SENTENZA N. 84
ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO
Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta
CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 1, lettera b), del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)», e
dell’art. 9, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 6 giugno 2001, n.
378, recante «Disposizioni legislative in materia edilizia (Testo B)»,
promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania, nel
procedimento vertente tra O. D’E. e il Comune di
Sant’Anastasia, con ordinanza
del 14 settembre 2015, iscritta al n. 1 del registro ordinanze 2016 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie
speciale, dell’anno 2016.
Visto l’atto di costituzione di O. D’E. nonché l’atto
di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 7 marzo 2017
il Giudice relatore Franco Modugno;
uditi l’avvocato Francesco
Vergara per O. D’E. e
l’avvocato dello Stato Giacomo Aiello per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 14
settembre 2015, il Tribunale amministrativo regionale per la Campania ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 41, primo comma, 42, secondo e terzo
comma, 76 e 117, terzo comma, della
Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1,
lettera b), del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante il «Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)», e
dell’art. 9, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 6 giugno 2001, n.
378, recante «Disposizioni legislative in materia edilizia (Testo B)» –
disposizione, questa seconda, trasfusa nella prima – nella parte in cui, nel
prevedere limiti agli interventi di nuova edificazione fuori del perimetro dei
centri abitati nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici:
a) fanno salva l’applicabilità
delle leggi regionali unicamente ove queste prevedano limiti «più restrittivi»;
b) stabiliscono che,
«comunque», nel caso di interventi a destinazione produttiva, si applica – in
aggiunta al limite relativo alla superficie coperta (un decimo dell’area di
proprietà) – anche il limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi
per metro quadrato.
1.1.– Il giudice a quo riferisce che la
ricorrente nel giudizio principale – proprietaria di un fondo nel Comune di
Sant’Anastasia – aveva chiesto il permesso di costruire un edificio, da adibire
ad attività artigianali. La richiesta era stata rigettata dal Comune, con la
motivazione che la volumetria prevista in progetto eccedeva largamente quella
realizzabile su detto fondo in base alla norma denunciata.
Il fondo in questione
risultava, infatti, inserito dal vigente piano regolatore generale del Comune
in «zona F1, Zone di uso pubblico». Essendo decorsi cinque anni
dall’approvazione del piano, le relative prescrizioni avevano perso efficacia,
con la conseguenza che la predetta zona F1 era attualmente classificabile come
"zona bianca”. Essa risultava, quindi, soggetta alle previsioni dell’art. 9,
comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, ove si stabilisce che, «Salvi
i più restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali e nel rispetto delle
norme previste dal decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, nei comuni
sprovvisti di strumenti urbanistici sono consentiti: […] b) fuori dal perimetro
dei centri abitati, gli interventi di nuova edificazione nel limite della
densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadro; in caso di
interventi a destinazione produttiva, la superficie coperta non può comunque
superare un decimo dell’area di proprietà».
1.2.– Adito dall’interessata con l’impugnazione
del provvedimento di rigetto, il Tribunale rimettente reputa infondate le prime
due censure della ricorrente, formulate in via gradata.
Il giudice a quo esclude,
anzitutto, che la norma denunciata debba ritenersi inapplicabile nel caso di
specie a fronte della clausola di cedevolezza che in essa compare, intesa a far
salvi i limiti più restrittivi stabiliti dalle norme regionali.
L’art. 4, comma 2, della
legge della Regione Campania 20 marzo 1982, n. 17 (Norme transitorie per le
attività urbanistico-edilizie nei Comuni della Regione), come sostituito
dall’art. 9, comma 2, della legge regionale 11 agosto 2005, n. 15 (Disposizioni
per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania –
Legge finanziaria regionale 2005), prevede, per l’edificazione di complessi
produttivi in "zone bianche” esterne ai centri abitati, un limite di superficie
coperta più restrittivo di quello stabilito dalla norma statale (un sedicesimo
dell’area di proprietà, anziché un decimo). Detto limite non è, tuttavia,
abbinato ad un limite di volumetria: sicché, con riguardo a quest’ultimo,
rimarrebbe in ogni caso operante la norma censurata.
La condizione di maggiore
restrittività, cui è subordinata la cedevolezza della normativa statale in
favore di quella regionale, andrebbe, infatti, verificata ponendo a raffronto
separatamente le prescrizioni relative alla superficie coperta e quelle
relative alla densità fondiaria. Diversamente opinando – ritenendo, cioè,
sufficiente che la norma regionale preveda una regola più rigorosa per uno solo
dei due limiti, omettendo del tutto l’altro – si finirebbe per applicare una
norma nel complesso maggiormente concessiva, in palese contrasto con la lettera
e con la ratio dell’art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001. Sarebbe evidente,
infatti, il carattere in astratto più favorevole di una norma che, pur
riducendo le possibilità di sviluppo della superficie coperta, lasci libero
quello della cubatura.
1.3.– Il Tribunale campano reputa, in secondo
luogo, corretto il presupposto ermeneutico su cui poggia il provvedimento
impugnato, in base al quale la norma in esame sottoporrebbe l’edilizia a fini
produttivi ad un doppio limite cumulativo – di volume e di superficie – e non
già al solo limite superficiario.
Risulterebbe infatti
dirimente, in tale direzione, il criterio dell’interpretazione letterale. Il
punto e virgola posto tra la prima e la seconda frase della disposizione e,
soprattutto, l’avverbio «comunque» dimostrerebbero, in maniera chiara, che il
limite di superficie coperta – relativo agli interventi a destinazione
produttiva – è stabilito in aggiunta al parametro di densità fondiaria, e non
già in alternativa ad esso. In questo senso si sarebbe, del resto,
ripetutamente espressa la giurisprudenza del Consiglio di Stato, così da
conferire a detta soluzione interpretativa i tratti del «diritto vivente».
1.4.– Recependo l’eccezione formulata con il
terzo motivo di ricorso, il giudice a quo dubita, tuttavia, della legittimità
costituzionale della norma, sia nella parte in cui fa salvi i limiti stabiliti
dalle leggi regionali solo se «più restrittivi», sia nella parte in cui
sottopone gli interventi a destinazione produttiva al limite di densità
fondiaria, in aggiunta a quello di copertura.
Le questioni sarebbero
rilevanti, giacché solo in caso di loro accoglimento il giudizio principale
avrebbe un esito positivo per la ricorrente.
Quanto alla non manifesta
infondatezza, il rimettente ventila anzitutto la violazione dell’art. 76 Cost., sotto il profilo dell’eccesso di delega.
Il d.P.R. n. 380 del 2001 è
stato, infatti, emanato in attuazione dell’art. 7 della legge
8 marzo 1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti
procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1998), che ha
affidato al Governo la redazione di testi unici delle norme legislative e
regolamentari in una serie di materie – tra cui l’edilizia – con la finalità di
coordinare le disposizioni vigenti, apportando eventuali modifiche solo se
strettamente necessarie a garantire la coerenza logica e sistematica della
normativa.
Prevedendo in via cumulativa
per gli interventi edilizi a destinazione produttiva limiti di cubatura e di
superficie coperta, il legislatore delegato avrebbe introdotto una disposizione
innovativa rispetto a quella dell’art. 4, ultimo comma, della legge 28 gennaio
1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli), che regolava in precedenza
i limiti per il rilascio delle concessioni edilizie nei comuni sprovvisti di
strumenti urbanistici. La norma abrogata prevedeva, infatti, in due lettere
separate, il limite di cubatura con riguardo all’edilizia residenziale (lettera
a) e il limite di copertura per l’edificazione a fini produttivi (lettera c):
sicché non potevano sussistere dubbi sul carattere alternativo dei due
parametri. L’innovazione operata dal legislatore delegato non sarebbe, d’altra
parte, in alcun modo giustificabile con esigenze di coerenza logica e
sistematica.
Lo stesso art. 4, ultimo
comma, della legge n. 10 del 1977 stabiliva, inoltre, che i limiti da esso
individuati si applicassero solo «in mancanza di norme regionali e fino
all’entrata in vigore di queste». Anche il tenore della clausola di cedevolezza
sarebbe stato, quindi, modificato dall’art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001, il
quale fa salva, non qualsiasi diversa normativa regionale, ma solo i limiti più
restrittivi da questa previsti.
Tale più rigida clausola si
porrebbe in contrasto anche con l’art. 117, terzo comma, Cost.,
comprimendo la potestà legislativa delle Regioni in ordine al «governo del
territorio», materia di competenza concorrente nella quale la legislazione
dello Stato deve limitarsi alla determinazione dei principi fondamentali. La
limitazione della clausola di cedevolezza alle sole norme regionali più
restrittive farebbe sì che la regola del doppio limite, posta dal legislatore
statale – costituente norma di dettaglio – resti applicabile anche quando la
Regione abbia provveduto a dettare norme proprie più favorevoli, come è
avvenuto nell’ipotesi in esame.
La disposizione impugnata
violerebbe, ancora, il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.).
L’applicazione congiunta dei limiti di cubatura e di superficie penalizzerebbe,
infatti, oltre misura l’attività di produzione e di scambio di beni e servizi,
richiedendo la disponibilità di un’area molto estesa per la costruzione di
edifici utili ai fini dello svolgimento di una qualsiasi attività economica. Ad
esempio, su un fondo di 1.000 metri quadrati potrebbe essere realizzato un
edificio, quanto alla superficie, di 10 metri di larghezza e 10 metri di
profondità, ma, quanto al volume, di soli 30 centimetri di altezza.
Rendendo più difficili le
nuove iniziative imprenditoriali, la norma in questione menomerebbe
irrazionalmente anche la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art.
41, primo comma, Cost.
Non meno consistente
sarebbe, infine, il sospetto di violazione dell’art. 42, secondo e terzo comma,
Cost., a fronte della significativa limitazione posta
dalla norma denunciata allo ius aedificandi
connesso al diritto di proprietà.
Al riguardo, il rimettente
rileva che la qualificazione come "zona bianca” dell’area di cui si discute nel
giudizio a quo deriva non dalla totale assenza di qualsiasi strumento
urbanistico, ma dall’avvenuta decadenza delle prescrizioni del piano regolatore
generale concernenti detta area, per mancata attuazione entro cinque anni dalla
sua approvazione.
Il Tribunale campano
ricorda, altresì, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 55 del
1968, ebbe a dichiarare illegittimi gli artt. 7, numeri 2), 3) e 4), e 40
della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica), nella parte in cui
consentivano all’autorità urbanistica di imporre vincoli di inedificabilità a
tempo indeterminato, senza che ai proprietari interessati fosse dovuto alcun
indennizzo. A fronte di ciò, il legislatore stabilì, con l’art. 2, comma 1,
della legge 19 novembre 1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla legge
urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150), un limite di efficacia quinquennale per i
vincoli di piano regolatore generale preordinati all’espropriazione o che
comportassero l’inedificabilità dei fondi interessati. Né la situazione è
mutata a seguito della legge n. 10 del 1977, la quale – come riconosciuto dalla
Corte costituzionale con la sentenza n. 5 del
1980 – continuava a riconoscere al proprietario lo ius
aedificandi. Di conseguenza, la giurisprudenza
amministrativa ha ritenuto che, anche dopo detta legge, rimanesse in vigore il
citato art. 2, comma 1, della legge n. 1187 del 1968, precisando che l’inutile
decorso del termine quinquennale da esso previsto comportava, non la
reviviscenza della previgente disciplina urbanistica concernente l’area, ma
l’applicazione degli standard relativi alle "zone bianche” contemplati dall’art.
4, ultimo comma, della legge n. 10 del 1977.
Di qui, dunque, il sospetto
che il doppio limite all’edificabilità, introdotto dal legislatore statale con
la norma censurata, riduca eccessivamente le possibilità di esplicazione dello ius aedificandi in contrasto con
le conclusioni cui la giurisprudenza costituzionale è pervenuta, «volte a
preservare uno dei contenuti fondamentali del diritto dominicale, in quanto
tali non surrettiziamente espropriabili».
2.– È intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.
Ad avviso della difesa
dell’interveniente, la denunciata violazione dell’art. 76 Cost. non sarebbe ravvisabile. Ove si lasciasse operare solo il
limite di superficie e non anche quello di volumetria si perverrebbe, infatti,
alla paradossale situazione di una edilizia sostanzialmente priva di limiti,
nella quale il libero sviluppo verticale degli edifici consentirebbe una
anarchica compromissione del territorio. Il necessario cumulo dei due limiti
assolverebbe anche alla funzione di evitare che legislatori regionali prodighi
di facoltà edificatorie finiscano per frustrare la ratio della disciplina,
pregiudicando in modo irreversibile interessi di rango costituzionale. In
quest’ottica, la norma statale censurata risponderebbe, quindi, perfettamente
al fine – assegnato dalla legge delega – di assicurare la coerenza logica del
sistema.
Quanto, poi, alla ipotizzata
violazione della competenza legislativa regionale concorrente, l’Avvocatura
dello Stato assume che la competenza legislativa esclusiva dello Stato in tema
di conservazione ambientale e paesaggistica sarebbe in grado di giustificare,
già di per sé sola, una norma statale che imponga un parametro massimo di
edificabilità in carenza di pianificazione urbanistica, ammettendo l’intervento
di norme regionali solo in funzione di una maggior tutela, ossia esclusivamente
se diretto ad imporre vincoli più severi.
Peraltro, anche a voler
restare nella logica del governo del territorio, spetterebbero in ogni caso
allo Stato le determinazioni rispondenti ad esigenze meritevoli di disciplina
uniforme sull’intero territorio nazionale, con la conseguenza che, anche in
tale prospettiva, l’intervento regionale sarebbe possibile solo in quanto
implichi un innalzamento dei livelli di tutela, e non già una deroga in senso
peggiorativo.
La censura di violazione del
principio di ragionevolezza sarebbe inammissibile, per la genericità delle
motivazioni che la sorreggono. In ogni caso, le considerazioni dianzi
richiamate indurrebbero a ritenere del tutto ragionevole la norma denunciata. I
profili di irragionevolezza ravvisati dal rimettente sarebbero, in effetti,
«del tutto soggettivi» e non terrebbero conto del fatto che ogni pianificazione
fissa limiti di grandezza che formano il contenuto di regole sull’uso del
territorio e che possono addirittura portare alla negazione della capacità
edificatoria dei suoli.
Egualmente insussistente sarebbe,
infine, l’ipotizzata violazione delle garanzie costituzionali che assistono
l’iniziativa economica privata e il diritto di proprietà. Tali diritti
subiscono, infatti, le limitazioni nascenti dalla legge, e in particolare dal
potere di pianificazione del territorio, mentre risulterebbe estranea alla
materia in esame l’evocata necessaria temporaneità dei vincoli di
inedificabilità.
3.– Si è costituita, altresì, la parte
ricorrente nel giudizio a quo, la quale ha svolto considerazioni adesive alle
tesi del giudice rimettente, chiedendo l’accoglimento delle questioni.
La parte privata osserva, in
particolare, come la norma censurata, ove interpretata nei sensi prospettati
dal Comune di Sant’Anastasia, determini un irragionevole svuotamento del
diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica, contrastante con
gli artt. 3, 41 e 42 Cost.
L’applicabilità degli
standard legali di edificabilità alle zone con vincoli decaduti risponderebbe
all’esigenza di offrire un rimedio all’eccessiva compressione dello ius aedificandi che deriva
dall’indeterminatezza temporale dei vincoli. In questo quadro, la diversa
articolazione dei limiti, secondo che si discuta di interventi a scopo
residenziale o produttivo, sarebbe conforme a criteri di ragionevolezza. L’edificazione
a scopo produttivo necessiterebbe, infatti, di una cubatura più ampia rispetto
all’edilizia a scopo residenziale, a fronte dell’esigenza di allocazione degli
impianti e dei macchinari destinati all’esercizio dell’attività. La previsione
– in aggiunta al limite superficiario – di un limite di volumetria pari ad
appena 0,03 metri cubi per metro quadro rappresenterebbe, di conseguenza, un
vincolo eccessivo tanto per l’attività produttiva quanto per le aspettative
edificatorie del proprietario.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale
amministrativo regionale per la Campania dubita della legittimità
costituzionale dell’art. 9, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 6
giugno 2001, n. 378, recante «Disposizioni legislative in materia edilizia (Testo
B)», trasfuso nell’art. 9, comma 1, lettera b), del d.P.R. 6 giugno 2001, n.
380, recante il «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia (Testo A)», nella parte in cui, nel prevedere limiti agli
interventi di nuova edificazione fuori del perimetro dei centri abitati nei
comuni sprovvisti di strumenti urbanistici:
a) fa salva l’applicabilità
delle leggi regionali unicamente ove queste prevedano limiti «più restrittivi»;
b) stabilisce che,
«comunque», nel caso di interventi a destinazione produttiva, si applica – in
aggiunta al limite relativo alla superficie coperta (un decimo dell’area di
proprietà) – anche il limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi
per metro quadrato.
Ad avviso del giudice a quo,
la norma censurata violerebbe l’art. 76 della Costituzione, per eccesso di
delega, in quanto apporterebbe innovazioni sostanziali alla previgente
disciplina recata dall’art. 4, ultimo comma, della legge 28 gennaio 1977, n. 10
(Norme per la edificabilità dei suoli): innovazioni non legittimate dai
principi e criteri direttivi enunciati dall’art. 7 della legge 8 marzo 1999, n.
50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti
amministrativi – Legge di semplificazione 1998), che aveva affidato al Governo
l’emanazione di testi unici finalizzati al semplice coordinamento delle
disposizioni vigenti, consentendo modifiche di queste ultime solo se necessarie
per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa.
La norma impugnata comprimerebbe,
altresì, indebitamente la potestà legislativa regionale nella materia di
competenza concorrente «governo del territorio» (art. 117, terzo comma, Cost.),
introducendo una disciplina di dettaglio destinata a rimanere applicabile anche
quando le Regioni abbiano emanato norme proprie più favorevoli.
Sarebbe violato, ancora, il
principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), in quanto l’applicazione congiunta
dei limiti di densità fondiaria e di superficie farebbe sì che, per realizzare
edifici idonei allo svolgimento di attività produttive, sia necessario disporre
di aree molto estese.
Rendendo più difficili le
nuove iniziative imprenditoriali, la norma in esame menomerebbe irrazionalmente
anche la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41, primo comma,
Cost.
La disposizione denunciata
si porrebbe, infine, in contrasto con l’art. 42, secondo e terzo comma, Cost., limitando in modo eccessivo le possibilità di
esplicazione dello ius aedificandi,
costituente «uno dei contenuti fondamentali del diritto dominicale, in quanto
tali non surrettiziamente espropriabili».
2.– Le questioni sottoposte all’esame di
questa Corte attengono ai limiti di edificabilità nelle cosiddette "zone
bianche” – non coperte, cioè, dalla pianificazione urbanistica – previsti
dall’art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001. Tali limiti – riferiti dalla norma
impugnata ai «comuni sprovvisti di strumenti urbanistici» – trovano
pacificamente applicazione non solo nell’ipotesi (divenuta ormai marginale) in
cui il comune risulti del tutto privo di piano regolatore generale, ma anche
quando la carenza di una specifica disciplina di piano riguardi singole
porzioni del territorio comunale. La fattispecie più rilevante – e che ricorre
anche nel giudizio a quo, secondo quanto riferito dal rimettente – è quella
della scadenza del termine quinquennale di efficacia dei vincoli preordinati
all’espropriazione o a carattere sostanzialmente ablativo: termine attualmente
previsto dall’art. 9 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, recante il «Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per
pubblica utilità (Testo A)».
La finalità del regime in
esame è di evitare che l’assenza di pianificazione legittimi uno sviluppo edilizio
incontrollato, atto a compromettere irreversibilmente l’assetto urbanistico e a
"consumare” integralmente il territorio. In quest’ottica, lo ius aedificandi del privato – pur
non essendo radicalmente escluso – viene sottoposto a standard legali rigorosi,
in modo da non pregiudicare la razionalità, e la stessa possibilità, delle
future scelte degli organi della pianificazione. Si tratta, in sostanza, di una
soluzione di compromesso: tra l’alternativa della totale inedificabilità dei
suoli sprovvisti di disciplina di piano e quella di un’edificabilità libera, il
legislatore ha adottato la soluzione intermedia di una edificabilità
(significativamente) ridotta per non svuotare del tutto lo ius
aedificandi e non pregiudicare i valori – di rilievo
costituzionale – coinvolti dalla regolamentazione urbanistica.
In tale prospettiva, l’art.
9, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che nel perimetro del centro
abitato sono ammessi solo interventi di manutenzione, restauro e risanamento
conservativo del patrimonio edilizio esistente (lettera a). Fuori del centro
abitato – ed è questa la previsione che interessa – sono invece possibili
(anche) interventi di nuova edificazione «nel limite della densità massima
fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadro; in caso di interventi a
destinazione produttiva, la superficie coperta non può comunque superare un
decimo dell’area di proprietà» (lettera b).
Vengono fatti salvi i
diversi limiti stabiliti dalle leggi regionali: ma solo se «più restrittivi» di
quelli dianzi indicati.
3.– Il rimettente muove dal presupposto che
la disposizione in esame, tramite la previsione della lettera b) dianzi
ricordata, sottoponga l’edificazione di complessi produttivi in "zone bianche”
extraurbane a una doppia limitazione: non solo di superficie coperta, ma anche
volumetrica.
Tale lettura del dettato
normativo è, in effetti, qualificabile come "diritto vivente”, risultando ormai
unanimemente accolta dalla giurisprudenza amministrativa. Secondo quanto
ripetutamente affermato dal Consiglio di Stato, risulta dirimente, nella
direzione dell’applicazione cumulativa dei due limiti, il canone
dell’interpretazione letterale. La presenza di un punto e virgola (anziché di
un punto) tra il primo ed il secondo periodo della disposizione e, soprattutto,
l’uso dell’avverbio «comunque» rivelerebbero, infatti, in modo univoco che il
limite superficiario – riferito agli interventi a destinazione produttiva – è
stabilito in aggiunta, e non in alternativa, al parametro volumetrico enunciato
nella frase che precede il segno di interpunzione (tra le altre, Consiglio di
Stato, sezione quarta, 5 febbraio 2009, n. 681; Consiglio di Stato, sezione
quarta, 5 febbraio 2009, n. 679; Consiglio di Stato, sezione quarta, 19 giugno
2006, n. 3658).
La conclusione appare
avvalorata anche dal confronto – che sarà operato più avanti – tra la
disposizione censurata e il suo immediato precedente legislativo (l’art. 4,
ultimo comma, della legge n. 10 del 1977): confronto che evidenzia chiaramente
l’intento legislativo di rendere applicabile agli interventi in discorso,
mediante una diversa articolazione del precetto, anche il limite di densità
fondiaria.
4.– A fianco della premessa interpretativa
ora ricordata – che fonda il quesito rivolto a questa Corte – il giudice a quo
ne pone un’altra, che condiziona la sua rilevanza. Il rimettente assume, cioè,
che la norma statale censurata sarebbe applicabile anche nella Regione Campania
(e, dunque, alla vicenda oggetto del giudizio a quo) – almeno per la parte in
cui prevede il limite volumetrico – pur in presenza di una disciplina regionale
della materia.
L’art. 9, comma 2, della
legge della Regione Campania 11 agosto 2005, n. 15 (Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – Legge finanziaria
regionale 2005), sostituendo l’art. 4, comma 2, della legge regionale 20 marzo
1982, n. 17 (Norme transitorie per le attività urbanistico-edilizie nei Comuni
della Regione), ha infatti previsto, per l’edificazione di complessi produttivi
in "zone bianche” esterne ai centri abitati, un limite di superficie coperta
più rigoroso di quello stabilito dalla norma statale (un sedicesimo dell’area
di proprietà, anziché un decimo). Tale limite non si coniuga, però, ad un
concorrente limite di cubatura: sicché, con riguardo a quest’ultimo – secondo
il giudice a quo – rimarrebbe operante la norma statale, non potendo venire in
rilievo la clausola di cedevolezza di fronte a previsioni regionali più
restrittive.
Al riguardo, va rilevato
che, in base alla previsione dell’art. 2, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001,
«Le disposizioni, anche di dettaglio, del […] testo unico, attuative dei
principi di riordino in esso contenuti operano direttamente nei riguardi delle
regioni a statuto ordinario, fino a quando esse non si adeguano ai principi
medesimi».
L’idea sottesa, nella
sostanza, alla tesi del rimettente è che – articolandosi la norma statale
censurata in due distinte componenti precettive (una relativa al limite minimo
volumetrico e l’altra al limite minimo superficiario) – il legislatore campano
si sia adeguato, con la legge reg. n. 15 del 2005, solo alla seconda
(stabilendo un limite di superficie più restrittivo di quello statale). Di
conseguenza, solo in rapporto a tale limite la norma regionale si surrogherebbe
a quella statale: con riguardo alla previsione inerente al limite volumetrico –
alla quale il legislatore regionale non si è adeguato – resterebbe invece ferma
l’operatività della norma statale.
In questa ottica, la tesi in
esame – condivisa, peraltro, anche dal Consiglio di Stato (sezione quarta,
sentenza 5 febbraio 2009, n. 679) – può ritenersi non implausibile: il che è
sufficiente ai fini del superamento della verifica della rilevanza delle
questioni.
Va aggiunto, per
completezza, che non viene in ogni caso in rilievo, ai fini considerati, la
circostanza che l’art. 1, comma 175, lettere b) e g), della legge della Regione
Campania 7 agosto 2014, n. 16, recante «Interventi di rilancio e sviluppo
dell’economia regionale nonché di carattere ordinamentale e organizzativo
(collegato alla legge di stabilità regionale 2014)», abbia disposto
l’abrogazione dell’intera legge reg. n. 17 del 1982 e della norma novellatrice
di cui al menzionato art. 9, comma 2, della legge reg. n. 15 del 2005. Ciò per
l’assorbente ragione che tale abrogazione viene fatta espressamente decorrere
«Dall’entrata in vigore del Piano Paesaggistico Regionale»: condizione che,
allo stato, non si è ancora verificata.
5.– Nel merito, le questioni non sono
fondate.
6.– Quanto alla prima delle
censure formulate dal rimettente – l’eccesso di delega (art. 76 Cost.) – va
rilevato che il testo unico in cui si colloca la norma impugnata è stato
emanato sulla base dell’art. 7 della legge n. 50 del 1999, come modificato
dall’art. 1 della legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la
delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti
amministrativi –Legge di semplificazione 1999), il quale aveva demandato al
Governo la redazione di testi unici finalizzati al riordino delle norme
legislative e regolamentari in un complesso di materie, tra cui quella
dell’edilizia.
Nell’ambito dei principi e
criteri direttivi della delega, il comma 2, lettera d), del citato art. 7 aveva
affidato, in particolare, al Governo il compito di procedere al «coordinamento
formale del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto
coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e
sistematica della normativa anche al fine di adeguare e semplificare il
linguaggio normativo».
Come risulta anche dalla sua
rubrica, l’art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001 riprende, in particolare, il
disposto del previgente art. 4, ultimo comma, della legge n. 10 del 1977.
Osserva, tuttavia, il
rimettente che la norma abrogata, alla luce di una piana lettura del suo
dettato, sottoponeva l’edificazione a fini produttivi in "zone bianche”
extraurbane al solo limite di superficie e stabiliva, altresì, che i parametri
da essa indicati trovassero applicazione solo «in mancanza di norme regionali e
fino all’entrata in vigore di queste»: dunque, di qualsiasi norma regionale,
indipendentemente dal suo carattere più severo o più permissivo.
La disposizione sottoposta a
scrutinio – prevedendo l’applicazione cumulativa anche del limite di cubatura e
circoscrivendo la clausola di cedevolezza alle sole norme regionali più
restrittive – avrebbe, dunque, apportato innovazioni sostanziali alla normativa
preesistente. Tali innovazioni eccederebbero i limiti della delega: da un lato,
infatti, esse non sarebbero giustificabili con esigenze di coerenza logica e
sistematica; dall’altro, la legge delega non recherebbe principi e criteri
direttivi atti ad orientare l’operato del Governo nell’effettuazione di
interventi di modifica o integrazione normativa.
6.1.– Va ricordato, in proposito, che, per
costante giurisprudenza di questa Corte, la verifica della conformità della
norma delegata alla norma delegante postula un confronto tra gli esiti di due
processi ermeneutici paralleli, l’uno relativo alla norma che determina
l’oggetto, i principi e i criteri direttivi della delega; l’altro relativo alla
norma delegata, da interpretare nel significato compatibile con questi ultimi.
Il contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto del
complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge delega e i
relativi principi e criteri direttivi, nonché delle finalità che la ispirano,
che costituiscono non solo base e limite delle norme delegate, ma anche
strumenti per l’interpretazione della loro portata. La delega legislativa non
esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, la quale può essere più
o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella
legge delega: pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto tali
margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per
verificare se la norma delegata sia con questa coerente (ex plurimis,
sentenze n. 250
del 2016, n.
47 del 2014, n.
272 e n. 75
del 2012, n.
98 del 2008, n.
341 e n. 340
del 2007).
Con particolare riguardo alle
deleghe per il riordino o il riassetto di settori normativi, questa Corte ha
inquadrato in limiti rigorosi l’esercizio, da parte del legislatore delegato,
di poteri innovativi della normazione vigente, da intendersi in ogni caso come
strettamente orientati e funzionali alle finalità esplicitate dalla legge di
delega (tra le altre, sentenze n. 250 del
2016, n. 162
e n. 80 del 2012,
n. 293 del 2010).
In tale cornice, la Corte si
è peraltro specificamente occupata, in più occasioni, della delega prevista
dall’art. 7 della legge n. 50 del 1999 – che qui interessa – con riguardo ad
altri testi unici emanati sulla sua base.
Pronunciando, in
particolare, su una serie di questioni attinenti al d.P.R. 30 maggio 2002, n.
115, recante il «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di spese di giustizia (Testo A)», la Corte ha rilevato – in accordo con
il parere espresso dal Consiglio di Stato nel corso del procedimento di
approvazione del testo unico – che, se l’obiettivo indicato dal criterio di
delega previsto dalla lettera d) del comma 2 del citato art. 7 «è quello della
coerenza logica e sistematica della normativa, il coordinamento non può essere
solo formale […]. Inoltre, se l’obiettivo è quello di ricondurre a sistema una
disciplina stratificata negli anni, con la conseguenza che i principî sono
quelli già posti dal legislatore, non è necessario che […] sia espressamente
enunciato nella delega il principio già presente nell’ordinamento, essendo
sufficiente il criterio del riordino di una materia delimitata». Entro questi
limiti, il testo unico poteva pertanto «innovare per raggiungere la coerenza
logica e sistematica» (sentenze n. 52
e n. 53 del 2005;
in senso analogo, sentenza
n. 174 del 2005). In sostanza, dunque, il Governo era chiamato ad
individuare i principi regolativi della normativa già esistente, orientando in
base ad essi le operazioni di coordinamento nei sensi ora indicati (per una
successiva applicazione del principio, sentenza n. 230 del
2010).
6.2.– Ciò posto, per quanto
attiene al primo dei dedotti profili di innovatività dell’art. 9, comma 1,
lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001 – il cumulo dei limiti – si deve rilevare
che il previgente art. 4, ultimo comma, della legge n. 10 del 1977 recava una
disposizione non priva di ambiguità, prevedendo, in separate lettere: che
l’«edificazione a scopo residenziale» fuori del perimetro dei centri abitati
dovesse rispettare l’indice volumetrico di metri cubi 0,03 per metro quadrato
di area edificabile (lettera a); che «nell’ambito dei centri abitati» fossero
consentite solo opere di restauro, risanamento, manutenzione e consolidamento
(lettera b); che le superfici coperte di «edifici e complessi produttivi» non
potessero superare un decimo dell’area di proprietà (lettera c).
Il Consiglio di Stato aveva
ritenuto che la previsione della lettera c), da ultimo ricordata, e che qui
rileva, non fosse riferibile alle aree interne ai centri abitati, in ordine
alle quali la lettera b) poneva il divieto di nuove edificazioni (Consiglio di
Stato, sezione quinta, 14 novembre 1996, n. 1368). Fuori dei centri abitati,
per converso, l’edificazione a fini produttivi sarebbe rimasta soggetta al solo
limite superficiario, e non anche a quello volumetrico, riferito dalla lettera
a) alla sola edilizia residenziale (Consiglio di Stato, sezione quinta, 11
luglio 2002, n. 3884; Consiglio di Stato, sezione quinta, 8 gennaio 1998, n.
55; Consiglio di Stato, sezione quinta, 2 luglio 1993, n. 770): ciò in linea
con l’esegesi qualificata come del tutto piana dal giudice a quo.
Anche riconoscendo,
peraltro, che sul punto si fosse formato un "diritto vivente” e che il
legislatore delegato dovesse di esso tener conto, resta, tuttavia, il fatto che
la sottoposizione degli interventi produttivi al solo limite della superficie
coperta risultava incoerente con la ratio della previsione di standard di
edificabilità nelle "zone bianche”, in precedenza evidenziata. Il regime in
questione si risolveva, infatti – come nota anche l’Avvocatura generale dello
Stato – nell’ammissione di un’attività edificatoria sostanzialmente senza
limiti, tramite lo sviluppo in verticale dei fabbricati.
La conclusione risulta tanto
più valida ove si consideri che – secondo quanto pure affermato dal Consiglio
di Stato – ai fini dell’applicazione della norma abrogata, per «superficie
coperta» doveva intendersi quella "di sedime”, vale a dire la porzione di
terreno su cui poggia la base del fabbricato, e non già il totale della
superficie di calpestio. Quando aveva voluto fare riferimento a quest’ultima,
il legislatore urbanistico si era, infatti, avvalso della diversa espressione
«superficie lorda di pavimentazione» (Consiglio di Stato, sezione quinta, 8
gennaio 1998, n. 55; Consiglio di Stato, sezione quinta, 2 luglio 1993, n.
770). Di conseguenza, una volta che la base d’appoggio fosse rimasta contenuta
entro il decimo dell’area di proprietà, il fabbricato avrebbe potuto
svilupparsi in altezza ad libitum, anche grazie alla ripartizione in piani.
È peraltro evidente che – se
la norma mira a realizzare un contemperamento tra gli opposti interessi,
riconoscendo ai proprietari di fondi siti in "zone bianche” una limitata
facoltà edificatoria che non comprometta l’assetto del territorio e non
pregiudichi le future scelte in sede di pianificazione – tali ultimi obiettivi
verrebbero vanificati da un simile regime.
Si deve, quindi, concludere
che l’inequivoca estensione ai complessi produttivi del limite volumetrico,
operata dal legislatore delegato, trovi giustificazione nell’esigenza di
garantire la «coerenza logica e sistematica» della normativa considerata, in
accordo con la direttiva del legislatore delegante.
È ben vero che l’applicazione
congiunta finisce, a sua volta, per svuotare di significato il limite
superficiario, il quale resta di regola assorbito dal più incisivo limite di
densità fondiaria. Ma si tratta di una incongruenza che, a differenza
dell’altra, non mina la ratio legis: il limite
superficiario congiunto potrà risultare superfluo, ma non è, in ogni caso,
disfunzionale rispetto all’obiettivo perseguito, come invece sarebbe il limite
superficiario autonomo.
6.3.– Un discorso analogo vale anche in
rapporto alla limitazione della clausola di cedevolezza alle sole norme
regionali più restrittive.
Come meglio si verificherà
poco oltre, la previsione di limiti invalicabili all’edificazione nelle "zone
bianche”, per la finalità ad essa sottesa, ha le caratteristiche intrinseche del
principio fondamentale della legislazione statale in materia di governo del
territorio, coinvolgendo anche valori di rilievo costituzionale quali il
paesaggio, l’ambiente e i beni culturali.
In quest’ottica, la
fissazione di standard rigorosi, ma cedevoli di fronte a qualsiasi
regolamentazione regionale della materia – sulla falsariga di quanto previsto
dalla norma anteriore – rappresenterebbe una soluzione contraddittoria. Come
rilevato dal Consiglio di Stato nel dichiarare manifestamente infondate le questioni
in esame, detta soluzione lascerebbe, infatti, aperta la possibilità che
«eventuali legislatori regionali, prodighi di facoltà edificatorie, finiscano
con il frustrare la ratio della disciplina in commento, compromettendo in modo
tendenzialmente irreversibile interessi di rango costituzionale»: ragione per
la quale «l’art. 9 individua un principio fondamentale della legislazione
statale tale da condizionare necessariamente quella regionale a regolare solo
in senso più restrittivo l’edificazione» (Consiglio di Stato, sezione quarta,
12 marzo 2010, n. 1461).
Configurando gli standard
considerati come limiti minimi, derogabili dalle Regioni solo nella direzione
dell’innalzamento della tutela, il legislatore si è, quindi, novamente mosso nell’ambito della direttrice di delega del
promovimento della coerenza logico-sistematica della disciplina.
7.– Infondata è anche l’ulteriore censura
di violazione della potestà legislativa regionale in materia di «governo del
territorio» (art. 117, terzo comma, Cost.).
Secondo il rimettente, la
limitazione della clausola di cedevolezza, di cui all’art. 9, comma 1, del
d.P.R. n. 380 del 2001, alle sole norme regionali più restrittive farebbe sì
che la regola del doppio limite, posta dal legislatore statale – costituente,
in assunto, norma di dettaglio – resti applicabile anche quando la Regione
abbia provveduto a dettare norme proprie più favorevoli, come è avvenuto
nell’ipotesi in esame, contravvenendo così alle regole di riparto della potestà
legislativa nelle materie di competenza concorrente.
La giurisprudenza di questa
Corte è, in effetti, costante nel ritenere che l’urbanistica e l’edilizia
vadano ricondotte alla materia «governo del territorio», di cui all’art. 117,
terzo comma, Cost.: materia di legislazione concorrente nella quale lo Stato ha
il potere di fissare i principi fondamentali, mentre spetta alle Regioni il
potere di emanare la normativa di dettaglio (per tutte, sentenze n. 102 del
2013 e n.
303 del 2003).
Contrariamente a quanto
sostenuto dal rimettente, tuttavia, la norma censurata – nonostante la puntuale
quantificazione dei limiti di cubatura e di superficie in essa contenuta – non
può qualificarsi come norma di dettaglio, esprimendo piuttosto un principio
fondamentale della materia: il che risponde, del resto, all’indirizzo accolto
dalla giurisprudenza amministrativa pressoché unanime, e recepito dallo stesso Tribunale
amministrativo regionale per la Campania in precedenti decisioni.
Di là dalle non decisive
previsioni generali degli artt. 1, comma 1, e 2, commi 1 e 3, del d.P.R. n. 380
del 2001 – secondo le quali il testo unico reca i principi fondamentali dell’attività
edilizia ai quali i legislatori regionali debbono attenersi – milita in tale
direzione l’evidenziata funzione della norma di impedire, tramite
l’applicazione di standard legali, una incontrollata espansione edilizia in
caso di "vuoti urbanistici”, suscettibile di compromettere l’ordinato (futuro)
governo del territorio e di determinare la totale consumazione del suolo
nazionale, a garanzia di valori di chiaro rilievo costituzionale. Funzione
rispetto alla quale la specifica previsione di livelli minimi di tutela si
presenta coessenziale, in quanto necessaria per esprimere la regola (al
riguardo, sentenza
n. 430 del 2007).
Questa Corte, d’altro canto,
ha già avuto modo di qualificare come principio fondamentale in materia di
«governo del territorio» le misure di salvaguardia previste dall’art. 12, comma
3, del d.P.R. n. 380 del 2001: e ciò anche – e specificamente – per quanto
attiene al puntuale termine di durata cui esse sono sottoposte (sentenza n. 102 del
2013). Dette misure hanno una ratio similare a quella dell’art. 9: mirano,
infatti, anch’esse a salvaguardare la funzione di pianificazione urbanistica,
evitando che l’introduzione di una nuova disciplina, ritenuta più aderente alle
esigenze del territorio e della popolazione, sia pregiudicata dal rilascio di
contrastanti titoli edilizi nelle more del procedimento di approvazione del
nuovo strumento urbanistico.
Al pari del citato art. 12,
comma 3, anche la norma oggi in esame lascia, d’altro canto, uno spazio di
intervento alle Regioni nel definire la disciplina di dettaglio – conformemente
a quanto stabilito dall’art. 117, terzo comma, Cost. – sia pure al solo fine di
restringere le potenzialità edificatorie.
8.– Con riguardo alla censura di violazione
del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), va disattesa l’eccezione di
inammissibilità formulata dall’Avvocatura dello Stato, legata all’asserita
genericità della relativa motivazione.
Il rimettente pone, infatti,
a base della doglianza l’assunto – corroborato anche con l’allegazione di
esempi concreti – per cui l’applicazione congiunta dei limiti di cubatura e di
superficie penalizzerebbe oltre misura le attività produttive, facendo sì che,
per realizzare edifici idonei allo svolgimento di tali attività, occorra la
disponibilità di aree molto estese.
Nel merito, tuttavia, la
doglianza è infondata, per le ragioni già indicate in sede di esame della
censura di eccesso di delega.
L’inconveniente che il
giudice a quo lamenta rientra nella logica della disciplina di cui si discute,
che è quella di riconoscere al privato – fin tanto che non intervenga la
pianificazione dell’area – facoltà edificatorie significativamente compresse,
proprio per non compromettere l’esercizio di quella funzione. Al contrario, è
la soluzione auspicata dal rimettente – ossia l’applicabilità del solo limite
superficiario, con conseguente libero sviluppo degli edifici in verticale – a collidere
con la coerenza della norma.
9.– Quanto, poi, alla prospettata
violazione dell’art. 41, primo comma, Cost., il parametro evocato è
inconferente (in tale senso, sentenza n. 186 del
1993, con riguardo alla materia affine della proroga dei vincoli
urbanistici).
La disciplina dei limiti di
edificabilità nelle "zone bianche” non incide affatto sulla libertà di
iniziativa economica privata, la quale non deve essere necessariamente garantita
– per imperativo costituzionale – consentendo al privato di realizzare opifici
su terreni non coperti dalla pianificazione urbanistica.
10.– Con riguardo, infine, alla denunciata
violazione della garanzia costituzionale del diritto di proprietà (art. 42,
secondo e terzo comma, Cost.), è assorbente il rilievo che si tratta di
doglianza non congruente rispetto al petitum.
La censura fa perno,
infatti, sulla giurisprudenza di questa Corte in tema di vincoli di
inedificabilità preordinati all’espropriazione o a contenuto sostanzialmente
espropriativo: vincoli ai quali il giudice a quo reputa assimilabile il regime
delle "zone bianche”. In base alla giurisprudenza richiamata, peraltro, i
vincoli in questione non sono inammissibili: il principio che da essa emerge è
piuttosto l’altro della necessaria alternativa tra la previsione di un termine
massimo ragionevole di durata dei vincoli stessi e l’obbligo di indennizzo (tra
le altre, sentenze
n. 411 del 2001, n. 179 del 1999,
n. 344 del 1995
e n. 379 del
1994).
Il rimettente non si duole,
tuttavia, del fatto che, in assenza della previsione di un termine massimo di
durata del regime delle "zone bianche”, non sia riconosciuto al proprietario il
diritto all’indennizzo (questione che risulterebbe, peraltro, irrilevante nel
giudizio a quo), ma chiede una cosa diversa: ossia di incrementare le facoltà
edificatorie del proprietario (peraltro in modo "unidirezionale”, ossia solo
con riferimento ai complessi produttivi in zone extraurbane), così da rendere
"non eccessiva” – secondo il suo apprezzamento – la compressione dello ius aedificandi. Soluzione,
questa, affatto estranea alla evocata linea d’intervento di questa Corte.
11.– Le questioni vanno dichiarate,
pertanto, non fondate in rapporto a tutti i parametri evocati.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma
1, lettera b), del decreto legislativo 6 giugno 2001, n. 378, recante
«Disposizioni legislative in materia edilizia (Testo B)», trasfuso nell’art. 9,
comma 1, lettera b), del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante il «Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)»,
sollevate, in riferimento agli artt. 3, 41, primo comma, 42, secondo e terzo
comma, 76 e 117, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale amministrativo
regionale per la Campania con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Carmelinda MORANO,
Cancelliere
Depositata in Cancelleria il
13 aprile 2017.