalità delle controversie.
Il giudice rimettente sottolinea che le commissioni disciplinari per gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria sono organi di nuova istituzione, giacchè in precedenza le sanzioni disciplinari nei confronti dello stesso personale erano applicate direttamente dal procuratore generale presso la corte d’appello (art. 229 cod. proc. pen. del 1930). Sicchè i dubbi di legittimità costituzionale non potrebbero essere superati richiamando la VI disposizione transitoria e finale della Costituzione, che consentirebbe il mantenimento di organi speciali di giurisdizione solo se preesistenti.
Considerato in diritto
1. — La questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla Corte di cassazione, investe le norme di attuazione del codice di procedura penale che regolano il procedimento disciplinare nei confronti degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria per le trasgressioni relative all’esercizio di tali loro funzioni, distinte dalle altre trasgressioni, per le quali essi rimangono soggetti alle sanzioni disciplinari stabilite dagli ordinamenti delle amministrazioni di appartenenza. Gli artt. 16, 17 e 18 delle norme approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (che disciplinano, rispettivamente, le sanzioni disciplinari, il procedimento ed i ricorsi contro le decisioni delle commissioni di disciplina), configurerebbero la istituzione di un giudice speciale, in contrasto con l’art. 102, secondo comma, della Costituzione. In particolare la possibilità di proporre direttamente ricorso per cassazione, per violazione di legge, contro le decisioni della commissione di secondo grado, costituita presso il ministero di grazia e giustizia, qualificherebbe come giurisdizionale (anzichè come amministrativa, nonostante la natura delle sanzioni) l’attività delle commissioni di disciplina.
2. — La questione é fondata, nei limiti di seguito precisati.
2.1. — Le disposizioni denunciate vanno inquadrate nel contesto delle norme del codice di procedura penale le quali, in attuazione del precetto costituzionale che attribuisce all’autorità giudiziaria il potere di disporre direttamente della polizia giudiziaria (art. 109 Cost.), stabiliscono che le funzioni di polizia giudiziaria sono svolte alle dipendenze e sotto la direzione della stessa autorità: dalle apposite sezioni di polizia giudiziaria istituite presso ogni procura della Repubblica, dai servizi di polizia giudiziaria inquadrati presso le diverse amministrazioni cui tale compito sia rimesso, dagli ufficiali e dagli agenti di polizia giudiziaria appartenenti ad altri organi, che hanno l’obbligo di compiere indagini a seguito di una notizia di reato (art. 56 cod. proc. pen.). Mentre lo stato giuridico del personale che svolge funzioni di polizia giudiziaria rimane disciplinato dagli ordinamenti delle amministrazioni di appartenenza (art. 10 disp. att. cod. proc. pen.), anche quando esso é inquadrato nell’organico delle sezioni di polizia giudiziaria, vi é sempre, in tutte le distinte configurazioni organizzative, un diretto legame funzionale con l’autorità giudiziaria, che si riflette in vario modo sulle condizioni sia di stato che di impiego degli addetti.
Questa duplice dipendenza (dall’amministrazione di appartenenza e, per l’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria, dall’autorità giudiziaria) determina la soggezione alle sanzioni disciplinari stabilite dall’ordinamento proprio di ciascun ufficiale o agente ed applicate dagli organi amministrativi competenti, e, ad un tempo, la soggezione distinta alle sanzioni disciplinari specificamente previste per le trasgressioni relative alle funzioni di polizia giudiziaria, comminate da organi appositi (art. 16 disp. att. cod. proc. pen.). Per queste ultime trasgressioni, difatti, le sanzioni disciplinari sono applicate da commissioni di disciplina nelle quali é prevalente la presenza di magistrati rispetto a quella di una rappresentanza dell’amministrazione di appartenenza dell’incolpato.
La struttura e la funzione di tali commissioni non sono dissimili da quelle di ogni altro organo collegiale cui sia rimesso il giudizio sulle trasgressioni disciplinari e l’applicazione delle relative sanzioni. Nè la disciplina del procedimento (art. 17 disp. att. cod. proc. pen.) vale di per sè a caratterizzarlo come giurisdizionale, giacchè le garanzie di contestazione dell’addebito e di difesa e gli atti del procedimento, per il quale si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni dell’art. 127 cod. proc. pen., non si discostano da principi comuni ai diversi procedimenti disciplinari.
Difatti l’esercizio della funzione disciplinare nell’ambito del pubblico impiego, della magistratura, come pure di alcune professioni, si esprime con modalità diverse ma affini. I relativi procedimenti sono normalmente caratterizzati come amministrativi; talvolta come giurisdizionali, non per una loro diversa struttura e funzione, ma in continuità con una disciplina normativa radicata in epoca anteriore alla Costituzione (sentenze n. 145 del 1976, n. 380 del 1992 e n. 52 del 1998). Anche quando tali procedimenti si svolgano dinanzi a consigli amministrativi di disciplina, essi presentano numerosi punti di contatto con i procedimenti giurisdizionali, tanto che in dottrina non si é mancato di sottolineare che essi, di regola, si conformano a questi ultimi. Non senza ragione: il carattere delle sanzioni disciplinari, idonee ad incidere sulla dignità della persona nell’ambito della sua comunità di lavoro, oltre che sullo stato giuridico nell’impiego o nella professione, richiede che il relativo procedimento rispetti garanzie che, nella loro espressione essenziale, caratterizzano il procedimento disciplinare, sia che esso abbia veste amministrativa sia che assuma quella giurisdizionale (sentenza n. 71 del 1995).
Pertanto la regolamentazione del procedimento dinanzi alle commissioni di disciplina non vale, di per sè, a qualificarle come organi di giurisdizione. E’ invece, come ha sottolineato il giudice rimettente nel sollecitare il giudizio di legittimità costituzionale, la prevista possibilità di impugnare la decisione disciplinare proponendo ricorso alla Corte di cassazione, per violazione di legge (art. 18, comma 5, disp. att. cod. proc. pen.), a far pervenire a tale qualificazione. Ciò perchè, nel nostro sistema, il ricorso per cassazione é diretto al controllo su provvedimenti di natura giurisdizionale (sentenza n. 284 del 1986). Il tipo di impugnazione e l’organo cui essa é rivolta valgono a qualificare, con la natura della decisione impugnata, quella dell’organo che l’ha emessa.
2.2. — Nell’attribuire l’esercizio della funzione giurisdizionale a magistrati ordinari, istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario, la Costituzione (art. 102, secondo comma) vieta la istituzione di giudici straordinari o speciali, consentendo soltanto l’istituzione, presso gli organi giudiziari ordinari, di sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura.
Le commissioni per i procedimenti disciplinari nei confronti degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, qualificate come giurisdizionali essenzialmente in ragione del tipo di gravame previsto per i loro provvedimenti, non possono essere considerate sezioni specializzate di organi giudiziari ordinari. Composte da due magistrati nominati dal consiglio giudiziario (per le commissioni di primo grado) o dal Consiglio superiore della magistratura (per la commissione di secondo grado che ha sede presso il ministero di grazia e giustizia) e da un ufficiale di polizia giudiziaria nominato dall’amministrazione di appartenenza dell’incolpato (artt. 17 e 18 disp. att. cod. proc. pen.), esse non sono in alcun modo incardinate presso un organo giudiziario ordinario, cui accedano componenti estranei alla magistratura (cfr. sentenza n. 83 del 1998). Nè si tratta di organi disciplinari preesistenti alla Costituzione, per i quali, in ipotesi, si possa richiamare la VI disposizione transitoria e finale della Costituzione per sostenerne la sopravvivenza come giudici speciali (cfr. sentenze n. 284 del 1986 e n. 380 del 1992).
Il sistema disciplinare per gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria si pone, dunque, in contrasto con il divieto costituzionale di istituire giudici speciali. La illegittimità costituzionale non si estende tuttavia alla disciplina del procedimento ed all’esistenza delle commissioni, ma é limitata alla norma che, nelle disposizioni denunciate, vale a configurare come giurisdizionale l’attività delle commissioni di disciplina e quindi a connotare le stesse come giudice speciale. Dipendendo tale qualificazione dalla prevista possibilità di proporre direttamente ricorso per cassazione contro le pronunce della commissione di secondo grado (art. 18, comma 5, disp. att. cod. proc. pen.), é sufficiente dichiarare l’illegittimità costituzionale di tale norma per superare i vizi denunciati.
Ne segue che le commissioni assumono la configurazione di organi disciplinari amministrativi, nei confronti delle cui decisioni rimangono esperibili gli ordinari rimedi giurisdizionali.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 5, del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 novembre 1998.
Presidente: Renato GRANATA
Redattore: Cesare MIRABELLI
Depositata in cancelleria il 4 dicembre 1998.