Sentenza n. 153 del 2024

SENTENZA N. 153

ANNO 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da:

Presidente: Augusto Antonio BARBERA;

Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 47 della legge della Regione Liguria 28 dicembre 2023, n. 20, recante «Disposizioni collegate alla legge di stabilità della Regione Liguria per l’anno finanziario 2024 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione 2024-2026)», promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 27 febbraio 2024, depositato in cancelleria il 4 marzo 2024, iscritto al n. 10 del registro ricorsi 2024 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell’anno 2024.

Visto l’atto di costituzione della Regione Liguria;

udita nell’udienza pubblica del 3 luglio 2024 la Giudice relatrice Antonella Sciarrone Alibrandi;

uditi l’avvocato dello Stato Fabrizio Fedeli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Francesco Saverio Marini per la Regione Liguria;

deliberato nella camera di consiglio del 3 luglio 2024.

Ritenuto in fatto

1.‒ Con ricorso depositato il 4 marzo 2024 (reg. ric. n. 10 del 2024), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato l’art. 47 della legge della Regione Liguria 28 dicembre 2023, n. 20, recante «Disposizioni collegate alla legge di stabilità della Regione Liguria per l’anno finanziario 2024 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione 2024-2026)», in riferimento agli artt. 3, 117, commi secondo, lettera l), e terzo, della Costituzione.

1.1.‒ Il ricorrente censura, in primo luogo, il comma 1 del citato art. 47, il quale prevede che, in via transitoria e fino al 2025, i dirigenti sanitari dipendenti dal Servizio sanitario regionale (SSR), che abbiano optato per l’esercizio dell’attività libero-professionale intramuraria (ALPI), possono operare nelle strutture sanitarie private accreditate, anche parzialmente, con il medesimo SSR.

La disposizione regionale sarebbe in contrasto con i principi fondamentali statali in materia di tutela della salute, desumibili, in specie, dall’art. 1, comma 4, della legge 3 agosto 2007, n. 120 (Disposizioni in materia di attività libero-professionale intramuraria e altre norme in materia sanitaria), secondo cui l’ALPI deve essere esercitata in strutture ambulatoriali interne o esterne all’azienda sanitaria, pubbliche o private non accreditate, con le quali l’azienda stipula apposita convenzione.

Il ricorrente premette che, per costante giurisprudenza costituzionale, le disposizioni attinenti allo svolgimento dell’attività libero-professionale intramuraria, sebbene si prestino a incidere contestualmente su una pluralità di materie, devono comunque ascriversi, con prevalenza, alla materia della tutela della salute. La stretta attinenza con l’organizzazione del Servizio sanitario regionale e con le prestazioni sanitarie ‒ a loro volta condizionate, sotto molteplici aspetti, dalla capacità, dalla professionalità e dall’impegno di tutti i sanitari addetti ai servizi e, in specie, di coloro che rivestono una posizione apicale ‒ sarebbe elemento rilevante ai fini della riconduzione della disciplina dell’ALPI alla materia della tutela della salute. Tale disciplina, volta ad assicurare che l’opzione compiuta dal sanitario in favore del rapporto di lavoro esclusivo con il SSR non resti priva di conseguenze, costituirebbe espressione di un principio fondamentale, con lo specifico scopo di assicurare una tendenziale uniformità tra le diverse legislazioni e i sistemi sanitari delle regioni e delle province autonome in ordine a un profilo qualificante del rapporto tra sanità e utenti (sono citate le sentenze di questa Corte n. 371 e n. 86 del 2008 e n. 50 del 2007). Anche la disciplina del profilo soggettivo dell’attività intramuraria rivestirebbe la natura di principio fondamentale della materia, essendo volta a definire uno degli aspetti più qualificanti dell’organizzazione sanitaria e cioè quello dell’individuazione dei soggetti legittimati a svolgere la libera professione all’interno della struttura sanitaria, aspetto che richiede una disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale (è citata la sentenza n. 54 del 2015 di questa Corte).

Il ricorrente premette ancora che, a livello statale, l’attività libero-professionale intramuraria dei medici e dei dirigenti sanitari è oggetto di una disciplina puntuale, dettata «[al] fine di garantire il corretto equilibrio tra attività istituzionale e attività libero-professionale intramuraria» (art. 22-bis, comma 4, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante «Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale», convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006, n. 248).

La stessa esigenza ispirerebbe anche la disciplina concernente l’attività «intramoenia allargata» (e cioè l’ALPI svolta in spazi sostitutivi esterni all’azienda). L’Avvocatura generale dello Stato osserva che tutte le disposizioni che l’hanno consentita hanno sottolineato l’eccezionalità e la transitorietà dell’utilizzo di spazi sostitutivi al di fuori dell’azienda sanitaria, fra cui gli studi professionali (art. 3, comma 1, del decreto legislativo 28 luglio 2000, n. 254, recante «Disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, per il potenziamento delle strutture per l’attività libero-professionale dei dirigenti sanitari», come successivamente modificato). In specie, il ricorrente ricorda che l’art. 22-bis, comma 3, del citato d.l. n. 223 del 2006, come convertito, ha ribadito l’autorizzazione all’utilizzo, in via straordinaria e previa autorizzazione aziendale, degli studi professionali per l’esercizio dell’ALPI, utilizzo ammesso dal legislatore, in via straordinaria, entro limiti temporali più volte prorogati.

Nella medesima prospettiva, il decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre 2012, n. 189, nel sostituire il primo e il secondo periodo del comma 4 dell’art. 1 della legge n. 120 del 2007, aveva peraltro previsto (all’art. 2, comma 1, lettera b) – ricorda ancora il ricorrente – che la ricognizione straordinaria degli spazi da dedicare all’ALPI fosse completata entro il 31 dicembre 2012 e che gli spazi ambulatoriali fossero acquisiti anche tramite l’acquisto o la locazione presso strutture sanitarie autorizzate, pur sempre però non accreditate, nonché tramite la stipula di convenzioni con altri soggetti pubblici.

Il divieto di svolgere attività libero-professionale intramuraria presso strutture private accreditate, di cui all’art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007, costituirebbe, d’altro canto – come sottolineato dal ricorrente nella memoria depositata nell’imminenza dell’udienza pubblica – un corollario del principio di unicità del rapporto di lavoro dei medici dipendenti del Servizio sanitario nazionale, sancito dall’art. 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica) e volto a evitare la nascita di un conflitto di interessi tra il Servizio sanitario nazionale e le strutture sanitarie accreditate, e a garantire la massima efficienza e funzionalità operativa al servizio sanitario pubblico.

Pertanto, l’art. 47, comma 1, della legge reg. Liguria n. 20 del 2023 determinerebbe un illegittimo ampliamento dell’ambito di operatività dell’ALPI, consentendone lo svolgimento anche in strutture sanitarie private accreditate, sia pure parzialmente, con il SSR.

1.2.‒ Anche il comma 2 del medesimo art. 47 della citata legge regionale si porrebbe in contrasto con i principi fondamentali stabiliti dal legislatore statale in materia di tutela della salute.

Tale disposizione, infatti, stabilendo, in via transitoria e per ridurre le liste di attesa, che le aziende sanitarie, gli enti e gli istituti del SSR sono autorizzati, fino al 2025, ad acquisire dai propri dipendenti della dirigenza sanitaria in rapporto di lavoro esclusivo, in forma individuale o di équipe, prestazioni sanitarie in regime di libera professione intramuraria ai sensi della legge n. 120 del 2007 «anche con le modalità di cui al comma 1», sarebbe in contrasto con l’art. 15-quinquies, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e con le disposizioni della legge n. 120 del 2007, che non prevederebbero la possibilità, per le aziende del SSN, di acquistare prestazioni rese in regime di ALPI dai propri dirigenti sanitari.

Non solo sarebbe violato il principio, fissato dal legislatore statale, secondo cui la libera professione intramuraria deve essere caratterizzata dalla scelta diretta, da parte dell’utente, del singolo professionista cui è richiesta la prestazione, con oneri a carico dello stesso assistito, ma la previsione della possibilità per le aziende sanitarie pubbliche di acquistare prestazioni sanitarie dai propri dirigenti sanitari, in regime di libera professione intramuraria, anche presso strutture sanitarie private accreditate, reitererebbe la violazione del principio fondamentale discendente dalla normativa statale interposta (art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007), secondo cui l’ALPI può essere esercitata solo in strutture ambulatoriali interne o esterne all’azienda sanitaria, pubbliche o private non accreditate, con le quali l’azienda stipula apposita convenzione.

1.3.‒ Di conseguenza sarebbe costituzionalmente illegittimo anche il comma 3 del medesimo art. 47 della legge reg. Liguria n. 20 del 2023, che attribuisce alla Giunta regionale il compito di stabilire, con propria deliberazione, i criteri e le modalità di svolgimento dell’attività libero-professionale «di cui al comma 2», nonché «la valorizzazione economica dell’attività libero professionale da corrispondere, a prestazione, ai professionisti». Tale previsione, infatti, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, sarebbe destinata a cadere per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale del comma 2, al quale rinvia.

1.4.‒ Con specifico riferimento al comma 1 dell’impugnato art. 47 della citata legge regionale, il ricorrente ravvisa anche la violazione della competenza legislativa esclusiva statale in materia di ordinamento civile (ex art. 117, secondo comma, lettera l, Cost.). Il citato comma, incidendo su rapporti di lavoro già sorti e determinandone, in maniera minuta e con effetti immediati, aspetti essenziali e qualificanti, realizzerebbe un’indebita sostituzione della fonte di disciplina del rapporto di lavoro, individuata dalla legge statale nella contrattazione collettiva, ponendosi in contrasto con le norme del contratto collettivo nazionale di lavoro sottoscritto il 23 gennaio 2024, relativo alla dirigenza sanitaria che, in specie all’art. 89, comma 1, lettera c), stabilisce che l’esercizio dell’attività libero-professionale deve avvenire al di fuori dell’impegno di servizio e solo in strutture di altra azienda del SSN o di altra struttura sanitaria non accreditata, previa convenzione con le stesse.

1.5.‒ L’intero art. 47 della legge reg. Liguria n. 20 del 2023 è, infine, impugnato per violazione dell’art. 3 Cost., in quanto, ampliando l’ambito di operatività dell’ALPI per i dirigenti sanitari dipendenti dal SSR ligure, frustrerebbe le esigenze di uniformità sottese alla disciplina statale della libera professione intramuraria, dando luogo a una irragionevole disparità di trattamento rispetto al personale sanitario medico che opera in altre regioni.

2.‒ Nel giudizio si è costituita la Regione Liguria e ha chiesto che il ricorso venga dichiarato inammissibile e comunque non fondato.

2.1.‒ In primo luogo, la resistente ritiene priva di fondamento la pretesa violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., con riguardo alla materia della tutela della salute, da parte dell’art. 47, comma 1, della legge reg. Liguria n. 20 del 2023, in quanto dalla normativa statale vigente non si desumerebbe alcun principio fondamentale che vieti il reperimento di spazi per lo svolgimento dell’attività intramuraria presso strutture private accreditate con il SSN.

Tale principio non si ricaverebbe, infatti, né dall’art. 22-bis del d.l. n. 223 del 2006, come convertito, che si limiterebbe a prorogare in via transitoria la possibilità dell’esercizio straordinario dell’attività libero-professionale intramuraria in studi professionali, né dall’art. 15-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992. L’oggetto principale di quest’ultima disposizione sarebbe, infatti, costituito dalla previsione del diritto del dirigente sanitario, che abbia optato per il rapporto di lavoro esclusivo con il SSN, di svolgere attività professionale fuori dall’orario di servizio e nell’ambito delle strutture aziendali.

Infine, l’art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007, come modificato dall’art. 2, comma 1, lettera b), del d.l. n. 158 del 2012, come convertito, evocato dal ricorrente quale parametro interposto, consentirebbe alle regioni di reperire spazi adeguati all’esercizio dell’attività intramuraria sia presso strutture private non accreditate, ma pur sempre autorizzate (e quindi in possesso dei requisiti minimi tecnici, strutturali richiesti dalla legge), sia – previa convenzione – presso «altri soggetti pubblici», fra i quali sarebbero comprese anche le strutture accreditate con il SSN, in quanto facenti parte del pubblico servizio sanitario, in linea con l’ultimo Piano nazionale di Governo delle liste di attesa per il triennio 2019-2021.

In ogni caso, anche a ritenere sussistente la previsione del divieto in questione, esso non potrebbe comunque costituire un principio fondamentale della materia «tutela della salute», ex art. 117, terzo comma, Cost., come tale vincolante e inderogabile da parte delle regioni. La scelta degli strumenti più idonei ad assicurare il reperimento dei locali occorrenti per lo svolgimento dell’attività intramoenia rientrerebbe, infatti, nella competenza legislativa regionale di dettaglio.

Né si configurerebbe l’ipotesi di una disciplina di dettaglio in rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione con le norme-principio che connotano il settore. Infatti, il divieto di svolgimento dell’attività intramuraria presso locali idonei in strutture private accreditate non garantirebbe affatto l’obiettivo di rendere effettivo e concreto il diritto allo svolgimento dell’attività libero-professionale intramoenia a seguito dell’opzione del dirigente sanitario per il rapporto esclusivo. Simile divieto costituirebbe, all’opposto, nel caso di insussistenza di ulteriori spazi adeguati, una ingiustificata limitazione di quello stesso principio fondamentale che si vorrebbe garantire.

L’intervento legislativo regionale non solo sarebbe compatibile con la potestà legislativa di dettaglio in materia di tutela della salute, ex art. 117, terzo comma, Cost., ma risulterebbe altresì ragionevole e coerente con l’obiettivo perseguito e cioè quello di consentire l’erogazione di un maggior numero di prestazioni e, quindi, di determinare uno sgravio della pressione sul SSN e una riduzione delle liste d’attesa. Ciò in linea con alcuni dei più recenti interventi legislativi in materia sanitaria, fra cui quello contenuto nell’art. 3-quater del decreto-legge 21 settembre 2021, n. 127 (Misure urgenti per assicurare lo svolgimento in sicurezza del lavoro pubblico e privato mediante l’estensione dell’ambito applicativo della certificazione verde COVID-19 e il rafforzamento del sistema di screening), convertito, con modificazioni, nella legge 19 novembre 2021, n. 165, che ha disposto una deroga, fino a tutto il 2025, al principio dell’unicità del rapporto di lavoro con il SSN per gli operatori delle professioni sanitarie.

2.1.1.‒ In via subordinata, la ricorrente chiede a questa Corte che – qualora ritenga vigente il divieto di svolgere l’attività intramuraria presso strutture sanitarie private accreditate col SSN – sollevi innanzi a sé medesima la questione di legittimità costituzionale delle citate disposizioni, per violazione degli artt. 3, 32 e 117, terzo comma, Cost., relativamente alla materia «tutela della salute».

Secondo la Regione Liguria, sarebbe infatti del tutto irragionevole, irrazionale e discriminatorio, in riferimento all’art. 3 Cost., derogare al vincolo di unicità del rapporto col SSN per gli operatori delle professioni sanitarie e, all’opposto, addirittura vietare ai dirigenti medici – in assenza di locali adeguati presso la struttura pubblica dove lavorano – di svolgere l’attività intramuraria presso strutture private accreditate, previa convenzione con l’ente di appartenenza. Tale vizio si rivelerebbe quanto meno nella forma dell’illegittimità costituzionale sopravvenuta, tenuto conto della disciplina introdotta dall’art. 3-quater, del d.l. n. 127 del 2021, come convertito, e successivamente prorogata.

Il divieto di svolgere l’attività intramuraria presso strutture sanitarie private accreditate, ove sussistente, sarebbe lesivo dell’art. 117, terzo comma, Cost., per la sua natura dettagliata, peraltro non funzionale al raggiungimento degli obiettivi che la disciplina sull’intramoenia si prefigge, identificati nel diritto del dirigente sanitario allo svolgimento della libera professione intramuraria, nell’equilibrio tra attività istituzionale e libera professione, e nella riduzione delle liste d’attesa.

In questi termini, il divieto in esame sarebbe anche foriero di disparità di trattamento ingiustificate tra strutture sanitarie private autorizzate e strutture accreditate, nonostante queste ultime siano anch’esse autorizzate e, oltre tutto, munite dei requisiti ulteriori di accreditamento. Tali vizi ridonderebbero sull’esercizio delle attribuzioni regionali in materia di tutela della salute ex art. 117, terzo comma, Cost., così come accadrebbe per il vizio di violazione dell’art. 32 Cost., che si desumerebbe dalla circostanza che l’impugnato art. 47, da un lato, comprometterebbe gli obiettivi di snellimento delle liste d’attesa, e, dall’altro, comprimerebbe anche la possibilità dell’utenza di optare per l’attività intramuraria in tempi brevi.

2.2.‒ Quanto, poi, alla questione relativa alla violazione della competenza legislativa statale esclusiva in materia di ordinamento civile, promossa sempre nei confronti del comma 1 dell’art. 47 della legge reg. Liguria n. 20 del 2023, la Regione ne sostiene l’inammissibilità e, in ogni caso, la non fondatezza, dal momento che il CCNL di area sarebbe stato approvato solo successivamente all’entrata in vigore della disposizione regionale impugnata e non sarebbe, in ogni caso, in contrasto con quest’ultima, non contemplando il divieto dell’esercizio dell’attività intramuraria presso strutture private accreditate.

2.3.‒ Anche la questione di legittimità costituzionale promossa nei confronti del comma 2 del medesimo art. 47 sarebbe, in via preliminare, inammissibile per difetto di specificità e di motivazione e, nel merito, priva di fondamento.

La previsione della possibilità per le strutture sanitarie, una volta esaurito l’orario di lavoro dei propri dirigenti, di acquistare dagli stessi prestazioni in regime libero-professionale intramurario, al dichiarato fine di ridurre i tempi di attesa, oltre a rientrare nella competenza legislativa regionale di dettaglio, troverebbe la propria copertura normativa in diverse previsioni statali di principio in materia. Fra di esse, la Regione indica l’art. 15-quinquies, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 502 del 1992, che, nel disciplinare le tipologie di esercizio dell’attività libero-professionale dei dirigenti sanitari, nell’ambito del rapporto di lavoro esclusivo, non escluderebbe la possibilità che la prestazione sia resa su richiesta della struttura sanitaria, e non solo dell’utente, a valere su apposite risorse del SSN. L’art. 2 del d.P.C.m. 27 marzo 2000 (Atto di indirizzo e coordinamento concernente l’attività libero-professionale intramuraria del personale della dirigenza sanitaria del Servizio sanitario nazionale) confermerebbe tale interpretazione, in particolare al comma 1, ponendo a carico dei fondi integrativi del SSN le prestazioni intramurarie erogate in favore dell’azienda presso cui è in servizio il dirigente medico, nonché al comma 5, che annovera fra le citate prestazioni anche quelle «richieste, ad integrazione delle attività istituzionali, dalle aziende ai propri dirigenti allo scopo di ridurre le liste di attesa o di acquisire prestazioni aggiuntive soprattutto in presenza di carenza di organico, in accordo con le équipes interessate». Analogamente, tale previsione sarebbe ulteriormente confermata dagli artt. 24, comma 6, e 115, comma 2, del CCNL dell’area sanità sottoscritto il 19 dicembre 2019, relativo al triennio 2016/2018, vigente alla data di approvazione della disposizione in esame, nonché dagli artt. 27, comma 8, e 89, comma 2, del CCNL siglato il 23 gennaio 2024, relativo al triennio 2019/2021.

La previsione regionale impugnata, contenuta nell’art. 47, comma 2, costituirebbe, pertanto, una specificazione, pienamente ragionevole, adeguata e giustificata, dei principi già rinvenibili nella legislazione statale.

2.4.‒ La rilevata inammissibilità e/o non fondatezza delle questioni promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri avverso i commi 1 e 2 dell’art. 47 della legge reg. Liguria n. 20 del 2023, comporterebbe, in via consequenziale, l’inammissibilità e/o la non fondatezza dei vizi di illegittimità costituzionale addebitati al comma 3 della disposizione in esame, che incarica la Giunta regionale di stabilire criteri e modalità di svolgimento dell’attività professionale di cui al comma 2.

2.5.‒ Infine, anche la questione, promossa nei confronti dell’intero art. 47 della citata legge regionale n. 20 del 2023, in riferimento all’art. 3 Cost., sarebbe inammissibile per genericità e comunque non fondata, tenuto conto che, quando il legislatore regionale esercita legittimamente le proprie competenze legislative, possibili differenze tra le regioni costituiscono effetto connaturato dell’esercizio delle medesime competenze.

3.‒ All’udienza le parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate negli atti difensivi.

Considerato in diritto

1.‒ Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato l’art. 47 della legge reg, Liguria n. 20 del 2023, rubricato «Disposizioni in materia di libera professione intramuraria della dirigenza sanitaria», per violazione degli artt. 3 e 117, secondo comma, lettera l), e terzo comma, Cost.

1.1.‒ In particolare, sul presupposto che le norme attinenti allo svolgimento dell’attività libero-professionale intramuraria (ALPI) devono ricondursi, in prevalenza, alla materia della tutela della salute, il ricorrente impugna, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., anzitutto, il comma 1 del citato art. 47, nella parte in cui prevede che, in via transitoria e fino al 2025, i dirigenti sanitari dipendenti dal Servizio sanitario regionale (SSR) ligure che abbiano optato per l’esercizio dell’ALPI possono operare nelle strutture sanitarie private accreditate, anche parzialmente, con il SSR. Tale previsione sarebbe, infatti, in contrasto con i principi fondamentali stabiliti dal legislatore statale, in specie all’art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007, secondo cui l’ALPI deve essere esercitata in strutture ambulatoriali interne o esterne all’azienda sanitaria, pubbliche o private non accreditate, con le quali l’azienda stipula apposita convenzione. Ciò in linea con il principio di unicità del rapporto di lavoro dei medici dipendenti del Servizio sanitario nazionale (SSN), sancito dall’art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991 e volto a evitare la nascita di un conflitto di interessi con le strutture sanitarie private accreditate, nonché a garantire la massima efficienza e funzionalità operativa al servizio sanitario pubblico stesso.

Analoghe censure di violazione dei principi fondamentali in materia di tutela della salute sono, poi, rivolte al comma 2 del medesimo art. 47, là dove stabilisce, in via transitoria e per ridurre le liste di attesa, che le aziende sanitarie, gli enti e gli istituti del SSR sono autorizzati, fino al 2025, ad acquisire dai propri dipendenti della dirigenza sanitaria legati da rapporto di lavoro esclusivo, in forma individuale o di équipe, prestazioni sanitarie in regime di libera professione intramuraria ai sensi della legge n. 120 del 2007 «anche con le modalità di cui al comma 1» e quindi anche presso le strutture private accreditate.

Tale previsione, infatti, si porrebbe in contrasto con l’art. 15-quinquies, comma 2, del d.lgs. n. 502 del 1992 e con le disposizioni della legge n. 120 del 2007, che non consentirebbero alle aziende del SSN di acquistare dai propri dirigenti sanitari prestazioni rese in regime di ALPI, imponendo che le medesime siano rese sulla base di una scelta diretta, da parte dell’utente, del singolo professionista cui è richiesta la prestazione, con oneri a carico dello stesso assistito. Inoltre, la possibilità per le aziende sanitarie pubbliche di acquistare prestazioni sanitarie dai propri dirigenti sanitari, in regime di libera professione intramuraria, anche presso strutture sanitarie private accreditate, reitererebbe la violazione del principio fondamentale contenuto nel citato art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007, secondo cui l’ALPI può essere esercitata solo in strutture ambulatoriali interne o esterne all’azienda sanitaria, pubbliche o private non accreditate, con le quali l’azienda stipula apposita convenzione.

Dall’accoglimento delle richiamate questioni discenderebbe anche la declaratoria di illegittimità costituzionale del comma 3 del medesimo art. 47, che attribuisce alla Giunta regionale il compito di stabilire, con propria deliberazione, i criteri e le modalità di svolgimento dell’attività libero professionale «di cui al comma 2».

1.2.‒ Il ricorrente denuncia anche la violazione della sfera di competenza legislativa statale esclusiva in materia di ordinamento civile, con esclusivo riferimento, tuttavia, al comma 1 del citato art. 47. Quest’ultimo, incidendo su rapporti di lavoro già sorti e determinandone, in maniera minuta e con effetti immediati, aspetti essenziali e qualificanti, realizzerebbe un’indebita sostituzione della regolamentazione dettata dalla contrattazione collettiva, cui la legge statale riserva la disciplina del rapporto di lavoro pubblico. E ciò in contrasto, in particolare, con l’art. 89, comma 1, lettera c), del CCNL 23 gennaio 2024 dell’area della sanità che stabilisce che l’esercizio dell’attività libero-professionale deve avvenire al di fuori dell’impegno di servizio e solo in strutture di altra azienda del SSN o di altra struttura sanitaria non accreditata, previa convenzione con le stesse.

1.3.‒ Infine, il ricorrente impugna l’intero testo dell’art. 47, per violazione dell’art. 3 Cost., in quanto, mediante l’ampliamento dell’ambito di operatività dell’ALPI per i dirigenti sanitari dipendenti dal SSR, verrebbero tradite le esigenze di uniformità sottese alla disciplina statale della libera professione intramuraria, dando luogo a una irragionevole disparità di trattamento rispetto al personale sanitario medico che opera in altre regioni.

2.‒ In via preliminare, occorre esaminare le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa della Regione Liguria.

2.1.‒ In primo luogo, la Regione eccepisce l’inammissibilità della questione promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., nei confronti dell’art. 47, comma 1, della legge reg. Liguria n. 20 del 2023, in quanto il CCNL 23 gennaio 2024, in contrasto con il quale si porrebbe la disposizione impugnata, sarebbe stato approvato in data successiva alla sua adozione, sicché non si sarebbe potuta verificare alcuna modifica di una normativa contrattuale ancora inesistente alla data dell’entrata in vigore della disposizione impugnata.

2.1.1.‒ L’eccezione non è fondata.

L’assunto da cui muove il ricorrente è che la disposizione regionale, incidendo su rapporti di lavoro pubblico già sorti, determinandone in maniera minuta e con effetti immediati aspetti essenziali e qualificanti, abbia invaso la sfera di competenza legislativa esclusiva statale in materia di ordinamento civile, che riserva alla contrattazione collettiva la disciplina di tali rapporti. La questione è, pertanto, promossa sul presupposto che la Regione, in ogni caso, non avrebbe potuto dettare una disciplina in una materia riservata al legislatore statale e da quest’ultimo demandata in via esclusiva alla contrattazione collettiva. Una tale censura sussiste, quindi, a prescindere dall’asserito specifico contrasto con l’art. 89, comma 1, lettera c), del CCNL siglato il 23 gennaio 2024, e rende pertanto superfluo l’accertamento dell’anteriorità della sottoscrizione del medesimo contratto collettivo rispetto all’entrata in vigore della legge regionale n. 20 del 2023. Peraltro, il contratto in discorso ha solo sostituito il precedente CCNL siglato nel 2019, che, sul punto, già dettava, in specie all’art. 115, una disciplina peraltro coincidente.

In ogni caso, la pretesa inidoneità della norma del contratto collettivo a fungere da parametro interposto ratione temporis, ai fini della valutazione della lesione della sfera di competenza legislativa statale esclusiva, assume rilievo, non già ai fini dell’ammissibilità della questione, ma ai fini del merito, considerato che «l’eventuale “inconferenza del parametro indicato dal ricorrente rispetto al contenuto sostanziale della doglianza costituisce motivo di non fondatezza della questione (sentenze n. 132 del 2021 e n. 286 del 2019)” (di recente sentenze n. 163 e n. 53 del 2023), sicché l’eccezione attiene al merito e non al rito» (sentenza n. 69 del 2024).

2.2.‒ La Regione Liguria eccepisce, inoltre, l’inammissibilità della censura rivolta al comma 2 dell’art. 47 della legge reg. Liguria n. 20 del 2023, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., con riguardo alla materia della tutela della salute, per difetto di specificità e di motivazione. Il ricorrente, oltre a indicare come parametro interposto un intero atto normativo (le disposizioni della legge n. 120 del 2007), sfuggendo all’onere di puntuale individuazione dei parametri interposti, nemmeno spiegherebbe quale sia il principio fondamentale asseritamente leso, che da tali norme sarebbe desumibile.

2.2.1.‒ L’eccezione è priva di fondamento.

Secondo il costante orientamento di questa Corte, «nei giudizi in via principale il ricorrente ha l’onere di individuare le disposizioni impugnate e i parametri costituzionali dei quali lamenta la violazione e di presentare una motivazione non meramente assertiva, che indichi le ragioni del contrasto con i parametri evocati, attraverso una sia pur sintetica argomentazione di merito a sostegno delle censure (tra le molte, sentenze n. 57 del 2023, n. 135 e n. 119 del 2022). Tale onere si estende anche all’individuazione delle specifiche disposizioni statali interposte che si assumono violate (tra le molte, sentenze n. 58 del 2023 e n. 279 del 2020)» (sentenza n. 82 del 2024).

Nella specie, il richiamato onere è stato assolto, sebbene succintamente.

Infatti, il ricorrente ravvisa anzitutto nell’art. 15-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992, in specie nel comma 2 – rispetto al quale le disposizioni della legge n. 120 del 2007 sarebbero solo specificative – il principio dell’esclusione della possibilità per le aziende del SSN di acquistare prestazioni di propri dirigenti sanitari rese in regime di ALPI, desumendolo dalla previsione che la libera professione intramuraria è caratterizzata dalla scelta diretta, da parte dell’utente, del singolo professionista cui viene richiesta la prestazione, con oneri a carico dell’assistito.

Quanto, poi, alla possibilità che tali prestazioni vengano erogate dai dirigenti sanitari presso le strutture sanitarie accreditate, il ricorrente ne ravvisa il contrasto con le stesse disposizioni interposte, puntualmente evocate in riferimento alla questione promossa nei confronti del comma 1 del medesimo art. 47 della legge reg. Liguria n. 20 del 2023, cui il medesimo rinvia.

3.‒ Si può, ora, passare all’esame del merito delle singole questioni.

3.1.‒ Come già anticipato, il ricorrente impugna, anzitutto, il comma 1 dell’art 47 della citata legge regionale, che consente ai dirigenti sanitari in rapporto esclusivo con il SSR, di svolgere l’attività libero-professionale intramuraria nelle strutture sanitarie private accreditate, anche parzialmente, con il SSR.

3.1.1.‒ La questione è fondata.

3.1.2.‒ Preliminarmente, occorre ricordare che questa Corte ha ripetutamente affermato che la disciplina dell’ALPI dei dirigenti sanitari, pur incidendo su una pluralità di ambiti, deve essere ascritta, in via prevalente, alla materia della tutela della salute (più di recente, sentenze n. 98 del 2023 e n. 170 del 2020).

Tale riconduzione si giustifica in considerazione della stretta inerenza della richiamata disciplina «con l’organizzazione del servizio sanitario regionale e, in definitiva, con le condizioni per la fruizione delle prestazioni rese all’utenza» (sentenza n. 54 del 2015), a loro volta «condizionate […] dalla capacità, dalla professionalità e dall’impegno di tutti i sanitari addetti ai servizi e, segnatamente, di coloro che rivestono una posizione apicale [...] (così la sentenza n. 371 del 2008. Negli stessi termini, da ultimo, sentenza n. 301 del 2013)» (ancora sentenza n. 54 del 2015). Proprio in considerazione del fatto che le disposizioni che disciplinano l’attività intramuraria «rappresentano un elemento fra i più caratterizzanti nella disciplina del rapporto fra personale sanitario ed utenti del servizio sanitario, nonché della stessa organizzazione sanitaria» (sentenza n. 50 del 2007), alcune di esse costituiscono principi fondamentali, espressivi delle esigenze di uniforme trattamento sul territorio nazionale, vincolanti dunque per tutte le regioni.

Ciò risulta dimostrato dall’evoluzione normativa della materia.

Sin dall’istituzione del SSN, con la legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), si era, infatti, previsto, per il dirigente medico che avesse optato per il regime del tempo pieno, il diritto all’esercizio dell’attività libero-professionale, tuttavia solo nell’ambito dei servizi e delle strutture dell’unità sanitaria locale (art. 47, terzo comma, numero 4, come attuato dall’art. 35, comma 2, lettera d) del decreto del Presidente della Repubblica 20 dicembre 1979, n.761, recante «Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali»), proprio sull’assunto che tale possibilità accrescesse l’esperienza e la competenza del medico nell’interesse degli utenti e della collettività.

Con l’introduzione dell’art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991, è stato affermato il principio di unicità del rapporto di lavoro dei dirigenti medici con il SSN, ma se ne è riconosciuta la compatibilità con l’attività libero-professionale «purché espletat[a] fuori dall’orario di lavoro all’interno delle strutture sanitarie o all’esterno delle stesse, con esclusione di strutture private convenzionate con il Servizio sanitario nazionale».

I successivi interventi del legislatore, dalla riforma di cui al d.lgs. n. 502 del 1992, alle previsioni introdotte dall’art. 72, comma 11, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), hanno confermato il principio di esclusività del rapporto di lavoro con il SSN e l’incompatibilità fra attività libero-professionale extramuraria e intramuraria, insieme al riconoscimento e all’incentivo di quest’ultima, sia nell’interesse del medico, abilitato a svolgere, a certe condizioni, la libera professione, sia per consentire al paziente la scelta del medico di fiducia. È, infatti, proprio al fine di rendere possibile l’esercizio dell’attività libero-professionale dei medici, con un rapporto di lavoro esclusivo con il SSN, che è stata introdotta, in via transitoria, in considerazione della carenza degli spazi disponibili, la possibilità di un’ALPI “allargata”, e si è consentito al direttore generale, «fino alla realizzazione di proprie idonee strutture e spazi distinti per l’esercizio dell’attività libero professionale intramuraria in regime di ricovero ed ambulatoriale», di «assumere le specifiche iniziative per reperire fuori dall’azienda spazi sostitutivi», includendovi anche gli studi professionali privati, ma con l’espressa esclusione delle strutture sanitarie private accreditate, che l’art. 1, comma 5, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) ha equiparato alle strutture sanitarie private convenzionate.

Con l’ulteriore riforma di cui al decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419), il legislatore ha, poi, introdotto nuove disposizioni nel d.lgs. n. 502 del 1992 (in specie, all’art. 15-quinquies) che hanno definito le uniche modalità di esercizio dell’attività professionale compatibili con il rapporto di lavoro esclusivo con il SSN. Queste ultime sono state individuate, non solo al fine della «salvaguardia delle esigenze del servizio e della prevalenza dei volumi orari di attività necessari per i compiti istituzionali», nonché del rispetto dei «piani di attività previsti dalla programmazione regionale e aziendale» (comma 3) ai fini istituzionali e nell’assicurazione dei relativi volumi prestazionali, ma anche ribadendo la necessità dello svolgimento dell’ALPI solo all’interno delle strutture aziendali o, previa convenzione, in strutture di altra azienda del SSN o di altre strutture sanitarie purché non accreditate.

Successivamente, il legislatore statale è intervenuto a prorogare l’autorizzazione all’utilizzazione degli studi professionali privati, «in caso di carenza di strutture e spazi idonei alle necessità connesse allo svolgimento delle attività libero-professionali in regime ambulatoriale, limitatamente alle medesime attività» (art. 15-quinquies, comma 10, del d.lgs. n. 502 del 1992, come sostituito dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 254 del 2000), sempre, tuttavia, nel rispetto delle richiamate regole, comprensive dell’esclusione dello svolgimento dell’ALPI nelle strutture private accreditate. Il termine è stato ulteriormente rinviato, dapprima fino al 31 luglio 2005, per effetto dell’art. 1, comma 1, del decreto-legge 23 aprile 2003, n. 89 (Proroga dei termini relativi all’attività professionale dei medici e finanziamento di particolari terapie oncologiche ed ematiche, nonché delle transazioni con soggetti danneggiati da emoderivati infetti), convertito, con modificazioni, nella legge 20 giugno 2003, n. 141, poi, fino al 31 luglio 2006, con l’art. 1-quinquies del decreto-legge 27 maggio 2005, n. 87 (Disposizioni urgenti per il prezzo dei farmaci non rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale, nonché in materia di confezioni di prodotti farmaceutici e di attività libero-professionale intramuraria), convertito, con modificazioni, nella legge 26 luglio 2005, n. 149. Infine, è stato collegato alla data del «completamento da parte dell’azienda sanitaria di appartenenza degli interventi strutturali necessari ad assicurare l’esercizio dell’attività libero-professionale intramuraria e comunque entro il 31 luglio 2007» (art. 22-bis, comma 2, del d.l. n. 223 del 2006, come convertito).

In questo contesto di ripetute proroghe si colloca l’art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007, evocato dal ricorrente come norma interposta e originariamente adottato – come si legge nei lavori preparatori – in vista della imminente scadenza del termine posto all’utilizzazione degli studi professionali privati e in assenza del previsto completamento degli interventi strutturali da parte delle aziende sanitarie del SSN. Ciò con l’obiettivo, da un lato, di accelerare il definitivo passaggio della dirigenza sanitaria del SSN al regime ordinario dell’ALPI (comma 2 del medesimo art. 1), in modo da assicurare che tale attività fosse «fortemente integrata all’interno del Servizio sanitario e non rappresenta[sse] una sorta di anomalia per aggirare, da parte di chi può, ostacoli all’accesso alle prestazioni» istituzionali, con il rischio di incidere sulla parità di accesso ai trattamenti e di generare situazioni di confusione sui percorsi (così nel resoconto della seduta del 17 aprile 2007, relativo all’approvazione del documento conclusivo della «Indagine conoscitiva sull’esercizio della libera professione medica intramuraria, con particolare riferimento alle implicazioni sulle liste di attesa e alle disparità nell’accesso ai servizi sanitari pubblici» presso la XII Commissione permanente - igiene e sanità del Senato). Dall’altro, al fine di precisare ulteriormente le regole per il corretto svolgimento dell’ALPI – finalizzata a consentire all’utente la possibilità di optare per un medico di fiducia, in grado di fornire la propria qualificata prestazione in tempi adeguati e in ambienti idonei – anche presso studi medici o strutture private, comunque sempre non accreditate, ancora in via transitoria, entro un termine, di nuovo più volte prorogato, e poi, per effetto delle modifiche apportate dall’art. 2, comma 1, lettera b), del d.l. n. 158 del 2012, come convertito, ulteriormente rinviato e subordinato alla realizzazione di una ricognizione straordinaria degli spazi utilizzabili, affidata alle regioni.

La puntuale disciplina dell’ALPI dettata a seguito della richiamata novella conferma la precedente impostazione del legislatore statale, sia là dove ha circondato di precisi limiti lo svolgimento dell’attività libero-professionale intramuraria presso gli studi privati dei professionisti collegati in rete, sia nella parte in cui ha riconosciuto alle regioni la facoltà di autorizzare l’azienda sanitaria, «ove ne sia adeguatamente dimostrata la necessità e nel limite delle risorse disponibili, ad acquisire, tramite l’acquisto o la locazione […] spazi ambulatoriali esterni, aziendali e pluridisciplinari», ma solo «presso strutture sanitarie autorizzate non accreditate, nonché tramite la stipula di convenzioni con altri soggetti pubblici». Il dato letterale della disposizione, nel fare espresso riferimento alle sole «strutture sanitarie autorizzate non accreditate», esclude altresì – di contro a quanto sostenuto dalla difesa regionale - la possibilità di interpretare la medesima nel senso di ricondurre le strutture sanitarie private accreditate nel novero degli «altri soggetti pubblici», presso cui le Regioni sono autorizzate a reperire spazi adeguati all’esercizio dell’ALPI. Tali regole hanno solo integrato e specificato quanto già previsto dall’art. 15-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992 (come successivamente modificato), in ordine alle uniche modalità consentite di svolgimento dell’ALPI compatibili con il rapporto di lavoro esclusivo con il SSR, recepite e attuate in sede di contrattazione collettiva, relativa, fra l’altro, all’area della dirigenza sanitaria, già nel CCNL siglato l’8 giugno 2000 (artt. 54 e 55), e, successivamente, sia nel CCNL siglato il 19 dicembre 2019 relativo al triennio 2016-2018 (artt. 114 e 115), sia nel recente CCNL siglato il 23 gennaio2024 e inerente al triennio 2019/2021 (artt. 88 e 89).

3.1.3.‒ Dall’appena richiamata evoluzione normativa del settore è agevole rilevare che il legislatore statale ha individuato alcuni tratti caratterizzanti della disciplina dell’attività intramuraria, che sono rimasti immutati nel tempo e che la giurisprudenza costituzionale ha già avuto occasione di qualificare come principi fondamentali della materia della tutela della salute.

In particolare, proprio con riferimento alla disciplina dettata dall’art. 1 della legge n. 120 del 2007, questa Corte ha affermato che essa ‒ in quanto «volta ad assicurare che non resti priva di conseguenze, in termini di concrete possibilità di svolgimento dell’attività libero-professionale intramuraria, l’opzione compiuta dal sanitario in favore del rapporto di lavoro esclusivo (sentenza n. 371 del 2008)» (sentenza n. 54 del 2015) ‒ è espressione del medesimo principio fondamentale cui è riconducibile la prevista opzione.

Tale disciplina rappresenta, in altri termini, un corollario del principio di esclusività del rapporto di lavoro del personale medico con il SSN, già sancito dall’art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991, con cui il legislatore «ha inteso garantire la massima efficienza e funzionalità operativa al servizio sanitario pubblico», evitando che «“potesse spiegare effetti negativi il contemporaneo esercizio da parte del medico dipendente di attività professionale presso strutture convenzionate” (sentenza n. 457 del 1993)» (sentenza n. 238 del 2018).

Da tempo si è avuto modo di rilevare che la scelta del legislatore statale di subordinare l’attività libero-professionale intramuraria a una serie di condizioni di tempo e di luogo ‒ con assoluta esclusione dell’esercizio della medesima all’interno di strutture private convenzionate (oggi: accreditate) con il Servizio sanitario nazionale ‒ costituisce, da un lato, espressione dell’ampia accezione in cui è stato declinato il suddetto principio di esclusività (sentenza n. 457 del 1993) e, dall’altro, della particolare natura di tali strutture: entrambi elementi che rendono non irragionevole la scelta di politica sanitaria effettuata dal legislatore statale. Le citate istituzioni sanitarie private (convenzionate e/o accreditate), infatti, «svolgono una funzione integrativa e sussidiaria della stessa rete sanitaria pubblica» (sentenza n. 238 del 2018), che le differenzia da quelle non convenzionate (oggi, non accreditate) (sentenza n. 457 del 1993) e che impone «che il medico che già presta la sua attività in rapporto esclusivo con il SSN non possa, contemporaneamente, operare anche presso una struttura privata convenzionata» (oggi accreditata) (ancora, sentenza n. 238 del 2018), anche solo nell’espletamento dell’ALPI, onde evitare il «pericolo di incrinamento della funzione ausiliaria che […] sono chiamate a svolgere» (sentenza n. 457 del 1993). Funzione ausiliaria oggi, per certi versi, ulteriormente valorizzata dalla stretta connessione sussistente fra il rilascio dell’accreditamento e la valutazione della funzionalità dei requisiti posseduti dalla struttura sanitaria privata rispetto agli obiettivi della programmazione sanitaria (sentenza n. 113 del 2022), insieme alla verifica del rispetto delle incompatibilità previste dalla normativa vigente in materia di rapporto di lavoro del personale del SSN (art. 1, comma 19, della legge n. 662 del 1996).

Ne consegue che il divieto di svolgimento dell’ALPI presso strutture sanitarie private accreditate, che si trae dall’art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007, letto alla luce del complessivo e risalente quadro di riferimento normativo statale, costituisce un «principio fondamentale, volto a garantire una tendenziale uniformità tra le diverse legislazioni ed i sistemi sanitari delle Regioni e delle Province autonome in ordine a un profilo qualificante del rapporto tra sanità ed utenti» (sentenza n. 371 del 2008).

Né si ravvisa la sopravvenuta irragionevolezza di tale principio – come sostenuto dalla difesa regionale – a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 3-quater del d.l. n. 127 del 2021, come convertito, che ha espressamente previsto una deroga, per gli operatori delle professioni sanitarie, al principio di esclusività del rapporto di lavoro con il SSN (di cui all’art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991). In specie, si è riconosciuta ai citati operatori delle professioni sanitarie la possibilità di svolgere prestazioni al di fuori dell’orario di servizio, anche se sulla base di un’apposita autorizzazione da parte del vertice dell’amministrazione di appartenenza «al fine di garantire prioritariamente le esigenze organizzative del Servizio sanitario nazionale nonché di verificare il rispetto della normativa sull’orario di lavoro».

Tale disciplina – originariamente adottata per fronteggiare la situazione di emergenza generata dalla pandemia da Covid-19 e poi prorogata fino al 2025 – riguarda esclusivamente il rapporto di lavoro con il SSN degli operatori delle professioni sanitarie, che soggiace a un regime differente rispetto a quello dei medici e dei dirigenti sanitari, e a cui non si applica, né si è mai applicata, la disciplina relativa all’ALPI (come affermato nella sentenza n. 54 del 2015). Si tratta, all’evidenza, di discipline non comparabili in quanto relative a situazioni non omogenee e il cui distinto ambito di operatività, pertanto, è sufficiente a non scalfire la natura di principio fondamentale del divieto dello svolgimento dell’ALPI dei dirigenti sanitari presso le strutture sanitarie private accreditate.

Ne consegue che non sussistono i presupposti prospettati dalla difesa regionale in ordine alla richiesta di autorimessione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007.

3.1.4.‒ A fronte di un’espressa esclusione della possibilità di svolgimento dell’ALPI presso strutture private accreditate ribadita con chiarezza e in modo costante dalla legislazione statale, si deve, infine, rilevare che il legislatore ligure, con l’art. 47, comma 1, della legge reg. Liguria n. 20 del 2023, ha adottato una previsione – peraltro ambigua nella sua formulazione testuale (ove si prevede che nelle strutture sanitarie private accreditate «possono operare i dirigenti sanitari dipendenti dal Servizio sanitario regionale che abbiano optato per l’esercizio dell’attività libero professionale intramuraria») – della cui portata derogatoria rispetto alla normativa statale di principio aveva consapevolezza. Ciò emerge dai lavori preparatori, in specie dalla relazione illustrativa dell’emendamento, che si è poi tradotto nel citato articolo, presentato dalla Giunta regionale in sede di approvazione del disegno di legge regionale. Nella relazione si legge, infatti, che la disposizione in esame, dichiaratamente volta a consentire alle «strutture private accreditate, anche parzialmente, con il Servizio sanitario regionale, di avvalersi dell’operato dei dirigenti sanitari dipendenti dal Servizio sanitario nazionale che abbiano optato per il regime di attività libero professionale intramuraria», costituisce una delle «soluzioni straordinarie, ancorché temporanee», imposte dall’«attuale situazione di arretrato nell’erogazione delle prestazioni sanitarie, che si è venuta a creare a seguito dell’emergenza Covid-19», adottate «in parziale deroga al vigente quadro normativo nazionale».

Appare, pertanto, evidente che il legislatore regionale, con la citata disposizione, nel consentire, sia pure «[i]n via transitoria» e comunque «fino all’anno 2025», ai dirigenti sanitari in rapporto esclusivo con il SSR, che abbiano optato per l’esercizio dell’attività libero-professionale intramuraria, di operare nelle strutture sanitarie private accreditate, anche parzialmente, con il Servizio sanitario regionale, ha inteso disattendere il divieto di cui all’art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007, nonché il connesso principio di esclusività del rapporto di lavoro del dirigente sanitario con il servizio sanitario pubblico, violando l’art. 117, terzo comma, Cost.

3.1.5.‒ Resta, quindi, assorbita la censura di violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

3.2.‒ Anche il comma 2 dell’art. 47 della legge reg. Liguria n. 20 del 2023 è impugnato per violazione dei principi fondamentali in materia di tutela della salute, nella parte in cui autorizza, in via transitoria e per ridurre le liste di attesa, in ogni caso fino al 2025, le aziende sanitarie, gli enti e gli istituti del SSR, ad acquisire dai propri dirigenti sanitari in rapporto di lavoro esclusivo, in forma individuale o di équipe, prestazioni sanitarie in regime di libera professione intramuraria ai sensi della legge n. 120 del 2007 «anche con le modalità di cui al comma 1» e quindi anche presso le strutture private accreditate.

Tale previsione – secondo il ricorrente – sarebbe costituzionalmente illegittima sotto due distinti profili. Anzitutto, in quanto si porrebbe in contrasto con l’art. 15-quinquies, comma 2, del d.lgs. n. 502 del 1992, e con le disposizioni della legge n. 120 del 2007, che, all’opposto, non consentirebbero alle aziende del SSN di acquistare prestazioni, rese in regime di libera professione intramuraria, dai propri dirigenti sanitari, richiedendo che esse siano rese solo ove vi sia una scelta diretta, da parte dell’utente, del singolo professionista cui è richiesta la prestazione, con oneri a carico dello stesso assistito. Sarebbe, inoltre, violato, anche in tal caso, il principio fondamentale di cui all’art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007, per effetto della previsione della possibilità che le prestazioni libero professionali rese in regime di intramoenia, acquistate dall’azienda sanitaria dai propri dirigenti, siano effettuate anche presso le strutture private accreditate.

3.2.1.‒ La questione è fondata solo in relazione al secondo profilo di censura indicato dal ricorrente.

3.2.2.‒ Il preteso contrasto con l’art. 15-quinquies, comma 2, del d.lgs. n. 502 del 1992, risulta, infatti, smentito dalla circostanza che la «partecipazione ai proventi di attività professionali, richieste a pagamento da terzi all’azienda, quando le predette attività siano svolte al di fuori dell’impegno di servizio e consentano la riduzione dei tempi di attesa, secondo programmi predisposti dall’azienda stessa, sentite le équipes dei servizi interessati» ‒ menzionata alla lettera d) del medesimo articolo fra le tipologie di esercizio dell’attività professionale compatibili con il rapporto di lavoro esclusivo ‒ è stata successivamente ritenuta compatibile con un’integrazione della sua portata applicativa di segno opposto a quanto sostenuto dal ricorrente.

Sulla base di un espresso rinvio, operato dall’art. 72, comma 11, della legge n. 448 del 1998, a un atto di indirizzo e coordinamento chiamato a definire le «misure atte a garantire la progressiva riduzione delle liste d’attesa per le attività istituzionali», l’art. 2, comma 5, del d.P.C.m. 27 marzo 2000 ha, infatti, espressamente ricondotto all’appena richiamato art. 15-quinquies, comma 2, lettera d) «anche le prestazioni richieste, ad integrazione delle attività istituzionali, dalle aziende ai propri dirigenti allo scopo di ridurre le liste di attesa o di acquisire prestazioni aggiuntive soprattutto in presenza di carenza di organico, in accordo con le équipes interessate» pur se «esclusivamente per le discipline che hanno una limitata possibilità di esercizio della libera professione intramuraria». In seguito, tale previsione è stata confermata dai CCNL di area che, a partire da quello siglato l’8 giugno 2000, hanno espressamente ritenuto equiparate alle prestazioni inerenti ad attività libero-professionali, a pagamento, richieste da terzi all’azienda, per cui il dirigente medico partecipa ai proventi, le cosiddette prestazioni aggiuntive e cioè «le prestazioni richieste, in via eccezionale e temporanea, ad integrazione dell’attività istituzionale, dalle aziende ai propri dirigenti allo scopo di ridurre le liste di attesa o di acquisire prestazioni aggiuntive, soprattutto in presenza di carenza di organico ed impossibilità anche momentanea di coprire i relativi posti con personale in possesso dei requisiti di legge, in accordo con le équipes interessate e nel rispetto delle direttive regionali in materia» (art. 55, comma 2, CCNL 8 giugno 2000; analogamente art. 115, comma 2, CCNL siglato il 19 dicembre 2019 e art. 89, comma 2, CCNL sottoscritto il 23 gennaio 2024).

La disposizione regionale impugnata ‒ là dove consente, «[i]n via transitoria» e comunque solo «fino all’anno 2025», alle aziende sanitarie, enti e istituti del SSR di acquisire dai propri sanitari prestazioni in regime di ALPI «[a]l fine di ridurre le liste di attesa», e quindi con riferimento all’attività istituzionale ‒ è, pertanto, in linea con la normativa statale, che viene erroneamente interpretata dal ricorrente.

3.2.3.‒ Diverso esito si delinea, invece, riguardo al denunciato contrasto con l’art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007, della previsione della possibilità che le prestazioni acquistate dall’azienda sanitaria dai propri dirigenti sanitari in regime di ALPI siano effettuate presso strutture sanitarie accreditate.

Tornano in rilievo gli argomenti già richiamati a proposito del comma 1 del medesimo art. 47, che rivelano il contrasto di tale disposizione con il principio di esclusività del rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale, di cui il divieto di svolgere attività libero-professionale presso le strutture private accreditate costituisce corollario. Contrasto, nella specie, reso ancor più evidente dall’intima contraddittorietà che si svela fra l’esigenza di ovviare alla carenza di organico delle aziende sanitarie e di ridurre le liste di attesa – che è alla base della previsione della possibilità di acquistare prestazioni aggiuntive in regime libero-professionale dai propri dirigenti sanitari oltre l’orario di servizio, in vista dell’obiettivo ultimo di garantire l’erogazione delle prestazioni istituzionali da parte dell’azienda sanitaria – e la possibilità, accordata ai medesimi dirigenti, di operare, non presso l’azienda sanitaria stessa, ma presso le strutture private accreditate.

Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 47, comma 2, della legge reg. Liguria n. 20 del 2023, limitatamente alle parole «anche con le modalità di cui al comma 1».

3.3.‒ Dall’accoglimento solo parziale delle censure di illegittimità costituzionale rivolte al comma 2 dell’impugnato art. 47 della legge reg. Liguria n. 20 del 2023, deriva il rigetto delle censure rivolte, solo in via derivata, al comma 3 del medesimo articolo.

Quest’ultimo, infatti, là dove attribuisce alla Giunta regionale il compito di stabilire, con propria deliberazione, i criteri e le modalità di svolgimento dell’attività libero-professionale «di cui al comma 2», nonché «la valorizzazione economica dell’attività libero professionale da corrispondere, a prestazione, ai professionisti», a seguito della caducazione, non dell’intero comma 2, ma della sola previsione della possibilità di svolgere, presso le strutture sanitarie private accreditate, le prestazioni libero-professionali rese dai dirigenti sanitari in regime di ALPI, acquistate dall’azienda sanitaria stessa, non perde il suo oggetto. Lungi dall’essere travolto per effetto dei vizi che affliggono il comma precedente, esso conserva un suo, sebbene più limitato, ambito di applicazione, compatibile con la facoltà, accordata alla Regione, di autorizzare, al ricorrere delle condizioni indicate dal legislatore statale, l’acquisto da parte delle aziende sanitarie delle prestazioni aggiuntive dai propri dirigenti sanitari e di disciplinare, nel rispetto dei principi fissati dal legislatore statale, criteri e modalità di svolgimento di tale attività.

3.4.‒ Occorre, infine, rilevare che la censura rivolta all’intero art. 47 della legge reg. Liguria n. 20 del 2023 in riferimento all’art. 3 Cost., non si configura quale questione di legittimità costituzionale autonoma, ma costituisce una mera specificazione delle questioni promosse in riferimento all’art. 117, commi secondo, lettera l), e terzo, Cost.

La denunciata illegittima disparità di trattamento – fra i dirigenti sanitari della Regione Liguria e i dirigenti sanitari delle altre regioni – che, in tesi, discenderebbe dalle disposizioni regionali impugnate, risulta, infatti, una mera conseguenza della pretesa violazione, da parte delle medesime disposizioni, dei principi fondamentali fissati dal legislatore statale in materia di tutela della salute e/o delle norme statali in materia di ordinamento civile, che, nel disegno costituzionale, sono precisamente volte a garantire le esigenze di uniforme trattamento sull’intero territorio nazionale, e che, in questo caso, sarebbero sottese alla disciplina della libera professione intramuraria.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 47, comma 1, della legge della Regione Liguria 28 dicembre 2023, n. 20, recante «Disposizioni collegate alla legge di stabilità della Regione Liguria per l’anno finanziario 2024 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione 2024-2026)»;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 47, comma 2, della legge reg. Liguria n. 20 del 2023, limitatamente alle parole «anche con le modalità di cui al comma 1»;

3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 47, comma 3, della legge reg. Liguria n. 20 del 2023, promossa, in riferimento agli artt. 3 e 117, terzo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 29 luglio 2024