SENTENZA N. 160
ANNO 2019
Commento
alla decisione di
Enrico Lubrano
per g.c. di Federalismi.it
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario
Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de
PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio
PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale
dell’art.
2, commi 1, lettera b), e 2, del decreto-legge 19 agosto 2003, n. 220
(Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva), convertito, con
modificazioni, nella legge 17 ottobre 2003, n. 280, promosso dal Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio, nel procedimento vertente tra Luigi
Dimitri e il Comitato olimpico nazionale italiano (CONI) e altri, con ordinanza
dell’11 ottobre 2017, iscritta al n. 197 del registro ordinanze 2017 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie
speciale, dell’anno 2018.
Visti gli atti di costituzione di Luigi
Dimitri, della Federazione italiana giuoco calcio (FIGC), del CONI nonché
l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.
udito nell’udienza pubblica del 17 aprile 2019
il Giudice relatore Daria de Pretis;
uditi gli avvocati Amina L’Abbate per Luigi
Dimitri, Luigi Medugno per la FIGC, Giulio Napolitano
e Alberto Angeletti per il CONI e l’avvocato dello Stato Carlo Sica per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza dell’11 ottobre 2017,
iscritta al n. 197 reg. ord. 2017, il Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 2, commi 1, lettera b), e 2, del decreto-legge 19
agosto 2003, n. 220 (Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva),
convertito, con modificazioni, nella legge 17 ottobre 2003, n. 280, in
riferimento agli artt.
24, 103 e 113 della Costituzione.
Nella parte sottoposta allo scrutinio di questa
Corte, l’art. 2 del d.l. n. 220 del 2003 (rubricato
«Autonomia dell’ordinamento sportivo») stabilisce che la disciplina delle
questioni aventi ad oggetto «i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e
l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive»
(comma 1, lettera b) è riservata all’ordinamento sportivo e che in tale materia
«le società, le associazioni, gli affiliati ed i tesserati hanno l’onere di
adire, secondo le previsioni degli statuti e regolamenti del Comitato olimpico
nazionale italiano e delle Federazioni sportive di cui gli articoli 15 e 16 del
decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, gli organi di giustizia
dell’ordinamento sportivo» (comma 2).
Le questioni sono sorte nel corso del giudizio
promosso da un dirigente sportivo tesserato della Federazione italiana giuoco
calcio (FIGC) per l’annullamento, previa sospensione e con condanna al
risarcimento dei danni, della decisione del 14 febbraio 2017 con cui il
Collegio di garanzia dello sport istituito presso il Comitato olimpico
nazionale italiano (CONI), quale organo di giustizia sportiva di ultima
istanza, ha confermato l’irrogazione nei suoi confronti della sanzione
disciplinare dell’inibizione per tre anni, disposta dalla Corte federale di
appello della FIGC con decisione del 5 ottobre 2016, in parziale riforma della
decisione del Tribunale federale.
Il ricorrente nel processo principale lamenta
l’illegittimità della decisione del Collegio di garanzia dello sport, per non
avere essa dichiarato estinto il giudizio disciplinare, in violazione dell’art.
34-bis, comma 2, del codice di giustizia sportiva della FIGC (adottato con
decreto del commissario ad acta della FIGC del 30 luglio 2014 e approvato con
deliberazione del presidente del CONI del 31 luglio 2014). La decisione della
Corte federale di appello sarebbe stata pronunciata, infatti, oltre il termine
di sessanta giorni dalla data di proposizione del reclamo, previsto dalla
citata disposizione a pena di estinzione del procedimento.
Nello stesso giudizio si sono costituiti la
FIGC e il CONI, eccependo il difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo a conoscere della domanda di annullamento della decisione emessa
da un organo di giustizia sportiva in materia disciplinare. In capo a tale
giudice residuerebbe infatti la sola cognizione della domanda di risarcimento
del danno. L’eccezione si fonda sul disposto dell’art. 2, commi 1, lettera b),
e 2 del d.l. n. 220 del 2003, come interpretato da
questa Corte con la sentenza n. 49 del
2011.
Il giudice a quo riferisce di avere
contestualmente accolto, con separata ordinanza, la domanda cautelare e di aver
rinviato il suo esame al merito. L’efficacia del provvedimento impugnato è
stata così sospesa «fino alla decisione da parte della Corte Costituzionale»
delle questioni sollevate in questa sede.
1.1.– Ad avviso del rimettente, i commi 1,
lettera b), e 2 dell’art. 2 del d.l. n. 220 del 2003
presenterebbero profili di illegittimità costituzionale anche
nell’interpretazione fornita dalla sentenza n. 49 del
2011. Secondo tale pronuncia, resa su questioni simili a quelle riportate
ora all’esame di questa Corte, nelle controversie aventi per oggetto sanzioni
disciplinari sportive non tecniche incidenti su situazioni soggettive rilevanti
per l’ordinamento statale è possibile proporre al giudice amministrativo, in
regime di giurisdizione esclusiva, domanda di risarcimento del danno, mentre
non è possibile richiedere tutela annullatoria.
Così interpretata, la normativa violerebbe gli
artt. 103 e 113 Cost. sotto profili «non compiutamente esaminati» dalla
precedente pronuncia, perché «ritenuti "assorbiti” nella censura concernente la
violazione dell’art. 24 Cost.». Permarrebbe inoltre il contrasto con l’art. 24
Cost. «letto in combinato disposto con gli stessi artt. 103 e 113 Cost.», già
esaminato da questa Corte, in ragione dell’esclusione della tutela
giurisdizionale di tipo caducatorio.
Sulla rilevanza, il rimettente osserva che
l’applicazione delle disposizioni censurate, come interpretate dalla sentenza n. 49 del
2011, preclude al ricorrente nel processo principale di ottenere
l’annullamento di una sanzione disciplinare irrogata e non ancora scontata.
1.2.– Nel merito, con la prima questione, il
giudice a quo prende le mosse dalla qualificazione delle decisioni disciplinari
sportive come provvedimenti amministrativi, espressione dei poteri pubblici
attribuiti alle federazioni sportive nazionali e al CONI. In quanto tali, le
decisioni disciplinari sarebbero idonee, come riconosciuto anche dalla sentenza n. 49 del
2011, a incidere su situazioni soggettive aventi la consistenza di
interesse legittimo, sicché ai loro titolari non potrebbe essere negata la
tutela di annullamento dinanzi agli organi della giustizia amministrativa, pena
la violazione degli evocati artt. 103 e 113 Cost.
1.3.– Con la seconda questione, il rimettente
deduce che l’equipollenza tra tutela reale e tutela risarcitoria, non derivando
da un principio generale dell’ordinamento, non può essere affermata «[a]l di
fuori di un’espressa scelta legislativa» e che le previsioni di questo tipo
rinvenibili nel sistema hanno natura eccezionale. In particolare esse non
farebbero venire meno la distinzione generale «tra regole di invalidità e
regole risarcitorie», in forza della quale l’invalidità degli atti
amministrativi può essere contestata, innanzitutto, con il rimedio caducatorio, ciò che consente la restaurazione della
situazione giuridica violata attraverso la rimozione dell’atto. Neppure la
facoltà di proporre in via autonoma la domanda di risarcimento del danno, a
seguito del superamento della cosiddetta "pregiudiziale amministrativa”,
consentirebbe di ritenere equipollenti le due forme di tutela.
Di quanto sopra si avrebbe conferma
considerando che: con la tutela reale chi è colpito da una sanzione
disciplinare illegittima in corso di applicazione può ottenere il ripristino
della situazione soggettiva compromessa; la tutela risarcitoria importa per il
danneggiato un «penetrante onere probatorio», avente per oggetto gli elementi
costitutivi dell’illecito civile; il risarcimento del danno sia in forma
specifica che per equivalente, a differenza del rimedio «ripristinatorio»,
farebbe conseguire al creditore una «prestazione diversa da quella originaria»
anziché il bene della vita oggetto della lesione.
La limitazione della tutela al solo rimedio
risarcitorio – anche se fosse ancora esperibile il rimedio demolitorio, come
nella fattispecie dedotta nel giudizio a quo – comprometterebbe dunque il
diritto di difesa e il principio di effettività della tutela giurisdizionale.
2.– Il ricorrente nel processo principale si è
costituito in giudizio con atto depositato il 5 febbraio 2018, concludendo per
l’accoglimento delle questioni.
A suo avviso, la sentenza n. 49 del
2011 dovrebbe essere rivista. La norma censurata esprimerebbe infatti la
scelta del legislatore di riservare all’ordinamento sportivo le controversie
relative a tutte le sanzioni disciplinari e di escludere pertanto la rilevanza
delle sanzioni disciplinari sportive per l’ordinamento della Repubblica, e con
essa ogni tutela da parte del giudice statale.
L’interpretazione operata con la sentenza n. 49 del
2011, che postula il riconoscimento della (sola) tutela risarcitoria, si
risolverebbe in una sovrapposizione di questa Corte alle scelte riservate al
legislatore, mentre sarebbe corretto lasciare a quest’ultimo, a seguito della
dichiarazione di illegittimità della norma, la decisione circa l’an e il quomodo di un
intervento sulle forme di tutela concedibili dal giudice statale, nel rispetto
dei principi costituzionali. In mancanza, si riespanderebbe
la giurisdizione del giudice amministrativo, con pienezza di tutela caducatoria e risarcitoria.
In conclusione, la previsione di totale
irrilevanza per l’ordinamento statale dei provvedimenti disciplinari sportivi
dovrebbe essere considerata costituzionalmente illegittima, ferma restando la
possibilità per il legislatore, una volta corretto l’errore di fondo, di
disciplinare, eventualmente anche limitandole, le tutele ammissibili.
Meriterebbe adesione, infine, la tesi del
giudice a quo secondo cui il rimedio risarcitorio non sarebbe un equipollente
della tutela «correttiva», soprattutto in presenza di sanzioni disciplinari
idonee a precludere ogni possibilità lavorativa.
3.– Anche la FIGC, parte resistente nel
processo principale, si è costituita in giudizio, con atto depositato il 31
gennaio 2018, concludendo a sua volta per l’inammissibilità e comunque per la
manifesta infondatezza delle questioni.
In fatto, essa riferisce che dopo la pronuncia
dell’ordinanza di rimessione il provvedimento cautelare reso dal giudice a quo
è stato revocato dal Consiglio di Stato, sul rilievo che «alla stregua della
consolidata giurisprudenza amministrativa e della sentenza della
Corte costituzionale 11 febbraio 2011, n. 49, difetta la giurisdizione del
giudice amministrativo sull’azione di annullamento esperita avverso la sanzione
disciplinare dell’inibizione per tre anni irrogata ad un tesserato con
provvedimento del Collegio di garanzia (a sezioni unite) dello Sport».
Nel merito, la FIGC osserva che la sentenza n. 49 del
2011 non avrebbe pretermesso i profili di censura attinenti alla violazione
degli artt. 103 e 113 Cost., e li avrebbe invece espressamente considerati nel
valutare non irragionevole il bilanciamento degli interessi coinvolti operato
dalla norma censurata, giungendo a escludere, sulla base dell’analisi
sistematica degli artt. 24, 103 e 113 Cost., che il particolare sistema di
protezione previsto per le controversie di specie comporti la lesione del
principio di effettività della tutela giurisdizionale. Ciò risulterebbe in
particolare dai passaggi della motivazione in cui è precisato che, «anche se
nell’ordinanza si fa riferimento ai sopracitati tre articoli della Costituzione,
la censura ha un carattere unitario, compendiabile nel dubbio che la normativa
censurata precluda "al giudice statale” [...] di conoscere questioni che
riguardino diritti soggettivi o interessi legittimi», e che gli artt. 103 e 113
Cost. sarebbero stati evocati in quanto «rappresentano il fondamento
costituzionale delle funzioni giurisdizionali del giudice amministrativo che il
rimettente, ai sensi di quanto dispone la normativa di cui deve fare
applicazione, individua come il "giudice naturale” delle suddette
controversie».
Non vi sarebbero dunque aspetti nuovi o non
adeguatamente apprezzati che giustifichino il riesame della questione da parte
di questa Corte. Neppure rileverebbero in questo senso la «predicata natura provvedimentale degli atti irrogativi di sanzioni
disciplinari» e le connesse implicazioni sulla natura di interesse legittimo
della posizione soggettiva dei destinatari delle sanzioni. Della consapevolezza
di tale natura vi sarebbe ampia traccia nella sentenza n. 49 del
2011, che enuncia compiutamente le ragioni per cui l’esclusione della
tutela di annullamento, volta ad evitare un’ingerenza diretta del giudice
statale nei contenziosi disciplinari sportivi rimessi alla sola giustizia
associativa, lasciando impregiudicata la possibilità di agire in giudizio per
ottenere il risarcimento del danno da violazione di un diritto soggettivo o di
un interesse legittimo, realizzerebbe un ragionevole punto di equilibrio tra i contrapposti
valori e dell’effettività della tutela giurisdizionale e dell’autonomia
dell’ordinamento sportivo, presidiata dagli artt. 2 e 18 Cost.
Ipotesi di esclusiva tutela risarcitoria per
equivalente, del resto, non sarebbero ignote all’ordinamento, come si desume
dall’art. 30, comma 2, dell’Allegato 1 (Codice del processo amministrativo) al
decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della
legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del
processo amministrativo), che, nel disciplinare l’azione di condanna, richiama
l’art. 2058 del codice civile, secondo cui il risarcimento in forma specifica è
configurato come una eventualità. Un ulteriore indice del superamento del
rapporto di necessaria complementarietà dell’azione risarcitoria rispetto
all’azione di annullamento sarebbe offerto dall’art. 34, comma 3, cod. proc. amm., secondo cui «[q]uando, nel
corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più
utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se
sussiste l’interesse ai fini risarcitori», diventando improcedibile l’azione di
annullamento.
Il rimettente non prenderebbe in considerazione
le ragioni esposte nella sentenza n. 49 del
2011, dirette a perimetrare l’area degli strumenti di tutela sulla base
della ragionevole ponderazione degli interessi in gioco, qualora le decisioni
disciplinari sportive incidano su posizioni soggettive rilevanti per
l’ordinamento statale. Anche per la ripetitività degli argomenti che la
sorreggono, la questione sarebbe dunque inammissibile, prim’ancora che
manifestamente infondata.
Neppure coglierebbe nel segno la considerazione
che «[a]l di fuori di una espressa scelta legislativa [...] non [potrebbe]
ricavarsi sulla base dei principi generali dell’ordinamento alcuna equipollenza
tra forme di tutela reale e forme di tutela risarcitoria»: innanzitutto, perché
la soluzione adottata sarebbe frutto invece di una scelta legislativa
consapevolmente compiuta in questo senso, «desumibile dall’impianto sistemico
della novella del 2003 e dalle sue finalità ispiratrici»; in secondo luogo,
perché la sentenza
n. 49 del 2011 non avrebbe affermato l’equipollenza tra le due tutele, ma,
sul presupposto della diversità dei rimedi, avrebbe giudicato il rimedio
risarcitorio idoneo a offrire un’adeguata riparazione, tenuto conto della
ricordata esigenza di commisurare i poteri di intervento del giudice statale
alle esigenze di salvaguardia dell’autonomia riconosciuta, in materia
disciplinare, agli organi della giustizia sportiva.
Infine, secondo la FIGC il rimettente darebbe
erroneamente per scontata la natura di provvedimenti amministrativi, in quanto
«atti posti in essere dalle Federazioni in qualità di organi del CONI», delle
sanzioni disciplinari sportive. Nell’esercizio delle funzioni disciplinari
previste dai rispettivi codici di giustizia, tuttavia, le federazioni nazionali
sportive non agirebbero quali organi del CONI, sicché – nonostante le loro
decisioni siano rimesse al sindacato giustiziale di ultima istanza del Collegio
di garanzia dello sport, incardinato presso il CONI – mancherebbe un rapporto
di loro immedesimazione organica con l’ente di vertice dell’ordinamento
sportivo.
La fonte attributiva della potestà
sanzionatoria in sede "endofederale” dovrebbe invece
essere individuata nell’accettazione, da parte dei tesserati e delle società
affiliate, dei vincoli nascenti dal legame associativo, costituente una
situazione diversa dai casi in cui le federazioni operano facendo uso di poteri
previsti da una norma di rango primario e conferiti per delega dal CONI.
Se dunque i dubbi di costituzionalità sollevati
dal rimettente si fondassero solo sull’affermata natura provvedimentale
delle sanzioni disciplinari sportive, risulterebbero messi in forse
dall’opinabilità della premessa. L’attribuzione della domanda risarcitoria alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, invero, non deriverebbe
dalla qualificazione delle sanzioni come provvedimenti amministrativi, bensì
dalla «configurazione normativa del percorso cui è subordinato l’accesso alla
tutela giurisdizionale». Tale «percorso» imporrebbe l’esaurimento dei rimedi
giustiziali dell’ordinamento sportivo, destinati a concludersi con la decisione
di legittimità di un organo di ultima istanza (il menzionato Collegio di
garanzia dello sport) facente capo al CONI, che ne ha sancito la costituzione e
definito attribuzioni, composizione e modalità di funzionamento, e davanti al
quale le federazioni rivestono il ruolo di parti, in una posizione
ontologicamente incompatibile con quella di organi del CONI.
4.– Con atto depositato il 6 febbraio 2018, si
è costituito in giudizio anche il CONI, parte resistente nel processo
principale, concludendo per l’inammissibilità e comunque per l’infondatezza
delle questioni.
In via preliminare, le questioni sarebbero
inammissibili per difetto di rilevanza, perché il potere cautelare che il TAR
rimettente ha provvisoriamente esercitato, sospendendo l’efficacia dell’atto
impugnato fino alla decisione di questa Corte, si sarebbe ormai esaurito e
sarebbe venuto definitivamente meno per effetto della già ricordata pronuncia
con cui il Consiglio di Stato ha riformato l’ordinanza di sospensione.
Le questioni sarebbero in ogni caso
manifestamente infondate, perché l’ordinanza di rimessione non offrirebbe
elementi ulteriori e diversi rispetto a quelli già esaminati nella sentenza n. 49 del
2011.
Si dovrebbe considerare, inoltre, che
l’interpretazione offerta nella citata pronuncia è stata costantemente seguita
dai giudici amministrativi, dimostrandosi capace di conciliare il valore
dell’autonomia dell’ordinamento sportivo con le esigenze di tutela degli
interessati, e che è stata medio tempore approvata dal CONI una riforma
organica della giustizia sportiva, che ha rafforzato le garanzie processuali di
tesserati e affiliati nonché le caratteristiche di indipendenza e di terzietà
degli organi giudicanti.
Contrariamente a quanto sostiene il giudice a
quo, la sentenza
n. 49 del 2011 non avrebbe omesso di esaminare i profili di contrasto con
gli artt. 103 e 113 Cost., e avrebbe invece ricondotto a tali parametri il
fondamento costituzionale dell’attribuzione al giudice amministrativo della
giurisdizione esclusiva nella specifica materia delle sanzioni disciplinari
sportive. Gli stessi parametri verrebbero inoltre in evidenza nella citata
pronuncia anche là dove è esaminata l’eccezione preliminare di inammissibilità
delle questioni per difetto di giurisdizione del giudice rimettente, sul
presupposto della natura arbitrale delle decisioni disciplinari impugnate.
Il rimettente avrebbe poi completamente
trascurato di considerare la contrapposizione tracciata dalla sentenza n. 49 del
2011 fra annullamento in via principale e cognizione incidentale della
legittimità delle decisioni disciplinari, in funzione della tutela
risarcitoria, omettendo così di assolvere all’obbligo di interpretare la norma
in senso costituzionalmente orientato. In definitiva si chiederebbe ora a
questa Corte di rivedere integralmente la sua precedente pronuncia e di
superare il diritto vivente che si è conformato a essa, anche in sede
nomofilattica, sulla base di argomenti già approfonditamente esaminati.
Ne conseguirebbe un’ulteriore ragione di
manifesta infondatezza e, prim’ancora, di inammissibilità delle questioni.
Il giudice a quo avrebbe poi errato nel
ritenere costituzionalmente incompatibile una scelta interpretativa implicante l’equipollenza
tra la tutela di annullamento e la tutela risarcitoria al di fuori dei casi
espressamente previsti dalla legge. Nel caso di specie, infatti, l’equipollenza
sarebbe affermata dalla norma censurata, là dove essa, pur riservando
all’autonomia dell’ordinamento sportivo la competenza a decidere le
controversie aventi ad oggetto gli atti di irrogazione delle sanzioni
disciplinari, tuttavia «consente la proposizione di domande volte a ottenere il
risarcimento del danno innanzi alle giurisdizioni amministrative».
L’ordinamento conoscerebbe del resto diverse ipotesi, menzionate nella sentenza n. 49 del
2011, di tutela meramente risarcitoria, in particolare nell’ambito della
giurisdizione esclusiva.
L’attuale sistema di tutela giurisdizionale
nelle controversie relative alle sanzioni disciplinari sportive realizzerebbe
un contemperamento – costituzionalmente corretto – tra le garanzie di accesso
al giudice e di autonomia dell’ordinamento sportivo, consentendo di ricorrere
in più gradi davanti a organi della giustizia sportiva dotati di ampia
autonomia e indipendenza, e di chiedere al giudice statale – esauriti i gradi
del giudizio sportivo – il risarcimento del danno derivante dalla lesione di
diritti soggettivi o interessi legittimi, nonché di vedere incidentalmente
accertata l’illegittimità della decisione emessa in ambito sportivo, a
«riparazione piena e satisfattiva della dignità personale e [dell’]onore
professionale».
5.– Il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in
giudizio con atto depositato il 7 febbraio 2018, chiedendo che le questioni
siano dichiarate inammissibili e comunque infondate.
In primo luogo, la motivazione sulla rilevanza
sarebbe insufficiente, in quanto il giudice a quo non afferma di ritenere
fondata l’eccezione «procedurale» proposta dal ricorrente nel processo
principale. Nonostante la natura preliminare della questione di giurisdizione, il
giudice a quo, al fine di «rendere esaustiva la motivazione dell’ordinanza» e
farle così superare la soglia della rilevanza, avrebbe dovuto eseguire una
«valutazione prospettica» del bene della vita richiesto, che si
identificherebbe – se non direttamente con la giurisdizione del giudice adito –
con l’annullamento della decisione disciplinare impugnata.
Le questioni sarebbero inammissibili, e
comunque infondate, anche perché il rimettente criticherebbe la sentenza n. 49 del
2011 senza sottoporre a questa Corte nuove argomentazioni o nuovi elementi
rispetto a quelli già esaminati, limitandosi ad affermare che le sanzioni
irrogate dalla giustizia sportiva hanno natura di provvedimenti amministrativi,
sindacabili come tali davanti al giudice amministrativo.
Quest’ultimo presupposto non sarebbe comunque
condivisibile, poiché i provvedimenti adottati dalle federazioni sportive
nazionali presentano tale natura quando recidono il rapporto di tesseramento o
di affiliazione, che è condizione essenziale per l’esercizio dell’attività
sportiva non amatoriale. Al contrario, le sanzioni disciplinari esauriscono la
loro efficacia all’interno del rapporto di tesseramento o di affiliazione e
rimangono così confinate nella sfera sportiva e «privatistica, come tale
irrilevante per l’ordinamento giuridico statale», salvo il diritto al
risarcimento del danno che derivi dalla sanzione, previo incidentale
accertamento della sua illegittimità da parte del giudice amministrativo.
6.– Le parti costituite e l’interveniente hanno
depositato memorie in prossimità dell’udienza.
6.1.– Il ricorrente nel processo principale,
replicando alle eccezioni di inammissibilità, osserva che il potere del giudice
a quo non si è esaurito con la concessione interinale della cautela, poiché
all’esito della decisione di questa Corte l’incidente cautelare dovrà essere
comunque definito, in attesa della pronuncia sul merito. Ai fini della
rilevanza, inoltre, lo stesso giudice a quo non avrebbe dovuto valutare anche
la fondatezza delle censure mosse al provvedimento impugnato, ma solo la
questione preliminare relativa all’ammissibilità della domanda di annullamento.
Nel merito, le questioni non riprodurrebbero
quelle già esaminate dalla sentenza n. 49 del
2011, che si sarebbe limitata ad affermare che la norma censurata non
preclude qualsiasi forma di tutela giurisdizionale, essendo ammessa dal diritto
vivente la tutela risarcitoria. La questione sarebbe stata respinta, dunque,
con esplicito riferimento alla sola violazione dell’art. 24 Cost., mentre in
questa sede il giudice a quo solleverebbe questioni non ancora esaminate.
6.2.– La FIGC insiste per l’inammissibilità e,
comunque, per la manifesta infondatezza delle questioni, richiamando e
illustrando ulteriormente le deduzioni già svolte.
Anche a suo avviso, il sopravvenuto
accoglimento dell’appello contro l’ordinanza cautelare di sospensione
inciderebbe sulla rilevanza delle questioni, se riferita al petitum
cautelare. Ove la rilevanza dovesse invece apprezzarsi con riguardo al petitum di merito, la motivazione fornita dal giudice a quo
non sarebbe sufficiente, in quanto «il deficit di tutela paventato potrebbe
[...] ipoteticamente profilarsi soltanto qualora il giudice amministrativo,
dopo avere accertato la illegittimità degli atti impugnati alla stregua del
sindacato incidentale che gli è pacificamente consentito ai fini risarcitori,
dovesse essere costretto ad abdicare all’esercizio del potere di annullamento
per la limitazione reputata incompatibile con il dettato costituzionale».
Le sanzioni disciplinari sportive non avrebbero
natura di provvedimenti amministrativi, in quanto la potestà punitiva delle
federazioni troverebbe fonte esclusiva nell’accettazione, da parte dei
tesserati e delle società affiliate, degli obblighi nascenti dalla costituzione
del legame associativo, sicché le sanzioni sportive si collocherebbero
nell’area del cosiddetto "indifferente giuridico”, potendo «approdare alla
cognizione del giudice amministrativo quale incidentale elemento di valutazione
della ricorrenza, nell’operato federale, degli indici rivelatori di un illecito
civile, perseguibile ai sensi dell’art. 2043 cod. civ.». Inoltre, si dovrebbe
respingere la tesi del giudice a quo secondo cui le federazioni sarebbero
sempre organi del CONI, posto che esse agiscono, di regola, nella veste di
associazioni private, svolgendo funzioni di rilevanza pubblicistica solo quando
operano nell’esercizio dei poteri loro conferiti direttamente dalla legge
ovvero su delega del CONI, nel quadro di una relazione intersoggettiva non più
configurabile in termini di immedesimazione organica, a seguito della riforma
introdotta dal decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242 (Riordino del
Comitato olimpico nazionale italiano - C.O.N.I., a norma dell’articolo 11 della
L. 15 marzo 1997, n. 59), che ha conferito alle federazioni un’autonoma
personalità giuridica.
Né si potrebbe affermare che, negando la natura
autoritativa del potere disciplinare, non si spiega l’attribuzione dei
contenziosi risarcitori alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, in quanto il rapporto di «preordinazione teleologica» tra lo
sport e «la cura del benessere fisico in termini di salute, di formazione della
personalità, di educazione alla cooperazione ed alla sana competizione,
elementi tutti che afferiscono alla dignità della persona umana (e che, dunque
oggi rilevano ai sensi dell’art. 2 Cost.)», si riflette necessariamente sul perimetro
della tutela risarcitoria, giustificando la previsione di «una particolare
tutela giurisdizionale pubblica, che ha per basi espresse quelle
dell’organizzazione pubblicistica dell’attività sportiva e della garanzia del
suo legittimo funzionamento».
6.3.– Il CONI illustra i profili di
inammissibilità delle questioni per difetto di motivazione, sia sulla
rilevanza, non essendo esaminato il fondamento nel merito della domanda di
annullamento, sia sulla non manifesta infondatezza, non essendo considerata la
motivazione della sentenza
n. 49 del 2011, là dove essa giudica positivamente il bilanciamento operato
dal legislatore tra i valori costituzionali «cristallizzati dagli artt. 2 e 18
Cost.» e il diritto alla pienezza della tutela giurisdizionale sancito dagli
artt. 24 e 113 Cost.
Nel merito, ribadisce che, a differenza di
quanto afferma il giudice a quo, la citata sentenza n. 49 del
2011 avrebbe già considerato la censura, mettendone in evidenza il
carattere sostanzialmente unitario e scrutinandola alla luce del principio di
effettività della tutela giurisdizionale, che investe congiuntamente gli stessi
parametri evocati in questa sede, quando si faccia questione di interessi
legittimi.
Affermare che la tutela di annullamento, pur
avendo natura costituzionalmente necessaria, può essere sostituita con la
tutela risarcitoria solo mediante una scelta espressa del legislatore sarebbe
contraddittorio, in quanto il legislatore potrebbe invece operare tale scelta
anche per implicito e l’interprete potrebbe raggiungere lo stesso risultato
attraverso una lettura costituzionalmente orientata della disciplina vigente.
L’ordinamento conosce invero significative ipotesi di limitazione della tutela
giurisdizionale in forma specifica, prima fra tutte quella disciplinata
dall’art. 2058 cod. civ.
Il giudice a quo avrebbe ulteriormente errato
nel qualificare le sanzioni sportive come provvedimenti amministrativi, in
quanto le federazioni sportive avrebbero natura di associazioni con personalità
giuridica di diritto privato, svolgenti funzioni pubblicistiche solo nei casi
previsti dall’art. 23 dello statuto del CONI, nei quali non ricadono le decisioni
di natura disciplinare.
Lo stesso legislatore, pur consapevole della
pronuncia di questa Corte e della conforme giurisprudenza amministrativa, non
avrebbe mutato la sua scelta nemmeno in occasione della recente modifica
introdotta all’art. 3, comma 1, del d.l. n. 220 del
2003 dall’art. 1, comma 647, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di
previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per
il triennio 2019-2021). Con essa, intervenendo sui rapporti tra giustizia
sportiva e giustizia statale, il legislatore si è limitato a riservare alla
giustizia statale la cognizione delle controversie «aventi ad oggetto i
provvedimenti di ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche
delle società o associazioni sportive professionistiche, o comunque incidenti
sulla partecipazione a competizioni professionistiche».
6.4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri
ribadisce le eccezioni di inammissibilità delle questioni per mancanza di
elementi e argomenti nuovi rispetto a quelli già esaminati da questa Corte e
osserva che l’autonomia dell’ordinamento sportivo deriva dal riconoscimento –
da parte dell’ordinamento giuridico dello Stato, che in tal modo autolimita la
propria sovranità – della sfera di autonomia dei fenomeni associazionistici e
di carattere collettivo, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 2 e 18
Cost.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per
il Lazio – adito da un dirigente sportivo tesserato della Federazione italiana
giuoco calcio (FIGC) per l’annullamento, previa sospensione e con condanna al
risarcimento dei danni, della decisione del Collegio di garanzia dello sport
istituito presso il Comitato olimpico nazionale italiano (CONI), che ha
confermato l’irrogazione nei suoi confronti della sanzione disciplinare
dell’inibizione per tre anni disposta dalla Corte federale di appello della
FIGC – dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1, lettera
b), e 2, del decreto-legge 19 agosto 2003, n. 220 (Disposizioni urgenti in
materia di giustizia sportiva), convertito, con modificazioni, nella legge 17
ottobre 2003, n. 280.
Nella parte sottoposta all’esame di questa
Corte, l’art. 2 del d.l. n. 220 del 2003 (rubricato
«Autonomia dell’ordinamento sportivo») stabilisce che è riservata
all’ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad oggetto «i
comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione
delle relative sanzioni disciplinari sportive» (comma 1, lettera b), e che in tale
materia «le società, le associazioni, gli affiliati ed i tesserati hanno
l’onere di adire, secondo le previsioni degli statuti e regolamenti del
Comitato olimpico nazionale italiano e delle Federazioni sportive di cui gli
articoli 15 e 16 del decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, gli organi di
giustizia dell’ordinamento sportivo» (comma 2).
Ad avviso del rimettente, le citate
disposizioni presenterebbero profili di illegittimità costituzionale anche
nell’interpretazione fornita dalla sentenza n. 49 del
2011. In base a tale pronuncia, resa su questioni analoghe a quelle
riportate ora all’esame di questa Corte, nelle controversie aventi per oggetto
sanzioni disciplinari sportive non tecniche incidenti su situazioni soggettive
rilevanti per l’ordinamento statale è possibile proporre domanda di
risarcimento del danno al giudice amministrativo in regime di giurisdizione
esclusiva, mentre resta sottratta alla sua giurisdizione la tutela di
annullamento.
Anche così interpretata, la normativa
violerebbe gli artt. 103 e 113 della Costituzione sotto profili «non
compiutamente esaminati» dalla precedente pronuncia, perché «ritenuti
"assorbiti” nella censura concernente la violazione dell’art. 24 Cost.». Essa
continuerebbe inoltre a presentare i profili di contrasto con l’art. 24 Cost.
«letto in combinato disposto con gli stessi artt. 103 e 113 Cost.», già
esaminati da questa Corte in ordine all’esclusione della tutela caducatoria davanti al giudice statale.
2.– Vanno considerate in via preliminare le
eccezioni sollevate dalle parti costituite in giudizio, nonché il rilievo della
normativa intervenuta in materia.
2.1.– Il CONI ha eccepito l’inammissibilità
delle questioni per difetto di rilevanza, in quanto il potere esercitato dal
giudice a quo contestualmente all’atto di rimessione, di sospensione del
provvedimento impugnato fino alla decisione di questa Corte, si è esaurito per
effetto della successiva pronuncia del Consiglio di Stato, che, accogliendo
l’appello proposto dalla FIGC, ha respinto la domanda cautelare. Analoga
eccezione è stata sollevata dalla FIGC nella memoria depositata in prossimità
dell’udienza.
L’eccezione non è fondata.
L’intervenuta ordinanza del Consiglio di Stato
non altera invero la pregiudizialità delle questioni sulle quali questa Corte è
chiamata a pronunciarsi. La definizione dell’incidente cautelare non fa venire
meno la necessità per il giudice rimettente di applicare l’art. 2, commi 1,
lettera b), e 2, del d.l. n. 220 del 2003, come
interpretato da questa Corte con la sentenza n. 49 del
2011, per decidere sull’eccezione preliminare di difetto di giurisdizione
sull’azione di annullamento, sollevata dalle parti resistenti nel giudizio a
quo.
A ciò si aggiunga, in ogni caso, che le vicende
del provvedimento cautelare successive all’ordinanza di rimessione, compresa la
sua riforma in appello, non sono idonee a produrre effetti sul giudizio
costituzionale. Per costante orientamento di questa Corte, il giudizio
incidentale di costituzionalità è autonomo rispetto al giudizio a quo, nel
senso che non risente delle vicende successive all’atto di rimessione che
concernono il rapporto dedotto nel processo principale, come previsto dall’art.
18 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. La
rilevanza della questione deve quindi essere valutata alla luce delle
circostanze sussistenti al momento dell’ordinanza di rimessione, senza che
assumano rilievo eventi sopravvenuti (ex plurimis, sentenze n. 276 del
2016, n. 236
del 2015, n.
242 e n. 164
del 2014, n.
120 del 2013, n.
274 e n. 42
del 2011), e in quel momento essa certamente sussisteva.
2.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri
ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sotto due ulteriori profili.
2.2.1. – In primo luogo, è eccepito il difetto
di motivazione sulla rilevanza, in quanto il giudice a quo avrebbe dovuto
eseguire anche una «valutazione prospettica» del bene della vita richiesto, da
identificare non nel riconoscimento della giurisdizione del giudice adìto ma nell’annullamento della decisione disciplinare
impugnata, in quanto lesiva, secondo il ricorrente nel processo principale, di
una regola «procedurale» sull’estinzione del giudizio disciplinare. Un analogo
profilo di inammissibilità è sollevato dalla FIGC nella memoria depositata in
prossimità dell’udienza.
L’eccezione non è fondata.
Secondo la costante giurisprudenza
costituzionale, «[l]a motivazione sulla rilevanza è da intendersi correttamente
formulata quando illustra le ragioni che giustificano l’applicazione della
disposizione censurata e determinano la pregiudizialità della questione
sollevata rispetto alla definizione del processo principale» (ex plurimis, sentenza n. 105 del
2018), essendo a tal fine sufficiente la non implausibilità
delle ragioni addotte (ex plurimis, sentenze n. 93,
n. 39 e n. 32 del 2018).
Il rimettente osserva che «[l]a norma de qua,
così come interpretata dal giudice delle leggi [...], precluderebbe all’odierno
ricorrente di ottenere l’annullamento della sanzione disciplinare a lui
irrogata [...], che solo consentirebbe l’immediato ripristino della situazione
giuridica soggettiva, asseritamente lesa». La motivazione, incentrata sul
carattere decisivo della questione preliminare e sulla necessità, per
risolverla, di applicare la normativa censurata, è sufficiente a dare conto
della rilevanza, non essendo richiesta a tali fini una delibazione nel merito
della domanda di annullamento, la cui cognizione da parte del giudice a quo è
preclusa dalla stessa normativa censurata.
2.2.2.– In secondo luogo, le questioni
sarebbero inammissibili poiché il rimettente si sarebbe limitato a criticare la
sentenza n. 49
del 2011 senza sottoporre a questa Corte nuovi elementi o argomentazioni
rispetto a quelli già a suo tempo da essa esaminati, affermando semplicemente
che le sanzioni irrogate dalla giustizia sportiva hanno natura di provvedimenti
amministrativi, come tali sindacabili davanti al giudice amministrativo.
Nemmeno questa eccezione è fondata. La
riproposizione di questioni identiche a quelle già dichiarate non fondate – se
di questo si dovesse trattare nel caso di specie – non comporterebbe comunque,
nemmeno in mancanza di nuovi argomenti che possano militare nel senso di una
diversa soluzione, l’inammissibilità delle questioni stesse ma, in ipotesi, la
loro manifesta infondatezza (ex plurimis, ordinanze
n. 96 del 2018, n. 162, n. 138 e n. 91 del 2017, n. 290 del 2016).
2.3.– Ancora in via preliminare conviene
ricordare che, dopo la pronuncia dell’ordinanza di rimessione, il d.l. n. 220 del 2003 è stato oggetto di modificazioni,
ancorché non riguardanti la normativa censurata, ad opera della legge 30
dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno
finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021).
In particolare, l’art. 1, comma 647, della
citata legge n. 145 del 2018 ha aggiunto alla fine del comma 1 dell’art. 3 del d.l. n. 220 del 2003 alcune previsioni riguardanti le
controversie relative ai provvedimenti di ammissione ed esclusione dalle
competizioni professionistiche delle società o associazioni sportive
professionistiche, o comunque incidenti sulla partecipazione a competizioni
professionistiche.
Non investendo tuttavia nemmeno indirettamente
la normativa censurata, che concerne le sanzioni disciplinari sportive, si deve
concludere che lo ius superveniens
lascia inalterato, per quello che qui rileva, il quadro normativo di
riferimento.
3.– Nel merito le questioni sollevate non sono
fondate.
3.1.– Il rimettente lamenta innanzitutto la
violazione degli artt. 103 e 113 Cost. La qualificazione delle decisioni
disciplinari sportive come provvedimenti amministrativi, espressione dei poteri
pubblici attribuiti alle federazioni sportive nazionali e al CONI, imporrebbe
di classificare come interessi legittimi le situazioni soggettive da essi
incise, con la conseguenza che ai loro titolari non potrebbe essere negata la
tutela di annullamento davanti al giudice amministrativo, pena la violazione
delle citate previsioni costituzionali in tema di garanzie giurisdizionali
contro gli atti della pubblica amministrazione.
3.2. – Il giudice a quo afferma innanzitutto
che, sotto questo aspetto, la nuova questione proposta presenterebbe profili
diversi da quelli valutati nella sentenza n. 49 del
2011. In tale pronuncia sarebbe stata trattata solo la questione sollevata
in riferimento all’art. 24 Cost., con "assorbimento” della prospettata
violazione degli artt. 103 e 113 Cost., che il rimettente chiede venga ora
esaminata.
Tale preliminare rilievo sulla portata della sentenza n. 49 del
2011 va respinto. Nella citata pronuncia questa Corte, scrutinando la
legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1, lettera b), e 2, del d.l. n. 220 del 2003 in riferimento agli artt. 24, 103 e
113 Cost., dà espressamente conto del «carattere unitario» della censura sulla
quale è chiamata ad esprimersi, che «non attiene ad aspetti specifici relativi
alle suddette disposizioni costituzionali, in quanto si incentra su un unico profilo»,
«compendiabile nel dubbio che la normativa [...] precluda "al giudice statale”
[...] di conoscere questioni che riguardino diritti soggettivi o interessi
legittimi». Invocando gli artt. 103 e 113 Cost. – prosegue la sentenza – il
giudice a quo non ha prospettato «illegittimità costituzionali diverse da
quelle formulate con riferimento all’art. 24 Cost.», ma ha indicato «il
fondamento costituzionale delle funzioni giurisdizionali del giudice
amministrativo che il rimettente [stesso], ai sensi di quanto dispone la
normativa di cui deve fare applicazione, individua come il "giudice naturale”
delle suddette controversie» (punto 4.4. del Considerato in diritto).
Nel suo impianto complessivo, d’altro canto, la
sentenza non omette di considerare i profili di illegittimità allora
segnatamente prospettati – e ora riproposti dall’odierno rimettente – in
riferimento agli artt. 103 e 113 Cost. In essa si afferma che la previsione di
una «diversificata modalità di tutela giurisdizionale» dei diritti soggettivi e
degli interessi legittimi limitata al risarcimento del danno per equivalente –
secondo l’interpretazione offerta dal diritto vivente – è idonea a scongiurare
l’illegittimità della norma censurata. Tale conclusione – raggiunta sul rilievo
che il legislatore ha realizzato in questo modo un non irragionevole
bilanciamento degli interessi in gioco – implica un giudizio di compatibilità
costituzionale della «esplicita esclusione della diretta giurisdizione sugli
atti attraverso i quali sono [...] irrogate le sanzioni disciplinari» (punto
4.5. del Considerato in diritto), esclusione che comprende la tutela reale
degli interessi legittimi sui quali le sanzioni eventualmente incidano.
Cosicché è evidente che, là dove afferma che «la mancanza di un giudizio di
annullamento» non vìola «quanto previsto dall’art. 24 Cost.», la sentenza n. 49 del
2011 non lascia spazio nemmeno ai diversi dubbi di legittimità per
violazione degli artt. 103 e 113 Cost., i quali, secondo le parole della stessa
pronuncia, costituiscono il «fondamento costituzionale» della tutela
demolitoria.
A ciò si può aggiungere che non apporta nuovi
profili di illegittimità, diversi da quelli già esaminati, nemmeno la
prospettata qualificazione delle decisioni degli organi della giustizia
sportiva come provvedimenti amministrativi, dal momento che la stessa sentenza n. 49 del
2011 non esclude che le sanzioni sportive possano ledere anche situazioni
giuridiche aventi consistenza di interesse legittimo e ne colloca di
conseguenza la tutela risarcitoria per equivalente nell’ambito della
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo secondo quanto previsto
dall’art. 133, comma 1, lettera z), dell’Allegato 1 (Codice del processo
amministrativo) al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione
dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al Governo per
il riordino del processo amministrativo).
3.2.1.– La pronuncia richiamata considera
dunque in modo unitario e sistematico la compatibilità della normativa
censurata con gli artt. 24, 103 e 113 Cost. e in questa prospettiva estende la
sua analisi al profilo della pienezza e dell’effettività della tutela giurisdizionale
degli interessi legittimi, contrariamente a quanto assunto dal giudice a quo,
che pretende di isolare tale specifico profilo e di escluderlo dal decisum senza considerare, come sarebbe stato necessario,
che «l’art. 24, come pure il successivo art. 113 Cost., enunciano [entrambi] il
principio dell’effettività del diritto di difesa, il primo in ambito generale,
il secondo con riguardo alla tutela contro gli atti della pubblica
amministrazione» (ex plurimis, sentenza n. 71 del
2015).
Nel merito la sentenza n. 49 del
2011 esclude che delle menzionate disposizioni costituzionali vi sia stata
lesione, dal momento che la normativa contestata, nell’interpretazione offerta
dal diritto vivente e fatta propria da questa Corte, tiene ferma la
possibilità, per chi ritenga di essere stato leso nei suoi diritti o interessi
legittimi da atti di irrogazione di sanzioni disciplinari, di agire in giudizio
per ottenere il risarcimento del danno e che questa forma di tutela per
equivalente, per quanto diversa rispetto a quella di annullamento in via
generale assegnata al giudice amministrativo, risulta in ogni caso idonea,
nella fattispecie, a corrispondere al vincolo costituzionale di necessaria
protezione giurisdizionale dell’interesse legittimo. La scelta legislativa che
la esprime è frutto infatti del non irragionevole bilanciamento operato dal
legislatore fra il menzionato principio costituzionale di pienezza ed
effettività della tutela giurisdizionale e le esigenze di salvaguardia
dell’autonomia dell’ordinamento sportivo – che trova ampia tutela negli artt. 2
e 18 Cost. – «bilanciamento che lo ha indotto [...] ad escludere la possibilità
dell’intervento giurisdizionale maggiormente incidente» su tale autonomia,
mantenendo invece ferma la tutela per equivalente.
3.2.2.– Chiarito così che i profili di censura
della normativa contestata in riferimento agli artt. 103 e 113 Cost. risultano
essere stati diffusamente esaminati nella più volte citata sentenza n. 49 del
2011, questa Corte ritiene che non vi siano ragioni di sorta per
discostarsi dalle conclusioni di infondatezza della questione espresse nella
stessa pronuncia, che meritano di essere integralmente confermate, sia per
quanto riguarda il rilievo dei valori costituzionali in gioco, sia per quanto
attiene alla valutazione di ragionevolezza del bilanciamento operato dal
legislatore con la articolata definizione – nella disciplina definita nel d.l. n. 220 del 2003 così come interpretata dal diritto
vivente – del sistema della tutela giurisdizionale in ambito sportivo.
Richiamando per il resto quanto già ampiamente
esposto nella citata sentenza, è sufficiente sottolineare di seguito alcuni
profili la cui trattazione è sollecitata dalle argomentazioni svolte
nell’ordinanza di rimessione.
Il primo riferimento è alla natura, per taluni
profili originaria e autonoma, dell’ordinamento sportivo, che di un ordinamento
giuridico presenta i tradizionali caratteri di plurisoggettività,
organizzazione e normazione propria.
Nel quadro della struttura pluralista della
Costituzione, orientata all’apertura dell’ordinamento dello Stato ad altri
ordinamenti, anche il sistema dell’organizzazione sportiva, in quanto tale e
nelle sue diverse articolazioni organizzative e funzionali, trova protezione
nelle previsioni costituzionali che riconoscono e garantiscono i diritti
dell’individuo, non solo come singolo, ma anche nelle formazioni sociali in cui
si esprime la sua personalità (art. 2 Cost.) e che assicurano il diritto di
associarsi liberamente per fini che non sono vietati al singolo dalla legge
penale (art. 18). Con la conseguenza che eventuali collegamenti con
l’ordinamento statale, allorché i due ordinamenti entrino reciprocamente in
contatto per intervento del legislatore statale, devono essere disciplinati
tenendo conto dell’autonomia di quello sportivo e delle previsioni costituzionali
in cui essa trova radice.
Per altro verso, la disciplina legislativa di
meccanismi di collegamento, anche diretto, fra l’ordinamento sportivo e
l’ordinamento statale trova un limite nel necessario rispetto dei principi e
dei diritti costituzionali.
La regolamentazione statale del sistema
sportivo deve dunque mantenersi nei limiti di quanto risulta necessario al
bilanciamento dell’autonomia del suo ordinamento con il rispetto delle altre
garanzie costituzionali che possono venire in rilievo, fra le quali vi sono –
per quanto qui interessa trattando della giustizia nell’ordinamento sportivo –
il diritto di difesa e il principio di pienezza ed effettività della tutela
giurisdizionale presidiati dagli artt. 24, 103 e 113 Cost.
In termini concreti tutto ciò fa sì che la
tutela dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, se non può evidentemente
comportare un sacrificio completo della garanzia della protezione
giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, può tuttavia
giustificare scelte legislative che, senza escludere tale protezione, la
conformino in modo da evitare intromissioni con essa "non armoniche”, come il
legislatore ha valutato che fosse, nel caso in esame, la tutela costitutiva.
Con la sentenza n. 49 del
2011, come visto, questa Corte ha adottato una pronuncia adeguatrice che individua nell’interpretazione offerta dal
diritto vivente la «chiave di lettura» della normativa sottoposta al suo esame,
idonea a fugare il dubbio, giustificato dal dato letterale della norma
censurata, che essa precluda ogni forma di protezione giurisdizionale. In base
a tale ricostruzione il giudice amministrativo può comunque conoscere delle questioni
disciplinari che riguardano diritti soggettivi o interessi legittimi, poiché
l’esplicita riserva a favore della giustizia sportiva, se esclude il giudizio
di annullamento, non intacca tuttavia la facoltà di chi ritenga di essere stato
leso nelle sue posizioni soggettive, ivi comprese quelle di interesse
legittimo, di agire in giudizio per ottenere il risarcimento del danno. A tali
fini non opera infatti la riserva a favore della giustizia sportiva, davanti
alla quale del resto la pretesa risarcitoria non potrebbe essere fatta valere.
Questa scelta interpretativa,
costituzionalmente orientata, si fonda su una valutazione di non
irragionevolezza del bilanciamento effettuato dal legislatore, che ha escluso
«la possibilità dell’intervento giurisdizionale maggiormente incidente
sull’autonomia dell’ordinamento sportivo» (punto 4.5. del Considerato in
diritto) e limitato l’intervento stesso alla sola tutela per equivalente di
situazioni soggettive coinvolte in questioni nelle quali l’autonomia e la
stabilità dei rapporti costituisce di regola dimensione prioritaria rispetto
alla tutela reale in forma specifica, per il rilievo che i profili tecnici e
disciplinari hanno nell’ambito del mondo sportivo. Ambito nel quale, invero, le
regole proprie delle varie discipline e delle relative competizioni si sono
formate autonomamente secondo gli sviluppi propri dei diversi settori e si
connotano normalmente per un forte grado di specifica tecnicità che va per
quanto possibile preservato.
3.2.3.– Deve essere poi respinta la tesi del
carattere costituzionalmente necessitato della tutela demolitoria degli
interessi legittimi, dal quale il rimettente desume l’incompatibilità con gli
artt. 103 e 113 Cost. di qualsiasi limitazione legislativa di tale forma di
tutela giurisdizionale contro gli atti e i provvedimenti della pubblica
amministrazione.
Come questa Corte ha già avuto modo di
affermare, se è fuor di dubbio che i principi fondamentali del nostro sistema
costituzionale espressi dagli artt. 24 e 113 Cost. devono avere applicazione
rigorosa a garanzia delle posizioni giuridiche dei soggetti che ne sono
titolari, ciò non significa che il citato art. 113 Cost., correttamente
interpretato, sia diretto ad assicurare in ogni caso e incondizionatamente una
tutela giurisdizionale illimitata e invariabile contro l’atto amministrativo,
spettando invece al legislatore ordinario un certo spazio di valutazione nel
regolarne modi ed efficacia (sentenze n. 100 del
1987, n. 161
del 1971 e n.
87 del 1962). Ancora più precisamente, questa Corte ha affermato che «[i]l
[...] secondo comma dell’art. 113 non può essere interpretato senza collegarlo
col comma che lo segue immediatamente e che contiene la norma, secondo la quale
la legge può determinare quali organi di giurisdizione possano annullare gli
atti della pubblica Amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla
legge medesima. Il che sta a significare che codesta potestà di annullamento
non è riconosciuta a tutti indistintamente gli organi di giurisdizione, né è
ammessa in tutti i casi, e non produce in tutti i casi i medesimi effetti» (sentenza n. 87 del
1962). Ciò, fermo restando naturalmente che, affinché il precetto
costituzionale di cui agli artt. 24 e 113 Cost. possa dirsi rispettato, è
comunque «indispensabile [...] che la norma, la quale si discosti dal modello
accolto in via generale per l’impugnazione degli atti amministrativi, sia
improntata a ragionevolezza e adeguatezza» (sentenza n. 100 del
1987).
3.2.4. Le limitazioni alla tutela
giurisdizionale – delle quali il rimettente si duole sottolineando la mancanza
di un rimedio di integrale ripristino della posizione soggettiva compromessa –
non solo restano, come appena visto, nell’ambito di ciò che è
costituzionalmente tollerabile in esito al descritto bilanciamento, ma non sono
comunque ignote al sistema normativo.
Come ricordato anche nella sentenza n. 49 del
2011 (punto 4.5. del Considerato in dirtto, dove
si menziona il disposto dell’art. 2058 del codice civile, richiamato dall’art.
30 cod. proc. amm.), l’esclusione della tutela
costitutiva di annullamento e la limitazione della protezione giurisdizionale
al risarcimento per equivalente non è un’opzione sconosciuta al nostro
ordinamento. Si tratta, al contrario, di una scelta che corrisponde a una
«tecnica di tutela assai diffusa e ritenuta pienamente legittima in numerosi e
delicati comparti», tra i quali l’ambito lavoristico, come ha osservato la
giurisprudenza di legittimità occupandosi proprio delle disposizioni qui
censurate (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 13 dicembre
2018, n. 32358). E anche questa Corte, pronunciandosi sullo stesso tema delle
tutele obbligatorie in ambito lavoristico, «ha espressamente negato che il
bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., terreno su cui non
può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore, imponga un determinato
regime di tutela (sentenza
n. 46 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto)», riconoscendo che
«[i]l legislatore ben può, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere
un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del
2011), purché un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di
ragionevolezza» (sentenza
n. 194 del 2018).
D’altro canto, se, come appena visto, il
risarcimento rappresenta in linea generale una forma in sé non inadeguata di
protezione delle posizioni dei soggetti colpiti dalle sanzioni sportive, non va
trascurato il rilievo che assume, nell’ambito di una vicenda connotata pubblicisticamente quale quella in esame, l’accertamento
incidentale condotto dal giudice amministrativo sulla legittimità dell’atto, di
cui anche gli organi dell’ordinamento sportivo non possono non tenere conto.
L’esclusione della tutela costitutiva non
comporta di regola conseguenze costituzionalmente inaccettabili nemmeno sul
piano della adeguatezza della tutela cautelare, nel senso dell’impossibilità di
ottenere la sospensione interinale dell’efficacia degli atti di irrogazione
delle sanzioni disciplinari sportive. L’esigenza di protezione provvisoria
delle pretese fatte valere in giudizio, ricadente essa stessa nell’ambito di
operatività delle garanzie offerte dagli artt. 24, 103 e 113 Cost., può trovare
invero una risposta nei caratteri di atipicità e ampiezza delle misure
cautelari a disposizione di tale giudice – che in base all’art. 55 cod. proc. amm. può adottare le «misure cautelari […] che appaiono,
secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti
della decisione sul ricorso» – e nella possibilità che in questo ambito vengano
disposte anche ingiunzioni a pagare somme in via provvisoria.
3.3.– In secondo luogo, il TAR rimettente
chiede espressamente un riesame della questione già decisa da questa Corte
nella citata sentenza
n. 49 del 2011, sull’assunto che permarrebbero profili di contrasto con
l’art. 24 Cost. letto in combinato disposto con gli stessi artt. 103 e 113
Cost., perché la sentenza
n. 49 del 2011 avrebbe riconosciuto la «equipollenza» tra le due forme di
tutela, caducatoria e risarcitoria, in mancanza di un
principio generale dell’ordinamento che lo consenta e di una «espressa scelta»
del legislatore, che dovrebbe avere comunque natura eccezionale.
In questa prospettiva i motivi di censura si
risolvono in una critica alla pronuncia di questa Corte nella parte in cui ha
giudicato conforme a Costituzione un assetto normativo che, in base al diritto
vivente, riconosce al destinatario della sanzione la sola tutela risarcitoria.
La critica tende, in definitiva, a dimostrare che le disposizioni censurate,
anche se interpretate nel senso accolto dalla sentenza n. 49 del
2011, violerebbero l’art. 24 Cost., riconoscendo una tutela che non
equivale a quella caducatoria, sia per la diversità
del bene della vita conseguibile ope iudicis, giacché con l’annullamento di una sanzione
disciplinare non ancora eseguita si può ottenere il completo ripristino della
situazione soggettiva compromessa, anziché una «prestazione diversa da quella
originaria», sia per l’aggravio dell’onere probatorio da assolvere ai fini del
risarcimento del danno, avente per oggetto gli elementi costitutivi
dell’illecito civile.
Il giudice a quo muove da una lettura non
corretta della sentenza
n. 49 del 2011, la quale non afferma la «equipollenza» tra le due tutele,
ma si limita a escludere che la mancanza di un giudizio di annullamento sia di
per sé in contrasto con quanto previsto dall’art. 24 Cost., in quanto la
disciplina in discussione riconosce all’interessato, secondo il diritto
vivente, «una diversificata modalità di tutela giurisdizionale». La sentenza
prende le mosse dall’espresso presupposto che la forma di tutela per
equivalente sia sicuramente diversa rispetto a quella in via generale
attribuita al giudice amministrativo, ma giudica il rimedio risarcitorio di
regola idoneo a garantire un’attitudine riparatoria adeguata (punto 4.5. del
Considerato in diritto).
La soluzione non si fonda dunque su una
presunta equiparazione dei due rimedi, che all’evidenza non sussiste, ma, come
ripetuto più volte, sulla non irragionevolezza dello specifico limite
legislativo posto alla tutela delle posizioni soggettive lese, la cui
introduzione non deve ritenersi in assoluto preclusa dalle norme costituzionali
che garantiscono il diritto di difesa e il principio di effettività della
tutela giurisdizionale.
Per tutte le ragioni già esposte sopra, non è
quindi pertinente il richiamo, operato dal giudice a quo, alla natura generale
della tutela caducatoria di fronte all’invalidità
degli atti amministrativi, e alla prospettata eccezionalità delle disposizioni
che ne prevedono la sostituzione con quella risarcitoria. E del resto è lo
stesso giudice a quo che, nell’ipotizzare che alla tutela generale di
annullamento possa sostituirsi il risarcimento del danno, sia pure per scelta
legislativa eccezionale, finisce per presupporre che la prima non ha natura
costituzionalmente inderogabile.
4.– In conclusione, le questioni non sono
fondate sotto nessuno dei profili prospettati dal rimettente.
Per Questi
Motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 2, commi 1, lettera b), e 2, del decreto-legge 19 agosto 2003, n. 220
(Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva), convertito, con
modificazioni, nella legge 17 ottobre 2003, n. 280, sollevate dal Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio, in riferimento agli artt. 24, 103 e 113
della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 aprile 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 giugno 2019.