SENTENZA N. 170
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Marta CARTABIA;
Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 4, e 9 della legge della Regione Puglia 28 marzo 2019, n. 13 (Misure per la riduzione delle liste d’attesa in sanità - Primi provvedimenti), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 22-27 maggio 2019, depositato in cancelleria il 27 maggio 2019, iscritto al n. 61 del registro ricorsi 2019 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Udito il Giudice relatore Giuliano Amato ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettere a) e c), in collegamento da remoto, senza discussione orale, in data 24 giugno 2020;
deliberato nella camera di consiglio del 24 giugno 2020.
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 22-27 maggio 2019 e depositato in cancelleria il 27 maggio 2019 (reg. ric. n. 61 del 2019), ha promosso, in riferimento complessivamente agli artt. 81 e 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 4, e 9 della legge della Regione Puglia 28 marzo 2019, n. 13 (Misure per la riduzione delle liste d’attesa in sanità - Primi provvedimenti).
2.− In primo luogo, è impugnato l’art. 5, comma 4, della legge reg. Puglia n. 13 del 2019, ove si prevede che «[n]el caso in cui il fondo previsto dall’articolo 2 della legge 8 novembre 2012, n. 189 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, recante disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute) non risulti sufficiente a garantire il rispetto dei tempi di attesa, il direttore generale attiva intese sindacali finalizzate a incrementare detto fondo, attingendo alle quote già accantonate per i fondi perequativi alimentati dalla libera professione».
2.1.− Precisa la difesa statale che i fondi perequativi in questione sono previsti e regolamentati dalla vigente disciplina contrattuale, in base all’art. 5 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 27 marzo 2000 (Atto di indirizzo e coordinamento concernente l’attività libero-professionale intramuraria del personale della dirigenza sanitaria del Servizio sanitario nazionale). Tale decreto, in attuazione degli artt. 4, comma 11, 9 e 15-quinquies del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), all’art. 5, comma 2, lettera e), individua «una percentuale pari al 5 per cento della massa dei proventi dell’attività libero-professionale, al netto delle quote a favore dell’azienda, quale fondo aziendale da destinare alla perequazione per quelle discipline mediche e veterinarie che abbiano una limitata possibilità di esercizio della libera professione intramuraria; analogo fondo è costituito per le restanti categorie».
L’art. 2, comma 1, lettera e), del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, in legge 8 novembre 2012, n. 189, invece, prevede che le aziende sanitarie, nell’ambito della definizione degli importi da corrispondere a cura dell’assistito per le prestazioni sanitarie, d’intesa con i dirigenti interessati e previo accordo in sede di contrattazione integrativa aziendale, debbano tener conto, oltre che della quota già prevista dalla vigente disciplina contrattuale, anche di un’ulteriore quota pari al 5 per certo del compenso del libero professionista, destinata a interventi volti alla riduzione delle liste di attesa.
La normativa statale, pertanto, vincolerebbe al fondo destinato alla riduzione dei tempi di attesa una ben definita quota e non quella destinata dalla contrattazione collettiva al fondo di perequazione.
La disposizione regionale impugnata, quindi, interverrebbe su una materia riservata alla contrattazione collettiva, violando così l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in riferimento all’«ordinamento civile», materia di competenza esclusiva dello Stato. Inoltre, prevedendo che per incrementare il citato fondo si proceda attraverso «intese», si porrebbe in contrasto con lo stesso art. 2 del d.l. n. 158 del 2012, come convertito, che richiede la previa contrattazione integrativa aziendale.
3.− In secondo luogo, oggetto d’impugnazione è l’art. 9 della legge reg. Puglia n. 13 del 2019, ove si dispone che i «direttori generali delle aziende sanitarie locali, delle aziende ospedaliere e degli IRCSS di diritto pubblico entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge rideterminano le dotazioni organiche in funzione dell’accrescimento dell’efficienza e della realizzazione della migliore utilizzazione delle risorse umane, tenendo anche conto della necessità di procedere all’abbattimento delle liste d’attesa».
3.1.− Sottolinea la difesa statale che la disposizione impugnata non richiama il rispetto dei limiti di spesa per il personale posti dall’art. l, comma 584, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)», nonché dall’art. 2, comma 71, della legge 23 dicembre 2009, n. 191, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2010)», a cui sono assoggettati gli enti del Servizio sanitario nazionale al fine di concorrere alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica.
Di conseguenza, la norma in questione sarebbe suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri, ponendosi in contrasto con l’art. 81 Cost.
4.− La Regione Puglia non si è costituita.
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso iscritto al n. 61 del registro ricorsi 2019, ha impugnato gli artt. 5, comma 4, e 9 della legge della Regione Puglia 28 marzo 2019, n. 13 (Misure per la riduzione delle liste d’attesa in sanità - Primi provvedimenti).
2.– Una prima questione concerne l’art. 5, comma 4, della legge reg. Puglia n. 13 del 2019, ove si prevede che «[n]el caso in cui il fondo previsto dall’articolo 2 della legge 8 novembre 2012, n. 189 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, recante disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute) non risulti sufficiente a garantire il rispetto dei tempi di attesa, il direttore generale attiva intese sindacali finalizzate a incrementare detto fondo, attingendo alle quote già accantonate per i fondi perequativi alimentati dalla libera professione».
2.1.– Secondo lo Stato la disposizione impugnata, intervenendo su aspetti disciplinati dalla contrattazione collettiva, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, in riferimento alla materia dell’«ordinamento civile».
2.2.– La questione non è fondata.
2.2.1.– La norma oggetto di censura interviene nell’ambito della disciplina dell’attività libero-professionale intramuraria del personale del Servizio sanitario nazionale, relativamente ad aspetti che sono stati regolati dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 27 marzo 2000 (Atto di indirizzo e coordinamento concernente l’attività libero-professionale intramuraria del personale della dirigenza sanitaria del Servizio sanitario nazionale), attuativo degli artt. 4, comma 11, 9 e 15-quinquies del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421). In particolare, con riferimento alle tariffe, l’art. 5, comma 2, lettera e), del citato d.P.C.m. stabilisce che una percentuale pari al 5 per cento della massa dei proventi dell’attività libero-professionale confluisca in un fondo aziendale da destinare alla perequazione per quelle discipline mediche e veterinarie che abbiano una limitata possibilità di esercizio della libera professione intramuraria. Tale fondo, quindi, ha l’evidente finalità di realizzare una perequazione tra il complesso degli interventi effettuati nelle singole aziende in regime di libera professione, compensando, almeno in parte, le categorie che, pur appartenenti alla stessa struttura, svolgano per ragioni oggettive un minor numero di prestazioni in tale regime.
Siffatta disposizione ha poi trovato attuazione nel contratto collettivo nazionale di lavoro dell’area relativa alla dirigenza medica e veterinaria, siglato l’8 giugno 2000, che, all’art. 57, comma 2, lettera i), stabilisce che una quota della tariffa – da concordare in azienda e comunque non inferiore al 5 per cento della massa di tutti i proventi dell’attività libero professionale, al netto delle quote a favore delle aziende – venga accantonata quale fondo aziendale da destinare alla perequazione per le discipline mediche e veterinarie, individuate in sede di contrattazione integrativa, che abbiano una limitata possibilità di esercizio della libera professione intramuraria.
Successivamente, l’art. 1, comma 4, lettera c), della legge 3 agosto 2007, n. 120 (Disposizioni in materia di attività libero-professionale intramuraria e altre norme in materia sanitaria), come modificato dall’art. 2, comma 1, lettera e), del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, in legge 8 novembre 2012, n. 189, è anch’esso intervenuto in riferimento alle tariffe per l’attività libero-professionale da corrispondere a cura dell’assistito. Nella specie, si è previsto che la determinazione di tali tariffe, da effettuarsi d’intesa con i dirigenti interessati e previo accordo in sede di contrattazione integrativa aziendale, tenga conto, oltre che della quota già individuata dal CCNL, di un’ulteriore quota, pari al 5 per cento del compenso del libero professionista, che deve essere trattenuta dal competente ente del servizio sanitario e vincolata all’adozione di appositi interventi volti alla riduzione delle liste d’attesa.
Possono individuarsi, pertanto, due fondi previsti dalla normativa statale di riferimento. Il primo, indicato anche nel contratto collettivo nazionale di comparto, che rinvia alla contrattazione aziendale per la sua regolazione, è alimentato da una quota pari ad almeno il 5 per cento delle tariffe per l’attività intramuraria e ha finalità di perequazione delle prestazioni rese in regime di libera professione. Il secondo, alimentato da un’ulteriore quota del 5 per cento dei proventi degli enti del servizio sanitario relativi all’intra-moenia, è finalizzato alla riduzione delle liste d’attesa e regolato in sede di contrattazione integrativa aziendale, d’intesa con i dirigenti competenti.
2.2.2.– In tale contesto normativo, l’art. 5, comma 4, della legge reg. Puglia n. 13 del 2019 è intervenuto recando misure volte a ridurre le liste d’attesa – nelle more dell’adozione del piano regionale per il governo delle liste di attesa, successivamente adottato con la deliberazione della Giunta della Regione Puglia 18 aprile 2019, n. 735 – rinviando a intese sindacali la possibilità d’incrementare il fondo di cui al d.l. n. 158 del 2012, come convertito, qualora le risorse ivi contenute non siano sufficienti, attingendo a quelle del fondo per la perequazione.
La disposizione regionale impugnata, dunque, disciplina misure per la riduzione delle liste d’attesa – ascrivibili alla competenza concorrente Stato-Regioni sulla «tutela della salute» – nonché relative all’attività libero professionale intramuraria, materia anch’essa riconducibile alla medesima competenza (sentenze n. 54 del 2015, n. 301 del 2013 e n. 371 del 2008).
Il legislatore pugliese, a tal proposito, indica un obiettivo ai direttori generali delle aziende sanitarie, senza intervenire sulle modalità di determinazione della quota tariffaria da accantonarsi nel fondo per la perequazione dell’intramoenia, la cui disciplina resta quella indicata dal d.P.C.m. 27 marzo 2000 e dall’art. 57 del CCNL nonché concordata in sede di contrattazione integrativa.
Le norme impugnate, in altri termini, si limitano a consentire la destinazione di parte delle somme del fondo per la perequazione alla riduzione dei tempi d’attesa, qualora le risorse previste dal fondo a ciò specificatamente deputato non risultino sufficienti. Il che, tuttavia, lascia inalterato ogni aspetto riservato alla contrattazione collettiva, nazionale e decentrata, nella disciplina della quota tariffaria per la costituzione del fondo perequativo. L’obiettivo per i direttori generali, inoltre, dovrà realizzarsi attraverso il ricorso a intese sindacali, con previsione che anche per tale aspetto è conforme alle norme statali, che lasciano comunque uno spazio per la contrattazione integrativa nella disciplina di entrambi i fondi.
Ne consegue che la disposizione regionale impugnata non comporta l’invasione di tale spazio, la qual cosa esclude la violazione della competenza statale in materia di ordinamento civile.
3.− Con la seconda questione oggetto d’impugnazione è l’art. 9 della legge reg. Puglia n. 13 del 2019, ove si dispone che i «direttori generali delle aziende sanitarie locali, delle aziende ospedaliere e degli IRCSS di diritto pubblico entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge rideterminano le dotazioni organiche in funzione dell’accrescimento dell’efficienza e della realizzazione della migliore utilizzazione delle risorse umane, tenendo anche conto della necessità di procedere all’abbattimento delle liste d’attesa».
3.1.– La difesa statale sottolinea che tale disposizione non richiama il rispetto dei limiti di spesa per il personale posti dall’art. l, comma 584, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)» – che modifica l’art. 17, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, in legge 15 luglio 2011, n. 111 – nonché dall’art. 2, comma 71, della legge 23 dicembre 2009, n. 191, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2010)». In tal modo, la norma regionale impugnata sarebbe suscettibile di determinare nuovi o maggiori oneri, ponendosi in contrasto con l’art. 81 Cost.
3.2.– Anche tale questione non è fondata.
3.2.1.– La disposizione regionale non stabilisce interventi idonei a recare nuovi oneri per il bilancio regionale, quali, ad esempio, nuove assunzioni o procedure di stabilizzazione del personale al di fuori dei casi consentiti dalla citata normativa statale. E solo in quanto implicante misure del genere la revisione della dotazione organica richiederebbe l’indicazione dei mezzi per farvi fronte, pena la violazione dell’art. 81 Cost. (si veda, sul punto, la sentenza n. 68 del 2011).
Nel caso in esame, non è però così.
Intanto, l’effetto precettivo della norma regionale impugnata consiste nell’attribuzione ai direttori generali del compito di adottare future misure sul personale: la norma ha dunque un contenuto meramente programmatico (si vedano le sentenze n. 245 del 2017, n. 252 del 2012, n. 94 del 2011 e n. 308 del 2009). Inoltre, la revisione della dotazione organica è espressamente finalizzata a una maggiore efficienza e una migliore utilizzazione delle risorse umane, finalità che fanno riferimento a un diverso utilizzo del personale esistente piuttosto che all’assunzione di nuovo personale. Ciò, dunque, potrà realizzarsi con modalità e attraverso le procedure consentite nel rispetto dei sopra citati limiti di spesa (non richiamati ma neppure contraddetti dalla disposizione impugnata) e a invarianza di oneri, anche attivando gli strumenti di mobilità inter-aziendale e inter-regionale.
Ne deriva che il mancato richiamo da parte del legislatore pugliese dei tetti alla spesa sanitaria fissati dalla normativa statale non manifesta la volontà di superarli con interventi recanti nuovi oneri per il bilancio regionale, con conseguente infondatezza delle doglianze promosse in riferimento all’art. 81 Cost.
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 4, della legge della Regione Puglia 28 marzo 2019, n. 13 (Misure per la riduzione delle liste d’attesa in sanità - Primi provvedimenti), promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 della legge reg. Puglia n. 13 del 2019, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 81 Cost., con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Giuliano AMATO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 28 luglio 2020.