SENTENZA N. 62
ANNO 1969
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Aldo SANDULLI, Presidente
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI
Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 578 del Codice penale, promosso con ordinanza emessa il 24 giugno 1967 dal pretore di Bologna nel procedimento penale a carico di Nanni Maria Luisa, iscritta al n. 206 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 282 dell'11 novembre 1967.
Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell'udienza pubblica del 26 febbraio 1969 la relazione del Giudice Enzo Capalozza;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di un procedimento di opposizione a decreto penale di condanna pronunziato contro Nanni Maria Luisa per emissione di assegno a vuoto, il pretore di Bologna ordinava l'acquisizione agli atti di copia della sentenza in data 7 ottobre 1960 della Corte d'assise d'appello di quella città, portante condanna della prevenuta ad anni due di reclusione per infanticidio a causa d'onore e ad una pena di pari durata per il delitto di soppressione di cadavere.
La copia di detta sentenza veniva richiesta al fine di valutare la sussistenza delle condizioni relative all'applicazione di una recente amnistia, dato che il decreto del Presidente della Repubblica 4 giugno 1966, n. 332, fra l'altro, statuisce che non si deve tener conto di precedenti penali relativi a "condanne per delitti per i quali sia stata riconosciuta l'attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale" (art. 6).
All'udienza fissata per il dibattimento, il pretore, con ordinanza del 24 giugno 1967, su istanza del pubblico ministero, alla quale si associava, in via subordinata, la difesa dell'opponente, sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 578 del Codice penale, sull'infanticidio per causa d'onore, in riferimento agli artt. 2, 3 e 30, terzo comma, della Costituzione.
2. - Si osserva nell'ordinanza che, per costante giurisprudenza e corrente dottrina, la "causa d'onore" é da comprendere fra i "motivi di particolare valore morale e sociale", ai quali si richiama l'art. 6 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 332 del 1966 nel dettare le condizioni soggettive per ottenere il beneficio; e che, sussistendo nella specie tutti gli altri requisiti per la sua concessione, il precedente penale non ne sarebbe di ostacolo all'applicazione.
Si deduce, peraltro, in via generale e con riferimento alla non manifesta infondatezza della sollevata questione, che "la causa d'onore non sembrerebbe potersi senz'altro collocare fra i motivi di particolare valore morale e sociale che la Costituzione intende tutelare", in quanto parrebbe, invece, collegarsi col principio "lavacro di sangue".
Per quanto concerne la ratio della norma denunziata, nell'ordinanza si fa, poi, richiamo ad una recente sentenza della Cassazione, la quale ha escluso, per l'ipotesi criminosa ivi prevista, l'attenuante di cui all'art. 62, n. 1, del Codice penale, non tanto perché assorbita da quella complessa, posta come elemento costitutivo del reato, quanto piuttosto per il rilievo che il movente dell'onore si ricollega ad un criterio di moralità egoistica, non rispondente all'attenuante comune, che é ispirata a valori altruistici.
Sotto questo profilo si ribadisce il dubbio che l'intenzione dell'infanticida sia ora conforme alla morale ed al costume attuale, per essere venuti meno i presupposti che avevano ispirato la norma, con conseguenze sul piano della legittimità costituzionale.
Si fa, inoltre, presente che la disposizione denunziata prevede un trattamento punitivo più severo per l'uccisione di un nato legittimo rispetto all'illegittimo e che, oltre ad escludere l'applicabilità delle aggravanti comuni, esclude altresì quella delle aggravanti previste dagli artt. 576 e 577 del Codice penale per l'omicidio; ed inoltre estende il più mite trattamento della madre infanticida ai suoi prossimi congiunti, e riserva un ingiustificato favore anche a chi concorre nel delitto per un fine diverso da quello di aiutare l'autore principale a salvare l'onore.
3. - In riferimento alle assunte violazioni della Carta costituzionale si afferma, in particolare, che l'art. 2, nel riconoscere i diritti inviolabili dell'uomo, garantisce, quale presupposto della stessa personalità, il diritto alla vita, la cui protezione comporta parità di tutela, a prescindere dalla cittadinanza, dall'età, dalla razza e dalla legittimità dei natali. A conferma di tali principi, che si assumono ribaditi nel successivo art. 3, si richiamano le corrispondenti disposizioni contenute negli artt. 2 e 7, ultimo comma, della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 e nell'art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
Si deduce, altresì, che dai precetti costituzionali ora indicati deriverebbe che l'onore viene protetto in quanto inteso quale attributo della persona, inestensibile per surrogazione familiare, come si verifica, invece, nel "fatto di reato" previsto nella norma denunziata, che opera, per di più, un'ingiustificata distinzione nell'ambito di condizioni sociali e personali, in quanto discrimina i legittimi dagli illegittimi (condizione sociale) e tutela con minore vigore gli infanti (condizione personale), che sono più bisognosi del presidio dell'ordinamento.
Il pretore si dà anche carico di confutare l'eventuale obiezione che non sarebbe violato il principio di eguaglianza e della pari dignità sociale, per essere l'uccisione, comunque, punita, sia pure con pena più mite in considerazione dell'apparato di paure che agirebbe violentemente sull'animo della donna. Al riguardo argomenta che non si spiegherebbe la degradazione del reato e la notevole riduzione della sanzione per il sicario, che a scopo di lucro sopprima un neonato illegittimo, ignorandone, in ipotesi, la condizione; ed aggiunge che la mitezza della pena non é giustificata dall'autonomia del reato che, del resto, é già vulnerata per i compartecipi per motivi propri, dato che questi, in relazione alla predetta autonomia, avrebbero dovuto, se mai, rispondere, per l'art. 117 del Codice penale, allo stesso titolo della madre o dei prossimi congiunti e non con pena più rigorosa (art. 578, ultima parte del secondo comma).
L'ordinanza adduce poi ulteriori argomenti circa la violazione del principio di eguaglianza. Assume che la "causa d'onore", la quale attiene e perché attiene alla sfera emotiva, non può rappresentare un presupposto logico obiettivo, idoneo a giustificare razionalmente un trattamento differenziato del diritto alla vita; e che siffatto trattamento, se aveva un certo fondamento nei precedenti stadi di sviluppo della civiltà, non può ritenersi valido attualmente; al riguardo fa richiamo alle vigenti disposizioni della Carta costituzionale concernenti la formazione della famiglia, la protezione della maternità e dell'infanzia, i diritti della madre lavoratrice, sia nubile sia sposata, nonché il diritto al mantenimento e all'assistenza sociale del cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere.
4. - Per quanto riguarda l'assunta violazione dell'art. 30, terzo comma, della Costituzione, l'ordinanza deduce che la tutela giuridica ivi prevista ai "figli nati fuori del matrimonio" comprende tutti i figli naturali e, pertanto, resta invalidata la norma denunziata, per il ridotto presidio della vita del neonato illegittimo rispetto a quello legittimo e per il contrasto con le mutate condizioni etiche e sociali, rispecchiate anche nella relazione al disegno di legge governativo sulla riforma della legislazione familiare, presentato nella scorsa legislatura.
5. - Si afferma, infine, la rilevanza della questione, in quanto la disposizione denunziata e la valutazione da essa operata si inserirebbero come premessa necessaria nel sillogismo giuridico per la "definizione del giudizio", che, nella specie, andrebbe a realizzarsi nel momento dell'applicazione della pena, e rispetto al quale l'intero processo si porrebbe in una relazione strumentale.
Sempre con riferimento alla rilevanza si sostiene, inoltre, che, in caso di accoglimento della questione, la disposizione denunziata verrebbe a perdere efficacia anche per quanto concerne la situazione pregressa, salvo il limite del giudicato. E trattandosi di sentenza penale irrevocabile di condanna, l'eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma dell'art. 578 del Codice penale, comportando la reviviscenza della disciplina comune dell'omicidio, opererebbe nel limitato senso di far cessare soltanto gli effetti penali della condanna contrari alla Costituzione.
L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 282 dell'11 novembre 1967.
6. - Nel giudizio innanzi a questa Corte non si é costituita la parte privata. Il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, é intervenuto con atto depositato il 30 novembre 1967, nel quale si chiede che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.
Sotto il primo profilo, deduce l'Avvocatura generale che il giudice a quo era stato chiamato a dare applicazione all'art. 6 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 332 del 1966, e non all'art. 578 del Codice penale, già applicato dalla Corte d'assise d'appello di Bologna con sentenza passata in giudicato.
L'eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma denunziata, pertanto, non varrebbe ad eliminare la sentenza, ma solo i suoi effetti penali, ai sensi dell'art. 30 della legge n. 87 del 1953. Né sarebbe accettabile l'equiparazione, affermata nell'ordinanza, tra tali effetti e quelli contrari alla Costituzione, posto che detto art. 30 costituirebbe una applicazione del principio affermato nel secondo comma dell'art. 2 del Codice penale, e neppure la pronunzia di illegittimità della disposizione denunziata potrebbe valere ad aggravare la posizione del condannato.
Nel merito, sostiene che l'art. 578 del Codice penale, seppure preveda una pena molto meno grave di quella comminata per l'omicidio, non crea una discriminazione, ma punisce l'infanticidio con la sanzione che il legislatore ha ritenuto nella sua discrezionalità adeguata, sicché non lede i diritti inviolabili dell'uomo, né, in particolare, il diritto alla vita. Essendo, poi, diverse le situazioni obiettive che giustificano il diverso trattamento penalistico, non sarebbe violato neppure il principio di eguaglianza, il quale non può essere interpretato nel senso di un'eguale tutela della vita dei singoli uomini e, invece, consente al legislatore di tener conto, nella previsione della pena, di tutti gli elementi obiettivi e subiettivi che compongono il reato.
Sulla pretesa violazione dell'art. 30, terzo comma, della Costituzione, l'Avvocatura deduce infine che la norma denunziata, per il fatto stesso di punire adeguatamente l'infanticidio, non consente al genitore di sottrarsi ai suoi doveri.
Considerato in diritto
Il pretore, nella opinabile attribuzione di un significato più lato all'art. 6 del decreto presidenziale di amnistia e di indulto n. 332 del 1966, accoglie la tesi più favorevole al condannato e ricomprende nel concetto di "circostanza di particolare valore morale e sociale" anche quella che, nell'infanticidio previsto dall'art. 578 del Codice penale, é assunta ad elemento costitutivo del reato. Da ciò trae poi spunto per sollevare davanti a questa Corte proprio la questione della legittimità del trattamento penale dell'infanticidio.
Ma la questione é ictu oculi irrilevante, e deve perciò essere dichiarata inammissibile.
Una eventuale pronunzia di incostituzionalità non influirebbe infatti sulla decisione di merito, che concerne l'applicazione del decreto di clemenza del 1966.
Pur ammesso - in ipotesi - che la Corte, nel presupposto che la causa d'onore sia attualmente ravvisata come circostanza di particolare valore morale e sociale, affermasse l'illegittimità di una siffatta configurazione, la precedente condanna per l'art. 578 del Codice penale, nella quale é incorso l'attuale reo, non potrebbe mai essere di ostacolo alla concessione del beneficio nel giudizio pendente davanti al pretore. Tale condanna, infatti, é coperta dal giudicato; e i suoi effetti, meno gravi per il reo rispetto a quelli che l'ordinamento comporterebbe in conseguenza della pronuncia della Corte, non potrebbero certo essere aggravati in conseguenza di questa ultima.
É vero che l'art. 30, ultimo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, statuisce che "quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale sia stata pronunziata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali": ma gli effetti penali che vanno a cadere sono quelli pregiudizievoli, non quelli favorevoli.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile, per manifesta irrilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 578 del Codice penale in riferimento agli artt. 2, 3 e 30, terzo comma, della Costituzione, sollevata con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 marzo 1969.
Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni BATTISTA BENEDETTI - Francesco PAOLO BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE
Depositata in cancelleria il 3 aprile 1969.