SENTENZA N. 152
ANNO 1982
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Leopoldo ELIA
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Avv. Alberto MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Dott. Arnaldo MACCARONE
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
Dott. Francesco SAJA
Prof. Giovanni CONSO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale della legge 18 dicembre 1973, n. 877 (Nuove norme per la tutela del lavoro a domicilio) e della legge 16 dicembre 1980, n. 858 (Interpretazione autentica e modificazione dell'art. 1 della legge 18 dicembre 1973, n. 877) promossi con sette ordinanze emesse dal Pretore di Pistoia il 18 febbraio, il 19 maggio (tre ordinanze), il 24 giugno, l'11 luglio e il 30 luglio 1981 e con ordinanza emessa dal Pretore di Poppi l'8 luglio 1981, iscritte ai nn. 514, 627, 628, 629, 679, 700, 701 e 702 del registro ordinanze 1981 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 304 del 1981 e nn. 19, 26 e 40 del 1982.
Visti l'atto di costituzione di Taviani Giovanna e gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 19 maggio 1982 il Giudice relatore Livio Paladin;
uditi l'avv. Aldo Aranguren, per Taviani Giovanna, e l'avvocato dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Con ordinanza emessa il 18 febbraio 1981, il Pretore di Pistoia impugna nuovamente l'intera legge 18 dicembre 1973, n. 877 (in tema di tutela del lavoro a domicilio), per pretesa violazione degli artt. 70, 72 e 73 Cost.. "La sostanziale difformità " riscontrabile tra i testi dell'art. 1 della legge stessa, rispettivamente approvati dal Senato e dalla Camera dei deputati, costituirebbe in vero "un fatto ostativo alla promulgazione" dell'atto impugnato, viziandone il "procedimento di formazione".
Né la questione potrebbe ritenersi superata, per effetto della sopravvenuta legge 16 dicembre 1980, n. 858 (recante "interpretazione autentica e modificazione dell'articolo 1 della legge 18 dicembre 1973, n. 877"). Al contrario, lo stesso legislatore, avendo mantenuto per il passato l'espressione "attrezzature proprie e dello stesso imprenditore" ed avendo sostituito per il solo avvenire la congiuntiva "e" con la disgiuntiva "o", dimostrerebbe di non considerare affatto equivalenti tali formule, già risultanti dai voti delle due Camere del Parlamento.
D'altronde, anche la legge n. 858 del 1980 sarebbe illegittima, sia che la si voglia definire come un atto d'interpretazione autentica, sia che si preferisca qualificarla come "una sorta di sanatoria o convalida della legge 877/1973". Nel primo caso, data l'"inesistenza" di quest'ultima fonte, la legge interpretativa sarebbe infatti "destinata ad essere travolta dalla dichiarazione di incostituzionalità della legge interpretata". Nel secondo caso, la legge sopravvenuta si porrebbe comunque "in palese contrasto" con l'art. 25 cpv. Cost., in quanto finirebbe "per sanzionare penalmente fatti commessi sotto il vigore della legge 877/1973, che, per vizio essenziale intervenuto nel procedimento di formazione, deve essere cancellata, con effetto ex tunc, dal nostro ordinamento giuridico"; ed é appunto in tal senso che la stessa legge n. 858 viene autonomamente impugnata dall'ordinanza in esame.
2. - Identiche questioni sono state risollevate dal Pretore di Pistoia - mediante tre ordinanze emesse il 19 maggio 1981 - sulla base di motivazioni sostanzialmente coincidenti con quelle anzidette (salvo il conclusivo accenno all'eventualità che spetti ai giudici ordinari il potere di disapplicare senz'altro le leggi giuridicamente inesistenti, prescindendo da qualsiasi pronuncia di questa Corte). E le medesime impugnative sono state inoltre riproposte - mediante un'ordinanza emessa l'8 luglio 1981 - da parte del Pretore di Poppi.
Da ultimo, nello stesso senso é tornato a pronunciarsi il Pretore di Pistoia, con tre ordinanze emesse il 24 giugno, l'11 ed il 30 luglio 1981: ma seguendo un ordine argomentativo inverso, rispetto a quello svolto in precedenza.
Tali ordinanze esordiscono, infatti, con la denuncia degli artt. 1 e 3, primo comma, della legge n. 858 del 1980, in riferimento all'art. 25, secondo comma, della Costituzione. Secondo il giudice a quo, il precetto costituzionale che si assume violato sarebbe diretto ad impedire, ben oltre le previsioni dell'art. 2 cod. pen., "che qualsiasi legge, comunque denominata o qualificabile..., possa, in quanto dotata di efficacia retroattiva, determinare, o concorrere necessariamente a determinare, la punibilità di un fatto, pur essendo entrata in vigore dopo il commesso reato"; e ciò, quand'anche si tratti - come nel caso in esame - di una legge non sfavorevole per gli imputati.
Ciò posto, gli imputati stessi potrebbero invocare l'esclusiva applicazione dell'art. 1 della legge n. 877 del 1973, anche allo scopo di risollevare la nota questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 70, 72 e 73 Cost.: questione destinata ad investire l'intera normativa sulla tutela del lavoro a domicilio, dal momento che il vizio così ipotizzato concernerebbe l'intera fonte della normativa stessa, con particolare riguardo alla sua "chiave di volta".
3. - Nel giudizio relativo all'ordinanza emessa dal Pretore di Pistoia il 24 giugno 1981 (reg. ord. n. 701/1981), si é costituita l'imputata Giovanna Taviani, aderendo alle tesi del giudice a quo. La memoria difensiva - dopo aver affermato la competenza della Corte a sindacare il processo formativo delle leggi, senza che a ciò possa opporsi l'avvenuta promulgazione da parte del Capo dello Stato - sostiene che, precisamente a causa di un vizio in procedendo, andrebbe dichiarata l'illegittimità costituzionale della legge n. 877 del 1973; mentre la legge n. 858 del 1980 contrasterebbe a sua volta - per le ragioni già dette - con il principio di irretroattività delle leggi penali.
4. - Quanto ai giudizi instaurati dalle tre ultime ordinanze dello stesso Pretore di Pistoia (reg. ord. n. 700 - 702/1981), é infine intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, per chiedere che la Corte dichiari l'infondatezza di tutte le sollevate questioni.
Nell'atto di intervento si nega, anzitutto, che sia stato violato il principio nullum crimen sine lege, poiché "l'esistenza nell'ordinamento della norma incriminatrice prima della commissione del fatto... non viene meno per la pendenza delle impugnazioni di legittimità costituzionale e per la eventualità di una sentenza di accoglimento della Corte che, ai sensi dell'art. 136 Cost., non escluderebbe l'efficacia della norma fino al giorno della pubblicazione della sentenza e, perciò, alla data di entrata in vigore della legge di convalida n. 858 del 1980".
Relativamente alla legge del 1973 (l'impugnativa della quale assumerebbe rilevanza - secondo l'Avvocatura dello Stato - qualora fosse accolta la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 3 della legge del 1980), andrebbe del resto esclusa la prospettata violazione degli artt. 70, 72 e 73 Cost.: in considerazione del fatto che alla indiscutibile difformità letterale dei testi normativi approvati dalle due Camere non corrisponderebbe una loro diversità sostanziale. Effettivamente, la sostituzione della congiuntiva "e" alla disgiuntiva "o" non sarebbe altro che il frutto di un errore materiale, intervenuto al momento della trascrizione del testo contenuto nel messaggio del Presidente della Camera, ai fini dell'approvazione da parte del Senato: errore del quale i senatori non si sarebbero affatto avveduti, perché convinti di deliberare sull'identico testo già approvato dalla Camera.
Pertanto, ciò che in definitiva la Corte dovrebbe stabilire é "se la conformità della volontà dei due rami del Parlamento, necessaria perché possa dirsi esaurita la funzione legislativa..., debba essere intesa in senso meramente formale ovvero sostanziale". E non sarebbe dubbio - anche alla stregua di una precedente pronuncia di questa Corte (sent. n. 134 del 1969) - che "sulla constatazione della insignificante difformità del testo legislativo approvato deve prevalere la considerazione sostanziale della identità della norma voluta ed approvata dai due rami del Parlamento".
Considerato in diritto
1. - Gli otto giudizi vanno riuniti e decisi con unica sentenza.
Tutte le ordinanze di rimessione impugnano infatti - sia pure sulla base di argomentazioni variamente esposte e sviluppate - le medesime disposizioni di legge, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali. Da un lato, ciò é, i giudici a quibus assumono che l'intera legge 18 dicembre 1973, n. 877 ("Nuove norme per la tutela del lavoro a domicilio"), violerebbe gli artt. 70, 72 e 73 Cost., in quanto viziata nel suo procedimento formativo, per essere stata approvata in due testi diversi dalle due Camere del Parlamento. D'altro lato, sarebbe a sua volta viziata la legge 16 dicembre 1980, n. 858 (intitolata "Interpretazione autentica e modificazione dell'articolo 1della legge 18 dicembre 1973, n. 877"), perché i suoi disposti, con particolare riguardo agli artt. 1 e 3, violerebbero l'art. 25 Cost. e più precisamente il primo capoverso dell'articolo stesso, nella parte che detta il principio dell'irretro attività delle leggi penali.
2. - Fra tali questioni dev'essere affrontata preliminarmente quella che concerne il procedimento formativo della legge n. 877 del 1973.
É bensì vero che il vizio denunciato sarebbe insorto all'atto di approvare l'art. 1, primo comma, della legge in esame, nel senso che appunto a tale comma andrebbe imputata la discordanza fra i testi rispettivamente deliberati dalla Camera dei deputati e dal Senato della Repubblica: l'uno recante una disposizione che considerava "lavoratore a domicilio" chiunque utilizzasse - fra l'altro - "materie prime o accessorie e attrezzature proprie o dello stesso imprenditore, anche se fornite per il tramite di terzi"; il secondo caratterizzato, invece, dalla sostituzione della congiuntiva "e" alla disgiuntiva "o", nella parte riguardante la proprietà delle materie e delle attrezzature medesime. Inoltre, é precisamente su tale disposto che ha inciso la legge n. 858 del 1980, l'art. 1 della quale ha riaffermato - con effetto "dalla data di entrata in vigore della precedente legge 18 dicembre 1973, n. 877", secondo l'espressa previsione dell'art. 3 - che "é lavoratore a domicilio chiunque, con vincolo di subordinazione, esegue nel proprio domicilio o in locale di cui abbia la disponibilità ... lavoro retribuito per conto di uno o più imprenditori, utilizzando materie prime o accessorie e attrezzature proprie e dello stesso imprenditore, anche se fornite per il tramite di terzi", come già risultava dal testo approvato dal Senato e poi promulgato - il 18 dicembre 1973 - dal Presidente della Repubblica (mentre l'art. 2 reinserisce nella parte finale della definizione del lavoro a domicilio, ma con effetto per il solo avvenire, la disgiuntiva "o" in luogo della congiuntiva "e"). E con questo fondamento la Corte ha più volte disposto - a partire dall'ordinanza n. 56 del 1981 - la restituzione degli atti a tutti i giudici (dalla Corte di cassazione fino agli stessi Pretori di Poppi e di Pistoia) che avevano a suo tempo contestato la legittimità costituzionale delle "nuove norme per la tutela del lavoro a domicilio", prima che sul punto fosse sopraggiunta la legge n. 858 del 1980.
Ma l'impugnazione della legge n. 877 del 1973 va comunque affrontata nel merito, pur dopo le predette ordinanze di restituzione degli atti, dal momento che essa non investe nella prospettiva dei giudici a quibus - il solo articolo 1 della legge medesima, bensì coinvolge l'intero atto legislativo contenente la nuova disciplina del lavoro a domicilio: atto che il Pretore di Pistoia - come si legge nell'ordinanza del 18 febbraio 1981 - ritiene complessivamente viziato, data l'insussistenza del "presupposto essenziale per la promulgazione, costituito dalla comune volontà legislativa dei due rami del Parlamento, consacrata nell'approvazione, da parte di entrambi, di un testo di legge formalmente e sostanzialmente identico" (al punto che lo stesso Pretore ne chiede alla Corte - mediante le ordinanze del 19 maggio 1981 - non tanto l'annullamento quanto "la declaratoria della inesistenza", ed anzi ne ipotizza l'immediata disapplicazione da parte di ogni singolo giudice). Di più: in tale prospettiva, non solo la legge n. 877 del 1973, ma anche la legge n. 858 del 1980 rischierebbe di essere insanabilmente compromessa nella sua interezza, perché destinata a confermare ed a modificare o sostituire - poco importa se per il passato o per l'avvenire - una definizione normativa insuscettibile di produrre effetti di sorta, una volta eliminato l'intero ordinamento del lavoro a domicilio, nell'ambito del quale essa dovrebbe venire ad inserirsi.
Posta in questi termini, l'impugnativa deve però ritenersi non fondata. In primo luogo, é contraddittorio che i giudici a quibus assumano la radicale inesistenza della legge in questione ed al tempo stesso si rivolgano alla Corte, perché essa ne dichiari l'illegittimità costituzionale e ne faccia pertanto cessare l'efficacia - in base al primo comma dell'art. 136 Cost. - "dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione": se veramente la nuova disciplina del lavoro a domicilio fosse contenuta in una parvenza di legge, insuscettibile fin dalla sua origine di determinare effetti di alcun genere, la premessa di una decisione della Corte verrebbe infatti a mancare. In secondo luogo, va comunque escluso che quella impugnata si risolva in una parvenza di legge. Al contrario, la Corte é dell'avviso che la legge n. 877 del 1973 rivesta pur sempre le caratteristiche proprie del tipo o della fattispecie dell'atto legislativo; e non può non tener conto della circostanza che sulla generalità se non sulla totalità delle disposizioni di essa qualunque rilievo si voglia attribuire alla denunciata difformità dei due testi dell'art. 1, primo comma - si é verificata indubbiamente una piena convergenza delle volontà dei due rami del Parlamento.
Così stando le cose, deve farsi dunque applicazione del principio generale di conservazione degli atti, in base al quale il preteso vizio formale della legge n. 877 del 1973 non comporta - per sé considerato - l'annullamento integrale della legge stessa, ma può solo incidere, in ipotesi. sulla parte specificamente viziata: vale a dire sull'art. 1, per chi assuma a criterio le modalità di approvazione delle leggi da parte delle Camere, ovvero sul primo comma dell'articolo stesso o su quel solo frammento di disposizione che riguarda l'appartenenza dei materiali e delle attrezzature, per chi abbia di mira la discordanza che in effetti si sarebbe registrata fra i due testi rispettivamente deliberati dalla Camera e dal Senato, nella definizione normativa del lavoro a domicilio.
Ma la definizione in esame é stata novata, con effetto dalla data di entrata in vigore della legge n. 877 del 1973, mediante il combinato disposto degli artt. 1 e 3 della legge n. 858 del 1980; sicché l'impugnativa promossa in riferimento agli articoli 70, 72 e 73 Cost., se fosse circoscritta al solo articolo 1 invece di coinvolgere l'intera legge n. 877, dovrebbe ormai considerarsi inammissibile. E, d'altra parte, la stessa legge n. 858, confermando e modificando o sostituendo l'art. 1, primo comma, della legge n. 877, offre argomento per concludere che la complessiva disciplina vigente in materia, nella quale si sono inseriti i nuovi testi dell'articolo medesimo, sia stata implicitamente mantenuta ferma dal legislatore dell'80: solo a questa condizione, in vero, conservano significato e possono trovare applicazione l'"interpretazione autentica" e la "modificazione", operate quanto ai tratti distintivi del lavoro e dei lavoratori di cui trattasi.
3. - Le ordinanze di rimessione aggiungono e premettono, per altro, che anche gli artt. 1 e 3 della legge n. 858 del 1980 (erroneamente indicati dal Pretore di Pistoia quali artt. 1 e 3, primo comma) sarebbero costituzionalmente illegittimi, per contrasto con l'art. 25 Cost.. Più di preciso, secondo il Pretore di Poppi, quel combinato disposto violerebbe il principio costituzionale per cui "nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso", in quanto esso verrebbe "a sanzionare penalmente con efficacia retroattiva fatti commessi sotto il vigore apparente della legge 18-12-1973 n. 877". Del pari, secondo le più diffuse motivazioni del Pretore di Pistoia, l'art. 25 cpv. Cost. sarebbe "diretto ad impedire" - come già si é ricordato in narrativa - "che qualsiasi legge, comunque denominata o qualificabile (di interpretazione autentica, sull'interpretazione, cripto retroattiva, modificativa) possa, in quanto dotata di efficacia retroattiva, determinare, o concorrere necessariamente a determinare, la punibilità di un fatto, pur essendo entrata in vigore dopo il commesso reato". Appunto in questo quadro rientrerebbero le norme impugnate, le quali in sostanza risulterebbero viziate dall'"impossibilità di sanare ex tunc", con effetti penalmente rilevanti, il "vizio procedurale che determinava la nullità (ovvero l'inesistenza o la inesistenza/inefficacia) della legge n. 877/1973"; sicché la "dichiarata interpretazione autentica dell'art. 1 della legge n. 877 ad opera della legge n. 858/1980" sarebbe stata in realtà utilizzata - a quanto si legge nella parte conclusiva dell'ordinanza n. 700 del 1981 "non per interpretare la legge, ma per far apparire retroattivamente esistente quell'esercizio collettivo della funzione legislativa da parte delle Camere", che invece doveva "ovviamente precedere l'entrata in vigore della legge" stessa.
Ma quest'ultimo complesso di censure si dimostra a sua volta non fondato. Non regge anzitutto - come già si é notato - la premessa delle argomentazioni svolte dai giudici a quibus: ossia la pretesa dell'inesistenza e della solo parvente efficacia dell'intera legge n. 877 del 1973. Né si può dire a priori che l'art.1 della legge in questione sia comunque viziato per contrasto con gli art. 70, 72 e 73 Cost.: per poi desumerne che, di conseguenza, gli artt. 1 e 3 della legge n.858 del 1980 violerebbero il principio dell'irretroattività delle leggi penali. Anche in tal senso, le ordinanze di rimessione danno già per dimostrato ciò che invece dovrebbe formare l'oggetto di un'apposita verifica della Corte (e che non é più sindacabile, in questi specifici termini, dato il sovrapporsi della legge del 1980 alla legge del 1973): poiché non si può ragionare astrattamente e meccanicamente di vizi formali di legittimità costituzionale delle leggi, dipendenti da un errore intervenuto nella trascrizione dei testi rispettivamente esaminati dalle due Camere del Parlamento, senza tener conto della effettiva volontà " delle Camere stesse (già messa in rilievo dalla Corte nella sentenza n. 9 del 1959) e senza valutare il rilievo che l'errore potrebbe assumere nelle sedi interpretativa ed applicativa della disposizione impugnate (come questa Corte ha fatto nella sentenza n. 134 del 1969).
Secondariamente, non risponde al vero l'assunto che la soluzione escogitata dalla legge n. 858 del 1980 sia intesa a deludere il precetto dell'art. 25 cpv. della Costituzione. Al contrario, gli artt. 1 e 3 di quella legge sono stati elaborati ed approvati con il preciso scopo di rispettare e non già di violare il principio per cui le leggi penali (od extrapenali ma penalmente rilevanti) non possono aggravare retroattivamente il trattamento del reo. Dai lavori preparatori si desume infatti, univocamente, che il legislatore dell'80 ha voluto rimediare ad un "refuso di stampa", per effetto del quale la definitiva formulazione dell'art. 1 della legge n. 877 del 1973 (come promulgata dal Presidente della Repubblica, a seguito dell'approvazione del Senato) recava, nel citato passo riguardante la proprietà delle materie e delle attrezzature, la congiuntiva "e" invece della disgiuntiva "o"; ed appunto per questo ha sostituito quel comma mediante l'art. 2 della legge n. 858. Malgrado l'errore materiale a suo tempo commesso, il Parlamento non ha tuttavia ritenuto di poter restaurare, con effetto esteso anche al passato, la versione recante la "o" al posto della "e", perché suscettibile di ampliare la nozione di lavoro a domicilio, estendendo corrispondentemente l'area di applicazione delle sanzioni penali previste dall'art. 13 della legge n. 877; e quindi ha riprodotto, limitatamente al passato, la disposizione già comparsa nella Gazzetta Ufficiale n. 5 del 5 gennaio 1974. Nella sostanza, al di là dell'intitolazione della legge n. 858, non si é dunque registrata alcuna ipotesi d'interpretazione autentica, propria od impropria che fosse. Ben più semplicemente, in vista della ratio di certezza alla quale s'informa l'art. 25 cpv. Cost., il combinato disposto degli artt. 1 o 3 sta a significare che resta ferma, nel periodo compreso fra le entrate in vigore della legge n. 877 e della legge n. 858, la versione contraddistinta dalla lettera "e".
Del resto, che tale disposto non imponga autenticamente una data interpretazione dell'art. 1, primo comma, della legge n. 877, risulta avvalorato dalla compresenza di interpretazioni diverse e contrastanti, entro la più recente giurisprudenza della Cassazione. Da un lato, infatti, la Corte suprema ha sostenuto che la volontà del legislatore del'73, mirante a ricomprendere nella figura del lavoro a domicilio tutte le ipotesi di appartenenza delle materie e delle attrezzature, così all'uno come all'altro dei soggetti del rapporto, non contrasterebbe con l'uso della congiuntiva "e", che pertanto dovrebbe interpretarsi secondo logica e non alla lettera: con l'ulteriore conseguenza che lo stesso espediente legislativo del 1980 non pregiudicherebbe affatto la soluzione del precedente problema interpretativo, ciò é non importerebbe la contrapposizione di due distinte figure di lavoratore a domicilio, rispettivamente riferite al passato e all'avvenire. D'altro lato, la medesima Corte ha invece affermato che l'attuale qualificazione del lavoro a domicilio, fondata sull'art. 2 della legge n. 858, prescinderebbe dall'appartenenza delle materie e delle attrezzature impiegate nella lavorazione, mentre la versione dell'art. 1 comporterebbe la coappartenenza dei beni predetti, senza di che il lavoro a domicilio si convertirebbe in lavoro autonomo oppure in lavoro subordinato.
Sia l'una che l'altra interpretazione forniscono, però, ulteriore argomento per escludere la pretesa violazione dell'art. 25 cpv. Cost.. Nel primo senso, la sostanziale coincidenza delle due versioni prese in considerazione dal legislatore tronca alla radice l'intera problematica di legittimità costituzionale, prospettata dalle ordinanze di rimessione. Nel secondo senso, rimane pur sempre assodato - come rileva espressamente la Corte suprema - che la versione contraddistinta dall'uso della congiuntiva "e" rappresenta un minus piuttosto che un aliud, rispetto alla più ampia definizione conseguente all'uso della disgiuntiva "o": nell'ambito della quale la prima definizione dev'essere quindi ricompresa. E non trova comunque fondamento la tesi per cui si tratterebbe, viceversa, di due definizioni fra loro incompatibili.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale della legge 18 dicembre 1973, n. 877, in riferimento agli artt. 70, 72 e 73 Cost., e degli artt. 1 e 3 della legge 16 dicembre 1980, n. 858, in riferimento all'art. 25, secondo comma, della Costituzione, sollevate dai Pretori di Pistoia e di Poppi, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 1982.
Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giuseppe CONSO.
Giovanni VITALE - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 29 luglio 1982.