SENTENZA N. 95
ANNO 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), promosso dal Tribunale ordinario di Palermo, nel procedimento penale a carico di A. C., con ordinanza del 13 luglio 2017, iscritta al n. 147 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visti l’atto di costituzione di A. C., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 5 febbraio 2019 il Giudice relatore Franco Modugno;
uditi l’avvocato Antonio Gargano per A. C. e l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 13 luglio 2017, il Tribunale ordinario di Palermo ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), «nella parte in cui non prevede che la condotta delittuosa ivi descritta sia punibile quando, congiuntamente: a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, ad euro trentamila; b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al cinque per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, superiore ad euro un milione cinquecentomila, ovvero qualora l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta, è superiore al cinque per cento dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque a euro trentamila».
Il giudice a quo premette di essere investito del processo nei confronti di una persona imputata del reato di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, per aver utilizzato, in qualità di legale rappresentante di una società in accomandita semplice, due fatture per operazioni soggettivamente e oggettivamente inesistenti: la prima riportata nella dichiarazione annuale relativa all’anno d’imposta 2007 (presentata il 25 settembre 2008), indicando elementi passivi fittizi per euro 12.176, con evasione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) per euro 2.436; la seconda riportata nella dichiarazione annuale relativa all’anno di imposta 2011 (dichiarazione presentata il 10 settembre 2012), indicando elementi passivi fittizi per euro 18.000, con evasione di IVA per euro 2.436.
La questione sarebbe, dunque, rilevante. L’imputato è chiamato, infatti, a rispondere di operazioni fraudolente che per ciascun anno d’imposta si collocano ben di sotto alla soglia dei trentamila euro di imposta evasa, con la conseguenza che l’accoglimento della questione renderebbe le condotte contestate penalmente irrilevanti.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo rileva che la norma censurata non prevede alcuna soglia di punibilità in relazione al delitto, da essa delineato, di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Ciò a differenza di quanto avviene per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, relativamente al quale l’art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000 prevede invece due distinte soglie: una riferita all’ammontare dell’imposta evasa, l’altra all’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, ovvero dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta.
Secondo il rimettente, tale disparità di trattamento sarebbe arbitraria, essendosi al cospetto di fattispecie sostanzialmente identiche, ormai accomunate dalla «struttura bifasica» e riconducibili all’unico genus della «frode fiscale». Le condotte previste dall’art. 3 esporrebbero, d’altro canto, il bene protetto – costituito dall’interesse dell’erario alla piena e rapida percezione dei tributi – a un pericolo concreto «sicuramente eguale», se non addirittura più elevato, rispetto a quello indotto dalle operazioni punite dall’art. 2.
In base all’interpretazione più diffusa, le due ipotesi criminose si porrebbero in rapporto di specialità reciproca. Al nucleo comune di offensività, costituito dalla presentazione di una dichiarazione infedele, si aggiungono, in chiave specializzante, da un lato, l’utilizzazione di fatture o di documenti aventi un rilievo probatorio analogo, relativi a operazioni inesistenti (art. 2); dall’altro, il compimento di operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente, ovvero l’utilizzazione di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l’accertamento tributario (art. 3).
Un ulteriore indice della sostanziale omogeneità tra le due disposizioni poste a raffronto si ricaverebbe dalla sovrapposizione tra il concetto di «operazioni inesistenti», che compare nell’art. 2, e quello di «operazioni simulate», che figura nell’art. 3, la cui distinzione dipenderebbe «esclusivamente dalla sussistenza o meno del documento contabile nonché della eventuale copertura cartolare offerta dalla fattura».
Una differenza di trattamento così vistosa, quale quella denunciata, non potrebbe essere, d’altronde, giustificata facendo leva sulla particolare efficacia probatoria attribuita dalla legislazione tributaria alla fattura o al documento ad essa analogo. Alla luce della comune esperienza, non si potrebbe, infatti, escludere che il compimento di operazioni simulate e l’impiego di mezzi fraudolenti siano idonei a indurre in errore l’amministrazione finanziaria con il medesimo – se non maggiore – «grado di insidiosità» dell’uso di fatture per operazioni inesistenti.
Al fine di rimuovere il riscontrato vulnus costituzionale, senza invadere la discrezionalità legislativa, occorrerebbe dunque estendere alla fattispecie descritta dalla norma censurata entrambe le soglie di punibilità contemplate dall’art. 3.
2.– Si è costituito A.C., imputato nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento della questione.
La parte privata rileva preliminarmente come il sistema sanzionatorio penale tributario sia stato, di recente, oggetto di revisione ad opera del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23). Nell’occasione, l’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 ha subito «una riforma in peius», in quanto la sanzione penale è stata estesa a tutte le dichiarazioni relative alle imposte sui redditi e all’IVA, anche non annuali. Di contro, l’art. 3 sarebbe stato modificato «in melius», con l’innalzamento di una delle due soglie di punibilità (quella relativa all’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, portata da un milione di euro a un milione e cinquecentomila euro).
Ciò premesso, la parte privata osserva come la sostanziale identità tra le fattispecie poste in comparazione sia testimoniata dal fatto che, anteriormente al d.lgs. n. 74 del 2000, esse erano punite in modo eguale e indistinto a titolo di «frode fiscale» dall’art. 4 del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429 (Norme per la repressione della evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria), convertito, con modificazioni, in legge 7 agosto 1982, n. 516.
L’omogeneità delle due fattispecie incriminatrici sarebbe, poi, confermata dalle incertezze interpretative in ordine ai confini tra le rispettive aree di applicazione, rivelatrici delle strette interconnessioni tra esse esistenti.
La giurisprudenza di legittimità si è espressa, infatti, in modo contrastante riguardo all’inquadrabilità, nell’una o nell’altra ipotesi criminosa, dell’utilizzo di fatture materialmente false. Secondo alcune pronunce, tale condotta integrerebbe il delitto di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000, giacché l’art. 2 punirebbe solo l’uso di documentazione ideologicamente falsa; secondo altre, realizzerebbe invece il reato di cui all’art. 2, in quanto tale disposizione reprimerebbe l’utilizzazione di fatture relative a operazioni inesistenti senza distinguere tra falsità ideologica e falsità materiale, attribuendo rilievo solo all’efficacia probatoria del documento utilizzato a supporto della dichiarazione fraudolenta.
Ugualmente labile sarebbe la distinzione tra i concetti di «operazioni inesistenti» e di «operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente». La giurisprudenza di legittimità antecedente alla riforma del 2015 riteneva che le operazioni «soggettivamente» simulate, riguardo all’IVA, dovessero essere punite a norma dell’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000. Nella relazione redatta il 28 ottobre 2015 a commento della riforma, l’Ufficio del massimario della Corte di cassazione ha prospettato, di contro, la possibilità di distinguere le due condotte secondo un criterio «di tipo formale», in base al quale l’elemento che tipizza l’ipotesi criminosa di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 sarebbe l’efficacia probatoria del documento utilizzato (fattura o documento equivalente in base alle norme tributarie). Il medesimo Ufficio ha, peraltro, posto in evidenza come tale interpretazione, oggi in effetti dominante, faccia sorgere dubbi sulla ragionevolezza di un sistema che diversifica il trattamento – non quanto alla pena, che è identica, ma in rapporto alla previsione di soglie di punibilità nel solo art. 3 (oggi per di più sensibilmente aumentate) – «fra condotte (l’utilizzo di fatture false, il compimento di operazioni simulate, l’uso di altri documenti falsi o di ulteriori mezzi fraudolenti) tutte riconducibili all’unico genus della frode fiscale e fra le quali non è affatto certo che – quanto meno in determinate fattispecie – proprio quelle di cui all’art. 3 non rappresentino, per la particolare insidiosità, un pericolo concreto più elevato per il bene giuridico presidiato dall’ordinamento».
3.– È intervenuto, altresì, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.
In via preliminare, la difesa dello Stato segnala un possibile errore materiale dell’ordinanza di rimessione nella quantificazione dell’evasione di IVA che sarebbe derivata, nel caso di specie, dall’utilizzazione della seconda delle due fatture per operazioni inesistenti (l’ammontare corretto, tenuto conto dell’importo della fattura, sarebbe euro 3.600, anziché euro 2.436): errore materiale che non inciderebbe, comunque sia, sulla rilevanza della questione.
Nel merito, l’Avvocatura dello Stato assume che le fattispecie di reato poste a raffronto dal giudice a quo – benché dirette entrambe a tutelare l’attività di accertamento dell’amministrazione finanziaria – sarebbero profondamente diverse tra loro. Il delitto di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 costituirebbe un reato di pericolo, essendo sufficiente, per la sua configurabilità, che la dichiarazione si fondi su fatture, o altri documenti analoghi, per operazioni inesistenti. La norma incriminatrice risulterebbe strettamente correlata a quella del successivo art. 8, che prevede l’ipotesi inversa di chi emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti al fine di consentire a terzi di evadere l’IVA o le imposte sui redditi, assoggettandola alla medesima pena (reclusione da un anno e sei mesi a sei anni).
L’art. 3 contemplerebbe, invece, un reato di danno, essendo necessaria, per la sua realizzazione, una concreta lesione dell’interesse del fisco alla tempestiva ed integrale percezione del tributo. La disposizione prevede, infatti, che i documenti falsi o gli altri mezzi fraudolenti debbano essere «idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria».
Tale diversa natura delle fattispecie delittuose escluderebbe, già da sola, la pretesa irragionevolezza del loro differente regime punitivo.
L’interveniente reputa, in ogni caso, infondata la tesi del giudice rimettente, secondo la quale le condotte previste dall’art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000 esporrebbero il bene protetto a un pericolo non inferiore a quello determinato dalle operazioni punite dall’art. 2. Sarebbe, di contro, innegabile che l’utilizzazione di fatture o altri documenti equiparati per operazioni inesistenti costituisca condotta maggiormente offensiva, rispetto all’utilizzazione di altri documenti non veridici che hanno un diverso ruolo rispetto agli obblighi tributari.
La fattura è, infatti, il documento principale nel particolare meccanismo dell’IVA, la quale, a sua volta, è un’imposta armonizzata a livello europeo. Dal combinato disposto degli artt. 19, comma 1, e 21, commi 1, 4, 5 e 6, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto) si desume, in specie, che l’emissione della fattura determina tanto l’insorgenza dell’obbligo – di regola per il cedente o il prestatore – di versare l’imposta, quanto la nascita del diritto alla detrazione dell’imposta in capo al cessionario del bene o al committente del servizio. Ed è proprio su tale detrazione che si inseriscono i noti meccanismi di frode al fisco, quali, ad esempio, le cosiddette frodi carosello.
Anche ai fini delle imposte dirette, peraltro, la fattura svolgerebbe un ruolo di tutto rilievo, consentendo la deduzione dei costi ivi riportati.
La scelta legislativa di reprimere con sanzioni penali l’emissione e l’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, lungi dal risultare irrazionale, si rivelerebbe, pertanto, necessaria al fine di garantire l’idoneità dei controlli da parte del fisco. Al tempo stesso, la peculiare funzione che la fattura assolve in campo tributario giustificherebbe una previsione sanzionatoria che «prescinda dall’importo della operazione inesistente (indicata nel documento come reale)», configurando come ipotesi di effettivo pericolo «il solo fatto della utilizzazione di un documento ideologicamente falso».
4.– La parte privata ha depositato una memoria, intesa a replicare alle difese dell’Avvocatura dello Stato.
Secondo la parte costituita sarebbe erronea, in primo luogo, l’affermazione dell’Avvocatura, in base alla quale le due fattispecie avrebbero diversa natura, essendo l’una un reato di pericolo e l’altra un reato di danno.
La formula descrittiva delle condotte incriminate renderebbe, infatti, evidente come entrambe le ipotesi delittuose ruotino attorno a un doppio disvalore: da un lato, un danno patrimoniale, rappresentato dal minor gettito fiscale; dall’altro, un danno alla funzione di accertamento dell’amministrazione finanziaria, conseguente al ricorso a uno strumento ingannatorio. Il primo contenuto offensivo – insito nel fatto che le due norme richiedono una evasione di imposta, rappresentata, in base alla definizione di cui all’art. 1, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 74 del 2000, dalla differenza tra l’imposta dichiarata e quella dovuta – costituirebbe il nucleo di un evento di danno erariale, con la conseguenza che sarebbe inesatto concludere che si tratti di reato di mero pericolo.
Nel senso della natura di reato di danno deporrebbe anche l’elemento psicologico del delitto previsto dall’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, rappresentato dal «fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto», il quale svolgerebbe una funzione anche a livello oggettivo, implicando quanto meno l’idoneità della condotta a raggiungere lo scopo perseguito e, quindi, a offendere il bene giuridico protetto.
Parimente non condivisibile sarebbe l’ulteriore tesi dell’Avvocatura dello Stato, stando alla quale il differente regime delle due fattispecie sarebbe giustificato dalla particolare natura del documento usato per commettere la frode. Alla luce dell’avvenuta riscrittura della norma incriminatrice di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000 – nella quale è stato, in particolare, eliminato il riferimento alla «falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie» e inserita una più articolata descrizione delle condotte artificiose – nonché della previsione punitiva dell’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, di cui all’art. 8 del medesimo decreto legislativo, si dovrebbe ritenere che l’utilizzazione di una fattura materialmente falsa a sostegno di una dichiarazione mendace ricada nella sfera applicativa del citato art. 3 – sub specie di uso di documenti falsi o di mezzo fraudolento – e non in quello dell’art. 2 (che avrebbe riguardo al solo falso ideologico).
Ciò renderebbe evidente l’omogeneità delle due figure criminose e, con essa, la manifesta irragionevolezza della mancata previsione, nell’art. 2 censurato, delle medesime soglie di punibilità prefigurate nel successivo art. 3.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Palermo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), «nella parte in cui non prevede che la condotta delittuosa ivi descritta sia punibile quando congiuntamente: a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, ad euro trentamila; b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al cinque per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, superiore ad euro un milione cinquecentomila, ovvero qualora l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta, è superiore al cinque per cento dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque a euro trentamila».
Il giudice a quo lamenta, in sostanza, che il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti – delineato dalla norma censurata e in rapporto al quale non è attualmente prevista alcuna soglia di punibilità – non sia invece assoggettato alle medesime soglie di punibilità contemplate dall’art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000 in rapporto al delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici.
Ad avviso del rimettente, la disparità di trattamento fra le due fattispecie risulterebbe arbitraria, e perciò contrastante con l’art. 3 della Costituzione. Le due figure criminose sarebbero, infatti, del tutto omogenee, per struttura e oggettività giuridica, e, d’altra parte, le condotte incriminate dall’art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000 esporrebbero il bene giuridico protetto – costituito dall’interesse dell’erario alla piena e rapida percezione dei tributi – a un pericolo concreto uguale, se non addirittura più elevato, rispetto a quello generato dalle operazioni punite dall’art. 2.
2.– La questione non è fondata.
Lo scrutinio cui è chiamata questa Corte ha, quale unico parametro, l’art. 3 Cost., che si assume violato a motivo dell’asserita manifesta irragionevolezza della scelta legislativa di non prevedere, per il delitto in esame, soglie di punibilità omologhe a quelle prefigurate in rapporto al finitimo delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici: soglie la cui introduzione avrebbe ovviamente l’effetto di restringere il perimetro applicativo della fattispecie criminosa, rendendo penalmente irrilevanti i fatti che non attingano ai livelli quantitativi stabiliti.
Le coordinate dello scrutinio risultano, dunque, segnate dalla nota e costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale la configurazione delle fattispecie criminose e la determinazione della pena per ciascuna di esse costituiscono materia affidata alla discrezionalità del legislatore. Gli apprezzamenti in ordine alla “meritevolezza” e al “bisogno di pena” – dunque, sull’opportunità del ricorso alla tutela penale e sui livelli ottimali della stessa – sono, infatti, per loro natura, tipicamente politici (sentenza n. 394 del 2006). Le scelte legislative in materia sono pertanto censurabili, in sede di sindacato di legittimità costituzionale, solo ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio (ex plurimis, sentenze n. 273 e n. 47 del 2010, ordinanze n. 249 e n. 71 del 2007, nonché, con particolare riguardo al trattamento sanzionatorio, sentenze n. 179 del 2017, n. 236 e n. 148 del 2016), come avviene quando ci si trovi a fronte di diversità di disciplina tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione (tra le altre, sentenze n. 40 del 2019, n. 35 del 2018, n. 79 e n. 23 del 2016, n. 185 del 2015 e n. 68 del 2012). Il confronto tra fattispecie normative, finalizzato a verificare la ragionevolezza delle scelte legislative, presuppone, dunque, necessariamente l’omogeneità delle ipotesi in comparazione (sentenze n. 35 del 2018 e n. 161 del 2009; ordinanza n. 41 del 2009).
3.– Nel caso in esame, di là dai profili di omogeneità effettivamente esistenti, resta, peraltro, il fatto che, tramite la norma censurata, il legislatore ha inteso “isolare”, nell’ambito dell’ampia gamma dei mezzi fraudolenti utilizzabili a supporto di una dichiarazione mendace, uno specifico artificio, al quale viene annesso, sulla base dell’esperienza, uno spiccato coefficiente di “insidiosità” per gli interessi dell’erario.
La disposizione denunciata punisce, infatti, chi, «al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi» (l’aggettivo «annuali», che originariamente qualificava in funzione limitativa il sostantivo «dichiarazioni», è stato soppresso dall’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23). In base alla norma definitoria di cui all’art. 1, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 74 del 2000, per «fatture o altri documenti per operazioni inesistenti» si intendono «le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi». Il fenomeno avuto di mira è, dunque, quello della falsa fatturazione intesa a comprovare operazioni in tutto o in parte non eseguite – in assoluto, o dai soggetti ai quali esse vengono riferite – ovvero con corrispettivi o IVA “gonfiati”, in funzione di una indebita deduzione di costi o detrazione di imposta da parte del contribuente.
L’intento del legislatore di contrastare con rigore il fenomeno si è manifestato non soltanto nella mancata previsione di soglie di punibilità per il delitto che qui interessa – che colpisce l’utilizzatore delle fatture – ma anche nella configurazione di uno speculare delitto in capo all’emittente, egualmente privo di soglie (art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000): delitto che si pone come una eccezionale deviazione rispetto alla fondamentale linea ispiratrice della riforma penale tributaria del 2000, rappresentata dall’abbandono dello schema del cosiddetto “reato prodromico” all’evasione d’imposta (caratteristico del sistema precedente). L’emissione di documentazione per operazioni inesistenti viene, infatti, punita ex se, indipendentemente dalla concreta utilizzazione del documento falso da parte di terzi a scopo di evasione fiscale.
Si è, dunque, di fronte a una precisa strategia, espressiva dell’ampia discrezionalità del legislatore in materia di politica criminale (con riguardo al delitto di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000, sentenza n. 49 del 2002): strategia che, dopo la riforma del 2000, è stata ulteriormente ribadita e rafforzata. Il comma 3 dell’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 prevedeva infatti, originariamente, una pena decisamente più mite (la reclusione da sei mesi a due anni) quando l’ammontare degli elementi passivi fittizi esposti in dichiarazione sulla base delle false fatture fosse inferiore a euro 154.937,07. Tale circostanza attenuante speciale (o ipotesi autonoma attenuata, secondo altra qualificazione) è stata, tuttavia, soppressa – al pari di quella speculare di cui al comma 3 dell’art. 8 del d.lgs. 74 del 2000 – dall’art. 2, comma 36-vicies semel, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), aggiunto dalla legge di conversione 14 settembre 2011, n. 148, nel quadro di un intervento di innalzamento del livello di “attenzione penalistica” in campo tributario.
4.– Tale strategia legislativa non può essere, d’altro canto, considerata manifestamente irragionevole o arbitraria, tenuto conto del particolare ruolo che la fattura e i documenti ad essa equiparati sul piano probatorio dalla normativa fiscale assolvono nel quadro dell’adempimento degli obblighi del contribuente, nonché della capacità di sviamento dell’attività accertativa degli uffici finanziari che l’artificio in questione possiede.
Come nota anche l’Avvocatura dello Stato, la fattura assume un ruolo fondamentale nel sistema di applicazione dell’IVA – tributo armonizzato a livello di diritto dell’Unione europea (segnatamente, in base alla direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto) – perché garantisce l’attuazione del principio della neutralità dell’imposta rispetto ai soggetti passivi, mediante il meccanismo della rivalsa e della detrazione. In particolare, l’emissione della fattura, oltre a determinare l’insorgenza di un debito d’imposta in capo al cedente o al prestatore di servizio, legittima il cessionario o committente, che sia anche soggetto passivo, alla detrazione dell’IVA indicata nel documento o, eventualmente, a chiederne il rimborso all’amministrazione finanziaria (artt. 19 e seguenti del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, recante «Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto»). Meccanismo, questo, che si presta ad essere strumentalizzato per frodare il fisco.
Anche con riguardo alle imposte dirette, peraltro, la fattura passiva (o documento equiparato) assolve un ruolo di rilievo, costituendo lo strumento tipico attraverso il quale il contribuente attesta il proprio diritto a dedurre voci di spesa dalla propria base imponibile o a effettuare detrazioni dall’imposta, in conformità a quanto previsto dalla legislazione tributaria.
Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, d’altra parte, la fattura costituisce titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’IVA e alla deduzione dei costi: con la conseguenza che, a fronte di essa, spetta all’amministrazione finanziaria dimostrare il difetto delle condizioni per l’insorgenza di tale diritto. In particolare, nel caso in cui l’ufficio ritenga che la fattura concerne operazioni inesistenti, è su di esso che grava l’onere di provare che l’operazione fatturata non è stata realmente effettuata, o che è stata effettuata tra soggetti diversi da quelli in essa indicati (ex plurimis, tra le ultime, Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 15 dicembre 2017, n. 30148; ordinanze 19 ottobre 2018, n. 26453 e 5 luglio 2018, n. 17619).
5.– In quest’ottica, non può, dunque, considerarsi arbitraria la scelta legislativa di riservare alla specifica fattispecie considerata un trattamento distinto e più severo – sul piano non della reazione punitiva, ma delle soglie di punibilità – di quello prefigurato in rapporto alla generalità degli altri artifici di supporto di una dichiarazione mendace (anche di tipo documentale): artifici dei quali si occupa l’art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000 – costituente norma incriminatrice sussidiaria, come attesta la clausola di riserva con cui essa esordisce («[f]uori dei casi previsti dall’articolo 2») – e che comprendono, attualmente, il compimento di «operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente» e l’impiego «di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria». Escludendo che nell’ipotesi in esame la reazione punitiva resti collegata alla “consistenza quantitativa” dell’evasione, il legislatore ha inteso, in particolare, far emergere lo speciale disvalore “di azione” che, nel suo apprezzamento – in sé non manifestamente irragionevole – la specifica fattispecie presenta.
L’affermazione del giudice a quo – stando alla quale le condotte descritte dall’art. 3 potrebbero «rappresentare, per la loro particolare insidiosità, un pericolo in concreto sicuramente eguale (se non più elevato) per il bene giuridico», rispetto a quelle punite dall’art. 2 – appare in sé apodittica, non essendo accompagnata dal riferimento ad alcuna ipotesi che valga a dimostrare l’assunto.
Non sarebbe utile, in ogni caso, richiamare la fattispecie dell’utilizzazione (anche in funzione di gonfiamento dei costi) di «documenti falsi» diversi dalla fattura (e privi di analogo valore probatorio), ora contemplata dall’art. 3. È agevole, in effetti, osservare che anche il sistema dei reati di falso, delineato dal codice penale, prevede tradizionalmente trattamenti differenziati in ragione della natura del documento su cui cade la condotta. E così, la falsità in testamento olografo, cambiale o altro titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore (art. 491 del codice penale) è punita più severamente della generica falsità in (qualsiasi altra) scrittura privata (art. 485 cod. pen.): fattispecie, quest’ultima, attualmente addirittura depenalizzata (art. 4, comma 4, lettera a, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7, recante «Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67»).
La validità della conclusione non risulta inficiata dall’esistenza dei contrasti interpretativi, cui fa cenno la parte privata, relativi al trattamento da riservare all’uso di fatture materialmente false, ossia di fatture formate da soggetto diverso da colui che appare come emittente, ovvero alterate dopo l’emissione (ipotesi che non si deduce, peraltro, ricorrere nel giudizio principale). Secondo la giurisprudenza di legittimità più recente, tale condotta ricadrebbe nella sfera applicativa dell’art. 2, e non in quella, residuale, dell’art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000. In base a tale soluzione interpretativa le due figure criminose si distinguono, infatti, non per la natura – ideologica o materiale – del falso, ma per le caratteristiche del documento impiegato: quello che qualifica l’ipotesi criminosa di cui all’art. 2 è la particolare efficacia probatoria, in base alle norme tributarie, della documentazione di cui il contribuente si avvale (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 10 novembre 2011-19 dicembre 2011, n. 46785; in senso analogo, altresì, da ultimo, Corte di cassazione, sezione terza penale, 25 ottobre 2018-11 febbraio 2019, n. 6360; sezione feriale, sentenza 31 agosto 2017-17 ottobre 2017, n. 47603). Conclusione che non contraddice, comunque sia, la ratio giustificatrice del trattamento differenziato dianzi posta in evidenza.
Considerazioni analoghe, mutatis mutandis, possono formularsi con riguardo all’ulteriore rilievo, svolto tanto dal giudice a quo, quanto dalla parte privata, relativo alla sovrapposizione tra il concetto di «operazioni inesistenti» – sintagma presente nell’art. 2 e definito, come si è visto, dall’art. 1, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 74 del 2000 – e il concetto di «operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente» – impiegato nell’attuale formulazione dell’art. 3 e definito della lettera g-bis) del citato art. 1 (aggiunta dall’art. 1, comma 1, lettera d, del d.lgs. n. 158 del 2015).
A mente di quest’ultima, le operazioni «simulate oggettivamente» sono quelle «apparenti […] poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte»: con il che esse sembrano, in effetti, sovrapporsi alle «operazioni oggettivamente inesistenti», in quanto «non realmente effettuate in tutto in parte», cui fa riferimento la lettera a) del comma 1 dell’art. 1 del d.lgs. n. 74 del 2000. Le operazioni «simulate soggettivamente» – che ai sensi della lettera g-bis) sono «le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti» – si sovrappongono alle «operazioni soggettivamente inesistenti», e cioè riferite «a soggetti diversi da quelli effettivi» (lettera a del comma 1 dell’art. 1 del d.lgs. n. 74 del 2000).
Al riguardo, la Corte di cassazione ha già avuto modo, peraltro, di qualificare come «totalmente infondata» la tesi in forza della quale l’inserimento della nuova lettera g-bis) nell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 74 del 2000 avrebbe comportato l’attrazione nell’ambito del delitto di cui all’art. 3 di ipotesi in precedenza ricomprese nella sfera applicativa del delitto di cui all’art. 2. Ciò che discrimina le due fattispecie non è la natura dell’operazione, ma il modo in cui è documentata: si applica, cioè, l’art. 2 tutte le volte in cui alla realizzazione dell’operazione si accompagni l’emissione e l’utilizzazione di fatture o documenti analoghi (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 11 aprile 2017-1° agosto 2017, n. 38185).
In tal modo, il ragionamento dianzi svolto trova nuova conferma: lo scarto di rilevanza tra le operazioni simulate documentate mediante fatture o documenti equipollenti e le operazioni simulate documentate in modo diverso trova spiegazione nella particolare capacità probatoria delle fatture e documenti analoghi e, di riflesso, nella maggiore capacità decettiva delle falsità commesse tramite tali documenti.
Meno ancora, da ultimo, giova far riferimento a fattispecie riconducibili alla generica nozione di «altri mezzi fraudolenti» – a titolo di esempio, la tenuta di una “contabilità nera”, accompagnata da un sistema informatico di travisamento dei dati nel caso di controllo fiscale, o la creazione di “società di comodo”, sulle quali “travasare” i redditi del contribuente – ma che non hanno, in sé, alcuna “assonanza” con l’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti. Vale, infatti, in tal caso, il rilievo che si è a fronte di fattispecie eterogenee e, dunque, non utilmente comparabili al fine di farne discendere una violazione del principio di eguaglianza: la valutazione di uguale o maggiore pericolosità per l’erario delle condotte in questione, formulata dal giudice a quo, esprimerebbe una sua convinzione personale, che non potrebbe surrogarsi a quella del legislatore.
6.– Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione va dichiarata, dunque, non fondata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Palermo, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 febbraio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 aprile 2019.