Sentenza n. 46 del 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da:

Presidente: Augusto Antonio BARBERA

Giudici: Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 646, primo comma, del codice penale, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera u), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), promosso dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, nel procedimento penale a carico di F. F., con ordinanza del 6 marzo 2023, iscritta al n. 55 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 2023, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 20 febbraio 2024.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 2024 il Giudice relatore Francesco Viganò;

deliberato nella camera di consiglio del 21 febbraio 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 6 marzo 2023, il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 646, primo comma, del codice penale, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera u), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), censurandolo nella parte in cui punisce la condotta di appropriazione indebita con la reclusione da due a cinque anni, oltre alla multa, anziché con la reclusione da sei mesi a cinque anni, oltre alla multa.

1.1.– Il rimettente giudica della responsabilità penale di F. F., mediatore immobiliare, imputato del delitto di cui all’art. 646 cod. pen., aggravato dall’abuso di prestazione d’opera (art. 61, numero 11, cod. pen.), per essersi appropriato, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, di somme di denaro consegnategli da un cliente in relazione alla proposta di locazione di un immobile.

Il giudice a quo riferisce in particolare che l’imputato aveva ricevuto dal cliente 700 euro, pari a una mensilità del contratto di locazione da stipulare, a titolo di deposito cauzionale, e ulteriori 700 euro quale compenso per l’attività di mediazione svolta. Il contratto di locazione non era poi stato stipulato. Tuttavia, l’imputato aveva restituito al proprio cliente la somma di 500 euro in contanti, oltre a una cambiale, rivelatasi poi falsa, per il pagamento della residua somma di 900 euro. Dopo la presentazione di querela da parte della persona offesa, l’imputato gli aveva corrisposto l’ulteriore somma di 200 euro.

Il rimettente ritiene configurabile il delitto contestato all’imputato, quantomeno in riferimento al denaro ricevuto a titolo di deposito cauzionale, alla luce del vincolo di destinazione impresso su tale somma, destinata al locatore dell’immobile (sono citate Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenze 8-23 aprile 2021, n. 15566; 26 novembre-30 dicembre 2020, n. 37820; 16 novembre-7 dicembre 2017, n. 54945) e della sua restituzione solo parziale, peraltro non accompagnata da imputazione al deposito cauzionale. Non varrebbe invece a escludere il delitto contestato la dazione di ulteriori 200 euro dopo la sua consumazione.

Il giudice a quo esclude, d’altra parte, che il fatto possa considerarsi di particolare tenuità ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., rilevando che l’appropriazione indebita della cifra di 200 euro – ossia l’importo del deposito cauzionale, detratte le restituzioni effettuate – sarebbe avvenuta ai danni di un cittadino straniero, con tre figli, di cui uno affetto da autismo; che la condotta sarebbe stata posta in essere nell’esercizio di un’attività professionale e con riferimento a somme di denaro «corrisposte in relazione alla locazione di un immobile da adibire ad abitazione e dunque per soddisfare un bisogno fondamentale»; e che la restituzione di ulteriori 200 euro dopo la querela da parte della persona offesa sarebbe avvenuta dopo «plurime condotte dilatorie», tra cui la consegna di un titolo di credito non valido.

Nemmeno sarebbe integrata la causa estintiva del reato consistente nelle condotte riparatorie (art. 162-ter cod. pen.), atteso che l’imputato non avrebbe corrisposto gli interessi sulla somma restituita, né avrebbe riparato il danno non patrimoniale patito dalla persona offesa.

Si renderebbe perciò necessario applicare all’imputato l’art. 646, primo comma, cod. pen., che punisce l’appropriazione indebita con la reclusione da due a cinque anni, oltre che con la multa. La pena da irrogare dovrebbe attestarsi sul minimo edittale, in ragione della contenuta gravità del fatto (vista l’entità delle somme oggetto di appropriazione) e del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen., prevalenti sull’aggravante di cui all’art. 61, numero 11), cod. pen. (tenuto conto della riparazione, pur non integrale, del danno).

Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale della cornice edittale stabilita dall’art. 646, primo comma, cod. pen., con particolare riguardo alla pena minima comminata.

1.2.– Il giudice a quo rammenta anzitutto che tale cornice edittale è stata innalzata dall’art. 1, comma 1, lettera u), della legge n. 3 del 2019, che ha sostituito la pena della reclusione fino a tre anni e della multa fino a 1.032 euro, in precedenza prevista, con quella della reclusione da due a cinque anni e della multa da 1.000 a 3.000 euro. La modifica legislativa si sarebbe collocata nel contesto di un più ampio intervento di contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione, nel quale si sono altresì estese (ai sensi del novellato art. 649-bis cod. pen.) le ipotesi di procedibilità d’ufficio delle condotte di cui all’art. 646 cod. pen.

La ratio dell’intervento sarebbe dunque da ricondurre alla «volontà del Legislatore di colpire più severamente le attività prodromiche ai fenomeni corruttivi», atteso che – come emergerebbe dal dibattito parlamentare relativo al mutamento del regime di procedibilità di talune ipotesi di appropriazione indebita – «ad avviso del Legislatore tale reato sarebbe talora realizzato in funzione della successiva attività corruttiva, con la sostanziale creazione di provviste illecite cui poi attingere per pagare il prezzo della corruzione».

L’innalzamento del minimo edittale della pena detentiva di ben quarantotto volte contrasterebbe, tuttavia, con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., «sia per ciò che attiene al generale principio di uguaglianza, sia sotto il profilo della proporzionalità intrinseca del trattamento sanzionatorio», poiché tale minimo edittale comporterebbe «l’inflizione di una pena irragionevole in relazione alla dosimetria sanzionatoria impiegata dal legislatore in altre fattispecie offensive del bene giuridico patrimoniale» e impedirebbe al giudice di «applicare una pena adeguata a condotte delittuose che, per quanto conformi al tipo considerato, risultino essere caratterizzate da una lesività modesta».

1.2.1.– Osserva preliminarmente il giudice a quo che l’art. 646 cod. pen., per la sua formulazione «lata e generica», è suscettibile di abbracciare sia episodi di appropriazione indebita connessi a fenomeni corruttivi, sia condotte «ben più banali e di minore portata offensiva», quali appropriazioni commesse da conduttori a danno dei proprietari di beni concessi in locazione (sono citate Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenze 9 aprile-27 maggio 2019, n. 23176; 27 giugno-21 luglio 2017, n. 36113; 6 dicembre 2012-8 marzo 2013, n. 10991; 22 dicembre 2011-9 febbraio 2012, n. 4958; 5 luglio-13 ottobre 2011, n. 36897), o in leasing (sono richiamate Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenze 31 maggio-17 giugno 2016, n. 25288; 5 dicembre 2013-6 febbraio 2014, n. 5809; 7 gennaio-1° aprile 2011, n. 13347; 20 settembre-18 ottobre 2007, n. 38604), o da professionisti o lavoratori su somme o beni loro consegnati a vario titolo (sono citate Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 12 maggio-14 giugno 2022, n. 23129; sezione seconda penale, sentenze 19 settembre-4 ottobre 2018, n. 44244; 3 maggio-6 giugno 2016, n. 23347; 31 maggio-17 giugno 2016, n. 25281; 24 settembre-6 novembre 2015, n. 44650; 9 ottobre 2013-4 febbraio 2014, n. 5499). In relazione a tali condotte – assai numerose nella prassi – il notevole incremento del minimo edittale della pena detentiva operato dal legislatore del 2019 risulterebbe manifestamente irragionevole.

1.2.2.– Ritiene inoltre il rimettente che, in base alla giurisprudenza costituzionale sulla ragionevolezza del trattamento sanzionatorio, a sua volta fondata sul principio di eguaglianza (sono citate le sentenze di questa Corte n. 218 del 1974, n. 176 del 1976, n. 409 del 1989, e n. 244 del 2022), la pena minima di due anni di reclusione, prevista dall’attuale formulazione dell’art. 646, primo comma, cod. pen., sia «irragionevolmente sproporzionat[a] rispetto al “limite inferiore” della pena previsto per fattispecie di aggressione all’integrità patrimoniale equiparabili al reato di appropriazione indebita e di gravità simile (se non superiore)», come il furto e la truffa.

Il furto, per il quale è previsto il minimo edittale di sei mesi di reclusione, si caratterizzerebbe infatti per un maggior disvalore rispetto all’appropriazione indebita. Esso presuppone – osserva il giudice a quo – la non disponibilità del bene in capo all’autore del reato e la sua sottrazione alla vittima, con conseguente violazione della «sfera della disponibilità materiale» di questa; e ciò da parte di un soggetto che normalmente non è noto alla persona offesa. Al contrario, l’appropriazione indebita presupporrebbe la pregressa detenzione della res da parte dell’autore, sulla base di un rapporto fiduciario con la vittima, e denoterebbe quindi «una minore capacità a delinquere in capo al soggetto agente, che si “limita” a convertire il proprio possesso in proprietà, senza [...] intromettersi unilateralmente nella sfera della disponibilità materiale della persona offesa». Più agevole sarebbe, inoltre, l’individuazione dell’autore del reato, proprio in quanto persona già nota alla vittima.

D’altra parte, i pur significativi inasprimenti del trattamento sanzionatorio del furto previsti da numerose circostanze a effetto speciale potrebbero essere neutralizzati nel bilanciamento con le eventuali circostanze attenuanti, anche generiche, secondo il discrezionale apprezzamento del giudice. L’innalzamento della pena minima per la fattispecie base di appropriazione indebita imporrebbe invece al giudice, anche per i fatti meno gravi, di operare le diminuzioni connesse alla presenza di circostanze attenuanti muovendo sempre da tale elevata pena base.

Quanto alla truffa, parimenti punita nell’ipotesi base con la reclusione minima di sei mesi, si tratterebbe di un reato di danno il cui autore – con il quale sovente la vittima non ha alcun rapporto di pregressa conoscenza – «non si limita ad approfittare di una situazione preesistente, determinatasi lecitamente; al contrario, attraverso i propri artifici o raggiri fa sorgere nella vittima la fiducia necessaria ad indurla a compiere l’atto di disposizione patrimoniale». Tale fattispecie sarebbe dunque caratterizzata da un disvalore maggiore rispetto a quello dell’appropriazione indebita, in cui «il soggetto agente approfitta della preesistente disponibilità del bene, derivante dal precedente atto dispositivo della vittima».

Persino la truffa aggravata dalla minorata difesa della persona offesa, prevista dall’art. 640, secondo comma, numero 2-bis), cod. pen., è punita – prosegue il giudice a quo – con la pena minima di un anno di reclusione, e dunque con una pena inferiore a quella prevista per l’ipotesi base di appropriazione indebita.

La differenza sanzionatoria esistente tra appropriazione indebita e truffa produrrebbe inoltre l’assurda conseguenza per cui chi abbia, come l’imputato nel giudizio quo, promosso la conclusione di un contratto di locazione di un immobile effettivamente esistente, salvo poi indebitamente trattenere le somme ricevute dal futuro conduttore, sarebbe punito più severamente di chi avesse «pubblicizzato un annuncio di locazione per un immobile non effettivamente esistente o comunque non nella sua disponibilità, facendo credere di poterlo concedere in locazione e determinando con tali artifizi e raggiri la vittima a compiere la dazione di denaro», realizzando così il delitto di truffa.

1.2.3.– La disciplina censurata violerebbe altresì gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., sotto il profilo della necessaria proporzionalità della pena rispetto alla gravità del fatto di reato (è citata la sentenza n. 343 del 1993 di questa Corte).

Ad avviso del rimettente, pur potendosi considerare ragionevole l’inasprimento del massimo edittale previsto dall’art. 646, primo comma, cod. pen., finalizzato a sanzionare condotte dalla significativa carica offensiva, come ad esempio «appropriazioni di cifre ingenti commesse dagli amministratori di società di capitali», non altrettanto potrebbe dirsi per l’introduzione di una pena minima di due anni di reclusione. Quest’ultima sarebbe irragionevolmente sproporzionata rispetto alle ipotesi – statisticamente assai comuni – in cui le modalità concrete della condotta, il rapporto tra autore del reato e vittima, la consistenza dell’offesa patrimoniale, rendano il disvalore del fatto decisamente contenuto.

Il caso di specie, in cui la condotta illecita è stata compiuta da un soggetto noto alla vittima, che ha potuto recuperare il denaro oggetto di appropriazione, e ha cagionato una lesione patrimoniale «non irrisoria», ma «comunque contenuta», mostrerebbe emblematicamente la «manifesta […] incapacità della attuale cornice edittale dell’art. 646 c.p. di essere adeguata rispetto alle plurime ipotesi sussumibili in detta fattispecie e prevedere per ciascuna di esse una pena equa e capace di assolvere al necessario compito rieducativo, senza risultare eccessivamente afflittiva».

1.3.– Sulla scorta di tali considerazioni, il giudice a quo invoca un intervento di questa Corte che ridetermini il minimo edittale della pena detentiva prevista per il delitto di appropriazione indebita in sei mesi di reclusione, sulla falsariga di quanto previsto per le fattispecie di furto e truffa: fattispecie ritenute equiparabili, quando non superiori, quanto a disvalore delle condotte, e dunque idonee a costituire «precisi punti di riferimento già rinvenibili nel sistema legislativo» (è citata la sentenza n. 222 del 2018 di questa Corte).

Un simile intervento, ad avviso del rimettente, «sarebbe rispettoso della scelta discrezionale del Legislatore di inasprire il trattamento sanzionatorio precedentemente previsto per l’appropriazione indebita, ma altresì capace di […] garantire una cornice edittale (reclusione da sei mesi a cinque anni) che consenta al giudice di poter adeguare la pena al caso concreto, nel rispetto della necessaria proporzionalità della stessa».

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate.

2.1.– L’inammissibilità discenderebbe dalla mancata considerazione, da parte del rimettente, della possibilità di applicare, in ragione degli elementi di fatto che connotano il caso di specie, «istituti in grado di alleggerire la risposta sanzionatoria», quali la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis) o la causa di estinzione del reato di cui all’art. 162-ter cod. pen.

2.2.– Le questioni sarebbero, in ogni caso, non fondate.

I delitti di furto e di truffa non costituirebbero idonei tertia comparationis, attese le peculiarità che connotano il reato di appropriazione indebita, fattispecie «spesso collegata a fenomeni corruttivi ed in genere reati contro la pubblica amministrazione» e caratterizzata dalla «peculiare posizione giuridica del soggetto attivo» e dalla sussistenza di «un rapporto privilegiato con la persona offesa».

La pena edittale prevista dall’art. 646, primo comma, cod. pen, potrebbe peraltro essere adeguata alla gravità del caso concreto attraverso gli istituti contemplati dagli artt. 131-bis e 162-ter cod. pen. nonché attraverso il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche come prevalenti.

Il legislatore avrebbe compiuto una precisa valutazione circa la gravità del reato di cui all’art. 646 cod. pen., escludendone l’equiparazione, quanto al trattamento sanzionatorio, ad altre fattispecie ad esso accomunate solo da «similitudini relative al bene giuridico protetto o all’elemento psicologico richiesto».

Tale soluzione normativa presenterebbe «inevitabilmente margini di opinabilità», ma ciò non sarebbe sufficiente a fondare un giudizio di manifesta irragionevolezza della disposizione censurata, che potrebbe formularsi solo in presenza di un «uso distorto della discrezionalità che raggiunga una soglia di evidenza tale da atteggiarsi alla stregua di una figura per così dire sintomatica di “eccesso di potere” e, dunque, di sviamento rispetto alle attribuzioni che l’ordinamento assegna alla funzione legislativa» (sono citate l’ordinanza n. 297 del 1998 e la sentenza n. 313 del 1995 di questa Corte).

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 646, primo comma, cod. pen., nella parte in cui punisce la condotta di appropriazione indebita con la reclusione da due a cinque anni, oltre alla multa, anziché con la reclusione da sei mesi a cinque anni, oltre alla multa.

In sostanza, il giudice a quo censura la scelta – compiuta dalla legge n. 3 del 2019 – di innalzare la pena minima dalla previgente soglia di quindici giorni a quella di due anni di reclusione, ritenendo che essa conduca all’irrogazione di pene sproporzionate, sia rispetto a quelle applicabili per i contigui delitti di furto e truffa, sia – intrinsecamente – in rapporto alla concreta gravità di una vasta gamma di condotte sussumibili entro la fattispecie criminosa, ma di contenuto disvalore offensivo rispetto al bene giuridico protetto.

2.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce l’inammissibilità delle questioni per non avere il rimettente adeguatamente considerato la possibilità di applicare, nel caso concreto, la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. e la causa di estinzione del reato per condotte riparatorie di cui all’art. 162-ter cod. pen.

L’eccezione non è fondata.

Il giudice rimettente ha plausibilmente motivato (supra, punto 1.1. del Ritenuto in fatto) sulla ritenuta inapplicabilità nel caso concreto di entrambi gli istituti. Tanto basta, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ai fini del vaglio della rilevanza delle questioni sollevate (ex multis, sentenze n. 192 e n. 145 del 2023).

3.– Le questioni sono fondate.

3.1.– Da sempre questa Corte ha riconosciuto l’ampia discrezionalità del legislatore nella definizione della propria politica criminale, e in particolare nella determinazione delle pene applicabili a chi abbia commesso reati, così come nella stessa selezione delle condotte costitutive di reato (ex multis, sentenze n. 207 del 2023 e n. 117 del 2021).

Discrezionalità, tuttavia, non equivale ad arbitrio.

Qualsiasi legge dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona deve potersi razionalmente giustificare in relazione a una o più finalità legittime perseguite dal legislatore; e i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare manifestamente sproporzionati rispetto a quelle pur legittime finalità.

Il controllo sul rispetto di tali limiti spetta a questa Corte, che è tenuta a esercitarlo con tanta maggiore attenzione, quanto più la legge incida sui diritti fondamentali della persona.

Il che paradigmaticamente accade rispetto alle leggi penali, che sono sempre suscettibili di incidere, oltre che su vari altri diritti fondamentali, sulla libertà personale dei loro destinatari.

3.2.– Dalla data di entrata in vigore del codice penale del 1930 sino al 2019 il delitto di appropriazione indebita di cui all’art. 646 cod. pen. è stato punito, nella sua forma base, con la reclusione «fino a tre anni», oltre alla multa. Per effetto della regola generale di cui all’art. 23 cod. pen., la pena detentiva minima prevista per il delitto era, dunque, quella di quindici giorni di reclusione.

L’art. 1, comma 1, lettera u), della legge n. 3 del 2019 ha reso sensibilmente più severa tale cornice edittale, che spazia ora da un minimo di due anni di reclusione sino a un massimo di cinque, accanto alla multa da 1.000 a 3.000 euro.

Le ragioni di tale brusco innalzamento del trattamento sanzionatorio del delitto di appropriazione indebita, dovuto a un emendamento (n. 1.120, Di Sarno e altri) introdotto nella seduta del 15 novembre 2018 delle Commissioni riunite I (Affari costituzionali) e II (Giustizia) della Camera, non sono state in alcun modo illustrate nel corso del dibattito parlamentare che ha condotto all’approvazione complessiva della legge n. 3 del 2019, ufficialmente rubricata «Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici».

In mancanza di indicazioni desumibili dai lavori preparatori, occorre dunque comprendere se l’inasprimento della cornice edittale per il delitto di appropriazione indebita, e in particolare l’innalzamento del minimo della pena detentiva in misura pari – come osserva il rimettente – a quarantotto volte il minimo originario, presentino una connessione razionale con gli obiettivi di fondo della legge n. 3 del 2019; o, quanto meno, appaiano razionalmente collegabili a una qualche discernibile finalità, anche distinta da quelle che ispirano le restanti disposizioni della legge.

A questo riguardo, potrebbe in ipotesi valorizzarsi la motivazione contenuta nella relazione illustrativa all’originario disegno di legge A.C. 1189, dal quale è scaturita poi la legge n. 3 del 2019, a sostegno della scelta di intervenire sull’art. 649-bis cod. pen. per ampliare le ipotesi di procedibilità d’ufficio del delitto di appropriazione indebita (e in particolare per estenderla a quelle aggravate ai sensi dell’art. 646, secondo comma o dell’art. 61, primo comma, numero 11, cod. pen., ove ricorressero non solo aggravanti a effetto speciale, ma anche l’incapacità della persona offesa per età o infermità, o ancora un danno di rilevante gravità in capo a quest’ultima).

«[S]ebbene non si tratti di un delitto contro la pubblica amministrazione» – si legge nella relazione – «il reato di appropriazione indebita è strumento che consente comunemente (come il reato di falso in bilancio o i reati tributari) di formare provviste illecite utilizzabili per il pagamento del prezzo della corruzione. Sembra pertanto opportuno, nella prospettiva di un contrasto efficace non solo dei fenomeni corruttivi, ma anche delle attività prodromiche alla corruzione, mantenere la procedibilità d’ufficio per le ipotesi di maggiore gravità di appropriazione indebita».

Tuttavia, è evidente che una simile motivazione – impiegata per illustrare la scelta di prevedere la procedibilità d’ufficio per le appropriazioni indebite ritenute «di maggiore gravità» – non è in grado di fornire alcuna giustificazione razionale della scelta di innalzare di quarantotto volte la pena minima della fattispecie base di appropriazione indebita. Pena minima che è destinata ad applicarsi, proprio al contrario, ai fatti meno gravi tra quelli compresi nel raggio dell’art. 646 cod. pen., i quali – nella gran maggioranza dei casi – nulla hanno a che vedere con condotte prodromiche alla corruzione, e in particolare con la costituzione di “fondi neri” dai quali poter attingere per tale scopo.

Se, dunque, può comprendersi la scelta del legislatore del 2019 di innalzare la pena massima dell’appropriazione indebita, in relazione alla necessità di colpire severamente condotte appropriative che l’esperienza ha mostrato essere potenzialmente prodromiche a pratiche corruttive, resta del tutto oscura la ragione che lo ha indotto anche ad innalzare in maniera così aspra il minimo edittale. E ciò a fronte del dato di comune esperienza che il delitto di appropriazione indebita comprende condotte di disvalore assai differenziato: produttive ora di danni assai rilevanti alle persone offese, ora (come nel caso oggetto del giudizio a quo) di pregiudizi patrimoniali in definitiva modesti, anche se non necessariamente di particolare tenuità ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.

L’assenza di qualsiasi plausibile giustificazione – ricavabile dai lavori preparatori, o comunque ricostruibile dall’interprete sulla base delle rationes ascrivibili alla riforma – di un così rilevante inasprimento della pena per tutti i fatti di appropriazione indebita, e conseguentemente di una compressione assai più gravosa della libertà personale per i destinatari del precetto penale rispetto alla situazione preesistente, rende di per sé costituzionalmente illegittima la disciplina censurata, al duplice metro degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. evocati dal rimettente.

3.3.– Inoltre, per effetto dell’innalzamento del limite edittale minimo il trattamento sanzionatorio dell’appropriazione indebita finisce oggi per essere assai più gravoso di quello riservato al furto e alla truffa, assunti entrambi quali tertia comparationis dal rimettente.

Certo, come osserva l’Avvocatura generale dello Stato, appropriazione indebita, furto e truffa sono reati accomunati bensì dalla loro attitudine offensiva del patrimonio, ma restano caratterizzati da modalità esecutive differenti, che non necessariamente esigono una risposta sanzionatoria identica da parte del legislatore: il quale resta libero, ad esempio, di connotare in termini di minore gravità la circostanza che nell’appropriazione indebita il recupero della cosa o del denaro sia normalmente agevolato dal rapporto di conoscenza che lega autore e vittima, ovvero – all’opposto – di assegnare uno speciale disvalore a una condotta caratterizzata dalla violazione della fiducia che chi consegna ad altri una propria cosa o una somma di denaro normalmente ripone nella correttezza del contraente nell’adempimento delle sue obbligazioni.

E tuttavia, non può non rilevarsi la macroscopica disparità di trattamento sanzionatorio, generata dall’attuale disciplina, tra l’appropriazione indebita di una somma di 200 euro, come quella oggetto del giudizio a quo, e un furto o una truffa che producano esattamente il medesimo danno patrimoniale alla persona offesa: sei mesi di reclusione in queste ultime ipotesi; due anni, e dunque quattro volte tanto, nel caso di appropriazione indebita.

Tale irragionevole disparità di trattamento è particolarmente evidente ove si consideri la difficoltà, su cui si sofferma da sempre la dottrina penalistica, di tracciare la linea discretiva tra furto e appropriazione indebita da un lato, e truffa e appropriazione indebita dall’altro; ed è ulteriormente dimostrata dalla contiguità criminologica tra questi due ultimi reati, ben evidenziata dall’ordinanza di rimessione proprio in relazione al caso dell’agente immobiliare che si appropri della somma versatagli dal contraente a titolo di cauzione. A parità di danno patrimoniale arrecato al proprio cliente, infatti, l’agente immobiliare commette truffa qualora millanti un mandato inesistente con il proprietario dell’immobile offerto in vendita o in locazione, restando così soggetto alla pena minima di sei mesi di reclusione; e si rende invece responsabile di appropriazione indebita, soggiacendo così (illogicamente) a una pena minima quadruplicata, quando il mandato sia stato effettivamente conferito, ma il contratto non si concluda per la successiva indisponibilità del proprietario a vendere o a locare l’immobile.

Simili sperequazioni sanzionatorie pongono seriamente in discussione il canone della coerenza tra le norme dell’ordinamento; canone «che nel campo delle norme del diritto è l’espressione del principio di eguaglianza di trattamento tra eguali posizioni sancito dall’art. 3» Cost. (sentenza n. 204 del 1982, punto 11.1. del Considerato in diritto). E ciò proprio in un settore dell’ordinamento così delicato, per lo speciale rilievo costituzionale degli interessi in gioco, come il sistema penale.

3.4.– La manifesta sproporzione delle pene che la disposizione censurata può produrre nel caso concreto non è, infine, resa sostanzialmente innocua per i destinatari – come invece ritiene l’Avvocatura generale dello Stato – dalla possibilità di applicare le diminuzioni di pena conseguenti ad eventuali attenuanti, anche generiche, o ancora di ritenere il fatto non punibile ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. o il reato estinto ai sensi dell’art. 162-ter cod. pen.; né, tanto meno, dalla possibilità di ottenere una ulteriore diminuzione connessa alla scelta del rito, ovvero – ancora – di accedere alla sospensione condizionale della pena o comunque a pene sostitutive di carattere non detentivo.

Quanto alle circostanze attenuanti, la loro effettiva sussistenza nel caso concreto non può assumersi in via generale, neppure per ciò che concerne le attenuanti generiche. Come ha, anzi, rammentato recentemente questa Corte, queste ultime «non svolgono nel sistema una funzione genericamente indulgenziale, quasi si trattasse di un beneficio sistematicamente concesso a qualsiasi condannato. […] [A]lle attenuanti generiche compete piuttosto l’essenziale funzione di attribuire rilevanza, ai fini della commisurazione della sanzione, a specifiche e puntuali caratteristiche del singolo fatto di reato o del suo autore […] che connotano il fatto di un minor disvalore, rispetto a quanto la conformità della condotta alla figura astratta del reato lasci a prima vista supporre» (sentenza n. 197 del 2023, punto 5.3.2. del Considerato in diritto). Specifiche e puntuali caratteristiche che il giudice dovrebbe poter rilevare nel singolo caso concreto, dandone conto nella motivazione; senza che, invece, il giudice sia di fatto costretto a riconoscere le attenuanti generiche al solo scopo di evitare l’irrogazione di una pena sproporzionata, altrimenti imposta dal minimo edittale, in relazione all’esiguo disvalore del fatto concreto (sentenza n. 63 del 2022, punto 4.6. del Considerato in diritto).

Per ragioni analoghe non può essere considerato sufficiente a ovviare alla manifesta sproporzione del minimo edittale la possibilità per il giudice di riconoscere la sussistenza della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. ovvero la causa di estinzione del reato di cui all’art. 162-ter cod. pen. Entrambi gli istituti sono infatti condizionati al ricorrere di stringenti requisiti normativi, che non è detto sussistano nel caso concreto; non riuscendo così a impedire che fatti di appropriazione indebita di tenue disvalore – ma per qualsiasi ragione non coperti dall’art. 131-bis cod. pen. – siano assoggettati alla gravosa pena minima prevista dalla disposizione censurata, in violazione dei principi costituzionali all’esame.

Quanto alle diminuzioni connesse al rito, occorre qui ricordare che la scelta di un rito alternativo costituisce un diritto dell’imputato, il quale ha la possibilità di rinunziare a talune garanzie del contraddittorio in cambio di uno sconto significativo della pena che il giudice potrà poi irrogare nei suoi confronti. Ma di un mero diritto, per l’appunto, si tratta: l’imputato non ha, invece, alcun onere di optare per un rito semplificato – rinunziando così al complesso delle garanzie riconosciutegli, in particolare, dall’art. 111 Cost. – al solo fine di ottenere l’applicazione di una pena non sproporzionata, o meno sproporzionata, rispetto alla gravità del fatto di cui è accusato.

Infine, la circostanza che il minimo edittale stabilito dal legislatore sia ancora compatibile con la sospensione condizionale della pena – nonché, oggi, con l’applicazione di pene sostitutive delle pene detentive brevi – non esclude di per sé che essa possa essere considerata manifestamente sproporzionata alla gravità del reato, quanto meno con riferimento ai fatti rientranti nella fattispecie astratta, ma contrassegnati in concreto da minor disvalore. Tant’è vero che, già trent’anni or sono, la sentenza n. 341 del 1994 ebbe a dichiarare l’illegittimità costituzionale della pena minima di sei mesi di reclusione allora prevista per il delitto di oltraggio, nonostante la pacifica possibilità di sospendere condizionalmente quella pena.

3.5.– Resta assorbito ogni ulteriore profilo di censura.

4.– Così accertata la violazione dei parametri costituzionali evocati dal rimettente, si tratta ora, per questa Corte, di stabilire un rimedio appropriato a tale violazione.

4.1.– Il giudice a quo aspira a una pronuncia che sostituisca l’attuale pena minima di due anni di reclusione con quella di sei mesi, equiparandola così a quella oggi prevista per le fattispecie base di furto e di truffa.

Il rimedio suggerito dal rimettente si muove, dichiaratamente, nell’orizzonte delle soluzioni “costituzionalmente adeguate” (sentenza n. 40 del 2019, punto 4.2. del Considerato in diritto), ossia tratte da discipline «già esistenti» (sentenza n. 236 del 2016, punto 4.4. del Considerato in diritto), che consentono a questa Corte «di porre rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi di volta in volta tutelati dalla norma incriminatrice incisa dalla propria pronuncia», restando poi ferma «la possibilità per il legislatore di intervenire in qualsiasi momento a individuare, nell’ambito della propria discrezionalità, altra – e in ipotesi più congrua – soluzione sanzionatoria, purché rispettosa dei principi costituzionali» (sentenza n. 222 del 2018, punto 8.1. del Considerato in dirittoex multis, nello stesso senso, sentenze n. 95 del 2022, punto 5 del Considerato in diritto, e n. 252 del 2020, punto 4.6. del Considerato in diritto).

4.2.– Come più volte precisato dalla più recente giurisprudenza costituzionale, peraltro, «il petitum dell’ordinanza di rimessione ha la funzione di chiarire il contenuto e il verso delle censure mosse dal giudice rimettente», ma non vincola questa Corte, che, «ove ritenga fondate le questioni, rimane libera di individuare la pronuncia più idonea alla reductio ad legitimitatem della disposizione censurata» (sentenza n. 221 del 2023, punto 4 del Considerato in diritto; in senso conforme, più di recente, sentenza n. 12 del 2024, punto 8 del Considerato in diritto).

E al riguardo, si deve ribadire che «[l]’esigenza di far ricorso a una pronuncia di tipo manipolativo, che sostituisca la sanzione censurata con altra conforme a Costituzione, si pone imprescindibilmente solo allorché la lacuna di punibilità che conseguirebbe a una pronuncia ablativa, non colmabile tramite l’espansione di previsioni sanzionatorie coesistenti, si riveli foriera di “insostenibili vuoti di tutela” per gli interessi protetti dalla norma incisa (sentenza n. 222 del 2018): come, ad esempio, quando ne derivasse una menomata protezione di diritti fondamentali dell’individuo o di beni di particolare rilievo per l’intera collettività rispetto a gravi forme di aggressione, con eventuale conseguente violazione di obblighi costituzionali o sovranazionali» (sentenza n. 185 del 2021, punto 3 del Considerato in diritto). Laddove invece una simile situazione non ricorra, come nel caso deciso dalla pronuncia appena citata, l’intervento rimediale di questa Corte ben può limitarsi all’ablazione, totale o parziale, della disposizione censurata.

4.3.– Rispetto alla disposizione ora sottoposta all’esame, la sua reductio ad legitimitatem esige la sola dichiarazione di illegittimità costituzionale della pena minima di due anni di reclusione, suscettibile di produrre in singoli casi concreti pene manifestamente sproporzionate per eccesso. L’ablazione del minimo – tecnicamente attuabile con la sostituzione dell’inciso «da due a cinque anni» con l’inciso «fino a cinque anni» – determina infatti la riespansione della regola generale di cui all’art. 23 cod. pen., che stabilisce in quindici giorni la durata minima della reclusione ogniqualvolta la legge non disponga diversamente.

Una tale soluzione – che corrisponde, del resto, a quella rimasta in vigore per il delitto di appropriazione indebita dal 1931 sino alla riforma del 2019 – non crea alcun insostenibile vuoto di tutela per il patrimonio, che continuerà ad essere efficacemente tutelato grazie alla pena prevista dall’art. 646 cod. pen., suscettibile di essere applicata dal giudice – nell’ipotesi delittuosa base – sino a un massimo di cinque anni di reclusione.

Al contempo, questa soluzione consentirà al legislatore di valutare se intervenire, nell’esercizio della sua discrezionalità, equiparando la pena minima per l’appropriazione indebita alla medesima soglia oggi stabilita per il furto e la truffa, ovvero stabilendone una diversa durata, tenendo conto del suo peculiare disvalore, e comunque entro i limiti dettati dal principio di proporzionalità tra gravità del reato e severità della pena.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 646, primo comma, del codice penale, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera u), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), nella parte in cui prevede la pena della reclusione «da due a cinque anni» anziché «fino a cinque anni».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 22 marzo 2024