SENTENZA N. 161
ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 32, della legge della Regione autonoma Sardegna 30 giugno 2011, n. 12 (Disposizioni nei vari settori di intervento), promosso dal Consiglio di Stato, sezione quarta, nel procedimento vertente tra la Cento Società Cooperativa e il Comune di Villasimius e altro, con ordinanza del 25 maggio 2015, iscritta al n. 288 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visto l’atto di costituzione della Cento Società Cooperativa;
udito nell’udienza pubblica del 6 giugno 2017 il Giudice relatore Daria de Pretis;
udito l’avvocato Carla Valentino per la Cento Società Cooperativa.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 25 maggio 2015, il Consiglio di Stato, sezione quarta, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 32, della legge della Regione Sardegna 30 giugno 2011, n. 12 (Disposizioni nei vari settori di intervento). La disposizione censurata prevede quanto segue: «[i]n deroga alla normativa regionale e comunale, nei piani di lottizzazione e nei piani di zona già convenzionati è consentito in tutto o in parte convertire le volumetrie destinate a servizi connessi alla residenza realizzate o da realizzare, di cui all’articolo 4 del decreto assessoriale n. 2266/U del 20 dicembre 1983, in volumetrie residenziali, a condizione che le unità abitative così realizzate siano cedute a soggetti in possesso dei requisiti previsti dalla legge regionale 30 dicembre 1985, n. 32 (Fondo per l’edilizia abitativa), o dalla legge regionale n. 3 del 2008 in materia di edilizia agevolata. Tale disposizione si applica a condizione che siano state effettuate le cessioni di legge ovvero che esse avvengano entro sessanta giorni all’entrata in vigore della presente legge. Lo strumento attuativo si considera automaticamente variato all’atto del rilascio del relativo permesso di costruire o di denuncia di inizio di attività da parte degli aventi diritto».
Il rimettente riferisce che il 10 aprile 1992 la Cento Società Cooperativa stipulava con il Comune di Villasimius una convenzione di lottizzazione, in attuazione della quale realizzava le residenze previste e le opere di urbanizzazione primaria e secondaria indicate in convenzione, ma non completava i servizi connessi alla residenza (comunque realizzati in misura superiore al 50%). Il 5 novembre 2011, la medesima società presentava al Comune di Villasimius istanza al fine di ottenere, ai sensi del citato art. 18, comma 32, della legge reg. Sardegna n. 12 del 2011, «l’autorizzazione unica per la realizzazione, nelle aree destinate a “servizi connessi”, e non ancora utilizzate, di un complesso residenziale».
Il 18 maggio 2012 lo sportello unico per le attività produttive (SUAP) del Comune di Villasimius rilasciava l’autorizzazione richiesta, consentendo quindi il cambio di destinazione d’uso da volumi destinati a «servizi connessi alla residenza» a volumi destinati a residenza. In seguito, però, con provvedimento 26 novembre 2012, n. 18100, il SUAP del Comune di Villasimius annullava d’ufficio l’autorizzazione del 18 maggio 2012.
La società impugnava tale provvedimento davanti al TAR Sardegna, che respingeva il ricorso, osservando – stando a quanto riferisce il giudice a quo – che ogni modifica delle convenzioni di lottizzazione «deve necessariamente “passare” […] attraverso una valutazione della sua coerenza con l’interesse pubblico sotteso dallo strumento attuativo», e che l’art. 18, comma 32, della legge reg. Sardegna n. 12 del 2011 non esclude che la conversione delle volumetrie destinate a servizi connessi alla residenza in volumetrie residenziali sia preceduta da una valutazione della sua corrispondenza all’interesse pubblico da parte del comune.
La società cooperativa Cento proponeva appello contro questa sentenza. Nel giudizio d’appello si costituiva il Comune di Villasimius che, fra l’altro, eccepiva l’incostituzionalità dell’art. 18, comma 32, della legge reg. Sardegna n. 12 del 2011, nel caso in cui si volesse ritenere la conversione delle volumetrie un atto dovuto in base a tale norma.
Il Consiglio di Stato ritiene esistenti i presupposti per sollevare questione di costituzionalità con riferimento all’art. 18, comma 32, della legge reg. Sardegna n. 12 del 2011, «nella versione ratione temporis applicabile» (cioè, nel testo modificato dall’art. 21 della legge regionale 21 novembre 2011, n. 21, recante «Modifiche e integrazioni alla legge regionale n. 4 del 2009, alla legge regionale n. 19 del 2011, alla legge regionale n. 28 del 1998 e alla legge regionale n. 22 del 1984, ed altre norme di carattere urbanistico»).
Quanto alla rilevanza, il giudice rimettente osserva che la norma regionale in questione «ha costituito la base per la pregressa autorizzazione alla “conversione” dei volumi da “servizi connessi alla residenza” in volumetrie residenziali,[…] nonché la base per il successivo annullamento d’ufficio, operato dal SUAP […] il quale, in forza di un’interpretazione diversa da quella precedentemente adottata, è giunto alla conclusione che la norma non è tale da privare il Comune di un apprezzamento discrezionale in relazione agli effetti, in concreto, della pretesa conversione». Il TAR ha recepito questa seconda interpretazione ma il Consiglio di Stato ritiene che «il tenore letterale della norma sia univoco nel consentire una deroga allo standard insediativo previsto dal decreto Floris», cioè, dal decreto assessorile 20 dicembre 1983, n. 2266/U (Disciplina dei limiti e dei rapporti relativi alla formazione di nuovi strumenti urbanistici ed alla revisione di quelli esistenti nei comuni della Sardegna), che, come riferisce il rimettente, ha fissato i volumi connessi alla residenza in applicazione dell’art. 4 della legge regionale 19 maggio 1981, n. 17 (Norme in materia urbanistica - Abrogazione delle leggi regionali 28 agosto 1968, n. 40, e 9 marzo 1976, n. 10; integrazioni alla legge regionale 28 aprile 1978, n. 30).
Quanto alla non manifesta infondatezza, il Consiglio di Stato ritiene manifestamente infondate due questioni di costituzionalità sollevate dal Comune di Villasimius e, invece, non manifestamente infondata la censura basata sull’irragionevolezza della norma regionale. Il giudice a quo osserva che «il legislatore regionale è intervenuto su piani attuativi in regime di convenzionamento»; in particolare, la norma de qua avrebbe inciso sull’«obbligazione di realizzare “servizi connessi alla residenza” (punti di ristoro, studi professionali, ecc.) incombente sui lottizzanti, sostituendola con una obbligazione “facoltativa” di tutt’altro impatto urbanistico ed insediativo, senza al contempo imporre ai lottizzanti l’integrazione dei servizi pubblici che il maggior carico antropico sottende». In questo modo, la previsione regionale avrebbe «stravolto il sinallagma convenzionale, modificando il delicato equilibrio individuato in via astratta dalla legge urbanistica e concretamente fissato attraverso l’accordo, così ponendo i comuni, che hanno interesse a mantenere gli originari standard urbanistici e la qualità della pianificazione, nella condizione di doversi far carico della realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria “sostituite” dal legislatore e del potenziamento dei servizi pubblici primari».
La norma regionale avrebbe inoltre «eliso l’affidamento riposto dagli aventi causa dal lottizzante, circa l’efficacia delle obbligazioni dal medesimo assunte, in primis quelle relative al carico insediativo ed alla presenza di strutture commerciali di servizio».
Il giudice a quo ammette «la possibilità dell’amministrazione, ed anche del legislatore ove le esigenze siano di carattere più generale, di ripianificare motivatamente il territorio, anche in contrasto con eventuali piani attuativi ancora efficaci», ma stigmatizza la scelta del legislatore regionale di «lasciare in piedi il rapporto convenzionale modificandone d’imperio le reciproche obbligazioni e con esse l’equilibrio urbanistico e finanziario tracciato nell’originaria convenzione». Nel caso di specie, la «quota» delle opere di urbanizzazione secondaria, la cui realizzazione spetta al proprietario, sarebbe stata «paradossalmente […] diminuita al crescere dell’entità degli insediamenti».
Secondo il rimettente, sarebbe irragionevole che il privato possa «optare per un incremento volumetrico a fini residenziali, abdicando alla realizzazione di quelle opere di urbanizzazione secondaria inizialmente posto a suo carico, senza che lo stesso debba neanche gravarsi, a compensazione, della monetizzazione degli oneri ribaltati sull’amministrazione».
Il giudice a quo prospetta poi, sulla scia di quanto sostenuto dalla società appellante, un’altra interpretazione dell’art. 18, comma 32, della legge reg. Sardegna n. 12 del 2011. Secondo tale ipotesi ermeneutica, il legislatore regionale avrebbe semplicemente modificato «i parametri urbanistici relativi al carico insediativo stabilendo una nuova regola che di fatto incide anche sul fabbisogno procapite di servizi pubblici, portandolo ad una soglia più bassa: in tale chiave, diminuendo lo standard, la maggiore volumetria residenziale non genererebbe più la necessità, in capo alla parte pubblica, di integrare i servizi pubblici, con conseguenza insussistenza di oneri o aggravi (neanche per la parte pubblica) rispetto all’originario equilibrio convenzionale».
Il rimettente osserva che, «se fosse questa la corretta esegesi della norma, essa comunque si porrebbe in conflitto con il principio di ragionevolezza sotteso all’art. 3 Cost.», per quattro diverse ragioni. In primo luogo, «lo standard derogatorio non interesserebbe l’intera zona C, ma solo le aree già oggetto di lottizzazione, con inversione dell’ordinaria logica urbanistica che invece impone la previa definizione regolamentare degli standard ed il loro successivo recepimento della pianificazione consensuale». In secondo luogo, la norma regionale «avrebbe l’effetto di aumentare il carico insediativo e diminuire gli standards, lontano dalle città, proprio laddove invece lo spazio a disposizione è maggiore, lasciandoli invece inalterati nelle zone B (ove anche devono essere previsti i servizi connessi alla residenza) ove i fenomeni di inurbazione e le concentrazioni insediative divorano spazio». In terzo luogo, «il nuovo standard rimarrebbe comunque nella disponibilità dei lottizzanti, a seconda che essi chiedano o non chiedano la “conversione”, con conseguenti ripercussioni sull’ordinata e corretta pianificazione locale, nonché sull’affidamento dei residenti circa l’originario dimensionamento degli standard». Infine (e secondo il rimettente «è probabilmente questo il punto maggiormente dolente»), «la modifica dello standard risulterebbe operante anche per le convenzioni già in corso di esecuzione e finanche già eseguite».
2.– Con atto depositato il 22 dicembre 2015, si è costituita nel presente giudizio la Cento Società Cooperativa, chiedendo che la questione di costituzionalità sia dichiarata inammissibile o infondata.
La parte privata osserva che il Consiglio di Stato non avrebbe tenuto nella giusta considerazione il carattere primario della potestà legislativa della Regione autonoma Sardegna in materia urbanistica, e precisa che l’art. 18, comma 32, della legge reg. Sardegna n. 12 del 2011 non sarebbe irragionevole perché le norme legislative possono derogare a piani urbanistici e a strumenti attuativi preesistenti (si richiama, a tale proposito, la sentenza n. 46 del 2014 della Corte costituzionale). La norma censurata non inciderebbe inoltre sull’esecuzione delle opere di urbanizzazione secondaria, poiché «nella disciplina vigente le urbanizzazioni richieste per l’edilizia abitativa e quelle richieste per i servizi connessi sono esattamente le medesime» (lo stesso dovrebbe dirsi per i servizi pubblici). L’erronea interpretazione deriverebbe in particolare dall’aver fatto coincidere i «servizi connessi alla residenza» con le opere di urbanizzazione secondaria e con i servizi pubblici.
Secondo la parte privata, non è neppure vero che la conversione delle volumetrie da «servizi connessi alla residenza» a residenza aumenterebbe il carico urbanistico. Infatti, il citato decreto assessorile n. 2266/U del 1983 «prevede che le cessioni per i servizi pubblici e gli standard siano calcolati nel medesimo modo sia per le residenze che per i servizi connessi».
Quanto alle singole censure mosse alla norma in questione, la società costituita si sofferma su quelle avanzate dal giudice a quo nella seconda prospettiva interpretativa da esso delineata, secondo la quale la norma regionale realizzerebbe una riduzione degli standard urbanistici.
La prima censura (lo standard derogatorio non interesserebbe l’intera zona C ma solo le aree già lottizzate) sarebbe infondata perché la riserva del 20% dei volumi ai servizi connessi alla residenza sarebbe una peculiarità del citato decreto assessorile, «in parziale contrasto con la disciplina nazionale». Tale peculiarità si sarebbe fondata, nel 1983, sulla volontà di evitare “quartieri-dormitorio”, privi dei servizi connessi alla residenza, ma in seguito i volumi destinati a servizi si sarebbero rivelati «eccedenti il fabbisogno reale». Sarebbe emersa, dunque, la necessità di una disciplina meno rigida, avente come riferimento il decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L. 6 agosto 1967, n. 765), «che prevede i servizi connessi come meramente eventuali».
La norma regionale censurata, inoltre, avrebbe anticipato la riforma urbanistica generale operata con la legge della Regione autonoma Sardegna 23 aprile 2015, n. 8 (Norme per la semplificazione e il riordino di disposizioni in materia urbanistica ed edilizia e per il miglioramento del patrimonio edilizio). Dall’art. 7 di tale legge risulterebbe infatti che la residenza e i servizi connessi alla residenza «fanno parte della medesima categoria funzionale» e che «i mutamenti di destinazione d’uso all’interno della medesima categoria funzionale sono sempre consentiti». L’art. 18, comma 32, si riferirebbe dunque «ai casi nei quali non c’è variazione dei rapporti».
La seconda censura (la norma abbasserebbe lo standard lontano dalle città, dove c’è più spazio, e non nelle zone B) sarebbe infondata perché le zone centrali sono afflitte dal problema della «sparizione dei negozi, dei bar, degli uffici».
Quanto alla terza e alla quarta censura (il nuovo standard rimarrebbe nella disponibilità dei lottizzanti e opererebbe anche per le convenzioni già in corso di esecuzione e per quelle già eseguite), la società ne afferma l’infondatezza richiamando la competenza primaria della Regione in materia di urbanistica e ribadendo che nella disciplina nazionale e nell’attuale disciplina regionale i servizi connessi alla residenza e le residenze fanno parte della stessa categoria funzionale.
In definitiva, la norma regionale non sarebbe irragionevole perché il legislatore avrebbe voluto solo consentire il mutamento di destinazione d’uso nell’ambito di una categoria omogenea, in attesa della nuova legge urbanistica.
3.– Il 4 gennaio 2017 la Cento Società Cooperativa ha depositato un’ulteriore memoria difensiva, nella quale eccepisce l’inammissibilità o la manifesta infondatezza della questione per non aver il Consiglio di Stato considerato l’art. 3, lett. f), dello Statuto speciale della Regione autonoma Sardegna, e per non aver individuato un tertium comparationis.
Sotto il primo profilo, la norma regionale censurata non violerebbe il limite costituzionale della potestà legislativa primaria della Regione perché essa sarebbe conforme al d.m. n. 1444 del 1968; non si potrebbe affermare l’irragionevolezza di una norma legislativa regionale, frutto di competenza primaria, per il contrasto con un precedente decreto assessorile e, anzi, sarebbe quest’ultimo a collidere con il d.m. n. 1444 del 1968, che non prescrive di destinare il 20% dei volumi ai servizi connessi alla residenza. La norma regionale, favorendo la conversione dei volumi, limiterebbe il consumo del territorio e la ragionevolezza di questa scelta sarebbe confermata dalla mancata impugnazione da parte del Governo.
Sotto il secondo profilo, la parte privata osserva che la censura di irragionevolezza richiederebbe necessariamente l’individuazione di un tertium comparationis. L’unico tertium implicitamente individuato nell’ordinanza sarebbe il decreto assessorile n. 2266/U del 1983, ma un atto amministrativo non sarebbe idoneo a fungere da parametro di valutazione della costituzionalità di una legge. Né sarebbe possibile fare ricorso alla cosiddetta irragionevolezza estrinseca perché si introdurrebbe un «eccessivo soggettivismo interpretativo» e, inoltre, non potrebbe essere considerata irragionevole una norma coerente con la disciplina statale e ribadita dalla normativa regionale “a regime” (art. 7 della l. reg. Sardegna n. 8 del 2015).
La società ripropone poi le considerazioni già svolte nella memoria di costituzione in merito all’esatto significato della disposizione censurata e alla sua ragionevolezza.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 25 maggio 2015, il Consiglio di Stato, sezione quarta, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 32, della legge della Regione autonoma Sardegna 30 giugno 2011, n. 12 (Disposizioni nei vari settori di intervento), come modificato dall’art. 21 della legge regionale 21 novembre 2011, n. 21 (Modifiche e integrazioni alla legge regionale n. 4 del 2009, alla legge regionale n. 19 del 2011, alla legge regionale n. 28 del 1998 e alla legge regionale n. 22 del 1984, ed altre norme di carattere urbanistico). La disposizione censurata prevede quanto segue: «[i]n deroga alla normativa regionale e comunale, nei piani di lottizzazione e nei piani di zona già convenzionati è consentito in tutto o in parte convertire le volumetrie destinate a servizi connessi alla residenza realizzate o da realizzare, di cui all’articolo 4 del decreto assessoriale n. 2266/U del 20 dicembre 1983, in volumetrie residenziali, a condizione che le unità abitative così realizzate siano cedute a soggetti in possesso dei requisiti previsti dalla legge regionale 30 dicembre 1985, n. 32 (Fondo per l’edilizia abitativa), o dalla legge regionale n. 3 del 2008 in materia di edilizia agevolata. Tale disposizione si applica a condizione che siano state effettuate le cessioni di legge ovvero che esse avvengano entro sessanta giorni all’entrata in vigore della presente legge. Lo strumento attuativo si considera automaticamente variato all’atto del rilascio del relativo permesso di costruire o di denuncia di inizia di attività da parte degli aventi diritto».
Il rimettente dubita della conformità di questa disposizione al principio di ragionevolezza sotto due profili in larga misura coincidenti.
In un primo senso, la norma interverrebbe su una fonte convenzionale incidendo sull’«obbligazione di realizzare “servizi connessi alla residenza” (punti di ristoro, studi professionali, ecc.) incombente sui lottizzanti, sostituendola con una obbligazione “facoltativa” di tutt’altro impatto urbanistico ed insediativo, senza al contempo imporre ai lottizzanti l’integrazione dei servizi pubblici che il maggior carico antropico sottende». La norma regionale avrebbe così «stravolto il sinallagma convenzionale […] ponendo i comuni, che hanno interesse a mantenere gli originari standard urbanistici e la qualità della pianificazione, nella condizione di doversi far carico della realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria “sostituite” dal legislatore e del potenziamento dei servizi pubblici primari».
In un secondo senso, sarebbe comunque in sé irragionevole l’assetto obbligatorio che ne deriva. Il privato potrebbe infatti optare per un incremento della volumetria residenziale «abdicando alla realizzazione di quelle opere di urbanizzazione secondaria inizialmente posto a suo carico, senza che lo stesso debba gravarsi, a compensazione, della monetizzazione degli oneri ribaltati sull’amministrazione».
In via sostanzialmente subordinata, il giudice a quo prospetta poi l’irragionevolezza della previsione anche per il caso in cui la si volesse interpretare nel senso che il legislatore regionale avrebbe semplicemente inteso modificare «i parametri urbanistici relativi al carico insediativo stabilendo una nuova regola che di fatto incide anche sul fabbisogno procapite di servizi pubblici, portandolo ad una soglia più bassa: in tale chiave, diminuendo lo standard, la maggiore volumetria residenziale non genererebbe più la necessità, in capo alla parte pubblica, di integrare i servizi pubblici, con conseguenza insussistenza di oneri o aggravi […] rispetto all’originario equilibrio convenzionale». Anche così interpretata, la disposizione si porrebbe comunque in conflitto con il principio di ragionevolezza, per quattro diverse ragioni: a) «lo standard derogatorio non interesserebbe l’intera zona C, ma solo le aree già oggetto di lottizzazione, con inversione dell’ordinaria logica urbanistica che invece impone la previa definizione regolamentare degli standard ed il loro successivo recepimento della pianificazione consensuale»; b) la norma regionale «avrebbe l’effetto di aumentare il carico insediativo e diminuire gli standards, lontano dalle città, proprio laddove invece lo spazio a disposizione è maggiore, lasciandoli invece inalterati nelle zone B […] ove i fenomeni di inurbazione e le concentrazioni insediative divorano spazio»; c) «il nuovo standard rimarrebbe comunque nella disponibilità dei lottizzanti, a seconda che essi chiedano o non chiedano la “conversione”»; d) «la modifica dello standard risulterebbe operante anche per le convenzioni già in corso di esecuzione e finanche già eseguite».
2.– Prima di esaminare le questioni sollevate dal rimettente, è opportuno illustrare brevemente il contesto normativo in cui la norma censurata si inserisce.
Nella Regione Sardegna, che è dotata di potestà legislativa primaria in materia urbanistica (art. 3, lettera f, dello Statuto speciale), gli standard urbanistici per gli insediamenti residenziali sono stati fissati, sulla base dell’art. 4 della legge regionale 19 maggio 1981, n. 17 (Norme in materia urbanistica - Abrogazione delle leggi regionali 28 agosto 1968, n. 40, e 9 marzo 1976, n. 10; integrazioni alla legge regionale 28 aprile 1978, n. 30), dall’art. 6 del decreto dell’Assessore regionale degli enti locali, finanze ed urbanistica 20 dicembre 1983, n. 2266/U (Disciplina dei limiti e dei rapporti relativi alla formazione di nuovi strumenti urbanistici ed alla revisione di quelli esistenti nei comuni della Sardegna), sul modello di quanto previsto nel decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L. 6 agosto 1967, n. 765). In particolare, il citato art. 6 richiede, per i comuni con più di 10.000 abitanti, 18 mq. di spazi pubblici per abitante.
L’art. 4, comma 2, dello stesso decreto assessorile dispone che «[i]l numero degli abitanti presumibilmente insediabili è dedotto assumendo, salvo diversa dimostrazione in sede di strumento urbanistico comunale: il parametro di 100 mc ad abitante per zone A, B e C, dei quali: - 70 mc per la residenza; - 20 mc per servizi strettamente connessi con la residenza o per opere di urbanizzazione secondaria di iniziativa privata, quali: negozi di prima necessità, studi professionali, bar e tavole calde; - 10 mc per servizi pubblici».
Il decreto assessorile richiede, dunque, la necessaria presenza, accanto alla volumetria per la residenza e a quella per servizi pubblici, di una volumetria per servizi strettamente connessi con la residenza (sentenza Consiglio di Stato, sezione quarta, n. 3764 del 2013), e ciò differentemente da quanto è richiesto invece dalla disciplina statale, che prevede solo la possibilità di una maggiorazione, per destinazioni “connesse”, della volumetria residenziale per abitante. In base all’art. 3, comma 3, del citato d.m. n. 1444 del 1968, infatti, «si assume che, salvo diversa dimostrazione, ad ogni abitante insediato o da insediare corrispondano mediamente 25 mq. di superficie lorda abitabile (pari a circa 80 mc. vuoto per pieno), eventualmente maggiorati di una quota non superiore a 5 mq. (pari a circa 20 mc. vuoto per pieno) per le destinazioni non specificamente residenziali ma strettamente connesse con le residenze (negozi di prima necessità, servizi collettivi per le abitazioni, studi professionali, ecc.)».
Dall’esemplificazione offerta dalle norme citate, regionale e statale, si desume che i servizi strettamente connessi con la residenza consistono in opere o strutture private accessorie alla residenza e che tali strutture si distinguono da quelle destinate a servizio pubblico o comunque ad uso pubblico, ivi comprese le opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Sebbene, infatti, con una formula che presenta qualche margine di ambiguità, il decreto assessorile sardo del 1983 accosti i servizi strettamente connessi alla residenza alla incerta categoria delle opere di urbanizzazione secondaria di iniziativa privata (art. 4, comma 2, sopra citato), è da escludere che i primi possano essere ricondotti alle seconde, sia perché lo stesso decreto fa poi distinta menzione della volumetria prescritta per i vari servizi pubblici («- 10 mc per servizi pubblici»), sia perché nella normativa generale statale è pacifica la diversa natura delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria (art. 16, commi 7 e 8, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia») rispetto alle « destinazioni non specificamente residenziali ma strettamente connesse con le residenze (negozi di prima necessità, servizi collettivi per abitazioni, studi professionali, ecc.)» (art. 3, comma 3, d.m. n. 1444 del 1968).
In questo contesto è intervenuta la norma regionale sarda censurata, prevedendo la possibilità, totale o parziale, nei piani di lottizzazione e nei piani di zona già convenzionati, di «convertire le volumetrie destinate a servizi connessi alla residenza realizzate o da realizzare […] in volumetrie residenziali», alla duplice condizione che le unità abitative così realizzate siano cedute a soggetti in possesso dei requisiti previsti dalle leggi sull’edilizia agevolata e che siano state effettuate le «cessioni di legge» relative alle aree destinate alle opere di urbanizzazione.
3.– La prima questione sollevata dal rimettente è inammissibile poiché la motivazione della supposta irragionevolezza della norma censurata risulta oscura e contraddittoria.
Come visto, secondo il giudice a quo, la disposizione sarebbe irragionevole perché interverrebbe su rapporti convenzionali in essere, modificando le reciproche obbligazioni delle parti, e perché determinerebbe un nuovo assetto obbligatorio intrinsecamente irragionevole.
Il giudice a quo esordisce riconoscendo in astratto la pacifica ammissibilità di interventi (anche) legislativi su rapporti convenzionali in atto, ma continua poi negando che ciò sia legittimamente avvenuto nel caso concreto, e offrendo, a sostegno della sua valutazione, argomenti oscuri e contraddittori. Dall’ordinanza non è possibile comprendere, infatti, se il rimettente imputi alla norma censurata l’effetto di costringere i comuni a sostituirsi al privato nella realizzazione dei servizi connessi o quello di imporre maggiori opere di urbanizzazione, o entrambi.
L’oscurità della motivazione è confermata dalla confusione, ripetuta, fra servizi connessi alla residenza e opere di urbanizzazione secondaria (i comuni interessati sarebbero posti «nella condizione di doversi far carico della realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria “sostituite” dal legislatore»; la quota delle opere di urbanizzazione secondaria sarebbe «diminuita al crescere dell’entità degli insediamenti»; il nuovo rapporto obbligatorio sarebbe irragionevole perché «il privato può optare per un incremento volumetrico a fini residenziali, abdicando alla realizzazione di quelle opere di urbanizzazione secondaria originariamente poste a suo carico»), in evidente contrasto con la distinzione, sia concettuale che di disciplina positiva, degli uni dalle altre, desumibile dal descritto contesto normativo statale e regionale.
Al carattere oscuro e contraddittorio della motivazione della questione, già di per sé sufficiente a determinarne l’inammissibilità (ex multis, sentenze n. 102 del 2016, n. 247 del 2015, n. 244 del 2011, ordinanza n. 369 del 2006), si aggiunge la considerazione che l’ordinanza non dà conto né delle ragioni per le quali sussisterebbe il paventato obbligo dei comuni (o comunque la necessità per essi) di sostituirsi ai privati nella realizzazione dei servizi connessi, né dei motivi per cui toccherebbe ai comuni di provvedere a ulteriori opere di urbanizzazione.
Quanto alle ragioni del primo supposto obbligo, esse non sono desumibili né dal sistema generale, né dalla norma censurata, la quale, consentendo la deroga al decreto n. 2266/U del 1983, si limita a far venir meno la necessaria presenza dei servizi connessi. Intesa in questo modo, dunque, la prima questione sollevata è inammissibile anche per erroneo presupposto interpretativo (sentenze n. 241 e n. 153 del 2015, n. 218 del 2014, n. 249 del 2011, n. 125 del 2009, ordinanza n. 187 del 2015).
Quanto all’asserita necessità per i comuni di realizzare a proprie spese le ulteriori opere di urbanizzazione secondaria, rese necessarie dal «maggior carico antropico», il rimettente non fornisce alcun elemento idoneo a dimostrare che la conversione delle volumetrie consentita dalla norma censurata produrrebbe un aumento di carico urbanistico e renderebbe di conseguenza necessaria un’integrazione degli standard. Mentre un’argomentazione sul punto sarebbe stata necessaria visto che, come ricordato, l’art. 3 del d.m. n. 1444 del 1968 comprende negli «insediamenti residenziali» anche i servizi connessi e, similmente, in base all’art. 6 del decreto assessorile n. 2266/U del 1983, gli spazi pubblici vengono parametrati sulla volumetria prevista, non sulla volumetria specificamente residenziale. E considerato altresì che, in base all’art. 11, comma 1, lettera a), della legge regionale 11 ottobre 1985, n. 23 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, di risanamento urbanistico e di sanatoria di insediamenti ed opere abusive, di snellimento ed accelerazione delle procedure espropriative), come modificato dall’art. 7 della legge regionale 23 aprile 2015, n. 8 (Norme per la semplificazione e il riordino di disposizioni in materia urbanistica ed edilizia e per il miglioramento del patrimonio edilizio), i «servizi strettamente connessi alla residenza» sono compresi nella categoria funzionale «residenziale» ai fini del mutamento di destinazione d’uso.
Poiché l’aumento di carico urbanistico è il presupposto delle censure sollevate, la questione risulta dunque inammissibile anche per carenza di motivazione sulla non manifesta infondatezza (ex multis, sentenze n. 133 del 2016, n. 120 del 2015 e ordinanze n. 247, n. 172, n. 93 e n. 33 del 2016 e n. 52 del 2015).
4.– Per le ragioni appena esposte è da ritenere inammissibile anche la questione sollevata dal Consiglio di Stato in via subordinata, in relazione a una possibile diversa interpretazione della disposizione censurata (prospettata nel punto 8 dell’ordinanza), anch’essa basata sulla tesi che la conversione delle volumetrie comporti un aumento del carico urbanistico.
Con riferimento alla stessa questione, infine, l’ordinanza risulta lacunosa per un altro profilo, attinente all’interesse pubblico perseguito dal legislatore con la disposizione censurata (cioè l’interesse delle persone economicamente deboli all’accesso all’abitazione), interesse che non viene considerato in alcun modo, benché la sua rilevanza sia già stata riconosciuta da questa Corte (ad esempio, sentenze n. 404 del 1988 e n. 49 del 1987). In un giudizio avente come parametro il principio di ragionevolezza, la mancata considerazione dell’interesse pubblico perseguito dalla norma oggetto di censura contribuisce a rendere insufficiente la motivazione sulla non manifesta infondatezza della questione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art.18, comma 32, della legge della Regione autonoma Sardegna 30 giugno 2011, n. 12 (Disposizioni nei vari settori di intervento), sollevate, in riferimento al principio di ragionevolezza, dal Consiglio di Stato, sezione quarta, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 giugno 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 luglio 2017.