SENTENZA N. 76
ANNO 2016
Commento alla decisione di
Livio Scaffidi Runchella
Il primo intervento della Consulta sul riconoscimento di provvedimenti stranieri in tema di adozione coparentale per coppie dello stesso sesso
per g.c. di Articolo29
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giuseppe FRIGO Presidente
- Paolo GROSSI Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 36 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), promosso dal Tribunale per i minorenni di Bologna sul ricorso proposto da B.E.M. con ordinanza del 10 novembre 2014, iscritta al n. 259 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e dell’associazione Avvocatura per i diritti LGBTI;
udito nella camera di consiglio del 24 febbraio 2016 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
1.– Con ordinanza del 10 novembre 2014 il Tribunale per i minorenni di Bologna ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 36 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), «nella parte in cui – come interpretati secondo diritto vivente – non consentono al giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore adottato (all’estero), il riconoscimento della sentenza straniera che abbia pronunciato la sua adozione in favore del coniuge del genitore, a prescindere dal fatto che il matrimonio stesso abbia prodotto effetti in Italia (come per la fattispecie del matrimonio tra persone dello stesso sesso)», per violazione degli artt. 2, 3, 30, 31 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in riferimento agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
2.– Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a definire un giudizio promosso dalla signora B.E.M., al fine di ottenere il riconoscimento della sentenza straniera di adozione deliberata, in data 22 gennaio 2004, dal Tribunale di Prima Istanza dello Stato dell’Oregon, Contea di Multnomah, negli Stati Uniti d’America, con la quale era stata disposta l’adozione piena della minore J.B.S.E. in favore della ricorrente, con responsabilità genitoriale congiunta a quella della madre biologica J.E.A.
Il rimettente riferisce che la minore J.B.S.E. è nata da J.E.A. in data 4 ottobre 2003, in seguito ad inseminazione artificiale, allorché J.E.A. già conviveva con B.E.M., nell’ambito, dunque, di uno specifico progetto di genitorialità delle due madri (biologica e adottiva). Subito dopo la nascita di J.B.S.E., B.E.M. ha presentato domanda di adozione al Tribunale dello Stato dell’Oregon che, dopo aver accertato l’idoneità della richiedente a svolgere il ruolo di madre e l’idoneità del nucleo familiare ad ospitare la bambina, ne ha statuito appunto l’adozione. In seguito, in data 6 giugno 2013, J.E.A. e B.E.M. hanno contratto matrimonio agli effetti della legge degli Stati Uniti d’America. Il 27 marzo 2013 il Consolato Generale d’Italia con sede a San Francisco ha attestato che B.E.M., cittadina statunitense, è anche cittadina italiana per discendenza. L’intero nucleo familiare risiede ora a Bologna. Ricorda, infine, il giudice a quo che la ricorrente non ha presentato domanda finalizzata ad ottenere l’adozione di J.B.S.E., bensì ha richiesto, anche in nome della figlia adottata, il riconoscimento, in Italia, del provvedimento statunitense di adozione della minore.
3.– Il Tribunale per i minorenni di Bologna ricorda, quindi, come i provvedimenti di adozione siano riconoscibili, in Italia, ai sensi dell’art. 41 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), il quale rinvia agli artt. 64, 65 e 66 della medesima legge, ferme restando le norme speciali in materia di adozione dei minori (in particolare, gli artt. 35 e 36 della legge n. 184 del 1983). Con riferimento alla fattispecie oggetto del suo giudizio, il rimettente rileva che sussistono «tutte le condizioni di carattere procedurale e processuale» richieste dalla legge per il riconoscimento del provvedimento straniero, in quanto lo stesso si è perfezionato negli Stati Uniti d’America secondo legalità e sulla base della competenza dell’autorità adita. Ritiene, tuttavia, che, nel caso di specie, osti al riconoscimento della sentenza pronunciata all’estero la sua contrarietà all’ordine pubblico, limite previsto dalle disposizioni citate.
Assume, infatti, il Tribunale che, sulla scorta di una lettura – «da ritenersi prevalente e maggioritaria, di fatto corrispondente a “diritto vivente”» degli artt. 41 della legge n. 218 del 1995 e 44, comma 1, lettera b), della legge n. 184 del 1983 (relativo, quest’ultima disposizione, all’adozione, in casi particolari, del figlio del coniuge) – debba escludersi che un minore possa essere adottato da persona che sia coniuge del genitore nell’ambito di un matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, costituendo la necessaria diversità dei sessi un presupposto implicito e inderogabile della disciplina adottiva, «così cogente da dovere essere collocato nell’ambito di quelli che si connotano per partecipazione all’area semantica dell’Ordine pubblico interno».
Ad avviso del giudice rimettente, tale interpretazione delle disposizioni sopra citate costituirebbe l’approdo di un “diritto vivente” formatosi nell’applicazione degli artt. 35 e 36 della legge n. 184 del 1983. Viene ricordata, in particolare, una pronuncia della Corte di cassazione (sezione prima civile, 14 febbraio 2011, n. 3572), secondo la quale l’adozione disposta ai sensi dell’art. 36, comma 4, della legge n. 184 del 1983 – ossia l’adozione pronunciata all’estero su istanza di cittadini italiani che dimostrino, al momento della pronuncia, di avere soggiornato continuativamente nel Paese straniero e di avervi avuto la residenza da almeno due anni – non avrebbe introdotto alcuna deroga al principio generale enunciato al comma 3 del precedente art. 35, ove si stabilisce che il riconoscimento del provvedimento di adozione di un minore pronunciato all’estero non può avere luogo ove contrario «ai principi fondamentali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei minori». Tra questi principi – secondo il giudice a quo – vi sarebbe anche quello secondo cui l’adozione è permessa solo a coniugi «uniti in matrimonio» ai sensi dell’art. 6 della legge n. 184 del 1983 (matrimonio che, nell’ordinamento italiano, è consentito solo a persone di sesso diverso).
4.– Tanto premesso, il Tribunale per i minorenni di Bologna ritiene di non potersi discostare dall’orientamento giurisprudenziale indicato. Al tempo stesso, afferma di non condividerlo, se applicato alla fattispecie oggetto del suo giudizio, trattandosi di genitori (per quanto dello stesso sesso) con ventennale convivenza, poi confluita in un matrimonio regolarmente celebrato all’estero, in cui il coniuge del genitore ha adottato il figlio di quest’ultimo.
Il giudice a quo muove, infatti, dal presupposto che il matrimonio contratto all’estero tra persone del medesimo sesso non possa più essere considerato contrario all’ordine pubblico, in quanto detto matrimonio, nel nostro ordinamento, pur improduttivo di effetti giuridici, non sarebbe inesistente (è citata la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 15 marzo 2012, n. 4184). Inoltre, il giudice a quo evoca alcune decisioni in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe affermato che la coppia formata da persone dello stesso sesso è da considerare “famiglia” (sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria, e sentenza 19 febbraio 2013, X e altri contro Austria). Infine – ricorda sempre il rimettente – la stessa Corte costituzionale avrebbe riconosciuto che la coppia omosessuale rientra tra le formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost. (sentenza n. 170 del 2014).
Il Tribunale per i minorenni di Bologna ritiene pertanto che la disciplina «in materia di riconoscimento dell’adozione perfezionatasi all’estero» sia censurabile sotto due distinti profili.
In primo luogo, gli artt. 35 e 36 della legge n. 184 del 1983 violerebbero gli artt. 2 e 3 Cost., in quanto, per la sola omosessualità dei genitori, esse impedirebbero in modo assoluto alla famiglia formatasi all’estero di continuare ad essere “famiglia” anche in Italia. Il giudice a quo ricorda come la Corte costituzionale abbia affermato che, pur spettando al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento delle unioni omosessuali, è ad essa riservata la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni (sentenza n. 138 del 2010). Il rimettente, pur riconoscendo l’interesse dello Stato a non modificare il modello eterosessuale del matrimonio e della famiglia, ritiene che non possa essere totalmente sacrificato il contrapposto interesse della coppia omogenitoriale a che l’unione dei membri della famiglia non sia cancellata in modo completo e irreversibile.
La questione non riguarda qui – precisa il Tribunale rimettente – il rapporto di coniugio tra persone dello stesso sesso, ma esclusivamente il rapporto genitoriale e l’interesse preminente del minore al suo riconoscimento.
In secondo luogo, il giudice a quo ritiene che la disciplina censurata contrasti con gli artt. 2, 3, 30, 31 e 117 Cost., quest’ultimo in riferimento agli artt. 8 e 14 della CEDU, in quanto il divieto assoluto di riconoscimento della decisione straniera cancellerebbe «in modo netto e irrazionale» la possibilità, per il giudice italiano, di condurre un vaglio sull’effettivo interesse del minore, vanificando principi di matrice internazionale ed europea.
Il rimettente, su tale aspetto, ricorda anzitutto i principi espressi in alcuni trattati internazionali: la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, in forza della quale «[i]n tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente» (art. 3, comma 1); la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 20 marzo 2003, n. 77; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (art. 24, comma 2). Dai trattati in questione emergerebbe la necessità che, in ogni atto comunque riguardante il minore, il suo interesse debba sempre essere considerato preminente. Disposizioni come quelle censurate impedirebbero, invece, al giudice di verificare quale sia l’interesse del fanciullo e, dunque, si porrebbero in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, e con gli artt. 2, 30 e 31 Cost., che assicurano al minore il diritto fondamentale ad una famiglia.
Inoltre, l’impossibilità di riconoscere il provvedimento di adozione, formatosi all’estero, in favore di una famiglia omogenitoriale, si paleserebbe in contrasto con gli artt. 8 e 14 della CEDU. Il giudice a quo ricorda i principi espressi dalla Corte EDU nella sentenza 19 febbraio 2013, X e altri contro Austria, e nella sentenza 28 giugno 2007, Wagner e J.M.W.L. contro Lussemburgo.
In particolare, in quest’ultima decisione, la Corte EDU avrebbe riscontrato una violazione dell’art. 8 della CEDU da parte dell’autorità che si era rifiutata di riconoscere una sentenza straniera di adozione piena, poiché, quando si è già formata di fatto una famiglia, è inammissibile un rigetto della richiesta di riconoscimento della sentenza straniera che contrasti con l’interesse del minore nel caso concreto: la Corte EDU avrebbe, cioè, affermato che, «quando si è già formata di fatto una famiglia, è inammissibile un rigetto della richiesta di exequatur che contrasti con l’interesse del minore nel caso concreto».
5.– Espone, infine, il giudice a quo che le questioni prospettate sarebbero rilevanti, in quanto, in assenza di una declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate, sarebbe preclusa allo stesso rimettente una valutazione del superiore interesse del minore ad ottenere il riconoscimento, anche nell’ordinamento italiano, del vincolo di filiazione già regolarmente costituito per un ordinamento giuridico straniero. In assenza di una pronuncia di accoglimento – secondo il giudice a quo – il ricorso andrebbe senz’altro rigettato.
6.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha spiegato intervento nel presente giudizio di legittimità costituzionale con atto depositato il 17 febbraio 2015, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili per difetto di rilevanza.
In particolare, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che il Tribunale per i minorenni di Bologna, omettendo la doverosa ricerca di una soluzione costituzionalmente orientata della fattispecie sottoposta al suo giudizio, avrebbe erroneamente trascurato la possibilità di riconoscere la sentenza straniera secondo una disposizione diversa da quelle censurate, e cioè l’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983, la quale consente l’adozione «in casi particolari», avuto specifico riguardo alla «constatata impossibilità di affidamento preadottivo».
Dopo aver ricordato che, sulla base di tale disposizione, è stata ammessa l’adozione internazionale da parte di una persona singola, quando la stessa corrisponda all’interesse del minore (è ricordata l’ordinanza della Corte costituzionale n. 347 del 2005), e assumendo che tale condizione rilevi «per analogia» anche nel caso di «persona same sex coniugata in altro Paese con il genitore biologico», l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che, essendo ammessa l’adozione internazionale da parte di persona singola, dovrebbe a maggior ragione concludersi che possa essere riconosciuta una decisione in tal senso assunta dal giudice straniero.
Né – secondo l’Avvocatura generale dello Stato – tale riconoscimento sarebbe impedito dall’obbligo, stabilito dall’art. 35, comma 3, della legge n. 184 del 1983, di osservanza dei principi fondamentali dell’ordinamento nazionale in materia di famiglia e minori. In particolare, riguardo al matrimonio contratto all’estero fra persone dello stesso sesso, la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri ricorda che la Corte di cassazione, pur avendo escluso che tale matrimonio possa essere trascritto negli atti dello stato civile, avrebbe, tuttavia, riconosciuto come lo stabile nucleo fondato su una relazione omosessuale vanti un diritto alla protezione della vita familiare ai sensi dell’art. 8 della CEDU, e che da ciò deriverebbe anche la possibilità di adire il giudice a tutela di specifiche situazioni (è citata la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 15 marzo 2012, n. 4184). Tale indirizzo giurisprudenziale sarebbe armonico rispetto alle decisioni della Corte EDU (in particolare, alla sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria). Sono, infine, richiamate anche le sentenze della Corte costituzionale n. 138 del 2010 e n. 170 del 2014, le quali avrebbero affermato la «rilevanza anche giuridica dell’unione omosessuale».
D’altra parte – prosegue l’Avvocatura generale dello Stato – la questione dell’adozione ad opera di persone singole e quella della relazione matrimoniale non suscettibile di riconoscimento sarebbero contigue, ma non coincidenti, aprendosi spazi per la soluzione dell’una indipendentemente dalla disciplina della seconda. La giurisprudenza di merito avrebbe già applicato l’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983 al caso dell’adozione, da parte di una donna, della figlia naturale della sua compagna e coniuge, in relazione ad un matrimonio celebrato all’estero (è citata la sentenza del Tribunale per i minorenni di Roma 30 luglio 2014, n. 299). La clausola dell’impossibilità dell’affidamento preadottivo – se interpretata tale impossibilità come causata da impedimenti di “diritto”, oltreché da ostacoli “di fatto” – sarebbe utilizzabile come «“porta aperta” sui cambiamenti che la nostra società ci propone». Tale soluzione si imporrebbe a maggior ragione nei casi in cui si tratti solo di riconoscere un rapporto adottivo già istituito all’estero, quando essa appaia corrispondere agli interessi del minore preso in considerazione.
Non sarebbe, infine, d’ostacolo alla soluzione proposta la decisione della Corte di cassazione secondo la quale non potrebbero essere trascritti nei registri dello stato civile provvedimenti esteri di adozione legittimante, se non con riguardo a coniugi uniti in matrimonio (sezione prima civile, 14 febbraio 2011, n. 3572). In quel caso – sempre secondo l’Avvocatura generale dello Stato – era stata rilevata la portata ostativa dell’effetto legittimante del provvedimento da trascrivere, ma non era stata esclusa la possibilità di riconoscere l’adozione del singolo con effetti non legittimanti. E, del resto, la Corte di cassazione avrebbe, in altra occasione, ammesso finanche la possibilità di adozioni legittimanti, se corrispondenti all’interesse del minore (è citata la sentenza della sezione prima civile, 18 marzo 2006, n. 6078).
7.– In data 16 febbraio 2015 l’associazione Avvocatura per i diritti LGBTI ha depositato «atto di costituzione e intervento nel giudizio di legittimità costituzionale», chiedendo che le questioni sollevate dal Tribunale per i minorenni di Bologna siano ritenute fondate.
In apertura dell’atto, la citata Associazione riconosce che la giurisprudenza costituzionale tendenzialmente esclude l’ammissibilità dell’intervento di soggetti che non siano parti del giudizio principale o portatori di un interesse immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio. È sollecitata, però, un’apertura della giurisdizione costituzionale al contributo di enti esponenziali volti alla tutela di diritti fondamentali dei cittadini, come già avvenuto, in parte, grazie ad alcune decisioni della Corte costituzionale (sono citate le sentenze n. 45 del 2005, 76 del 2001 e 314 del 1992, nonché le ordinanze n. 250 del 2007 e n. 389 e n. 50 del 2004). La difesa e l’affermazione dei diritti delle persone omosessuali, bisessuali e transessuali, anche con riguardo specifico a giudizi celebrati innanzi alle Corti nazionali e sovranazionali, costituisce d’altra parte – osserva l’interveniente – uno specifico obiettivo statutario dell’Associazione.
L’atto di intervento prosegue con una diffusa esposizione delle ragioni che imporrebbero il riconoscimento della sentenza statunitense cui si riferisce il giudizio principale, e comunque esponendo le ragioni che dovrebbero indurre la Corte costituzionale all’accoglimento della questione sollevata dal giudice a quo.
1.– Il Tribunale per i minorenni di Bologna solleva questioni di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 36 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), «nella parte in cui – come interpretati secondo diritto vivente – non consentono al giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore adottato (all’estero), il riconoscimento della sentenza straniera che abbia pronunciato la sua adozione in favore del coniuge del genitore, a prescindere dal fatto che il matrimonio stesso abbia prodotto effetti in Italia (come per la fattispecie del matrimonio tra persone dello stesso sesso)», per violazione degli artt. 2, 3, 30, 31 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in riferimento agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
Gli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost. sarebbero violati perché le disposizioni censurate determinerebbero un’irragionevole compressione del diritto fondamentale del minore alla conservazione del nucleo familiare in cui è stabilmente inserito.
Le disposizioni censurate, inoltre, contrasterebbero con l’art. 117 Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU, nella parte in cui questi ultimi impediscono ad un’autorità pubblica di interferire nella vita familiare – e, in particolare, di ostacolare la vita familiare di un nucleo che si è già formato – salvo che tale ingerenza sia prevista dalla legge, persegua uno o più degli scopi previsti dalla norma convenzionale, e sia necessaria, in una società democratica, al fine di raggiungere tali finalità.
2.– In via preliminare, deve essere dichiarato inammissibile l’intervento dell’associazione Avvocatura per i diritti LGBTI. Tale associazione chiede che il suo intervento sia dichiarato ammissibile, in quanto la difesa e l’affermazione dei diritti delle persone omosessuali, bisessuali e transessuali, anche con riguardo a giudizi celebrati innanzi alle Corti nazionali e sovranazionali, costituisce uno specifico obiettivo statutario dell’associazione.
Non può che essere ribadito, tuttavia, il costante orientamento di questa Corte, secondo il quale non possono partecipare al giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale i soggetti che non siano parti nel giudizio a quo, né siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio (ex plurimis, da ultimo, in relazione alla richiesta di intervento da parte di soggetti rappresentativi di interessi collettivi o di categoria, sentenze n. 221, n. 178 e n. 37 del 2015, n. 162 del 2014; ordinanze n. 156 del 2013 e n. 150 del 2012).
Nel caso in esame, appare evidente come la posizione giuridica di tale associazione non risulti suscettibile di essere pregiudicata in alcun modo dall’esito del giudizio di costituzionalità, in quanto il rapporto sostanziale dedotto in causa concerne solo profili attinenti alla posizione dei soggetti privati parti del giudizio a quo.
3.– La questione è inammissibile, non già per gli argomenti addotti dall’Avvocatura generale dello Stato, peraltro inconferenti rispetto alle questioni di legittimità costituzionale sollevate, bensì per le diverse ragioni di seguito illustrate.
3.1.– In primo luogo, trascurando di compiere una corretta ricognizione del quadro normativo di riferimento, il Tribunale per i minorenni affronta in modo contraddittorio la questione relativa all’esistenza della propria potestas iudicandi sulla fattispecie sottoposta a giudizio.
Nel suo iter logico-argomentativo, il giudice rimettente opera, infatti, un immediato ma indistinto riferimento all’art. 41 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), in tema di riconoscimento dei provvedimenti stranieri in materia di adozione.
L’articolo appena citato, tuttavia, nei suoi due commi, prevede due ben diversi procedimenti per giungere a tale riconoscimento.
Il comma 1 stabilisce, quale regola di carattere generale, un riconoscimento “automatico” dei provvedimenti stranieri in materia di adozione, attraverso il rinvio agli artt. 64, 65 e 66 della medesima legge, relativi, rispettivamente, alle sentenze straniere, ai provvedimenti stranieri e ai provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione.
Il comma 2, invece, stabilendo che «[r]estano ferme le disposizioni delle leggi speciali in materia di adozione dei minori», opera un riferimento alla disciplina contenuta nella legge n. 184 del 1983 e dunque, anzitutto, agli artt. 35 e 36 di tale legge, i quali prevedono che il riconoscimento in parola sia subordinato ad un vaglio da parte del Tribunale per i minorenni.
Il giudice a quo non distingue tra questi due diversi procedimenti di riconoscimento. Dapprima, infatti, egli afferma che la sentenza statunitense di adozione – che è chiamato a riconoscere – risponde a «tutte le condizioni di carattere procedurale e processuale» previste dagli artt. 64, 65 e 66 della legge n. 218 del 1995, quelle a cui rinvia il comma 1 dell’art. 41 della medesima legge; immediatamente dopo, però, aggiunge che l’adozione non può essere dichiarata efficace in Italia perché non risponde ai requisiti previsti dalla normativa interna in materia di adozione di minori, in particolare, a quelli previsti agli artt. 35 e 36 della legge n. 184 del 1983, richiamati dal comma 2 del citato art. 41.
La contraddittorietà di tale percorso argomentativo risulta evidente, poiché l’applicazione della legislazione speciale in materia di riconoscimento della sentenza di adozione internazionale di minori – che richiede un previo vaglio giudiziale, ad opera del Tribunale per i minorenni – non può che escludere il contemporaneo rinvio alle disposizioni ordinarie sul riconoscimento “automatico” dei provvedimenti stranieri.
La giustificazione che il giudice a quo fornisce in ordine all’esistenza della propria potestas iudicandi esibisce così un difetto di motivazione sulla rilevanza: se egli avesse ritenuto che la sentenza straniera dovesse essere riconosciuta “in modo automatico”, ai sensi del comma 1 dell’art. 41 della legge n. 218 del 1995, avrebbe dovuto dichiarare inammissibile la domanda, poiché, in tale ipotesi, il provvedimento straniero potrebbe essere direttamente presentato all’ufficiale di stato civile per la trascrizione; se, invece, avesse adeguatamente motivato in ordine al fatto che la legge n. 218 del 1995 gli consentiva di svolgere un “giudizio” ai fini del riconoscimento della sentenza di adozione pronunciata all’estero, avrebbe dovuto fare riferimento unicamente all’art. 41, comma 2, della legge n. 218 del 1995 e alle pertinenti disposizioni della legge n. 184 del 1983.
3.2.– In realtà, richiamando la disposizione da ultimo citata, il giudice a quo ha erroneamente ritenuto applicabile al caso oggetto del suo giudizio la disciplina in tema di riconoscimento delle sentenze di adozione internazionale di minori, riconducendo la fattispecie da cui origina il giudizio principale all’art. 36, comma 4, della legge n. 184 del 1983, che estende il controllo giudiziale del Tribunale per i minorenni ad una particolare ipotesi di adozione di minori stranieri in stato di abbandono da parte di cittadini italiani.
Tale disposizione – relativa al riconoscimento di decisioni di adozione assunte in Stati che risultano parti della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a L’Aja il 29 maggio 1993, ratificata e resa esecutiva con legge 31 dicembre 1998, n. 476, o che abbiano stipulato specifici accordi bilaterali con lo Stato italiano – stabilisce che «[l]’adozione pronunciata dalla competente autorità di un Paese straniero a istanza di cittadini italiani, che dimostrino al momento della pronuncia di aver soggiornato continuativamente nello stesso e di avervi avuto la residenza da almeno due anni, viene riconosciuta ad ogni effetto in Italia con provvedimento del tribunale per i minorenni, purché conforme ai principi della Convenzione».
Il rimettente, ricordando come la Corte di cassazione (sezione prima civile, 14 febbraio 2011, n. 3572) abbia ritenuto che, anche in tale ipotesi, il giudice debba verificare se la sentenza pronunciata all’estero contrasti con i «principi fondamentali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei minori» – limite contenuto nel comma 3 dell’art. 35 – solleva le questioni di legittimità costituzionale in esame, assumendo che proprio quel limite impedirebbe il riconoscimento della sentenza pronunciata negli Stati Uniti d’America come un’adozione in casi particolari del figlio del coniuge (ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera b, della legge n. 184 del 1983) nell’ambito di una coppia dello stesso sesso.
Queste, dunque, le ragioni del sollevato dubbio di legittimità costituzionale, che, peraltro, nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione coinvolge, nella loro interezza, gli artt. 35 e 36 della legge n. 184 del 1983; mentre, nella motivazione, si appunta soltanto sul comma 4 dell’art. 36 e sul comma 3 dell’art. 35.
La fattispecie da cui ha avuto origine il giudizio di costituzionalità non è, però, correttamente riconducibile all’art. 36, comma 4, della legge n. 184 del 1983.
Il Tribunale per i minorenni di Bologna ritiene evidentemente determinante il fatto che la ricorrente sia – al momento del ricorso – cittadina italiana. Non considera, tuttavia, che, al momento dell’adozione, ella era solo cittadina americana e che l’adozione pronunciata negli Stati Uniti d’America nel 2004 riguardava una bambina di cittadinanza americana. Ha quindi erroneamente ricondotto la fattispecie oggetto del proprio giudizio ad una disposizione – appunto il citato art. 36, comma 4 – volta ad impedire l’elusione, da parte dei soli cittadini italiani, della rigorosa disciplina nazionale in materia di adozione di minori in stato di abbandono, attraverso un fittizio trasferimento della residenza all’estero.
L’inadeguata individuazione, da parte del giudice rimettente, del contesto normativo determina, dunque, un’erronea qualificazione dei fatti sottoposti al suo giudizio, tale da riverberarsi sulla rilevanza delle questioni proposte (ex plurimis, ordinanze n. 264 del 2015 e n. 116 del 2014).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 36 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale per i minorenni di Bologna, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2016.
F.to:
Giuseppe FRIGO, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 7 aprile 2016.