ORDINANZA N. 259
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 548, comma 3, e 585, comma 2, lettera d), del codice di procedura penale, nonché degli artt. 10, comma 5, e 11, comma 1, della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), promosso dal Tribunale ordinario di Prato nel procedimento a carico di F.M., con ordinanza del 31 marzo 2015, iscritta al n. 171 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 novembre 2016 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
Ritenuto che, con ordinanza del 31 marzo 2015 (r.o. n. 171 del 2015), il Tribunale ordinario di Prato ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 548, comma 3, e 585, comma 2, lettera d), del codice di procedura penale, nonché degli artt. 10, comma 5, e 11, comma 1, della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili);
che le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate nell’ambito di un giudizio penale nel quale si procede nei confronti di F.M. per il reato «di cui all’art. 2 L. 638/83»;
che il giudice a quo ha condiviso le argomentazioni della difesa dell’imputato, dubitando, in particolare, della legittimità costituzionale dell’omessa previsione, in favore dell’imputato dichiarato assente, della notificazione dell’estratto della sentenza, che in passato era prevista per l’imputato dichiarato contumace, a fronte della comunicazione oggi contemplata solo in favore del procuratore generale presso la corte d’appello;
che, a parere del giudice rimettente, «[a]ppare evidente» la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, essendo stato l’imputato dichiarato assente, sicché «con l’entrata in vigore della legge n. 67 del 2014 la sentenza che verrà emessa» al termine del processo «potrebbe non essere comunicata all’assente ma solo al Procuratore generale»;
che, a giudizio del tribunale rimettente, il vulnus ai parametri costituzionali innanzi richiamati risiederebbe nel fatto che la posizione dell’imputato assente «viene ad essere peggiore di quella di un contumace della precedente previsione e peggiore di quella del Procuratore generale», con conseguente «palese contrasto» con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in quanto il legislatore avrebbe trattato, con la modifica legislativa introdotta dalla legge n. 67 del 2014, in maniera differente «l’imputato-condannato assente» e il procuratore generale presso la corte d’appello;
che, in particolare, il primo – a differenza del secondo – sarebbe gravato dall’obbligo di informarsi costantemente «onde non essere pregiudicato nei tempi dell’appello»;
che, sempre a parere del giudice a quo, sarebbe leso anche l’art. 24 Cost., sull’inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, in quanto la possibilità per la procura generale presso la corte d’appello di «appellare prima dell’imputato» e l’onere gravante su quest’ultimo di informarsi, costituirebbero «un limite al diritto di difesa»;
che, infine, sarebbe violato anche l’art. 111 Cost., secondo cui ogni processo si svolge in condizione di parità fra le parti, in quanto la «norma introdotta dalla L. 67 del 2014» determinerebbe «una chiara e palese condizione di disparità fra le parti», rafforzando il vantaggio della parte pubblica, «dovuto al suo essere comunque parte dello Stato, dotata di mezzi che il privato non ha e non può avere»: tale condizione di disparità emergerebbe, in particolare, dall’art. 585, comma 2, lettera d), cod. proc. pen., come modificato, a tenore del quale solo per il procuratore generale presso la corte di appello il termine per proporre impugnazione decorre dal momento della comunicazione dell’avviso di deposito della sentenza, mentre per l’imputato detto termine decorre «da quan[d]o stabilito dalla legge, termine quasi sicuramente inferiore rispetto a quello stabilito per la Procura Generale»;
che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o, comunque, per la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate;
che l’Avvocatura generale dello Stato ha evidenziato, in via preliminare, come il dubbio di legittimità costituzionale venga prospettato sulla base di circostanze puramente ipotetiche, allo stato inesistenti, in quanto collegate all’eventualità – non ancora verificatasi – di lettura del dispositivo della sentenza addirittura in assenza anche dell’avvocato difensore, laddove il codice di rito prevede che l’imputato, che chieda o consenta che l’udienza si svolga in sua assenza, è sempre rappresentato dal difensore, anche all’udienza in cui viene data lettura del dispositivo;
che ulteriore ragione di inammissibilità è individuata, dall’Avvocatura generale dello Stato, nel fatto che le norme censurate dovrebbero essere applicate in un futuro ed eventuale giudizio di appello, che dovrà essere deciso da un giudice diverso dal tribunale rimettente;
che, nel merito, la difesa statale ha rilevato come, con la riforma di cui alla legge n. 67 del 2014, sia stato abolito il processo contumaciale e sia stata dettata una nuova regolamentazione del cosiddetto “processo in assenza”, rendendosi, al contempo, più rigorosi i presupposti del giudizio svolto in assenza dell’imputato;
che, in particolare, l’Avvocatura generale dello Stato ha ricordato che le norme codicistiche dispongono, ora, che il processo viene celebrato “in assenza” quando l’imputato rinuncia espressamente a partecipare o quando vi sono degli elementi da cui desumere che egli abbia avuto conoscenza dell’esistenza del procedimento, mentre, nel vigore delle precedenti norme, l’imputato dichiarato contumace, diversamente da quello dichiarato assente, non manifestava alcuna volontà negativa in ordine alla comparizione e alla presenza in udienza, sicché appariva giustificata sia la previsione di cui all’art. 548, comma 3, cod. proc. pen. – che imponeva di notificargli l’avviso di deposito della sentenza, con il relativo estratto – sia la previsione dell’art. 585, comma 2, lettera d), cod. proc. pen., che sanciva, anche per l’imputato contumace, la decorrenza del termine per impugnare solo dal giorno della notificazione dell’avviso di deposito della sentenza, con l’estratto del provvedimento;
che, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la giurisprudenza costituzionale, pur se maturata nel vigore del precedente codice di rito, avrebbe già escluso – con riguardo ai differenti termini allora riconosciuti ad imputato e pubblico ministero per proporre impugnazione – qualsiasi violazione del principio di eguaglianza e dello stesso diritto di difesa, ritenendo che il pubblico ministero è organo di giustizia, preposto, nell’interesse generale alla difesa dell’ordinamento, alla persecuzione dei reati, sicché la diversa disciplina trova giustificazione razionale nella strutturazione stessa dell’organo di accusa, il quale, date le numerose incombenze, «ha evidentemente bisogno di un maggior termine di quanto non occorra all’imputato per decidere intorno al suo personale ed unico interesse» (così sentenza n. 136 del 1971);
che tale principio, a giudizio dell’Avvocatura generale dello Stato, servirebbe a confermare la razionalità della previsione che impone di comunicare al solo procuratore generale presso la corte d’appello l’avviso di deposito della sentenza, con l’estratto del provvedimento, in quanto su tale organo incombe l’onere di deliberare in ordine all’impugnazione dei provvedimenti emessi in udienza da qualsiasi giudice della sua circoscrizione diverso dalla corte d’appello (art. 585, comma 2, lettera d), cod. proc. pen.).
Considerato che il Tribunale ordinario di Prato ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 548, comma 3, e 585, comma 2, lettera d), del codice di procedura penale, nonché degli artt. 10, comma 5, e 11, comma 1, della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili);
che l’oggetto delle questioni di legittimità costituzionale deve essere correttamente individuato negli artt. 548, comma 3, e 585, comma 2, lettera d), cod. proc. pen., come modificati dagli artt. 10, comma 5, e 11, comma 1, della legge n. 67 del 2014, i quali ultimi si limitano, appunto, ad apportare le censurate modifiche alle indicate norme del codice di procedura penale;
che il giudice a quo dubita, in particolare, della legittimità costituzionale dell’omessa previsione – per l’imputato dichiarato assente e a differenza di quanto previsto in passato per il contumace – della notifica dell’estratto della sentenza (recte: dell’avviso di deposito con l’estratto della sentenza), a fronte della comunicazione di tali atti contemplata, ora, solo in favore del procuratore generale presso la corte d’appello;
che la rilevanza delle sollevate questioni di costituzionalità è motivata, dal giudice a quo, sulla base della circostanza che l’imputato è stato dichiarato assente nel giudizio principale, sicché non potrebbe beneficiare della notifica dell’estratto di sentenza (e dell’avviso di deposito);
che, a giudizio del tribunale rimettente, per la perdurante previsione della comunicazione di tali atti al procuratore generale presso la corte d’appello, sarebbe violato il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in quanto solo sull’imputato dichiarato assente graverebbe l’obbligo di informarsi costantemente «onde non essere pregiudicato nei tempi dell’appello»;
che, sempre secondo il giudice a quo, la possibilità per la procura generale presso la corte d’appello di «appellare prima dell’imputato» e l’onere gravante su quest’ultimo di informarsi integrerebbero una violazione del diritto di difesa;
che, a parere del giudice rimettente, per effetto della previsione del novellato art. 585, comma 2, lettera d), cod. proc. pen. – secondo cui il termine per proporre impugnazione decorre dal momento della comunicazione dell’avviso di deposito, ma solo per il procuratore generale presso la corte d’appello – all’imputato dichiarato assente spetterebbe un termine «quasi sicuramente inferiore» a quello riconosciuto al procuratore generale presso la corte d’appello;
che, in definitiva, il sistema delineato dalla legge n. 67 del 2014 determinerebbe, secondo il giudice a quo, una condizione di disparità fra le parti, rafforzando, in violazione dell’art. 111 Cost., il vantaggio della parte pubblica;
che le questioni così sollevate sono manifestamente inammissibili, per plurime ragioni;
che, in primo luogo, il giudice rimettente non chiarisce i motivi per i quali le norme censurate sarebbero applicabili nel giudizio a quo;
che, infatti, tali norme, nel disciplinare adempimenti successivi alla pubblicazione della sentenza, rientrano nel sistema delle impugnazioni, mirando a rendere effettivo l’esercizio del relativo diritto;
che spetta, dunque, al giudice dell’impugnazione valutare gli effetti – sull’esercizio del diritto di impugnare la sentenza (allo stato, peraltro, solo in ipotesi sfavorevole) – della mancata previsione della notifica, all’imputato dichiarato assente, dell’avviso di deposito della sentenza e del relativo estratto;
che il tribunale rimettente, giudice di primo grado, non deve invece fare applicazione delle norme sospettate di incostituzionalità (ex plurimis, sentenze n. 76 e n. 36 del 2016; ordinanze n. 92 del 2016 e n. 264 del 2015), conseguendone la manifesta inammissibilità per difetto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate;
che, in secondo luogo, il tenore testuale dell’ordinanza di rimessione lascia ritenere che essa sia stata pronunciata in una fase processuale in cui la lettura del dispositivo in assenza dell’imputato risultava ancora una mera eventualità;
che, infatti, fino a quando il giudice non abbia già dichiarato chiusa la discussione e si sia ritirato per deliberare, l’imputato può sempre comparire personalmente all’udienza, con conseguente revoca, anche d’ufficio, dell’ordinanza che abbia disposto di procedere in sua assenza, come espressamente prevede il comma 4 dell’art. 420-bis cod. proc. pen., novellato dalla legge n. 67 del 2014;
che, pertanto, le questioni di legittimità costituzionale sollevate appaiono meramente eventuali, e irrilevanti in quanto premature (ex multis, sentenza n. 60 del 2014; ordinanze n. 161 del 2015, n. 96 del 2014, n. 26 del 2012, n. 176 del 2011, n. 363 e n. 96 del 2010), poiché condizionate alla mancata comparizione in udienza, pur sempre ancora possibile, dell’imputato dichiarato assente;
che, anche sotto questo profilo, le questioni di legittimità costituzionale sollevate devono essere dichiarate manifestamente inammissibili.
Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 548, comma 3, e 585, comma 2, lettera d), del codice di procedura penale, come modificati rispettivamente dagli artt. 10, comma 5, e 11, comma 1, della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Prato, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 novembre 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 dicembre 2016.