SENTENZA N. 105
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 70 e 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nel testo antecedente alle modificazioni apportate dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 (Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), promosso dalla Corte d’appello di Trieste, nel procedimento instaurato da A. C. nei confronti della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, con ordinanza del 9 febbraio 2017, iscritta al n. 88 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di costituzione della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense;
udito nell’udienza pubblica del 10 aprile 2018 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
udito l’avvocato Massimo Luciani per la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 9 febbraio 2017, iscritta al n. 88 del registro ordinanze del 2017, la Corte d’appello di Trieste ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 70 e 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nel testo antecedente alle modificazioni apportate dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 (Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui «vietano in sostanza l’erogazione dell’indennità di maternità al padre adottivo anche nel caso in cui la madre abbia rinunziato a detta prestazione».
Il giudice a quo prospetta la violazione degli artt. 3, primo e secondo comma, 29, primo comma, 31, primo e secondo comma, 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 12 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 e agli artt. 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
1.1.– La Corte rimettente espone di dover decidere sull’appello proposto da un avvocato iscritto alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, che ha chiesto alla Cassa professionale il riconoscimento dell’indennità di maternità in riferimento all’adozione internazionale di tre minori stranieri e ha dedotto, a fondamento della richiesta, che la moglie ha rinunciato espressamente all’indennità di maternità di sua spettanza.
La richiesta è stata respinta dalla Cassa professionale, con provvedimento confermato dalla sentenza impugnata del Tribunale ordinario di Pordenone, in funzione di giudice del lavoro, sul presupposto che la sentenza di questa Corte n. 385 del 2005, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale degli artt. 70 e 72 del d.lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui non prevedono che spetti al padre, in alternativa alla madre, percepire l’indennità di maternità, si configuri come «sentenza additiva di principio» e non sia autoapplicativa.
La Corte rimettente, nella disamina delle ragioni di gravame, muove dalla premessa che il padre possa godere dell’indennità di maternità, in sostituzione della madre, nelle sole ipotesi tassativamente definite dall’art. 70 e, per i casi di affidamento e di adozione, dall’art. 72 del d.lgs. n. 151 del 2001, che a sua volta rinvia alle disposizioni del citato art. 70 e non prevede l’ipotesi della rinuncia della madre.
Anche l’art. 70, comma 3-ter, del d.lgs. n. 151 del 2001, aggiunto dal d.lgs. n. 80 del 2015 e peraltro ratione temporis inapplicabile a una richiesta risalente al 2012, avrebbe contemplato le sole ipotesi della morte, della grave infermità della madre, dell’abbandono, dell’affidamento esclusivo al padre, senza includere la fattispecie della rinuncia della madre.
Il giudice a quo argomenta che, con riguardo ai congedi disciplinati dagli artt. 28 e 31 del d.lgs. n. 151 del 2001, la posizione dei genitori è paritaria, in quanto il padre può goderne quando la madre non abbia avanzato la relativa richiesta.
La medesima esigenza di trattamento uniforme dei due genitori si ravviserebbe anche nel caso dell’adozione, «in cui la situazione dei genitori è assolutamente paritaria dal momento, come qui, di ingresso dei figli adottivi in famiglia che costituisce come evidente il momento di partenza della nuova vita familiare». Nell’ipotesi dell’adozione, difatti, l’indennità di maternità non perseguirebbe una funzione di tutela della salute della madre: rivestirebbe rilievo preminente la finalità di garantire al fanciullo «un’assistenza completa […] nella delicata fase del suo inserimento in famiglia» e dovrebbe essere salvaguardata la libertà dei genitori di scegliere «chi debba assentarsi dal lavoro per assistere il bambino».
1.2.– L’assetto delineato dal legislatore contrasterebbe con l’art. 3, primo e secondo comma, Cost., in quanto, nell’ipotesi di adozione, dovrebbe essere garantita la parità di trattamento dei genitori con riguardo alla fruizione dell’indennità di maternità, così come avviene per i congedi previsti dall’art. 31 del d.lgs. n. 151 del 2011, che attribuisce al padre il diritto al congedo, quando non sia richiesto dalla madre. Nel caso di specie, non si ravviserebbe alcuna ragione «per una tutela diversificata della sola figura materna».
Il rimettente denuncia, inoltre, la violazione dell’art. 29, primo comma, Cost. e argomenta che il diniego dell’indennità di maternità, soprattutto nell’ipotesi di «contestuale ingresso in famiglia […] di tre figli minori adottivi» pregiudicherebbe il «valore costituzionale del disposto dell’art. 29 I comma Cost. in materia di diritti della famiglia» e precluderebbe «una ragionevole e paritaria soluzione al caso in oggetto».
La disciplina censurata sarebbe lesiva dell’art. 31, primo e secondo comma, Cost., che protegge «la maternità e l’infanzia e, in termini più estesi, la condizione di genitore» «anche con misure economiche e provvidenze». Invero, il diniego dell’indennità di maternità pregiudicherebbe «la formazione di una famiglia, o come qui il suo incremento, […] e l’adempimento dei compiti genitoriali».
Le disposizioni censurate, nel determinare un trattamento deteriore per il genitore adottivo, si porrebbero in contrasto anche con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 12 e 14 della CEDU e agli artt. 21 e 23 della CDFUE. Sarebbero violati, in particolare, il «diritto a contrarre matrimonio ed a fondare una famiglia» (art. 12 della CEDU), il principio «di non discriminazione per ragioni di sesso» (artt. 14 della CEDU e 21 della CDFUE), il principio di «parità fra uomo e donna in materia di lavoro, retribuzione ed occupazione» (art. 23 della CDFUE).
2.– Con atto depositato l’11 luglio 2017, si è costituita la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, e ha chiesto di dichiarare inammissibili e comunque infondate le questioni di legittimità costituzionale proposte dalla Corte d’appello di Trieste, con argomentazioni riprese anche nella memoria illustrativa depositata in vista dell’udienza.
2.1.– In punto di ammissibilità, la Cassa forense osserva che l’ordinanza di rimessione sarebbe carente di motivazione sul profilo della rilevanza e non descriverebbe in modo esauriente la fattispecie concreta, soprattutto per quel che attiene alla posizione assicurativa della moglie del ricorrente.
L’inammissibilità si riscontrerebbe anche sotto un ulteriore profilo. A fronte di vicende risalenti al 2012, il rimettente si limiterebbe a menzionare le disposizioni del d.lgs. n. 151 del 2001, senza chiarire se si tratti della formulazione successiva o precedente alla novella del 2015, e indicherebbe soltanto per relationem il contenuto della disposizione censurata, attraverso il mero richiamo all’interpretazione offerta in primo grado.
Nella memoria illustrativa la difesa della Cassa professionale formula un’ulteriore eccezione di inammissibilità per aberratio ictus e rileva che, in base alla disciplina applicabile ratione temporis alle lavoratrici autonome iscritte alla gestione separata (art. 64, comma 2, del d.lgs. n. 151 del 2001), il nucleo familiare del ricorrente avrebbe potuto fruire dell’indennità di maternità, commisurata a cinque mensilità, ma non avrebbe potuto beneficiare della «flessibilità nella prestazione (o meno) dell’attività lavorativa nel periodo dell’erogazione dell’indennità».
Il rimettente, pertanto, avrebbe dovuto censurare l’art. 64 del d.lgs. n. 151 del 2001, nella versione applicabile alla vicenda controversa, nella parte in cui esclude tale flessibilità nella prestazione, consentita soltanto a far data dall’entrata in vigore dell’art. 13, comma 1, della legge 22 maggio 2017, n. 81 (Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato), che ora concede l’indennità di maternità alle lavoratrici iscritte alla gestione separata a prescindere dalla effettiva astensione dall’attività lavorativa.
Anche la motivazione in punto di non manifesta infondatezza, con particolare riguardo alle disposizioni della CEDU e della CDFUE, sarebbe lacunosa. Il giudice a quo avrebbe richiamato in modo apodittico una pluralità di parametri costituzionali eterogenei, senza far luce sulle ragioni del contrasto della disposizione censurata con i precetti invocati.
Lacunosa e ambigua sarebbe anche l’individuazione del petitum, in quanto il rimettente non avrebbe specificato il verso dell’addizione richiesta alla Corte e non ne avrebbe chiarito il carattere costituzionalmente imposto.
La questione sollevata sarebbe inammissibile anche per l’omessa sperimentazione di un’interpretazione conforme a Costituzione. Il giudice a quo avrebbe trascurato di esplorare una diversa interpretazione del dato normativo, così da riconoscere al ricorrente «a causa della rinuncia della moglie, l’indennità di maternità spettante a quest’ultima, estendendo al libero professionista il trattamento del lavoratore autonomo». Nella memoria illustrativa, si lamenta che il rimettente non abbia approfondito la praticabilità di un’interpretazione adeguatrice, che sancisca il diritto del ricorrente di percepire l’indennità di maternità dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e non già dalla Cassa forense.
2.2.– La questione, nel merito, non sarebbe fondata.
Non sarebbe appropriato il richiamo all’art. 29, primo comma, Cost., che tutela la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, e all’art. 31, primo e secondo comma, Cost. L’ordinamento, nella vicenda in esame, avrebbe riconosciuto all’altro coniuge il beneficio dell’indennità di maternità, preordinato «ad agevolare l’inserimento dei minori nell’ambiente familiare», e avrebbe così già apprestato provvidenze efficaci per la tutela della famiglia.
Neppure il richiamo alla Carta di Nizza sarebbe pertinente, in quanto i diritti fondamentali che essa garantisce sarebbero provvisti di forza precettiva, solo quando una normativa nazionale rientri nell’àmbito di applicazione del diritto dell’Unione. Tale ipotesi non ricorrerebbe nel caso di specie.
La disposizione censurata non recherebbe alcun vulnus al «diritto a contrarre matrimonio ed a fondare una famiglia» (art. 12 della CEDU) e non determinerebbe alcuna discriminazione nel godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla stessa Convenzione (art. 14 della CEDU).
La sentenza n. 385 del 2005, addotta dal rimettente a sostegno delle censure di violazione dell’art. 3 Cost., demanderebbe comunque al legislatore «il compito di approntare un meccanismo attuativo che consenta anche al lavoratore padre un’adeguata tutela».
Il d.lgs. n. 80 del 2015, nell’estendere e nel differenziare le tutele già accordate dal d.lgs. n. 151 del 2001, avrebbe concesso al padre libero professionista di accedere al beneficio dell’indennità di maternità quando la madre libera professionista non sia in grado di assistere il minore. Sarebbe stata così completata e rafforzata la “rete di solidarietà”, che assicura in ogni caso la presenza di una «figura genitoriale in grado di accudire il minore, sgravata dalle incombenze del lavoro (dipendente o libero professionale)».
Sarebbe ininfluente il fatto che «in via ordinaria il legislatore incardini nella figura femminile della coppia il beneficio legato alla maternità», poiché, nell’essenziale prospettiva della tutela del minore, nella specie efficacemente salvaguardata, «eventuali profili differenziali nel trattamento delle due figure genitoriali sono irrilevanti».
Non sarebbe meritevole di tutela la pretesa di scegliere arbitrariamente, per ragioni di mero calcolo economico, il soggetto chiamato a beneficiare dell’indennità di maternità, tanto più che le libere professioniste e i liberi professionisti «non sopportano l’astensione obbligatoria dal lavoro».
L’odierna disciplina, novellata nel 2015, non presenterebbe, pertanto, i profili di illegittimità costituzionale denunciati dal rimettente in riferimento all’art. 3 Cost.
Quanto alla disciplina previgente, già dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 385 del 2005, la Corte non potrebbe che pronunciare una nuova sentenza additiva di principio, ugualmente sprovvista di immediata efficacia applicativa. Sarebbe necessaria l’interposizione del legislatore, per definire le modalità di erogazione dell’indennità «in modo coerente con l’interesse pubblico e di tutte le parti coinvolte» e per individuare, tra molteplici alternative, i parametri di calcolo dell’indennità di paternità e l’ente obbligato a sostenere l’onere assistenziale.
La scelta di far gravare tale onere sulla cassa professionale, alimentata dalla solidarietà della categoria, non solo esulerebbe dalle soluzioni costituzionalmente obbligate, ma sarebbe arbitraria, perché dipenderebbe dalla casuale decisione del professionista iscritto o «ancor più paradossalmente» del coniuge che iscritto non sia.
La stessa Corte di cassazione, sezione lavoro, con la sentenza 15 gennaio 2013, n. 809, avrebbe escluso il diritto del padre libero professionista di percepire l’indennità di maternità in aggiunta a quella erogata alla madre adottiva. Il principio di alternatività nel godimento del beneficio in esame non implicherebbe il diritto di scegliere liberamente l’ente previdenziale chiamato a corrispondere il trattamento, «secondo calcoli di convenienza economica incompatibili con la natura pubblicistica e solidaristica della tutela previdenziale e assistenziale», in una logica improntata a uno «shopping delle tutele».
3.– All’udienza pubblica del 10 aprile 2018, la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense ha ribadito le conclusioni e le argomentazioni svolte negli scritti difensivi.
Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Trieste dubita della legittimità costituzionale degli artt. 70 e 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nel testo antecedente alle modificazioni apportate dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 (Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183).
Il giudice a quo censura le disposizioni in esame nella parte in cui «vietano in sostanza l’erogazione dell’indennità di maternità al padre adottivo anche nel caso in cui la madre abbia rinunziato a detta prestazione».
Il divieto di corrispondere l’indennità di maternità al padre adottivo, in sostituzione della madre che rinunci a tale trattamento, contrasterebbe con l’art. 3, primo e secondo comma, della Costituzione. Nell’ipotesi di adozione, dovrebbe essere garantita la parità di trattamento dei genitori con riguardo alla fruizione dell’indennità di maternità, così come avviene per i congedi previsti dall’art. 31 del d.lgs. n. 151 del 2011, che attribuisce al padre il diritto al congedo, quando non sia richiesto dalla madre. Nel caso di specie, non si ravviserebbe alcuna ragione «per una tutela diversificata della sola figura materna».
Il rimettente denuncia, inoltre, la violazione dell’art. 29, primo comma, Cost., sul presupposto che il diniego dell’indennità di maternità, soprattutto nell’ipotesi di «contestuale ingresso in famiglia […] di tre figli minori adottivi», pregiudichi il «valore costituzionale del disposto dell’art. 29 I comma Cost. in materia di diritti della famiglia» e sia di ostacolo a «una ragionevole e paritaria soluzione al caso in oggetto».
La disciplina censurata sarebbe lesiva dell’art. 31, primo e secondo comma, Cost., che protegge «la maternità e l’infanzia e, in termini più estesi, la condizione di genitore» «anche con misure economiche e provvidenze». Invero, il diniego dell’indennità di maternità pregiudicherebbe «la formazione di una famiglia, o come qui il suo incremento, e l’adempimento dei compiti genitoriali».
Le disposizioni censurate, nel determinare un trattamento deteriore per il genitore adottivo, si porrebbero in contrasto anche con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 12 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. Sarebbero violati il «diritto a contrarre matrimonio ed a fondare una famiglia» (art. 12 della CEDU), il principio «di non discriminazione per ragioni di sesso» (artt. 14 della CEDU e 21 della CDFUE), il principio di «parità fra uomo e donna in materia di lavoro, retribuzione ed occupazione» (art. 23 della CDFUE).
2.– La Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense ha eccepito l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale in ragione dell’omessa motivazione sulla rilevanza, dell’indicazione equivoca della disposizione censurata e dell’aberratio ictus.
Tali eccezioni, che precluderebbero in radice lo scrutinio di questa Corte e investono a vario titolo il profilo pregiudiziale della rilevanza, devono essere esaminate preliminarmente e sono da disattendere.
2.1.– La Cassa forense lamenta che il giudice a quo non abbia neppure fatto parola del requisito della rilevanza e osserva che tale lacuna, in virtù del principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione, non può essere colmata dall’esame diretto degli atti di causa.
L’eccezione non è fondata.
La motivazione sulla rilevanza è da intendersi correttamente formulata quando illustra le ragioni che giustificano l’applicazione della disposizione censurata e determinano la pregiudizialità della questione sollevata rispetto alla definizione del processo principale.
Nel caso di specie, il carattere pregiudiziale della questione emerge con chiarezza dalla descrizione della fattispecie che ha svolto il rimettente.
Il giudice a quo evidenzia che la madre adottiva ha rinunciato all’indennità di maternità prevista dagli artt. 70 e seguenti del d.lgs. n. 151 del 2001 e che il padre adottivo ha chiesto alla Cassa professionale di poterne fruire in alternativa alla madre, in ossequio alle enunciazioni di principio della sentenza n. 385 del 2005. La domanda è stata respinta in primo grado, sul presupposto che la declaratoria di illegittimità costituzionale comunque richieda un espresso intervento del legislatore, e tale statuizione è stata impugnata dal ricorrente con il primo motivo di gravame.
La Corte rimettente, con una motivazione non implausibile, ha dato conto delle ragioni che inducono a dare applicazione agli artt. 70 e 72 del d.lgs. n. 151 del 2001, disposizioni invocate dal ricorrente a sostegno della domanda e poste dallo stesso giudice di primo grado a fondamento della sentenza impugnata.
Il giudice a quo, inoltre, specifica che il vaglio di legittimità costituzionale è richiesto a questa Corte anche sull’art. 70 del d.lgs. n. 151. L’art. 72, nel regolare l’indennità di maternità spettante, nel caso di filiazione adottiva, alle libere professioniste iscritte a forme obbligatorie di previdenza, sarebbe modellato sulla disciplina generale dettata dall’art. 70 per la filiazione biologica.
2.2.– La Cassa forense assume che l’ordinanza di rimessione non sia univoca nell’individuare l’oggetto della censura e nell’indicare «quale formulazione degli artt. 70 e 72 del d.lgs. n. 151 del 2001 sia ritenuta applicabile al caso di specie».
Il rimettente descrive la fattispecie in modo tale da non destare incertezze in ordine alle censure degli artt. 70 e 72 del d.lgs. n. 151 del 2001, nella formulazione antecedente alle innovazioni recate dal d.lgs. n. 80 del 2015.
Il rimettente pone in risalto, in primo luogo, il dato temporale e sottolinea che «la domanda di prestazione risale all’anno 2012 e quindi a prima della novella del 2015 di cui al d.lgs. 80». Questo dato cronologico, di per sé inequivocabile, è poi avvalorato dall’osservazione che le censure si indirizzano contro la normativa «in base all’interpretazione datane in I grado», ovvero con riferimento a una sentenza che, nella ricostruzione degli antecedenti processuali delineata dal rimettente, risale al 28 gennaio 2015, ben prima dell’entrata in vigore, il 25 giugno 2015, delle nuove disposizioni (art. 28 del d.lgs. n. 80 del 2015).
Il giudice a quo ha dunque inteso menzionare la normativa del 2015 ad abundantiam, a sostegno della notazione che neanche tale disciplina varrebbe a tutelare la posizione del ricorrente, poiché non sancisce una perfetta equivalenza tra padre e madre adottivi nell’accesso al beneficio dell’indennità di maternità. Pertanto, la normativa sopravvenuta è inapplicabile ratione temporis ed esula dallo scrutinio demandato a questa Corte.
2.3.– Nella memoria illustrativa depositata in vista dell’udienza la Cassa forense ha rilevato inoltre che, in base alla disciplina applicabile ratione temporis alle lavoratrici autonome iscritte alla gestione separata (art. 64, comma 2, del d.lgs. n. 151 del 2001), il nucleo familiare del ricorrente non avrebbe potuto beneficiare della «flessibilità nella prestazione (o meno) dell’attività lavorativa nel periodo dell’erogazione dell’indennità». Solo con l’entrata in vigore dell’art. 13, comma 1, della legge 22 maggio 2017, n. 81 (Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato), tale flessibilità sarebbe stata pienamente garantita e l’indennità di maternità sarebbe stata riconosciuta alle lavoratrici iscritte alla gestione separata, a prescindere dalla effettiva astensione dall’attività lavorativa.
Il rimettente, dunque, avrebbe dovuto censurare l’art. 64, comma 2, del d.lgs. n. 151 del 2001, nella formulazione applicabile alla fattispecie controversa, nella parte in cui preclude la flessibilità nella prestazione dell’attività lavorativa nel periodo dell’erogazione dell’indennità.
Una tale eccezione di aberratio ictus non coglie nel segno.
Le censure del rimettente non si concentrano sulla flessibilità nella prestazione dell’attività lavorativa, aspetto estraneo al tema del decidere devoluto al vaglio di questa Corte, quanto piuttosto sulla mancata equiparazione di madre e padre adottivi nel godimento dell’indennità di maternità, in coerenza con le enunciazioni della sentenza n. 385 del 2005.
3.– Di quest’ultima pronuncia, tuttavia, il rimettente non valuta appieno le implicazioni. Le carenze del percorso argomentativo seguìto finiscono per riverberarsi sulla ammissibilità stessa della questione proposta.
3.1.– Con la sentenza n. 385 del 2005, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 70 e 72 del d.lgs. n. 151 del 2001, «nella parte in cui non prevedono il principio che al padre spetti di percepire in alternativa alla madre l’indennità di maternità, attribuita solo a quest’ultima».
Essa è pervenuta a tale conclusione sulla base del rilievo che il d.lgs. n. 151 del 2001 ha riconosciuto il diritto all’indennità al padre adottivo o affidatario lavoratore dipendente e l’ha escluso per quanti esercitano una libera professione.
Tale disparità «rappresenta un vulnus sia del principio di parità di trattamento tra le figure genitoriali e fra lavoratori autonomi e dipendenti, sia del valore della protezione della famiglia e della tutela del minore» e contraddice la ratio degli istituti a tutela della maternità, che «non hanno più, come in passato, il fine precipuo ed esclusivo di protezione della donna, ma sono destinati alla difesa del preminente interesse del bambino “che va tutelato non solo per ciò che attiene ai bisogni più propriamente fisiologici, ma anche in riferimento alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo che sono collegate allo sviluppo della sua personalità” (sentenza n. 179 del 1993)» (sentenza n. 385 del 2005, punto 6. del Considerato in diritto).
L’astensione dal lavoro, nei casi dell’affidamento e dell’adozione, si prefigge di garantire «una completa assistenza al bambino nella delicata fase del suo inserimento nella famiglia» e l’effettiva parità di trattamento tra i genitori, liberi di accordarsi sull’organizzazione familiare più adeguata, risponde al preminente interesse del minore (sentenza n. 385 del 2005, punto 6. del Considerato in diritto), come ribadito da questa Corte anche nella sentenza n. 285 del 2010.
Si è inoltre specificato che «[n]el rispetto dei principi sanciti da questa Corte, rimane comunque riservato al legislatore il compito di approntare un meccanismo attuativo che consenta anche al lavoratore padre un’adeguata tutela» (sentenza n. 385 del 2005, punto 6. del Considerato in diritto).
3.2.– La Corte rimettente ricorda che il Tribunale ordinario di Pordenone ha negato al padre l’indennità di maternità, poiché ha ravvisato nella sentenza n. 385 del 2005 una «sentenza additiva di principio», che richiede l’interposizione del legislatore, e puntualizza inoltre che il ricorrente, con il primo motivo di gravame, ha prospettato la violazione dei princìpi enunciati dalla giurisprudenza costituzionale.
Il giudice a quo argomenta che «l’intervento della Corte Costituzionale di cui alla sentenza n. 385/2005 richiamata dall’attore ha natura non certo autoapplicativa essendo comunque necessario un intervento legislativo sul tema (vedi, sul tema ed in tale preciso senso, Cass. 8594/2016)» e, su tale presupposto, sollecita una nuova pronuncia di questa Corte, calibrata sulla specifica vicenda sottoposta al suo giudizio, concernente un padre libero professionista che intenda conseguire l’indennità di maternità al posto della madre che a tale indennità abbia rinunciato.
3.3.– La Corte rimettente prende le mosse dall’erroneo presupposto che, in difetto di un intervento del legislatore, il principio enunciato da questa Corte con la sentenza n. 385 del 2005 non dispieghi alcuna influenza sulla definizione della vicenda controversa.
Al contrario, in conseguenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 70 e 72 del d.lgs. n. 151 del 2001, riguardanti i liberi professionisti iscritti a enti che gestiscono forme obbligatorie di previdenza, la regola che preclude al padre adottivo il godimento dell’indennità di maternità, in posizione di parità con la madre, ha cessato di avere efficacia e non può più ricevere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (artt. 136 Cost. e 30 della legge 11 marzo 1953 n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale»).
In continuità con la giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 295 del 1991, punto 3. del Considerato in diritto), si deve affermare che le dichiarazioni di illegittimità costituzionale corredate dall’addizione di un principio, enunciato in maniera puntuale e quindi suscettibile di diretta applicazione, impongono di ricercare all’interno del sistema la soluzione più corretta (sentenza n. 32 del 1999, punto 6. del Considerato in diritto), anche quando la sentenza ne ha rimesso l’attuazione al legislatore. È dovere del giudice, chiamato ad applicare la Costituzione e le sentenze che questa Corte adotta a garanzia della stessa, fondare la sua decisione sul principio enunciato, che è incardinato nell’ordinamento quale regola di diritto positivo, ancor prima che il legislatore intervenga per dare ad esso piena attuazione.
In tale direzione, del resto, si è già orientato il diritto vivente, quando ha affermato che, nelle more dell’intervento legislativo, la norma applicabile, idonea a produrre effetti nell’ordinamento, è solo quella che si ispira al principio enunciato da questa Corte (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 25 gennaio 2017, n. 1946).
Nel caso in discussione, questa circostanza si è verificata in modo inequivocabile.
Questa Corte non può dunque pronunciarsi una seconda volta, come richiede il giudice a quo, indotto dalla considerazione che non si possa altrimenti dirimere la controversia pendente (in termini analoghi, sentenza n. 295 del 1991, punto 3. del Considerato in diritto, ripresa dalla sentenza n. 74 del 1996, punto 2. del Considerato in diritto).
Il principio di parità tra i genitori adottivi conforma, difatti, la disciplina dell’indennità di maternità, che oramai vive nell’ordinamento, innervata dal principio ordinatore che questa Corte ha introdotto, come peraltro affermato anche dalla Corte di cassazione in una pronuncia recente (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 27 aprile 2018, n. 10282).
In conclusione, al principio, enunciato in maniera puntuale nei termini di una perfetta parità tra i genitori adottivi, il giudice dovrà dunque fare riferimento per individuare un criterio di giudizio della controversia che è chiamato a decidere.
3.4.– Ogni altro possibile profilo di inammissibilità resta assorbito.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 70 e 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nel testo antecedente alle modificazioni apportate dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 (Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), sollevate dalla Corte d’appello di Trieste, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 29, primo comma, 31, primo e secondo comma, 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 12 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 aprile 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2018.