ORDINANZA N. 172
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 3, della legge della Regione Marche 6 agosto 1997, n. 51 (Norme per il sostegno dell’informazione e dell’editoria locale), promosso con ordinanza del 31 ottobre 2013 dal Tribunale ordinario di Ancona nei procedimenti civili riuniti vertenti tra M.R. e F.S. e la Regione Marche, iscritta al n. 151 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visto l’atto di costituzione della Regione Marche;
udito nell’udienza pubblica del 5 luglio 2016 il Giudice relatore Giuliano Amato;
udito l’avvocato Stefano Grassi per la Regione Marche.
Ritenuto che nel corso di due giudizi civili riuniti, promossi nei confronti della Regione Marche da due dipendenti regionali, il Tribunale ordinario di Ancona, con ordinanza del 31 ottobre 2013, ha sollevato, «in riferimento agli artt. 3 e 117 della Costituzione, artt. 1, comma 3, e 45 del decreto legislativo n. 165/2001 ed artt. 9 comma 5 e 10 della legge n. 150/2000», questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 3, della legge della Regione Marche 6 agosto 1997, n. 51 (Norme per il sostegno dell’informazione e dell’editoria locale);
che ai sensi della disposizione censurata «Il personale regionale di ruolo iscritto all’ordine dei giornalisti e che svolge mansioni giornalistiche negli uffici stampa della Regione può optare per il trattamento economico previsto dal contratto collettivo di lavoro giornalistico. In tal caso il rapporto di lavoro è trasformato in rapporto a tempo indeterminato non di ruolo»;
che il rimettente premette che i ricorrenti hanno esercitato il diritto di opzione previsto dal richiamato art. 7, comma 3, e che, di fronte al rifiuto opposto dalla Regione Marche, hanno chiesto che essa sia condannata ad applicare nei loro confronti il trattamento economico proprio del contratto nazionale giornalistico a tempo indeterminato, con il riconoscimento della qualifica di redattore con trenta mesi di attività, con conseguente obbligo di iscrizione all’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani e con diritto al pagamento delle differenze retributive;
che in ordine alla rilevanza delle questioni, il Tribunale ordinario di Ancona deduce che dall’applicazione della norma impugnata dipenderebbe l’accoglimento dei ricorsi, in quanto essa comporterebbe non solo l’estensione di un contratto collettivo di diritto comune ai dipendenti degli enti locali addetti agli uffici stampa, con le correlate complessive conseguenze economiche e giuridiche, ma anche un incremento del loro trattamento retributivo;
che il rimettente rileva, altresì, che la Regione Marche non ha contestato l’esistenza dei requisiti per l’applicazione della normativa invocata dai ricorrenti e, in particolare, la circostanza dello svolgimento di attività giornalistica;
che quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, viene lamentata la violazione degli artt. 117 e 3 Cost.;
che il giudice a quo richiama, in proposito, la sentenza di questa Corte n. 189 del 2007, ritenendo che le censure sollevate in quell’occasione valgano anche con riguardo alla norma impugnata nel presente giudizio;
che a suo avviso, infatti, anche il legislatore marchigiano, nel prevedere che, a domanda del singolo dipendente, gli addetti agli uffici stampa della Regione possano optare per il trattamento economico previsto dal contratto collettivo di lavoro giornalistico, avrebbe violato i limiti della propria potestà legislativa e, in particolare, il principio generale desumibile dagli artt. 2 e 45 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), secondo il quale il trattamento economico dei dipendenti pubblici, il cui rapporto di lavoro è stato privatizzato, deve essere disciplinato dalla contrattazione collettiva;
che viene richiamato, a questo riguardo, l’art. 1, comma 3, del menzionato decreto legislativo, ai sensi del quale «Le disposizioni del presente decreto costituiscono principi fondamentali ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione. Le Regioni a statuto ordinario si attengono ad esse tenendo conto delle peculiarità dei rispettivi ordinamenti. I principi desumibili dall’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, e successive modificazioni, e dall’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni ed integrazioni, costituiscono altresì, per le Regioni a statuto speciale e per le province autonome di Trento e di Bolzano, norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica»;
che, inoltre, secondo il rimettente, sarebbe altresì violato l’art. 9, comma 5, della legge 7 giugno 2000, n. 150 (Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni), ai sensi del quale «Negli uffici stampa l’individuazione e la regolamentazione dei profili professionali sono affidate alla contrattazione collettiva nell’àmbito di una speciale area di contrattazione, con l’intervento delle organizzazioni rappresentative della categoria dei giornalisti. Dall’attuazione del presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica»;
che anche tale disposizione, infatti, sarebbe dotata di copertura costituzionale nei confronti del legislatore regionale, in forza dell’art. 10 della stessa legge n. 150 del 2000, il quale dispone che «Le disposizioni del presente capo costituiscono principi fondamentali ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione e si applicano, altresì, alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano nei limiti e nel rispetto degli statuti e delle relative norme di attuazione»;
che l’applicazione della disposizione impugnata, pertanto, comporterebbe un sicuro incremento della retribuzione, con conseguente aggravio della finanza pubblica;
che con atto depositato il 13 ottobre 2014 si è costituita in giudizio la Regione Marche, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate;
che secondo la Regione, sia il censurato art. 7, comma 3, sia le norme statali invocate come parametri interposti, sono precedenti all’entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione); né i richiamati parametri interposti hanno subito alcuna modifica rispetto alla loro formulazione originaria;
che tali norme, pertanto, dovrebbero essere collocate all’interno del quadro legislativo e costituzionale anteriore alla riforma del Titolo V; in quel contesto, sia le disposizioni del d.lgs. n. 165 del 2001, sia quelle della legge n. 150 del 2000, costituivano principi fondamentali nella materia di legislazione concorrente «ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla Regione», come confermato dallo stesso art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001;
che nella vigenza del vecchio Titolo V la sopravvenienza di principi fondamentali incompatibili con le disposizioni regionali previgenti ne comportava l’abrogazione, ai sensi dell’art. 10 della legge 10 febbraio 1962, n. 53 (Costituzione e funzionamento degli organi regionali);
che tale norma, prevedendo che «[l]e leggi della Repubblica che modificano i principi fondamentali di cui al primo comma dell’articolo precedente abrogano le norme regionali che siano in contrasto con esse. I Consigli regionali dovranno portare alle leggi regionali le conseguenti necessarie modificazioni entro novanta giorni», si configurava alla stregua di una clausola abrogativa espressa ad effetto permanente, ancorché l’effetto abrogativo fosse differito allo scadere del termine di novanta giorni previsto ai fini dell’adeguamento, da parte delle Regioni, ai nuovi principi fondamentali dettati dal legislatore statale;
che dunque, in applicazione del richiamato art. 10, l’abrogazione dell’art. 7, comma 3, della legge regionale n. 51 del 1997, avrebbe avuto luogo il novantunesimo giorno dopo l’entrata in vigore dei nuovi principi fondamentali con esso contrastanti, poiché la Regione non si era adeguata a questi ultimi entro il termine previsto; e quindi, a partire dal 6 settembre 2000, laddove si ritenga che dagli artt. 9, comma 5, e 10, della legge n. 150 del 2000 (entrata in vigore il 7 giugno 2000), fosse già ricavabile il principio della regolazione mediante contrattazione collettiva del trattamento economico dei dipendenti pubblici il cui rapporto di lavoro fosse stato “privatizzato”; ovvero, al più tardi, a partire dal 29 giugno 2001, qualora si ritenga, invece, che tale principio fosse più che altro desumibile dagli artt. 2 e 45 del d.lgs. n. 165 del 2001 (entrato in vigore il 30 marzo 2001);
che l’orientamento secondo il quale, nel previgente quadro costituzionale, il contrasto tra i principi fondamentali sopravvenuti e la legislazione regionale con essi incompatibile dovesse essere risolto facendo leva sul criterio cronologico e sul conseguente effetto abrogativo, sarebbe stato fatto proprio dalla giurisprudenza costituzionale;
che in particolare, questa Corte, con la sentenza n. 40 del 1972, avrebbe chiarito come si sarebbe dovuto risolvere tale contrasto: in questi casi l’interprete, trascorsi i novanta giorni per l’adeguamento del quadro normativo regionale, avrebbe dovuto applicare il criterio cronologico e considerare abrogate le disposizioni regionali contrarie ai nuovi principi fondamentali;
che la richiamata sentenza precisava come il ricorso a tale criterio fosse pur sempre subordinato alla sussistenza delle condizioni necessarie a produrre l’effetto abrogativo, ai sensi dell’art. 15 delle disposizioni preliminari al codice civile;
che l’opinione secondo la quale l’abrogazione sarebbe stata lo strumento più idoneo a risolvere il contrasto tra leggi regionali e leggi statali recanti nuovi principi fondamentali, era stata fatta propria anche dalla dottrina prevalente;
che in questi casi, il ricorso all’istituto dell’abrogazione avrebbe trovato ragione anche nella impossibilità, per il Governo, di impugnare in via principale le leggi regionali divenute incostituzionali a seguito dell’entrata in vigore dei nuovi principi fondamentali con esse incompatibili, con la conseguenza che tali vizi di illegittimità costituzionale sopravvenuta avrebbero potuto essere denunciati solo attraverso il giudizio in via incidentale;
che il decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra gli atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), prevede la possibilità di impugnare dinanzi a questa Corte le leggi regionali e provinciali contrastanti con i nuovi principi fondamentali posti dal legislatore statale, ai quali la Regione o le Province autonome non si fossero adeguate;
che pertanto, ad avviso della Regione, il contrasto tra l’impugnato art. 7, comma 3, e gli artt. l, comma 3, 2 e 45 del d.lgs. n. 165 del 2001, nonché con gli artt. 9, comma 5, e 10 della legge n. 150 del 2000, andrebbe risolto nel senso dell’intervenuta abrogazione della prima disposizione da parte di quelle statali successive;
che neppure potrebbe valere, in contrario avviso, il richiamo fatto dal giudice a quo alla sentenza n. 189 del 2007; tale pronuncia, infatti, non sarebbe in alcun modo riferibile al caso di specie, riguardando disposizioni di legge di una Regione ad autonomia speciale, rispetto alla quale i parametri interposti invocati all’epoca dal giudice rimettente erano norme fondamentali di riforma economico-sociale, ossia limiti alla potestà legislativa esclusiva regionale;
che in quel caso, di conseguenza, non avrebbe potuto trovare applicazione l’art. 10 della legge n. 62 del 1953, poiché esso si occupa unicamente dell’incompatibilità tra disposizioni legislative regionali e nuovi principi fondamentali in materie di competenza concorrente entrati in vigore dopo di esse;
che in conclusione, secondo la Regione, il giudice rimettente, dinanzi al rilevato contrasto tra l’impugnato art. 7, comma 3, della legge reg. Marche n. 51 del 1997, e i principi fondamentali sopravvenuti (artt. 1, comma 3, e 45 del d.lgs. n. 165 del 2001, e artt. 9, comma 5, e 10 della legge n. 150 del 2000), avrebbe omesso di applicare l’art. 10 della legge n. 62 del 1953 e, dunque, di ritenere abrogata la disposizione regionale incompatibile con la legislazione statale recante i nuovi principi fondamentali;
che in tal modo, tuttavia, esso avrebbe erroneamente sollevato una questione di legittimità costituzionale che sarebbe manifestamente inammissibile per difetto assoluto di rilevanza;
che, in subordine, la Regione eccepisce la manifesta inammissibilità della questione per l’assoluta genericità nell’indicazione dei parametri costituzionali e, dunque, per l’indeterminatezza delle censure formulate in riferimento ad essi;
che secondo la difesa regionale, infatti, il Tribunale rimettente, nel denunciare il contrasto tra la disposizione regionale censurata e le evocate disposizioni statali, ritiene che da tale contrasto discenderebbe la violazione degli artt. 3 e 117 Cost., ma non indicherebbe alcuna ragione a sostegno dell’asserita violazione dell’art. 3 Cost.;
che il giudice a quo, inoltre, non attribuirebbe alcun rilievo alla circostanza che tanto l’oggetto della questione sollevata, quanto i parametri interposti, siano tutti precedenti all’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001; né specificherebbe se la questione di legittimità costituzionale sia stata formulata in riferimento al riparto della potestà legislativa di cui al vecchio testo dell’art. 117 Cost., o alla sua versione attualmente vigente;
che, anche laddove questa Corte ritenesse che il rimettente abbia voluto riferirsi all’art. 117 Cost. come riformato nel 2001, l’ordinanza di rimessione avrebbe comunque omesso di individuare il titolo di potestà legislativa statale asseritamente violato, non avendo indicato con quale dei commi dell’attuale art. 117 Cost. la disposizione regionale censurata si porrebbe in contrasto;
che in riferimento alla censura secondo la quale la disposizione regionale impugnata comporterebbe «un sicuro e sensibile incremento della retribuzione posta a carico della finanza pubblica», con conseguente violazione dell’art. 9, comma 5, della legge n. 150 del 2000, il giudice a quo non spiegherebbe se la ragione di tale incremento consista nell’eventuale applicazione, in caso di esercizio del diritto di opzione, del trattamento economico stabilito nel contratto collettivo dei giornalisti, oppure nella durata del contratto, che diverrebbe a tempo indeterminato;
che nel primo caso, infatti, ad essere affetto da illegittimità costituzionale sopravvenuta sarebbe l’intero comma 3 dell’art. 7; nel secondo caso, invece, tale vizio riguarderebbe la norma regionale solo nella parte in cui prevede che il rapporto di lavoro si trasformi in rapporto a tempo indeterminato;
che con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione deduce la non fondatezza delle censure avanzate dal giudice a quo, in ragione della non sovrapponibilità del caso deciso da questa Corte con la sentenza n. 189 del 2007 a quello di cui al presente giudizio;
che quella decisione, infatti, aveva ad oggetto norme regionali che disponevano l’applicazione di contratti collettivi specifici a determinate figure di giornalisti o componenti degli uffici stampa regionali; l’impugnato art. 7, comma 3, invece, si limita a prevedere un semplice diritto di opzione a favore del trattamento economico «previsto dal contratto collettivo di lavoro giornalistico»;
che sarebbe sempre possibile, di conseguenza, la libera contrattazione collettiva tra le parti contrattuali, poiché la norma regionale offrirebbe al lavoratore semplicemente la possibilità di ottenere l’applicazione di uno specifico trattamento economico e non imporrebbe alcun obbligo in tal senso, come invece avveniva nel caso delle disposizioni regionali siciliane oggetto della richiamata pronuncia;
che, in definitiva, la mera possibilità di fruire di un determinato trattamento non potrebbe essere equiparata alla previsione dell’applicazione tout court delle norme che lo prevedono.
Considerato che il Tribunale ordinario di Ancona dubita della legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 3, della legge della Regione Marche 6 agosto 1997, n. 51 (Norme per il sostegno dell’informazione e dell’editoria locale), il quale prevede che «Il personale regionale di ruolo iscritto all’ordine dei giornalisti e che svolge mansioni giornalistiche negli uffici stampa della Regione può optare per il trattamento economico previsto dal contratto collettivo di lavoro giornalistico. In tal caso il rapporto di lavoro è trasformato in rapporto a tempo indeterminato non di ruolo»;
che, secondo il rimettente, tale norma violerebbe gli artt. 3 e 117 della Costituzione, in riferimento al principio desumibile dagli artt. 1, comma 3, e 45 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), secondo il quale il trattamento economico dei dipendenti pubblici, il cui rapporto di lavoro è stato privatizzato, deve essere disciplinato dalla contrattazione collettiva;
che sarebbe, altresì, violato il principio di cui agli artt. 9, comma 5, e 10 della legge 7 giugno 2000, n. 150 (Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni), in quanto l’applicazione della disposizione censurata comporterebbe un incremento della retribuzione, con conseguente aggravio della finanza pubblica;
che, in riferimento alla censura relativa alla violazione dell’art. 117 Cost., il giudice a quo «non indica né quale materia sia quella incisa dall[a] norm[a] censurat[a], né la stessa tipologia di competenza legislativa statale – principale o concorrente – a suo dire violata» (sentenza n. 252 del 2009);
che ciò comporta l’assoluta genericità ed indeterminatezza del parametro che si assume violato;
che il rimettente omette, altresì, di specificare se la questione sia formulata in riferimento al testo dell’art. 117 Cost. anteriore alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), o a quello attualmente vigente;
che secondo l’orientamento di questa Corte «la normativa regionale denunciata deve essere valutata in riferimento ai parametri vigenti al momento della sua emanazione» (sentenze n. 130 del 2015 e n. 62 del 2012);
che, pertanto, l’omissione del rimettente si rivela decisiva, in quanto, sia l’oggetto della questione, sia i parametri interposti, sono anteriori alla riforma del Titolo V del 2001;
che la predetta omissione è sufficiente a ritenere manifestamente inammissibile la questione;
che non ha rilievo l’ulteriore motivo di inammissibilità avanzato dalla Regione, che appare peraltro infondato in quanto i principi che si assumono violati, contenuti nel d.lgs. n. 165 del 2001, erano in realtà già desumibili dall’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), e dall’art. 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), non a caso richiamati dalle stesse disposizioni del d.lgs. n. 165 del 2001;
che anche la censura relativa alla violazione dell’art. 3 Cost. si presenta affetta da genericità e indeterminatezza, dal momento che il rimettente «si è sostanzialmente limitato ad indicare il parametro che sarebbe stato violato, omettendo, però, di specificare le ragioni che militerebbero a favore della tesi della illegittimità costituzionale della disposizione impugnata» (sentenza n. 38 del 2007);
che, dunque, la mancata esplicitazione delle argomentazioni atte a suffragare tale censura è causa di manifesta inammissibilità della questione sollevata.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 3, della legge della Regione Marche 6 agosto 1997, n. 51 (Norme per il sostegno dell’informazione e dell’editoria locale), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 117 della Costituzione, nonché agli artt. 1, comma 3, e 45 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), ed agli artt. 9, comma 5, e 10 della legge 7 giugno 2000, n. 150 (Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni), dal Tribunale ordinario di Ancona, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 luglio 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giuliano AMATO, Redattore
Carmelinda MORANO, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 luglio 2016.