Sentenza n. 195 del 1982
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SENTENZA N. 195

ANNO 1982

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Leopoldo ELIA

Prof. Antonino DE STEFANO

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale della legge 27 marzo 1980, n. 112 (Interpretazione autentica delle norme concernenti la personalità giuridica e il finanziamento degli istituti di patronato di cui al D.L.C.P.S. 29 luglio 1947, n. 804, nonché integrazioni allo stesso decreto), promosso con ordinanza emessa l'11 dicembre 1980 dal Giudice istruttore del Tribunale di Roma, nel procedimento penale a carico di Rizzo Giuseppe ed altri, iscritta al n. 38 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 83 del 24 marzo 1981.

Visti l'atto di costituzione di Rizzo Giuseppe ed altri e l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 15 giugno 1982 il Giudice relatore Giovanni Conso;

uditi l'avv. Aldo Sandulli per Rizzo Giuseppe ed altri e l'avvocato dello Stato Piergiorgio Ferri, per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - L'Ufficio istruzione del Tribunale di Roma procedeva a carico di Rizzo Giuseppe, Piazzi Ugo, Feroci Ercole, Drago Giuseppe, Correr Ruggero (ed altri), imputati del delitto di peculato continuato pluriaggravato, perché " agendo in concorso tra loro e con altre persone, ciascuna nella sua qualità di amministratore dell'Istituto di Patronato per l'Assistenza Sociale (IPAS), Ente pubblico, ai sensi del D.L.C.P.S. 29 luglio 1947, n. 804 ..., con più atti esecutivi del medesimo disegno criminoso, distraevano, a profitto proprio e altrui vantaggio, ingenti somme di danaro di pertinenza dell'IPAS, disponendone per finalità estranee ai fini dell'ente".

Nel corso della istruzione entrava in vigore la legge 27 marzo 1980, n. 112 (" Interpretazione autentica delle norme concernenti la personalità giuridica e il finanziamento degli istituti di patronato di cui al D.L.C.P.S. 29 luglio 1947, n. 804, nonché integrazioni allo stesso decreto") che, all'art. 1, espressamente stabilisce: " Gli istituti di patronato e di assistenza sociale, costituiti ai sensi dell'art. 2 D.L.C.P.S. 29 luglio 1947, n. 804, hanno personalità giuridica di diritto privato".

A seguito dell'intervento di tale disciplina, il Pubblico Ministero, cui gli atti del procedimento erano stati trasmessi per la requisitoria, chiedeva al Giudice istruttore che, essendo stata disconosciuta, in conseguenza della legge interpretativa, la qualità di pubblico ufficiale degli organi (e dipendenti) degli Istituti di patronato, l'ipotesi di reato originariamente contestata venisse " degradata" nella imputazione di appropriazione indebita continuata pluriaggravata.

Il Giudice istruttore, prima di procedere ad ogni ulteriore attività, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della citata legge 27 marzo 1980, n. 112, per " eccesso di potere legislativo" e contrasto con l'art. 104, primo comma, della Costituzione.

In ordine al primo vizio denunciato, il giudice a quo rileva che le Sezioni Unite della Corte di cassazione, sin dal 1958 (sentenza 22 marzo 1958, n. 960), riconobbero agli Istituti di patronato la specifica funzione di integrare e di rendere più funzionale l'attività di enti pubblici, come l'INPS, l'INAIL, l'INAM, etc., nella fase della concreta realizzazione della previdenza ed assistenza sociale obbligatoria. Tale indirizzo fu mantenuto fermo dalle Sezioni Unite con la sentenza 4 aprile 1964, n. 734, nella quale, anzi, si evidenziava esplicitamente che gli Istituti di patronato hanno carattere pubblico, in quanto, " come risulta dall'art. 1 del citato decreto, istituzionalmente perseguono uno scopo di carattere pubblico": quello di provvedere in via esclusiva all'assistenza e alla tutela dei lavoratori e dei loro aventi causa, per il conseguimento in sede amministrativa delle prestazioni di qualsiasi genere previste da leggi, statuti e contratti regolanti la previdenza e la quiescenza, nonché alla rappresentanza dei lavoratori davanti agli organi di liquidazione di dette prestazioni o a collegi di conciliazione, prestazioni, tutte, dovute in base agli statuti e ai contratti, che si limitano sempre a sostituire o ad integrare quelle dovute a norma di legge, alle quali non possono essere mai quantitativamente inferiori. Ne consegue che lo scopo istituzionale degli Istituti di patronato ha, nella sua parte principale ed assistenziale, carattere complementare e integrativo delle finalità di previdenza e di assistenza sociale, la cui natura pubblica é universalmente ritenuta per avere lo Stato, in adempimento del precetto contenuto nell'art. 38 Cost., reso obbligatorio il conseguimento di esse mediante l'imposizione di determinati contributi e la creazione di appositi enti pubblici (INAIL, INPS e INAM) destinati a realizzarle.

La tendenza della Cassazione a qualificare gli Istituti di patronato enti pubblici (non economici), prosegue il giudice a quo, é stata confermata, senza interruzioni, "per ultimo" con la sentenza delle Sezioni Unite 15 marzo 1979, n. 3113. Le Sezioni Unite hanno utilizzato, per la qualificazione degli Istituti in esame, gli elementi sintomatici propri di ogni qualificazione della natura giuridica (pubblica o privata) delle persone giuridiche: " la costituzione o soppressione dell'ente per diretta iniziativa dello Stato, la sua soggezione a più o meno intensi controlli pubblici, la partecipazione dello Stato alle spese di gestione, l'assenza di finalità di lucro, l'attribuzione all'ente di funzioni o poteri pubblici, la sua struttura organizzativa; elementi dei quali possono ricorrere alcuni soltanto di quelli esemplificati, altri ancora di volta in volta valorizzabili, purché consentano, considerati nel loro insieme, e per la loro qualità, ancor più che per il loro numero, di ritenere esistente quel tipo di rapporto e quelle finalità".

Ora, prosegue la decisione riportata dal giudice a quo, dalla disciplina legislativa emergono una serie di inequivoci elementi i quali, sia singolarmente considerati che nel loro insieme, sono più che sufficienti a far inquadrare gli Istituti di patronato nella categoria degli enti pubblici non economici, secondo, del resto, il costante indirizzo della Corte di cassazione.

Infatti, gli Istituti di patronato di cui al D.L.C.P.S. 29 luglio 1947, n. 804, pur se non creati ad opera dello Stato (ma da esso tuttavia sopprimibili), possono essere costituiti solo da organizzazioni che rientrino fra quelle indicate dalla legge (associazioni nazionali di lavoratori che annoverino nei propri statuti finalità assistenziali: art. 2, primo comma), previa sottoposizione a penetrante controllo, non circoscritto ad un normale riscontro di legittimità, ma esteso al merito (approvazione da parte del Ministero per il lavoro e la previdenza sociale: art. 2, secondo comma).

Inoltre, poiché il compito di provvedere all'assistenza e alla tutela dei lavoratori e dei loro aventi causa per il conseguimento, in sede amministrativa, di ogni prestazione, previdenziale e di quiescenza, prevista da leggi, statuti e contratti, nonché alla rappresentanza, a tali fini, dei lavoratori in sede amministrativa e arbitrale o conciliativa (chiaramente da inquadrare nell'area dell'art. 38 della Costituzione), viene dalla legge (art. 1) affidato a tali Istituti in via esclusiva, con divieto per ogni altro soggetto di esplicare qualsiasi opera di mediazione per l'assistenza dei lavoratori, é evidente - dal punto di vista del fine - che lo Stato delega agli enti in questione un compito che, per la sua funzione generale e per la sua delicatezza, ritiene di pubblico interesse.

Ulteriore elemento sintomatico emergente dalla disciplina degli Istituti di patronato é l'assenza di fini di lucro (art. 3, ultimo comma), dovendo l'attività dell'Istituto essere svolta gratuitamente nei confronti di tutti i lavoratori, senza alcuna limitazione.

Non minore importanza ha il carattere esclusivamente pubblico del finanziamento di tali enti, cui si provvede mediante il prelievo di un'aliquota percentuale sul gettito dei contributi incassati dagli istituti previdenziali determinata dal Ministro per il lavoro e la previdenza sociale di concerto con il Ministro del tesoro; questi stessi Ministeri provvedono, poi, alla ripartizione fra i vari istituti delle somme così affluite alla Tesoreria centrale dello Stato (artt. 4 e 5); al contempo, gli Istituti di patronato sono parificati, agli effetti di qualsiasi tributo, alle amministrazioni dello Stato (art. 8).

Vari e penetranti, oltre a quello iniziale - concludono le Sezioni Unite della Cassazione - sono inoltre i controlli da parte del Ministero del lavoro, cui é affidata la vigilanza sugli Istituti di patronato, all'uopo tenuti a vari obblighi strumentali, e che, nei casi più gravi, possono essere sottoposti a regime commissariale, o addirittura sciolti (art. 6).

La silloge giurisprudenziale ora riportata non costituisce il solo elemento che fa ritenere gli Istituti in esame enti pubblici: una tale qualificazione risulta, infatti, secondo il giudice a quo, anche dalla interpretazione dei competenti organi collegiali dell'ente (a titolo di esempio il Giudice istruttore cita l'esame della proposta di transazione delle cause fra l'IPAS e certi Coluccia e Mangeli, respinta dal Comitato esecutivo proprio per il carattere pubblico dell'ente, e la seduta del Consiglio di amministrazione del 28 luglio 1976, nella quale, trattandosi di adottare norme di comportamento in presenza di aumento del canone di locazione delle sedi occupate dall'ente nel territorio nazionale, l'IPAS é definita " Pubblica amministrazione").

Pur non essendosi mai dubitato della natura di ente pubblico non economico degli Istituti di patronato (il giudice a quo cita anche il parere dell'8 ottobre 1953, n. 623, emesso dalla seconda sezione del Consiglio di Stato), é intervenuta la legge n. 112 del 1980, che " qualificandosi di "interpretazione autentica" ha stabilito che detti istituti hanno personalità giuridica di diritto privato. Consegue che la legge interpretativa enunciando un apprezzamento interpretativo di un precetto anteriore (di cui, per definizione, "fa intendere il senso") non può avere che efficacia retroattiva".

In particolare, con riguardo al procedimento penale in corso la conseguenza é che, essendosi attribuita agli Istituti di patronato personalità giuridica di diritto privato, i soggetti che ne hanno la rappresentanza o l'amministrazione non rivestono più la qualità di pubblici ufficiali o di incaricati di pubblico servizio, qualità soggettiva " indispensabile per l'integrazione del fatto reato previsto nell'art. 314 c.p. (la cui sanzione é stabilita nella reclusione da 3 a 10 anni e nella multa non inferiore a L.40.000), ricorrendo, invece, ove si siano verificate appropriazioni o distrazioni di somme appartenenti all'ente da parte di chi, per ragione del suo ufficio o servizio, aveva il possesso di tali somme, eventualmente, la meno grave fattispecie criminosa dell'appropriazione indebita (la cui sanzione, all'art. 646 c.p., é stabilita nella reclusione fino a 3 anni e nella multa fino a L. 400.000)".

Poste queste premesse, il giudice a quo ritiene la legge " interpretativa" n. 112 del 1980 contrastante " sia con le esigenze razionali del diritto, sia con i principi costituzionali ".

Una prima critica il Giudice istruttore muove alla qualificazione attribuita dal legislatore al testo normativo in esame: presupposto dell'interpretazione autentica é, infatti, una incertezza sul significato del precetto che, rendendo possibile una pluralità di interpretazioni divergenti, " ostacola il comportamento a cui debbono uniformarsi i destinatari del precetto medesimo". Nulla di ciò si é verificato nel caso in esame stante l'assoluta uniformità della giurisprudenza in ordine alla natura giuridica degli Istituti di patronato, sempre considerati enti pubblici (non economici).

Peraltro, il fatto stesso che il " legislatore abbia sentito la necessità di fissare l'apprezzamento interpretativo" del D.L.C.P.S. n. 804 del 1947 ad oltre trent'anni dalla sua entrata in vigore é il chiaro sintomo (puntualmente emergente dai lavori preparatori) dell'assurdità della qualificazione di natura interpretativa conferita alla legge n. 112 del 1980, natura che appare peraltro puntualmente contraddetta dall'art. 5 della stessa legge che fa salve le posizioni giuridiche ed economiche acquisite dal personale dipendente degli Istituti di patronato e di assistenza sociale in riferimento ai benefici maturati in base alle norme vigenti per il personale degli enti pubblici.

Alla stregua di tali rilievi, prosegue il giudice a quo, sembra fondato il sospetto che il legislatore " si sia reso inosservante dei precetti legislativi rivoltigli dalla Costituzione, ovvero desumibili dai principi generali, la cui violazione configura l'eccesso di potere legislativo. Eccesso di potere che,... in diritto amministrativo, é quel vizio di legittimità incidente nella parte discrezionale dell'attività, ravvisabile, come autorevolmente sostenuto in dottrina, anche sul piano legislativo allorché sussista l'illegittimità del fine della legge, in quanto diverso da quello costituzionalmente previsto. L'esistenza di un tale vizio può desumersi dall'esame dei comportamenti seguiti per la formazione della volontà legislativa" e " dall'eventuale divergenza delle sue disposizioni in relazione alla situazione di fatto cui si intendeva provvedere, e ciò allo scopo di poter rilevare indizi o presunzioni sufficienti a far ritenere e fondatamente sospettare la non congruenza del fatto stesso rispetto al fine".

Con riferimento alla fattispecie in esame, se, in sede di sindacato costituzionale, si desumesse dalle contraddizioni fra parte e parte dello stesso testo normativo, ovvero dalle contraddizioni tra quest'ultimo e le circostanze di pubblico interesse ("asseritamente ritenute esistenti") che hanno determinato il legislatore alla " interpretazione autentica" della norma, l'elusione del fine prescritto (e cioè, il far venir meno l'incertezza del significato normativo del precetto), si evidenzierebbe l'irragionevolezza della " statuizione", sotto il profilo della presunzione del contrasto con tale pubblico interesse (e cioè, sotto la specie, appunto, dell'eccesso di potere).

In proposito, conclude sul punto il giudice a quo, va sottolineato che, se, in sede di sindacato di legittimità costituzionale, la Corte non può " rifare" la legge esaminando il merito di essa, può però certamente controllare - ab externo - " la regolarità" della formazione dell'atto; e tale controllo non può che avere ad oggetto l'esame della " logicità" della " legge", mediante l'eventuale individuazione di vizi logici nell'iter formativo della legge stessa. Anche a tal fine, infatti, sono attribuiti alla Corte poteri istruttori in grado di ricostruire i presupposti di fatto sui quali si basa il provvedimento legislativo (art. 13 legge 11 marzo 1953, n. 87).

"Dai motivi posti a base della prospettata illegittimità costituzionale della legge 27 marzo 1980, n. 112, per eccesso di potere legislativo discendono", poi, secondo il giudice a quo, " ulteriori perplessità sulla compatibilità tra tale norma e l'art. 104, primo comma, Cost.".

E, infatti, la trentennale uniformità delle magistrature superiori nel riconoscere agli Istituti di patronato la natura di enti pubblici non economici (senza che il legislatore sentisse, per l'intero arco di tempo corrente dal 1947 al 1980, la necessità o l'opportunità di chiarire, con atto di interpretazione autentica, il significato del " precetto", ed avallando, anzi, con la propria inerzia, l'interpretazione giurisprudenziale) fa ritenere che la specifica destinazione della " disposizione legislativa" impugnata sia stata essenzialmente quella di neutralizzare gli effetti delle decisioni giudiziarie nel procedimento in corso, con conseguente violazione del fondamentale principio della divisione e coordinamento tra i poteri dello Stato.

Nella vigente Costituzione repubblicana non può trovare ingresso il postulato della " onnipotenza" del legislatore: quest'ultimo non si confonde ed identifica con lo Stato, posto che il potere statuale si ripartisce tra gli organi legislativo, giudiziario ed amministrativo, e tale ripartizione comporta dei limiti nell'esercizio delle rispettive funzioni, sul cui corretto esercizio si fonda sia l'autorità dello Stato che la libertà dei cittadini.

"Da quanto sopra rilevato" - conclude il Giudice istruttore - " si evidenzia il sospetto di incostituzionalità della l. 27 marzo 1980, n. 112": " per eccesso di potere legislativo, in quanto, pur qualificandosi la legge de qua di interpretazione autentica, tale disposizione appare in contrasto con quella che dovrebbe essere la sua destinazione e ciò sia perché non ricorre il presupposto consistente nell'incertezza della legge antecedente e sia perché sotto specie di interpretazione si sono introdotte norme in realtà innovative, per rendere meno appariscente l'innovazione stessa"; " in riferimento all'art. 104, primo comma, Cost. poiché per mezzo della retroattività propria della interpretazione autentica, appare esercitata dal potere legislativo una indebita ingerenza nel procedimento in corso,... così da minacciare l'indipendenza dell'organo giurisdizionale".

2. - Si sono costituiti nel giudizio avanti alla Corte Rizzo Giuseppe, D'Erme Mario, Urso Giuseppe, Palombi Gino, Sgobbino Luciano e Feroci Ercole, tutti rappresentati dall'avv. prof. Aldo Sandulli, chiedendo che la questione venga dichiarata non fondata.

Secondo la difesa degli imputati esisterebbero univoci sintomi rivelatori del carattere " privato" degli Istituti di patronato anche prima della legge n. 112 del 1980; e ciò nonostante l'interesse " sociale" delle finalità perseguite che aveva " sollecitato" la previsione della gratuità (a base, peraltro, mutualistica) delle prestazioni, la vigilanza governativa, la sovraintendenza, sempre governativa, sulla ripartizione dei fondi, sulla gestione di essi e sull'attività esplicata: una vigilanza che si inseriva in quello stesso ordine di idee di salvaguardia degli assistiti che aveva suggerito il divieto (penalmente sanzionato) delle agenzie private e dei procaccianti.

Proprio nella direzione della natura privata degli istituti in esame si mosse immediatamente la dottrina, manifestando con chiarezza il proprio dissenso nei confronti di quella giurisprudenza della Cassazione che - preceduta da un vecchio (e quasi non motivato) parere del Consiglio di Stato (sezione II, 8 luglio 1953, n. 623), fondata su schemi ormai superati e fuorviata anche dall'erroneo convincimento (poi smentito dalla decisione della Corte costituzionale n. 17 del 1970) che le attribuzioni loro proprie fossero riservate agli Istituti di patronato in via esclusiva - si discostò dalla motivata sentenza della VI sezione, 16 ottobre 1952, n. 725, classificandoli come enti pubblici e rimanendo, poi, praticamente ancorata a tale orientamento.

Tutti gli argomenti sui quali é basata la costruzione della natura pubblica degli istituti di patronato si rivelerebbero insufficienti: così quello del fine pubblico dell'assistenza (smentito dall'art. 38, ultimo comma, Cost., secondo cui l'assistenza privata é libera), quello della vigilanza statale (comune a molti soggetti privati: banche, compagnie di assicurazione, cooperative, case di cura, esercenti professioni e servizi di interesse pubblico e sociale, istituti di istruzione riconosciuti, etc.), del finanziamento pubblico (che nella specie non può qualificarsi tale e che, in ogni caso, non é - in via generale - sufficiente a far considerare un ente come pubblico), della parificazione tributaria alle amministrazioni dello Stato (elemento assolutamente marginale e proprio anche di alcuni soggetti privati).

Per superare " una situazione anomala (determinata da una giurisprudenza, poco attendibile e disarmonica rispetto al quadro generale, la quale aveva manifestamente deviato dalla direttiva legislativa)" sarebbe intervenuta la legge n. 112 del 1980, fornendo una parola chiarificatrice sulla natura degli Istituti di patronato, con riguardo ai quali l'anomalia e l'incertezza continuavano ad essere favorite dall'atteggiamento della Cassazione che, col suo dissenso rispetto alla interpretazione individuata dalla dottrina, aveva finito per alimentare un prolungato contenzioso. Al contempo, l'"enorme pullulare, negli ultimi tempi, di Istituti di patronato, e conseguentemente, di un contenzioso in buona parte artificioso e strumentalizzato a fini di proselitismo, rendeva indispensabile una corretta individuazione della natura giuridica di tali enti da parte dello stesso legislatore, soprattutto con riguardo ad istituti nati e concepiti come soggetti privati, in un momento nel quale vengono restituiti alla condizione privata molti enti (a base corporativa e no) nati e vissuti come enti pubblici (artt. 114, 115 D.P.R. n. 616 del 1977)".

La natura interpretativa della legge n. 112 del 1980 risulterebbe, sempre secondo la difesa delle parti private, dai lavori preparatori, nei quali puntualmente emergerebbe il " carattere rilevante e normativo" dello stesso titolo della legge, dal quale può conseguentemente desumersi che il legislatore volle attribuire carattere retroattivo a quella parte del contenuto precettivo (soprattutto: l'art. 1) che veniva a precisare la sostanza di disposizioni già presenti nel D.L.C.P.S. del 1947: si spiegherebbe così perché la Commissione lavoro della Camera dei deputati, nella seduta del 18 marzo 1980, ebbe a respingere un emendamento proposto dall'on. Galli, col quale si intendeva aggiungere (subito dopo le parole " hanno personalità giuridica di diritto privato") le ulteriori parole " con decorrenza dalla presente legge".

Né varrebbe opporre che il titolo della legge non é decisivo (si cita la sentenza n. 5330 del 1980 delle Sezioni Unite della Cassazione che ha attribuito carattere " innovativo" e non " interpretativo" alla normativa impugnata), giacché la volontà del legislatore risulta puntualmente dai lavori preparatori, essendo stata ribadita durante tutto l'iter parlamentare, fino al punto che fu respinto, con votazione ad hoc, un emendamento aggiuntivo che tendeva a riconoscere alla legge efficacia solo per l'avvenire.

Non vi é dubbio, pertanto, prosegue la difesa, che entrambe le Camere si espressero esplicitamente nel senso del carattere interpretativo e, quindi, retroattivo della natura privatistica riconosciuta agli Istituti di patronato. Ad ogni modo, l'affermazione che il titolo della legge " non ha valore giuridicamente obbligatorio" non comporta di dover negare addirittura ogni valore interpretativo al titolo dato al testo legislativo nell'atto stesso della sua presentazione al Parlamento, ed, ancor più, al titolo discusso e approvato dallo stesso Parlamento; specialmente, poi, quando il significato di esso non si presenti " in contrasto" col testo (e perciò " escluso" da questo), ma anzi risulti conforme agli atti parlamentari.

Né, peraltro, per negare il carattere di legge di interpretazione autentica all'art. 1 - letto alla luce del titolo della legge e dell'intenzione del legislatore - potrebbero soccorrere gli aspetti " integrativi " espressi negli altri articoli e negli stessi artt. 4 e 5 (che già esistevano nella originaria proposta di legge). Ancor meno sarebbe sufficiente per far negare il carattere interpretativo dell'art. 1 l'enunciazione contenuta in alcune dichiarazioni dell'opposizione parlamentare (ed enfatizzati dalla Cassazione) in merito all'assurdità di un'interpretazione autentica che interviene dopo trent'anni dall'entrata in vigore della legge: la legge - ancor più del giudicato - può fare infatti de albo nigrum e configurare come interpretative (ma non é comunque questo il caso della legge n. 112 del 1980) disposizioni in netta dissonanza dalla legge da " interpretare", al fine di imprimere ad esse efficacia retroattiva (fuori della materia penale, si aggiunge, la Costituzione non esclude affatto la possibilità che le leggi abbiano una tale efficacia).

Passando poi all'esame del vizio di eccesso di potere legislativo denunciato dal giudice a quo, la difesa degli imputati rileva che, mentre da un lato non é affatto contraddittoria (e ancor meno, per ciò solo, illegittima) una legge la quale, nell'interpretare retroattivamente la legge precedente, accompagni al regime in tal modo instaurato disposizioni, di adattamento e integrative, a carattere sicuramente innovativo nei riguardi dell'assetto prodotto dalla giurisprudenza affermatasi, dall'altro nessun precetto costituzionale prescrive che le leggi retroattive (e così pure quelle qualificate come interpretative) non possano perseguire altro fine se non quello di dissipare le incertezze esistenti nella giurisprudenza delle supreme magistrature giacché le leggi interpretative " possono e debbono essere emanate al fine di ricondurre la giurisprudenza entro i binari della volontà legislativa, se é vero che nello Stato democratico la legge si colloca al di sopra della funzione giustiziale (art. 101 Cost.)".

"Del tutto gratuita (e per di più incomprensibile, oltreché contraddittoria e perciò inammissibile)" sarebbe, poi, stando alla difesa degli imputati, l'affermazione secondo cui, sotto specie di interpretazione, si sarebbero introdotte nella legge denunciata norme in realtà innovative, per rendere meno appariscente l'innovazione stessa.

A proposito, infine, della pretesa violazione dell'art. 104, primo comma, della Costituzione, la difesa rileva come la Corte costituzionale ha avuto occasione di affermare, nella sentenza n. 118 del 1957, che non é esatto che l'emanazione di leggi interpretative incida necessariamente sul principio della divisione dei poteri e che interferisca nella sfera del potere giudiziario. L'interpretazione autentica obbliga tutti i giudici ad applicare ex tunc una legge anteriore nel senso indicato dalla nuova legge ed ogni giudice é obbligato, dalla stessa Costituzione, a conformarsi ad essa. In simili casi non si realizza, perciò, una violazione dell'art. 104 della Costituzione, " essendo il giudice sottoposto, per regola generale, alla legge". Solo quando il legislatore pretendesse di riformare direttamente un singolo giudicato o di dettare norme retroattive per un singolo processo in corso (e non anche per tutti i possibili processi), conclude la difesa, potrebbe configurarsi una invasione della sfera del potere giudiziario.

In data 2 giugno 1982 la difesa degli imputati ha depositato delle note aggiuntive con le quali contesta la rilevanza delle questioni sollevate dal Giudice istruttore del Tribunale di Roma.

Si deduce al riguardo: "nel richiamare il principio costituzionale di legalità (art. 25 Cost.), nonché specialmente le regole sulla successione delle leggi penali nel tempo, contenute nell'art. 2 c.p., ispirate, ognuna e tutte, al principio del favor rei... ci sia consentito richiamare... l'acuto rilievo" - contenuto in una nota alla sentenza della Corte costituzionale n. 62 del 1979 - " secondo il quale l'estensione, agli effetti delle pronunce di accoglimento della Corte riflettenti norme incriminatrici, dei precetti espressi nell'art. 2 c.p., a proposito degli effetti dell'abrogazione di norme incriminatrici, é argomentabile anche dal fatto che l'ultimo comma dell'art. 2 -formulato in un tempo in cui non era prevista l'invalidazione e caducazione delle leggi per invalidità - equipara alla successione delle fonti talune forme di caducazione della fonte (ipotesi del decreto legge non convertito), cui si potrebbe assimilare la dichiarazione di illegittimità costituzionale". E -aggiunge la difesa - l'equiparazione opera non solo con riguardo al primo comma dell'art. 2 (norma di favore anteriore al fatto) ma anche con riferimento ai commi successivi (norme di favore sopravvenute al fatto).

Proprio appellandosi all'art. 25 della Costituzione ed all'art. 2 c.p., la Corte costituzionale ha costantemente affermato - conclude la difesa - la necessaria irrilevanza delle questioni di costituzionalità sollevate nei confronti delle disposizioni penalmente meno severe, dichiarando " in assoluto" (vengono citate le sentenze n. 62 del 1969, n. 26 del 1975, n. 85 del 1976, nn. 42 e 122 del 1977, n. 91 del 1979, nn. 73 e 108 del 1981) inammissibili le questioni stesse.

3. - E pure intervenuta la Presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

Secondo l'Avvocatura, " i pur comprensibili appunti mossi dal giudice a quo all'opportunità e necessità di emanare la legge interpretativa" non sembra siano in grado di inficiarne la validità e, tanto meno, la rispondenza al dettato costituzionale. Se ne deduce che l'adozione di siffatte disposizioni normative " rientra pur sempre nell'ambito pienamente discrezionale e insindacabile dei poteri di competenza del legislatore". D'altro canto, conclude l'Avvocatura, l'effetto retroattivo, proprio delle leggi qualificate come di interpretazione autentica, non può che discendere automaticamente, per la stessa preminente natura di tali tipi di atti normativi ad essere produttori di mutamenti nei procedimenti in corso, senza che ciò comporti violazione del principio riguardante l'indipendenza della Magistratura.

 

Considerato in diritto

 

1. - Il Giudice istruttore del Tribunale di Roma sottopone a giudizio di legittimità costituzionale la legge 27 marzo 1980, n. 112, prospettando, in primo luogo, l'esistenza di un eccesso di potere legislativo per " illegittimità del fine, in quanto diverso da quello costituzionalmente previsto", e, in secondo luogo, l'esistenza di un contrasto con l'art. 104, primo comma, Cost.. Quest'ultimo profilo si sostanzia in un sospetto di " indebita ingerenza" da parte del legislatore " nel procedimento in corso" davanti al giudice a quo, ingerenza diretta a " neutralizzare gli effetti delle decisioni pronunziate dall'autorità giudiziaria" in tale procedimento (emissione di mandati di cattura per peculato continuato pluriaggravato nei confronti di cinque amministratori dell'Istituto di Patronato per l'Assistenza Sociale, costituito ai sensi dell'art. 2 del decreto legislativo del Capo Provvisorio dello Stato 29 luglio 1947, n. 804, e a tale stregua ritenuto di diritto pubblico). Trattasi, invero, di una legge sopraggiunta all'instaurazione del procedimento in questione e, più esattamente, alla contestazione dell'addebito di concorso in peculato continuato pluriaggravato tramite i mandati di cattura dianzi ricordati. Per maggior puntualità, é sufficiente sottolineare che l'iter parlamentare della legge n. 112 del 1980 - il cui titolo reca " Interpretazione autentica delle norme concernenti la personalità giuridica e il finanziamento degli istituti di patronato e di assistenza sociale di cui al decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 29 luglio 1947, n. 804, nonché integrazioni allo stesso decreto" e nella quale, tra l'altro, si stabilisce che " gli istituti di patronato e di assistenza sociale costituiti ai sensi" del predetto decreto " hanno personalità giuridica di diritto privato" (art. 1) - aveva preso l'avvio da un disegno presentato alla Presidenza del Senato il 5 dicembre 1979, a meno di un mese dall'esecuzione dei cinque mandati di cattura (8 e 9 novembre 1979). Essendo stata concessa nel frattempo la libertà provvisoria, il primo a darsi carico della nuova legge era il P.M. all'atto della requisitoria depositata nella fase di chiusura dell'istruzione formale, così da chiedere al Giudice istruttore il rinvio a giudizio degli imputati previa derubricazione dell'imputazione da concorso in peculato continuato pluriaggravato a concorso in appropriazione indebita continuata pluriaggravata. Di fronte a tale richiesta, i dubbi di legittimità sopra sintetizzati inducevano il Giudice istruttore a pronunciare l'ordinanza in epigrafe.

2. - La difesa delle parti private, vale a dire di alcuni fra gli imputati nel procedimento principale, eccepisce, con le note aggiunte alle deduzioni contenute nell'atto di costituzione, la manifesta irrilevanza della questione sollevata dal giudice a quo, e ciò perché ne risulterebbe coinvolta una normativa penale che, per essere sopravvenuta al fatto in termini maggiormente favorevoli al reo, sarebbe sempre e comunque da applicare, in forza dell'art. 2, terzo comma, c.p., nei procedimenti penali non ancora definiti con sentenza irrevocabile.

Nonostante i richiami alla giurisprudenza di questa Corte, giurisprudenza qualificata " costante" nel dichiarare inammissibili le questioni di costituzionalità " sollevate nei confronti delle disposizioni penalmente meno severe", il problema presenta nella specie connotati tali da non permettere automatiche deduzioni in ordine all'applicabilità dell'art. 2, terzo comma, c.p. Infatti - poiché la legge n. 112 del 1980 non contiene disposizioni incriminatrici strettamente intese, così da non potersi in nessuna delle sue parti definire propriamente come legge penale - ogni sua eventuale incidenza nella strutturazione di una determinata figura criminosa, sotto forma di supporto ad un elemento normativo della relativa fattispecie (nel caso concreto, appropriazione indebita anziché peculato), impone di verificare se la normativa in questione sia o no riconducibile nell'ambito di applicazione dell'art. 2 c.p.: un'indagine, questa, riservata al giudice penale.

Si potrebbe, se mai, osservare che il giudice a quo, evitando di prendere esplicita posizione sui rapporti tra la norma incriminatrice del peculato (o, all'inverso, dell'appropriazione indebita) e la norma sulla natura giuridica dell'IPAS, non avrebbe assolto l'onere di far emergere l'utilità della decisione da lui chiesta alla Corte. Ma l'ordinanza, con le sue incertezze ed oscillazioni, sulle quali si tornerà fra poco, non consente di affermare che il Giudice istruttore del Tribunale di Roma abbia escluso la soluzione più restrittiva, contraria cioè a ricomprendere nella sfera dell'art. 2 c.p. la norma sulla natura giuridica dell'ente.

3. - La questione é, comunque, da dichiarare inammissibile per altra ragione, emergente dai modi stessi della sua prospettazione. Essa, infatti, non risulta debitamente posta sotto il profilo formale, per l'insufficiente specificazione del thema decidendi.

A rivelarsi insufficiente non é tanto l'individuazione dei parametri costituzionali, anche se - sotto il profilo, prioritariamente invocato, dell'eccesso di potere legislativo - nessuna norma della Costituzione risulta indicata in modo particolare, essendosi l'ordinanza di rimessione limitata a denunciare un generico contrasto "sia con le esigenze razionali del diritto, sia con i principi costituzionali", ed anche se sotto il profilo, conseguenzialmente dedotto, dell'ingerenza nell'attività della magistratura - l'art. 104, primo comma, Cost. sembra richiamato in funzione dei soli rapporti tra la legge denunciata ed il procedimento in corso davanti al giudice a quo. Basterà ricordare, al primo proposito, che, in più occasioni, di fronte ad una generica censura di contrasto con i principi generali dell'ordinamento giuridico e con quelli del sistema costituzionale, questa Corte ha ritenuto possibile ricercare ed eventualmente ritrovare nel contesto dell'ordinanza il concreto significato della censura in tal modo proposta (v., ad esempio, le sentenze n. 87 del 1963, n. 40 del 1964, n. 12 del 1965), e, al secondo proposito, che non si può escludere a priori l'esistenza di altri analoghi procedimenti e che, comunque, un'eventuale declaratoria di illegittimità, con l'incidere negativamente sulla legge denunciata, sarebbe pur sempre suscettibile di più larghi coinvolgimenti.

Insufficiente é, invece, l'individuazione della normativa ordinaria sottoposta al vaglio di costituzionalità, ma ciò non già perché l'ordinanza fa riferimento ad una legge indicata globalmente (i precedenti nel senso della ritenuta ammissibilità di questioni sollevate in ordine ad un intero testo legislativo non fanno certo difetto nella giurisprudenza della Corte: in aggiunta ai richiami operati, sia pure ex adverso, dalla recente sentenza n. 30 del 1982, si vedano le sentenze n. 118 del 1957, n. 77 del 1964, n. 175 del 1974 e n. 152 del 1982, particolarmente significative in quanto concernenti leggi qualificate di interpretazione autentica e, come tali, sottoposte ciascuna a giudizio di legittimità nel suo insieme), bensì perché l'ordinanza, oscillando continuamente tra il piano della legge considerata per intero e il piano della " disposizione" della " norma", impedisce di cogliere gli esatti termini della questione.

Anche a voler sottointendere che, seppure mai indicata con la relativa numerazione, la " disposizione" o la "norma" specificamente enucleabile dal complesso dei cinque articoli costituenti la legge n. 112 del 1980 non potrebbe che essere l'art. 1, imperniato, com'esso é, sulla personalità giuridica di diritto privato degli istituti di patronato e di assistenza sociale, resta insuperabile l'ambiguità di fondo per cui la questione pare coinvolgere ora la intera " legge" ora la " disposizione" o " norma" singolarmente considerata.

D'altro canto, l'ordinanza non contesta la legittimità della privatizzazione ex nunc degli istituti contemplati nell'art. 1 donde la conseguenza che persino questa " disposizione" o " norma" potrebbe sfuggire al vaglio di costituzionalità, salvo che per la parte della sua ritenuta efficacia retroattiva.

A complicare ulteriormente il quadro normativo che, così come l'ordinanza si presenta formulata, é di ostacolo all'esatta individuazione dell'oggetto della presente questione, si aggiunge la circostanza che la ritenuta efficacia retroattiva, integrante l'eccesso di potere legislativo e l'invasione della sfera riservata all'autorità giudiziaria, non emerge in alcun modo né dall'art. 1 né da altri articoli della legge n. 112 del 1980, ma viene ricavata dal titolo di essa, là dove esplicitamente si parla di " interpretazione autentica". Il che, a prescindere dal problema dei rapporti tra titolo e contenuto delle leggi, significa reiterare sotto altra prospettiva i dubbi sull'estensione dell'oggetto della questione, restando da chiarire, in mancanza di un 'univoca presa di posizione dell'ordinanza di rimessione, se l'interpretazione autentica del titolo investirebbe la legge in tutto o solamente in parte e, nella seconda più verosimile eventualità (il titolo parla anche di " integrazioni" al decreto e l'ordinanza di " norme in realtà innovative"), in quali parti.

Né a dissipare le incertezze vale l'insistito, cruciale, ricorso all'ipotesi dell'eccesso di potere dell'atto legislativo: non necessariamente questo tipo di vizio comporta l'11 legittimità dell'intero atto, ben potendosi riscontrare, nei casi di atti le cui prescrizioni siano scindibili, una sua incidenza soltanto parziale.

Conclusivamente, compete al giudice che solleva la questione individuare con precisione l'oggetto della censura. Come compete a lui puntualizzare il concreto profilarsi dei rapporti tra due o più leggi, oppure tra due o più disposizioni, sulla base delle regole che ne governano la successione, ivi compreso, eventualmente, l'art. 2 c.p.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale della legge 27 marzo 1980, n. 112, sollevata per eccesso di potere legislativo e in relazione all'art. 104, primo comma, della Costituzione, dal Giudice istruttore del Tribunale di Roma con l'ordinanza emessa l'11 dicembre 1980.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 novembre 1982.

 

Leopoldo ELIA - Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giuseppe CONSO.

Giovanni VITALE - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 19 novembre 1982.