ORDINANZA N.
124
ANNO 2014
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gaetano SILVESTRI Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo
Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’art. 2-bis, comma
3, della legge
24 marzo 2001, n. 89 (Previsione
di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo
e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile),
promossi dalla Corte d’appello di Reggio Calabria con ordinanze dell’8 e del 15
aprile, del 4 giugno, del 26 aprile, del 16 maggio, del 24 giugno e del 20
giugno (due ordinanze) 2013, rispettivamente iscritte ai numeri 185,
197,
247,
252,
253,
254,
255
e 256
del registro ordinanze 2013 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numero 36, 39, 47 e 48, prima
serie speciale, dell’anno 2013.
Visti gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera
di consiglio del 26 marzo 2014 il Giudice relatore Sergio Mattarella.
Ritenuto
che, con ordinanza dell’8 aprile
2013 (reg. ord. n. 185 del 2013), la Corte d’appello di Reggio Calabria,
sezione civile, nella persona del giudice designato al fine di provvedere sulla
domanda di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una domanda di equa
riparazione proposta, nei confronti del Ministero della giustizia, dalla parte
risultata interamente soccombente nel processo presupposto, ha sollevato, in
riferimento all’art.
117 della Costituzione, in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata
a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto
1955, n. 848 (d’ora in avanti: «CEDU» o «Convenzione»), questione di
legittimità del comma 3 dell’art. 2-bis
della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di
violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375
del codice di procedura civile), articolo aggiunto dall’art. 55, comma 1,
lettera b), del decreto-legge 22
giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134;
che, ad avviso del giudice a quo, tale impugnata disposizione –
secondo cui: «La misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1 [che
prevede, a sua volta, che: «Il giudice liquida a titolo di equa riparazione una
somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per
ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine
ragionevole di durata del processo»], non può in ogni caso essere superiore al
valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice»
− víola il parametro invocato «nella parte in
cui limita la misura dell’indennizzo (liquidabile in favore della parte che
abbia subito un danno per la durata irragionevole del processo presupposto) al
"valore del diritto accertato” senza alcuna ulteriore specificazione o limite,
comportando in tal modo l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa
riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata
interamente soccombente»;
che il giudice
rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del ricorso,
proposto il 20 marzo 2013 nei confronti del Ministero della giustizia, con il
quale E.G. ha chiesto l’indennizzo del danno subíto
per effetto dell’irragionevole durata della controversia in materia di lavoro
da lui promossa davanti alla sezione lavoro del Tribunale di Messina con
ricorso, depositato l’8 giugno 2002, con il quale aveva impugnato il
licenziamento comunicatogli dal Banco di Sicilia s.p.a.; b) che il ricorrente
nel giudizio a quo era risultato
interamente soccombente in quanto il predetto processo era stato definito con
la sentenza della Corte suprema di cassazione, sezione lavoro, 20 giugno-20
settembre 2012, n. 15875, che aveva rigettato il ricorso avverso la sentenza
della Corte d’appello di Messina, sezione lavoro, dell’8 luglio 2009, la quale,
a sua volta, aveva rigettato l’appello avverso la sentenza di primo grado con
cui il Giudice del lavoro del Tribunale di Messina aveva interamente rigettato
la domanda, condannando il ricorrente alle spese;
che il
medesimo giudice rimettente sviluppa poi alcune considerazioni in punto di
diritto, evidenziando, prima ancora di prendere in esame la disposizione
censurata, la portata innovativa, rispetto alla normativa anteriore al d.l. n.
83 del 2012, dell’alinea e della lettera a)
del comma 2 dell’art. 2-bis della
legge n. 89 del 2001, secondo cui «L’indennizzo è determinato a norma
dell’articolo 2056 del codice civile, tenendo conto: a) dell’esito del
processo nel quale si è verificata la violazione di cui al comma 1
dell’articolo 2»;
che, a tale
proposito, il giudice a quo osserva
che, nel vigore della previgente normativa, la Corte di cassazione aveva
affermato la spettanza del diritto all’equa riparazione a tutte le parti del
processo «indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o
soccombenti e dalla consistenza economica ed importanza del giudizio», nonché
l’irrilevanza, al medesimo fine, della «asserita consapevolezza da parte
dell’istante della scarsa probabilità di successo dell’iniziativa giudiziaria»
(sono citate, in tale senso, le sentenze 12 aprile 2010, n. 8632 e 9 aprile
2010, n. 8541), ammettendo che si potesse tenere conto dell’esito del processo
presupposto solo qualora esso «abbia un indiretto riflesso
sull’identificazione, o sulla misura, del pregiudizio morale sofferto dalla
parte in conseguenza dell’eccesiva durata della causa», come si verifica
«quando il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente
resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento
della fattispecie di cui al richiamato art. 2», con la precisazione, peraltro,
che di tali circostanze «costituenti abuso del processo», anche ai fini della
commisurazione dell’indennizzo, «deve dare prova puntuale l’Amministrazione»,
non essendo «sufficiente, a tal fine, la deduzione che la domanda della parte
sia stata dichiarata manifestamente infondata» (è citata, nel senso indicato,
Corte di cassazione, sentenza 9 gennaio 2012, n. 35);
che a fronte
di tale indirizzo della giurisprudenza di legittimità, formatosi anteriormente
all’entrata in vigore del d.l. n. 83 del 2012, la citata lettera a) del comma 2 dell’art. 2-bis avrebbe innovato sotto il duplice
profilo che, in virtù della stessa, l’esito del giudizio presupposto: a)
assumerebbe, ancorché al solo fine della quantificazione dell’indennizzo, «un
ruolo non più eccezionale ma normale, fisiologico e soprattutto sganciato dalla
condizione che esso si accompagni anche alla consapevolezza della parte e,
correlativamente, ad un uso strumentale del processo»; b) non dovrebbe più, per comportare una
riduzione dell’indennizzo, essere, insieme con «l’abuso del processo alla base
di esso richiesto», allegato e provato dall’amministrazione resistente,
«potendo e dovendo il giudice ex se
[…] sindacare e ponderare l’esito del giudizio quale risultante dagli atti prodotti»;
che, passando
all’esame dell’impugnato comma 3 dell’art. 2-bis, il rimettente sottolinea che esso stabilisce che la misura
dell’indennizzo, anche in deroga agli importi indicati dal comma 1 dello stesso
art. 2-bis, non può superare non solo
il valore della controversia − ciò che, secondo il medesimo giudice a quo, «dà espressione ad una
convinzione di comune buon senso particolarmente avvertita per le cause bagatellari» −, ma neppure il valore del diritto
accertato dal giudice, quando questo sia inferiore al valore della causa;
che, ad avviso
del rimettente, tale ultima disposizione comporterebbe che la domanda di equa
riparazione per l’irragionevole durata del processo potrebbe essere accolta
solo nel caso in cui chi la propone sia risultato, almeno in parte, vittorioso
nel giudizio presupposto, mentre nessun indennizzo potrebbe essere riconosciuto
a chi, nello stesso giudizio, fosse risultato interamente soccombente: infatti,
in tale ultimo caso, l’accertamento negativo della sussistenza del diritto
fatto valere in giudizio equivarrebbe all’accertamento che tale diritto, in
quanto inesistente, «per così dire, "vale zero”»;
che il
rimettente conclude, sul punto, affermando che: «Non può sfuggire pertanto il
paradosso (ed anche la violazione del fondamentale parametro di cui all’art. 3 Cost.) cui si
incorrerebbe a ritenere che, posto il valore della causa uguale a 100: a) in
caso di diritto accertato uguale a 10, sia liquidabile un indennizzo non
maggiore di 10; b) in caso di radicale rigetto della domanda, sia invece
liquidabile un indennizzo maggiore fino al limite di 100. Occorrerebbe
presumere, cioè, ma non si vede con quale plausibilità logica, che la durata
irragionevole del processo sia fonte per la parte di sofferenza morale maggiore
in caso di totale rigetto della sua domanda e minore in caso di parziale
accoglimento»;
che, sempre ad
avviso del rimettente, sarebbe «tutt’altro che certo […] che una tale
interpretazione della norma, fondata sulla sua insuperabile formulazione
letterale, vada oltre l’intenzione del legislatore, potendosi rinvenire da
altre parti della novella indici alquanto significativi nella medesima
direzione»;
che tali
sarebbero, anzitutto, le disposizioni delle lettere b) e c) del comma 2-quinquies dell’art. 2 della legge n. 89
del 2001 − comma aggiunto dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 83 del 2012 −
le quali escludono qualunque indennizzo in favore, rispettivamente, della parte
che abbia visto accogliere la propria domanda in misura non superiore a una
proposta conciliativa che abbia rifiutato senza giustificato motivo (art. 91,
primo comma, secondo periodo, del codice di procedura civile), e della parte
vincitrice che abbia rifiutato la proposta di mediazione quando il
provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto
della stessa (art. 13, primo comma, primo periodo, del decreto legislativo 4
marzo 2010, n. 28, recante «Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno
2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle
controversie civili e commerciali»), trattandosi di «ipotesi […] rispetto alle
quali l’avere agito infondatamente in giudizio costituisce sicuramente un minus (dal
punto di vista del riconoscimento che nel giudizio presupposto hanno ricevuto
le ragioni fatte valere dalla parte)»;
che «rilievo
convergente» dovrebbe essere attribuito, sempre secondo il giudice a quo, anche alle seguenti disposizioni
della legge n. 89 del 2001 (anch’esse aggiunte o sostituite dall’art. 55 del
d.l. n. 83 del 2012): a) la già menzionata lettera a) del comma 2 dell’art. 2-bis,
che indica l’«esito del processo» tra i parametri di cui è necessario tenere
conto ai fini della determinazione dell’indennizzo; b) l’art. 4, che ha escluso
che la domanda di riparazione possa essere proposta prima della conclusione del
procedimento con provvedimento definitivo; c) la lettera c) del comma 3 dell’art. 3, che impone al ricorrente di depositare,
unitamente al ricorso, copia autentica della sentenza o dell’ordinanza
irrevocabili che abbiano definitivo il giudizio;
che tali
disposizioni evidenzierebbero, secondo il rimettente, l’importanza attribuita
dal legislatore della novella al fatto che il giudice investito della domanda
di equa riparazione conosca l’esito definitivo del giudizio, il che «non
altrimenti può spiegarsi se non con il preponderante rilievo attribuito dal
legislatore […] a tale aspetto della vicenda, quale parametro determinativo
della liquidazione dell’indennizzo»;
che una
«indiretta conferma della ragionevolezza» dell’indicata interpretazione della
disposizione censurata si trarrebbe, infine, dall’affermazione, contenuta nella
relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del d.l. n. 83 del
2012, secondo cui tra le finalità delle modificazioni della legge n. 89 del
2001 vi era anche quella di «non allargare le maglie di un bacino di domanda di
giustizia suscettibile di distorsioni che sono già presenti nell’attuale
sistema (in cui accade che una causa venga instaurata, al di là della
fondatezza della pretesa, in funzione del conseguimento del successivo
indennizzo spettante per la violazione del temine di durata ragionevole del
processo, dal momento che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte
affermato che l’indennizzo in parola spetta anche alla parte rimasta
soccombente nel processo "presupposto”»;
che ad avviso
del giudice rimettente, il passaggio citato tradirebbe la consapevolezza del legislatore
che il principio della spettanza dell’equa riparazione anche alla parte
interamente soccombente «è causa di distorsioni nel funzionamento e
nell’impostazione teorica stessa dei fondamenti e della natura del diritto
all’equa riparazione»;
che, sempre
secondo il rimettente, ancorché l’indicata relazione illustrativa indichi come
obiettivo della novella quello di «non allargare le maglie» della detta
distorsione, le disposizioni effettivamente introdotte e appena indicate
«prescindendo del tutto, nell’attribuire il visto rilievo all’esito del
giudizio, dall’accertamento dell’esistenza di un atteggiamento negligente,
strumentale o abusivo a fondamento della domanda rigettata o della resistenza a
quella interamente accolta − appaiono oggettivamente [idonee] anche a
contestare in radice il principio suddetto» della spettanza dell’equa
riparazione anche alla parte interamente soccombente;
che il giudice
rimettente afferma di non ignorare l’esistenza dell’«indice di segno contrario»
costituito dalla disposizione della lettera a)
del comma 2-quinquies dell’art. 2
della legge n. 89 del 2001 − secondo cui non è riconosciuto alcun
indennizzo «in favore della parte soccombente condannata a norma dell’articolo
96 del codice di procedura civile» − la quale, in base all’argomento a contrario, dovrebbe essere
interpretata nel senso della spettanza dell’indennizzo in favore della parte
soccombente che non abbia subito la citata condanna, con la conseguenza che la
mera soccombenza non sarebbe, di per sé sola, ragione di esclusione dal diritto
all’equa riparazione;
che a tale
conclusione si opporrebbe, tuttavia, sempre secondo l’opinione del rimettente,
l’«indice normativo» costituito dall’impugnato comma 3 dell’art. 2-bis, il quale, pur non riguardando i
presupposti in astratto della spettanza del diritto all’indennizzo ma la
commisurazione di quest’ultimo (a priori,
perciò, non escluso), finisce − rivelandosi così «più potente rispetto ai
limitati obiettivi per i quali era stato probabilmente pensato» − con
l’annullarlo completamente in tutti i casi di soccombenza;
che alla
stregua di ciò, secondo il rimettente, «A tutto voler concedere non può non
registrarsi un insanabile contrasto, quanto meno agli effetti pratici, tra le
due norme, il che però, lungi dal poter autorizzare […] a una mera
disapplicazione della seconda nella parte in cui risulti in contrasto con la
prima, ne rafforza piuttosto il sospetto di incostituzionalità»;
che il giudice
a quo afferma infine di non conoscere
pronunce giurisprudenziali che, in base alla disciplina dell’equa riparazione
per la violazione del termine ragionevole del processo risultante dalle
modificazioni apportate dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012, abbiano
riconosciuto il diritto all’indennizzo alla parte soccombente nel processo
presupposto, ma solo pronunce di rigetto dei ricorsi presentati da tale parte
(sono citati, in proposito, i decreti della Corte d’appello di Bari 25
settembre 2012 reso nel procedimento n. 547/12 V.G., 6 novembre 2012 reso nel
procedimento n. 610/12 V.G., 6 novembre 2012 reso nel procedimento n. 613/12,
15 gennaio 2013 reso nel procedimento n. 641/12 V.G., nonché il decreto della
Corte d’appello di Caltanissetta del 7 febbraio 2013);
che sulla base
di tali premesse, il giudice a quo,
dopo avere compiuto un’ampia rassegna dei princípi
che, in base alla giurisprudenza della Corte costituzionale, della Corte di
cassazione e della Corte di giustizia dell’Unione europea, governano i rapporti
tra la legislazione interna e la CEDU (sono citate, in particolare, le sentenze
della Corte costituzionale n. 303, n. 236, n. 175, n. 196, n. 113, n. 80 e n. 1 del 2011, n. 187, n. 138 e n. 93 del 2010,
n. 311 del 2009,
n. 348 e n. 349 del 2007,
nonché le ordinanze della stessa Corte n. 180 e n. 138 del 2011
e n. 150 del
2002; le sentenze della Corte di cassazione 11 marzo 2009, n. 5894, 26
gennaio 2004, n. 1338, n. 1339, n. 1340 e n. 1341 e la sentenza
della Corte di giustizia dell’Unione europea 24 aprile 2012, in causa C-571/10,
Kamberaj), afferma, in punto di non manifesta
infondatezza, che l’impugnato comma 3 dell’art. 2-bis del d.l. n. 83 del 2012 si pone in contrasto con l’art. 6,
paragrafo 1, della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo;
che a
proposito di tale parametro interposto, il rimettente sottolinea come detta
Corte abbia sempre ritenuto «l’irrilevanza della soccombenza del ricorrente, in
sé e per sé considerata» ai fini della spettanza dell’equa soddisfazione
prevista dall’art. 41 della CEDU, in base al rilevo che la parte,
indipendentemente dall’esito della causa, «ha comunque subito una diminuzione della qualità della vita in
conseguenza dei patemi d’animo sopportati durante il lungo arco temporale che
ha preceduto la definitiva decisione della sua posizione processuale» (è
citata, in proposito, la sentenza
19 febbraio 1992 [recte:
1998], Paulsen-Medalen e Svensson
contro Svezia);
che tale
principio, prosegue il rimettente, è sempre stato affermato anche dalla Corte
di cassazione nel vigore della disciplina dettata dalla legge n. 89 del 2001
anteriormente alle modificazioni ad essa apportate dal d.l. n. 83 del 2012,
avendo la giurisprudenza di legittimità
costantemente affermato, come già visto, che il danno non patrimoniale
non è escluso dall’esito negativo del processo o dall’elevata possibilità del
rigetto della domanda e che, per ritenere infondata la domanda di indennizzo, è
necessario che la parte soccombente si sia resa responsabile di lite temeraria
o, comunque, di un abuso del processo (sono citate le sentenze n. 8632 e n.
8541 del 2010), del quale deve fornire la prova la parte che lo eccepisce (è
citata la sentenza 19 gennaio 2010, n. 819);
che la stessa
Corte di cassazione aveva ancora affermato che, al fine di negare la
sussistenza del danno, può sì assumere rilievo la «chiara, originaria e
perdurante certezza sulla inconsistenza» del diritto fatto valere in giudizio,
con la precisazione, tuttavia, che non «equivale a siffatta certezza originaria
la mera consapevolezza della scarsa probabilità di successo dell’azione»
(sentenze 2 aprile 2010, n. 8165 e 29 settembre 2008, n. 24269);
che il giudice a quo precisa infine che il quadro normativo e giurisprudenziale
descritto non può ritenersi «rilevantemente mutato» a séguito dell’entrata in
vigore del nuovo testo dell’art. 35, comma 3, lettera b), della CEDU, come modificato dal Protocollo n. 14 alla CEDU,
firmato a Strasburgo il 13 maggio 2004, ratificato e reso esecutivo con la
legge 15 dicembre 2005, n. 280 (Ratifica ed esecuzione del Protocollo n. 14
alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali emendante il sistema di controllo della Convenzione, fatto a
Strasburgo il 13 maggio 2004), secondo cui «La Corte dichiara irricevibile ogni
ricorso individuale presentato ai sensi dell’articolo 34 se ritiene che: […]
(b) il ricorrente non ha subito alcun pregiudizio importante, salvo che il
rispetto dei diritti dell’uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi
Protocolli esiga un esame del ricorso nel merito e a condizione di non
rigettare per questo motivo alcun caso che non sia stato debitamente esaminato
da un tribunale interno»;
che, secondo il rimettente − il quale, a proposito del significato
attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo al menzionato art. 35,
comma 3, lettera b), della CEDU, cita
le sentenze 6
marzo 2012, Gagliano contro Italia, 19
ottobre 2010, Rinck contro Francia e 18
ottobre 2010, Giusti contro Italia − infatti, «nulla autorizza a
ritenere che una tale clausola, essendo rapportata a parametri ulteriori e
diversi dal mero esito della causa e legati piuttosto alla considerazione delle
variabili circostanze del caso concreto, possa di per sé comportare una
revisione dei descritti parametri talmente radicale da potersi prevedere che,
in forza della stessa, possa escludersi tout
court, sempre e in ogni caso, la riconoscibilità dell’equo indennizzo alla
parte soccombente»;
che, quanto alla rilevanza, la
rimettente Corte d’appello afferma anzitutto che un’interpretazione
costituzionalmente orientata della disposizione censurata, tale da renderla
compatibile con l’invocato parametro interposto dell’art. 6, paragrafo 1, della
CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritto dell’uomo, è resa
impossibile dal suo tenore letterale, il quale impedisce di liquidare
l’indennizzo in misura superiore «al valore […] del diritto accertato dal
giudice»;
che non sarebbe, in particolare,
praticabile l’interpretazione «restrittiva e correttiva» dell’impugnato comma 3
nel senso di ritenere, come sostenuto in uno dei primi commenti alla novella di
cui all’art. 55 del decreto-legge n. 83 del 2012, che «il riferimento al
diritto accertato dal giudice costituisca un limite nella determinazione del
valore della causa così come avviene per individuare lo scaglione di valore
della causa ai fini della liquidazione delle spese legali»;
che a tale interpretazione si opporrebbero,
infatti, l’analisi logica della disposizione censurata e l’uso della locuzione
disgiuntiva «o», rafforzata dall’inciso «se inferiore», elementi che
evidenzierebbero che il valore del diritto accertato dal giudice è indicato
dalla norma censurata, in alternativa al valore della causa, come limite alla
misura dell’indennizzo e non come criterio di determinazione del valore della
causa;
che da ciò conseguirebbe,
conclusivamente, che una lettura della disposizione censurata diversa da quella
accolta si tradurrebbe in un’interpretazione contra legem, non consentita neppure al
fine di rendere detta disposizione conforme alla CEDU;
che, sempre in punto di rilevanza, il
giudice a quo sottolinea come la
norma impugnata abbia una «diretta incidenza» sulla decisione in ordine alla domanda di equa
riparazione proposta: infatti, «se ne fosse […] confermata la legittimità
costituzionale in applicazione della stessa la domanda […] andrebbe rigettata;
in caso contrario essa andrebbe accolta, salvo solo una commisurazione
tendenzialmente al minimo dell’indennizzo spettante, all’interno del range fissato dal
primo comma dell’art. 2-bis e salvo
sempre il limite rappresentato dal valore della causa»;
che il rimettente precisa infine che,
ancorché la fattispecie al suo esame riguardi un’ipotesi di rigetto integrale
della domanda, con soccombenza del ricorrente nel processo presupposto, il
dubbio di costituzionalità prospettato «è destinato a porsi, nei medesimi
termini, anche nell’ipotesi inversa di soccombenza della parte resistente (o
convenuta) nel processo presupposto, ovviamente ove sia questa a proporre la
domanda per equa riparazione»;
che ad avviso del giudice a quo, infatti, «sembra evidente che il
riferimento al valore del diritto va rapportato alla posizione che nel processo
presupposto assumeva la parte che avanzi richiesta di indennizzo ai sensi della
legge n. 89/2001»;
che, pertanto, nel caso di soccombenza
del convenuto, «non deve fuorviare la considerazione che […] il giudizio
presupposto si sia concluso ovviamente con l’accoglimento della domanda
avanzata dall’attore e quindi con il positivo accertamento del diritto da
quest’ultimo fatto valere, posto che, ai fini qui in considerazione, rileva
piuttosto l’altra faccia di quella statuizione che, per il convenuto, equivale
al rigetto delle sue tesi difensive»;
che per converso, anche nel caso di
soccombenza dell’attore (come è avvenuto nel giudizio a quo), ove a richiedere l’indennizzo fosse però non lo stesso
attore ma la parte convenuta, vittoriosa nel giudizio, «nei confronti della
stessa non varrebbe ovviamente il limite qui censurato, posto che, in rapporto
alla sua posizione, il rigetto della domanda attrice equivale al pieno
riconoscimento della fondatezza del suo diritto a contrastare la pretesa avversaria»;
che il rimettente precisa ancora che «La
norma censurata evoca […], a ben vedere, il valore dell’accertamento contenuto
nella sentenza; e un contenuto di accertamento è sempre presente in qualsiasi
sentenza: di rigetto, di condanna, costitutiva o di mero accertamento (positivo
o negativo) che sia. Un tale contenuto poi è sempre ambivalente rispetto alle
posizioni delle parti in lite (per definizione, ovviamente, contrapposte.
L’attore dunque che agisce in giudizio per ottenere l’accertamento di un suo
diritto, chiede per l’appunto un accertamento positivo di tale situazione
giuridica; nella stessa causa ovviamente si contrappone la posizione del
convenuto che, resistendo alla domanda, per ciò stesso implicitamente invoca un
accertamento negativo di tale situazione, non rilevando, ai nostri fini, se ne
faccia a sua volta oggetto di domanda riconvenzionale o semplicemente di mera
difesa»;
che è
intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;
che secondo la difesa dello Stato, il giudice rimettente
prospetterebbe due problemi di interpretazione della disposizione censurata
«che imporrebbero l’intervento della Corte costituzionale», segnatamente,
quello del significato da attribuire alla locuzione "valore del diritto
accertato dal giudice” − valore inteso dal rimettente come limite alla
misura dell’indennizzo e non come criterio di determinazione del valore della
causa − e quello di stabilire se l’integrale soccombenza nel processo
presupposto integri una causa di esclusione dall’indennizzo ulteriore rispetto
a quelle previste dal comma 2-quinquies
dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001;
che, ciò premesso, la difesa statale
afferma che la questione sollevata sarebbe inammissibile sia in quanto sarebbe
volta a ottenere un’indicazione interpretativa da parte della Corte
costituzionale sul significato da attribuire alla locuzione "valore del diritto
accertato dal giudice” (valore inteso come limite alla misura dell’indennizzo),
perciò configurandosi come un improprio tentativo di conseguire dalla Corte un
avallo interpretativo (è citata la sentenza della
Corte costituzionale n. 21 del 2013), sia in quanto il rimettente avrebbe
omesso di verificare la possibilità di una, in effetti praticabile,
interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata,
idonea a superare i dubbi di legittimità della stessa;
che, sotto tale secondo aspetto, la
difesa statale sostiene che la Corte d’appello rimettente, pur avendo
prospettato delle interpretazioni dell’impugnato comma 3 dell’art. 2-bis diverse da quella − ritenuta
incompatibile con l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU − che escluda la
liquidazione dell’indennizzo alla parte rimasta interamente soccombente nel
processo presupposto, non avrebbe esplicitato «l’incompatibilità costituzionale
[di tali] restanti interpretazioni»;
che l’Avvocatura generale dello Stato
rileva infine che «rispetto all’ipotesi ritenuta coerente con i principi CEDU
(quella, cioè, secondo cui il soccombente totale verrebbe comunque liquidato,
tenendo conto dei parametri di quantificazione individuati dalla disciplina in
via generale) viene incongruamente (e contraddittoriamente) ipotizzato un
contrasto con l’articolo 117, primo comma della Costituzione, senza alcun
riferimento alla violazione del parametro dell’eguaglianza di cui all’articolo
3 Cost. rispetto alla posizione del soccombente parziale; l’indennizzo
riconosciuto a quest’ultimo è, infatti, parametrato al valore del diritto
accertato, che è inferiore, secondo quanto prospetta il giudice a quo, rispetto
a quello minimo riconosciuto al soccombente totale in relazione alla forbice di
cui all’art. 2-bis, comma 1, della legge 89 del 2001»;
che, ai fini della ricerca di
un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata,
il giudice rimettente avrebbe omesso di considerare sia la ratio delle modificazioni apportate dall’art. 55 del d.l. n. 83 del
2012 alla legge n. 89 del 2001, sia il contesto sistematico in cui tale
disposizione si inserisce;
che, al riguardo, la difesa statale
rammenta anzitutto che la citata novella si configura come un «tentativo di
contenere i costi a carico del bilancio dello Stato derivanti dagli indennizzi
liquidati e di razionalizzare il carico di lavoro che grava sulla Corti
d’appello, evitando che la durata dei procedimenti per la liquidazione delle indennità
possa dar luogo, a sua volta, a responsabilità dello Stato per violazione
dell’articolo 6 CEDU»;
che, a tale fine, il menzionato art. 55
avrebbe «diversamente strutturato lo stesso diritto all’equa riparazione»
attraverso: a) la fissazione, in via presuntiva, dei termini di durata
ragionevole dei processi (art. 2, commi 2-bis,
2-ter e 2-quater della legge n. 89 del 2001); b) l’individuazione di «ipotesi
tipicamente abusive dei poteri processuali […] che costituiscono cause di esclusione
dell’indennizzo» (art. 2, comma 2-quinquies,
della legge n. 89 del 2001); c) la previsione di parametri e limiti nella
determinazione concreta dell’indennizzo (art. 2-bis della legge n. 89 del 2001);
che, sempre secondo la difesa dello
Stato, spetta, comunque, al giudice investito della domanda, la doverosa
valutazione della sussistenza o non del diritto a un’equa riparazione −
da effettuare in base a un criterio che tenga conto dei parametri (fissati dal
comma 2 dell’art. 1 della legge n. 89 del 2001, anch’esso sostituito dal numero
1 della lettera a del comma 1
dell’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012) della complessità del caso, dell’oggetto
del procedimento, del comportamento delle parti e del giudice durante il
procedimento presupposto (nonché di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi
o a contribuire alla sua definizione − sicché «perché l’obbligazione
indennitaria consegua alla violazione della ragionevole durata del processo e
sia in concreto configurabile, è necessario il previo accertamento costitutivo
del giudice»;
che, analogamente, la mancata previsione
di automatismi nella commisurazione dell’indennizzo deriva dalla necessità di
considerare la specificità di ciascun caso;
che tale è, quindi, secondo la
ricostruzione operata dalla difesa statale, il contesto in cui si inserisce l’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001 e, in
particolare, il suo impugnato comma 3;
che l’Avvocatura generale dello Stato
sottolinea ancora come sia pacifico nella giurisprudenza della Corte di
cassazione − che ha recepito, sul punto, gli orientamenti della Corte
europea dei diritti dell’uomo − che il diritto all’equa riparazione
spetta indipendentemente dall’esito del processo presupposto «ad eccezione del
caso in cui il soccombente fosse consapevole della inconsistenza delle proprie
istanze», sicché sarebbe impossibile interpretare l’impugnato comma 3 nel senso
che esso nega l’indennizzo all’interamente soccombente;
che vi sarebbe invece la possibilità di
liquidare a tale parte soccombente nel processo presupposto un indennizzo
compreso tra 500 e 1.500 euro per ogni anno di ritardo secondo quanto previsto
dal comma 1 dell’art. 2-bis, «dando
spazio, nella decisione, agli ulteriori parametri oggettivi di valutazione
introdotti con la sopra illustrata finalità calmieratrice della riforma»;
che, del resto, prosegue la difesa
statale, il richiamo alla soglia del valore del "diritto accertato” conferma la
coerenza di un’interpretazione in linea con la ratio della riforma, nell’ipotesi in cui il soccombente parziale
(la cui pretesa si sia considerevolmente ridotta in sede di accertamento
giudiziale) abbia, nel successivo giudizio di equa riparazione sostanzialmente
prospettato, in termini di tendenziale abuso del processo, una domanda
irragionevolmente eccedente il diritto effettivamente vantato (e riconosciuto
nel giudizio presupposto);
che, così limitato lo spettro
dell’intervento normativo, se ne comprenderebbe la ragionevolezza in chiave
costituzionalmente orientata: «la parte che nel giudizio presupposto abbia chiesto
1.000 e ottenuto 100 avrà, in sede di equa riparazione, una liquidazione non
superiore a quest’ultimo importo, perché, pur avendo ragione nel merito, ha
ecceduto nella quantificazione della richiesta; ciò non è incongruo rispetto
alla posizione di chi, pur avendo chiesto allo stesso modo 1.000, non ha avuto
riconosciuto nulla per effetto di una decisione sull’an di una pretesa comunque
legittimamente e non abusivamente avanzata»;
che, poiché una tale interpretazione
«non è stata neppure ipotizzata dal giudice rimettente», anche sotto tale
profilo la questione sarebbe manifestamente inammissibile;
che con «decreto» pronunciato l’11
aprile 2013 e depositato il 15 aprile 2013 (reg. ord. n. 197 del 2013), la
Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del giudice
designato al fine di provvedere sulla domanda di equa riparazione in caso di
violazione del termine ragionevole del processo, nel corso di un procedimento
avente ad oggetto una domanda di equa riparazione proposta dalla parte
risultata interamente soccombente nel processo presupposto, ha sollevato, in
riferimento all’art. 117 Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della
CEDU, questione di legittimità del comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella parte in cui limita la
misura dell’indennizzo (liquidabile in favore della parte che abbia subito un
danno per la durata irragionevole del processo presupposto) al "valore del
diritto accertato” senza alcuna ulteriore specificazione o limite, comportando
in tal modo l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione
in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente
soccombente»;
che il giudice
rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del ricorso, depositato
il 25 marzo 2013, con il quale Romano Calogero aveva chiesto l’indennizzo del
danno subíto per effetto dell’irragionevole durata di
un processo di cui era stato parte e nel quale era risultato interamente
soccombente; b) che la decisione con la quale tale processo era stato concluso,
emessa il 20 settembre 2012-9 ottobre 2012, era divenuta irrevocabile «con
effetto a far tempo dal 9 ottobre 2012»; c) che la domanda di equa riparazione
era ammissibile in quanto proposta entro il termine di sei mesi dal momento di
detta irrevocabilità (art. 4 della legge n. 89 del 2001); d) che lo stesso
processo aveva avuto una durata di due anni, tre mesi e ventotto giorni in
primo grado, un anno, quattro mesi e quattro giorni in secondo grado – in
entrambi i casi al netto dei rinvii delle udienze imputabili al comportamento
delle parti − e cinque anni, due mesi e dieci giorni in Cassazione, con
la conseguenza che esso eccede di due anni, dieci mesi e tredici giorni i
termini indicati dai commi 2-bis e 2-ter dell’art 2 della legge n. 89 del
2001; e) che le spese dei primi due gradi di tale giudizio, furono
integralmente compensate tra le parti;
che il
medesimo giudice rimettente espone poi le seguenti considerazioni in punto di
rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione sollevata;
che egli
premette anzitutto che la soccombenza nel giudizio presupposto è espressamente
prevista come causa di rigetto della domanda di equa riparazione solo nel caso
in cui ricorrano le ulteriori condizioni previste dalle lettere a) e b)
del comma 2-quinquies della legge n.
89 del 2001 o quando la parte soccombente nel giudizio presupposto abbia «posto
in essere un abuso di poteri processuali che abbia determinato
un’ingiustificata dilatazione dei termini del procedimento», sicché persiste la
«legittimazione in capo [a detta] parte […] a far valutare l’eventuale
sussistenza d’una lesione del suo diritto a conseguire in un tempo ragionevole
una pronuncia risolutiva della questione controversa»;
che, secondo
il rimettente, il comma 3 dell’art. 2-bis
della legge n. 89 del 2001, che ha introdotto un tetto massimo o valore soglia
della misura dell’indennizzo, «in quanto non coordinata con [detto] superiore
principio», farebbe insorgere i seguenti due problemi interpretativi che, in
quanto reciprocamente interdipendenti, necessitano di soluzioni tra loro
coerenti: a) il significato da attribuire alla locuzione "valore del diritto
accertato dal giudice”; b) «se l’introduzione d’un tetto massimo all’indennizzo
liquidabile […] valga per tutti i possibili epiloghi del giudizio presupposto e
per tutte le parti di esso (qualora, ovviamente, promuovano un ricorso ex lege Pinto)»;
che, quanto al
primo dei problemi segnalati, il giudice a
quo osserva che: a) il parametro del "valore del diritto accertato”,
ancorché suppletivo, prevale rispetto a quello del valore della causa, qualora
in concreto sia inferiore a quest’ultimo; b) al fine di individuare il
parametro primario del valore della causa, il solo riferimento è quello alla
disciplina della determinazione del valore della controversia dettata dagli
articoli da 7 a 17 cod. proc. civ.; c) mentre per la cause di valore
determinato o determinabile il limite dell’indennizzo costituito dal valore
della causa sarebbe agevolmente individuabile, per le cause di valore
indeterminabile «è dubbio se debba applicarsi il criterio per cui la causa avrà
valore entro il tetto massimo di competenza del giudice adito (soluzione che
potrebbe operare peraltro soltanto per le cause di competenza del giudice di pace)
o quello aliunde
determinato ai sensi degli artt. 10 e ss., ovvero se la predetta disposizione
non trovi applicazione e quindi l’indennizzo liquidabile ex lege n. 89 del 2001 non debba, in tali
ipotesi, incontrare alcun tetto massimo»; d) l’epilogo del procedimento
presupposto, in particolare la soccombenza di chi successivamente proponga
domanda di equa riparazione, rileva come elemento per stabilire il limite
massimo della misura in concreto dell’indennizzo; e) «in subiecta materia notoriamente è ammesso
che sussiste un pregiudizio in re ipsa, suscettibile di quantificazione equitativa», con
la conseguenza che non potrebbe affermarsi né che è onere del ricorrente
dedurre e provare se sussista e quale sia, nella specie, il valore soglia di
cui al comma 3 dell’art. 2-bis, né
che, in difetto di allegazione o deduzione di elementi idonei a consentire
l’individuazione dello stesso, ciò comporterebbe l’inammissibilità o il rigetto
del ricorso (trovando applicazione, in virtù del rinvio ad essi operato dal secondo
periodo del comma 4 dell’art. 3 della legge n. 89 del 2001, i primi due commi
dell’art. 640 cod. proc. civ.); f) mentre, ai fini della competenza, la legge
fa riferimento, per la determinazione del valore della causa, al petitum (o ai petita), la legge
n. 89 del 2001 fa riferimento al valore ritenuto nella decisione, ragione per
cui «va chiarito quale sia l’effettivo contenuto prescrittivo della
disposizione»;
che, quanto al
secondo dei problemi segnalati, secondo la Corte rimettente andrebbe verificato
se la disposizione censurata integri un’ulteriore causa di eventuale esclusione
dell’indennizzo, ancorché non indicata come tale, «nel senso che nulla possa
essere riconosciuto all’istante nel caso in cui il diritto dallo stesso
asseritamente vantato sia fatto valere in giudizio ma sia stato affermato
insussistente (in tutto o in parte), ovvero se qualora il ricorrente sia stato
soccombente (in tutto o in parte) nel giudizio presupposto e detto giudizio
abbia avuto durata irragionevole, la negazione del diritto preteso non valga
anche ad escludere il diritto ad equo indennizzo»;
che a fronte
di tale problema, sussisterebbero, secondo il rimettente, «almeno» le tre
seguenti opzioni praticabili: a) quella ora indicata per prima che, pur se
apparentemente in contrasto con l’orientamento della Corte EDU secondo il quale
anche la parte interamente soccombente ha diritto all’equa soddisfazione nel
caso di durata irragionevole del processo, sarebbe praticabile in quanto: a.1)
quella «probabilmente […] più coerente con l’esigenza calmieratrice» alla quale
avrebbe inteso rispondere l’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012; a.2) «in sintonia
[…] con alcuni spunti offerti dalla relazione introduttiva del testo del
disegno di legge poi […] approvato dal Parlamento» (in particolare, con il
rilievo da essa attribuito alla «necessità
d’arginare la presunzione di dannosità della prolungata durata di un
processo in modo che non divenga assoluta, ma rimanga iuris tantum»; a.3) coerente con la ratio
sottostante alle disposizioni del comma 2 dell’art. 2-quinquies, della lettera a)
del comma 2 dell’art. 2-bis e
dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001; b) quella secondo cui l’indennizzo è
riconosciuto anche al ricorrente che sia risultato totalmente soccombente nel
giudizio presupposto − salve le cause di esclusione espressamente
previste − «ma pure che esso debba essere commisurato entro il range
normativamente stabilito − tra i 500 ed i 1500 euro per anno (o frazione)
− e comunque con le limitazioni di soglia o di tetto massimo dettate
dall’art. 2 quinquies
comma 3 (come dire che non solo il vittorioso nel giudizio presupposto ma anche
il soccombente incontrerà un limite quantitativo alla pretesa riconoscibile»;
c) quella in base alla quale «in detta liquidazione a pro del totale soccombente
il valore soglia suddetto non dovrebbe operare (perché non v’è a suo favore
riconoscimento d’alcun diritto al cui valore parametrare tale tetto massimo);
ma è palese che tanto implicherebbe una diversificazione di trattamento (con
esito premiale per il soccombente e penalizzante per il vittorioso parziale)
difficilmente compatibile con i principi costituzionali d’uguaglianza e
ragionevolezza»;
che secondo il
rimettente, la seconda delle opzioni indicate sarebbe quella più coerente con
il costante indirizzo della Corte EDU e con la lettera della legge e, per tale
ragione, andrebbe «tendenzialmente preferita, perché se il legislatore avesse
voluto anche in tale ipotesi derogarvi (in ossequio a principi superiori
d’ordinamento, quali quelli d’uguaglianza e di ragionevolezza) avrebbe potuto e
dovuto prevederlo»;
che tuttavia,
prosegue il rimettente, occorre ugualmente chiarire cosa debba intendersi per
"valore del diritto accertato dal giudice”;
che al
riguardo il giudice a quo afferma
che: a) «assumere che il valore di soglia massima sia applicabile per il solo
caso in cui il ricorrente ex lege n. 89 del 2001 sia stato sostanzialmente
vittorioso (in tutto o in parte) nel giudizio presupposto non risulta, in
difetto d’espresse clausole limitative, ammissibile», tenuto conto anche che la
disposizione in esame deve essere coordinata con il comma 2 del medesimo art.
2-bis, «che a tanto non fa alcun
riferimento», nonché del fatto che l’accertamento della violazione del diritto
alla ragionevole durata del processo dipende non solo da quanto accade nel
corso dello stesso (come sembrerebbe dalla lettura del comma 2 dell’art. 2
della legge n. 89 del 2001), ma anche dal suo esito (occorrendo verificare che
non ricorrano le ipotesi di espressa esclusione dal riconoscimento
dell’indennizzo); b) «opinare che la superiore lettera possa interpretarsi nel
senso di aver fatto riferimento alla vittoriosità o
alla soccombenza in senso processuale e non sostanziale (equiparando così l’una
all’altra delle due parti del giudizio presupposto) non sembra discutibile
tanto sotto il profilo dell’equità sostanziale, quanto sotto il profilo del
rigore formale dell’interpretazione», considerato che «non appare […]
concettualmente scorretto legittimare, in tali eventualità, l’impiego quale
valore di soglia massima di liquidazione − in via suppletiva rispetto a
quello del valore del diritto riconosciuto (che non c’è perché la sentenza
"rigetta” o dichiara inammissibile o improponibile o improcedibile la domanda) −
quello del valore "positivo” che il giudizio abbia comunque recato alla parte
processualmente vittoriosa: avendo infatti il diritto negato all’uno un rilievo
concreto economicamente correlabile alla sfera giuridica dell’altro (nel senso
che il convenuto nel giudizio presupposto che non formuli riconvenzionali ma si
limiti ad una mera difesa comunque "lucra” dalla sconfitta della pretesa altrui
la stabilizzazione della sua situazione quo
antea, ossia
il non dover corrispondere o il non dover adempiere ad un facere altrimenti
per lui oneroso nella misura del petitum preteso e poi disatteso), l’interessato potrebbe
venire a conseguire un indennizzo da irragionevole durata pur non avendo
azionato alcuna pretesa ex adverso, ed addirittura in misura massima, mentre
quella consentita al sostanzialmente vittorioso (ma processualmente di gran
lunga soccombente) potrebbe essere decisamente inferiore alla prima; e ciò non
risulterebbe irragionevole (o comunque lesivo dell’uguaglianza sostanziale
delle parti della lite), per la diversa incidenza concreta sulla situazione di
vita dell’uno e dell’altro della pendenza in sé d’un processo potenzialmente
foriero d’apportare vantaggio o svantaggio rilevante ad entrambi i contendenti;
in tale ipotesi si dovrebbe però prescindere dal principio della domanda, che
sembra invece recepito dal dictum espresso dalla disposizione in esame ("… valore del
diritto accertato…”)»; c) «di dubbia legittimità appare, invece, una
liquidazione equitativa che − adottando, in via suppletiva, un criterio
di perequazione correttivo di potenziali distorsioni − riconoscesse che
l’ammontare: o del valore del diritto riconosciuto in concreto alla
controparte; o del valore del giudizio (in base al variabile grado di rilevanza
della soccombenza, se parziale o totale) possano costituire soglie non
superabili per entrambi i già contendenti; e ciò nel senso che, qualora il
valore del diritto accertato in capo all’attore (o ricorrente) del giudizio
presupposto fosse o inferiore a quello del valore del giudizio in senso
processuale, o comunque accertato ex post,
della controparte, questa non potrebbe vedersi comunque riconosciuto un
indennizzo superiore a quello dell’attore sostanzialmente soccombente; e ciò
perché tanto risulta incompatibile con l’indole oggettiva del valore "soglia”
in questione e non è consentito dal tipo di discrezionalità ammessa per il
giudicante in subiecta materia, poiché detta discrezionalità è
pur sempre "vincolata” − trattandosi d’un procedimento liquidatorio che
conferisce al decidente un potere mai sostanzialmente arbitrario, ove comunque
si riconosca che è comunque prevista una soglia minima inderogabile (riferibile
all’indole non meramente simbolica dell’indennizzo da riconoscere) − e la
sua sindacabilità in sede d’opposizione garantisce che l’eventuale ricorso
appunto a parametri d’equità non vulneri il fondamento che la predetta
discrezionalità ripete dalla legge vigente»;
che il
rimettente indica perciò i seguenti «casi astrattamente prospettabili» in cui
il proponente la domanda di equa riparazione sia stato: a) parzialmente
soccombente – quale attore (o ricorrente) o quale convenuto (o resistente) –
nel giudizio presupposto; b) totalmente soccombente – quale convenuto (o
resistente) – nel giudizio presupposto; c) totalmente soccombente – quale
attore (o ricorrente) – nel giudizio presupposto;
che, sulla
base di quanto in precedenza esposto, il giudice a quo afferma quindi che: a) nel primo caso, «il valore”soglia”
comunque non superabile nella liquidazione dell’indennizzo (imposto dall’art.
2-bis comma 3 della legge citata)
debba essere identificato nel valore del diritto effettivamente riconosciuto
alla parte sostanzialmente vittoriosa»; b) nel secondo caso, «il valore
"soglia” comunque non superabile sarà pur sempre individuato nel valore del
diritto riconosciuto alla parte sostanzialmente vittoriosa, ed ovviamente,
salva la specificità della vicenda processuale (che potrà giustificare, in
situazioni peculiari, anche l’equiparazione tra le parti), potrà essere
diversificata la misura dell’indennizzo – entro il range assentito – con tendenziale
liquidazione di quella del sostanzialmente soccombente in misura inferiore a
quella riconoscibile al sostanzialmente vittorioso ma con possibilità di sua
equiparazione ad essa»; c) nel terzo caso, «l’accertamento negativo della
sussistenza di un diritto equivale all’accertamento che il diritto fatto valere
in giudizio ha valore (per chi asseriva di esserne titolare e di poterne fruire
e disporre) giuridicamente ed economicamente pari a zero»;
che il
rimettente precisa ancora che «ove non siano formulate riconvenzionali, ma mere
difese (o eccezioni idonee a paralizzare la pretesa altrui), non v’è ex adverso
alcuna domanda e pertanto non può agevolmente affermarsi che la pronuncia abbia
implicitamente accertato contra un qualche
diritto del convenuto o del resistente (cui riferire l’individuazione del
predetto valore soglia)»;
che, a
quest’ultimo proposito, il rimettente chiarisce ancora che: a) «se il
soccombente e la controparte permangono nella situazione quo antea, che dal punto di vista della
controparte vi sia una sostanziale vittoriosità,
poiché essa pur godrà del risultato utile costituito dalla continuità di detta
situazione di fatto rispetto alle pretese dell’attore (o ricorrente) su cui sia
intervenuto il giudicato ed entro i limiti del suo valore (quale emerso in
decisione) potrà invocare per sé indennizzo (come riconosciuto sub b)»; b) «ciò
non equivale ad alcuna stabilizzazione o qualificabilità
della stessa alla stregua d’un diritto o di situazione di fatto giuridicamente
tutelabile né verso costui né verso chicchessia ed implicherà soltanto che il
bene della vita controverso (che ha pur sempre un valore economicamente
quantificabile) risulterà "intatto” rispetto all’iniziativa attorea, ma solo
interinalmente»; c) «a pro dell’attore o ricorrente – che subisca (nel giudizio
presupposto) la predetta soccombenza processuale, eventualmente con condanna
soltanto per la rifusione delle spese processuali, ai fini della
quantificazione del correlato diritto ad equo indennizzo in caso di durata
irragionevole di detto procedimento potrà utilizzarsi quale valore "soglia” non
superabile quello del valore economico del diritto antea goduto dal convenuto o
resistente vittorioso, o, qualora non ve ne fosse alcuno, il valore soglia
costituito dal valore economico del bene della vita dedotto in controversia
quale emerso in decisione mentre, in ultima analisi, se esso non sia
suscettibile di rilievo patrimoniale, non v’è a ben vedere un parametro che
consenta di provvedere»;
che il
rimettente, dopo avere ribadito che il proponente la domanda di equa
riparazione era risultato interamente soccombente nel giudizio presupposto e
che la durata di questo aveva ecceduto i termini previsti dai commi 2-bis e 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e premesso di avere
altresì valutato gli elementi indicati dal comma 2 dell’art. 2 della legge n.
89 del 2001, nonché il fatto che le spese di lite dei primi due gradi di
giudizio furono integralmente compensate tra le parti, afferma che le pronunce
adottate sino ad allora dalla Corte d’appello di Reggio Calabria erano state
discordanti circa la soluzione da dare alla «questione esaminata» in quanto, in
una occasione, essa era stata risolta (dallo stesso rimettente) «nel senso di
riconoscere comunque l’operatività della norma di riferimento, pur senza che
sia ritraibile nel sistema certezza rassicurante in proposito», in un’altra,
sollevando la questione di legittimità costituzionale successivamente iscritta
al n. 185 del registro ordinanze 2013;
che il
rimettente, dopo avere riprodotto testualmente la motivazione di tale ordinanza
di rimessione in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza, conclude
affermando che «quanto sinora esposto legittima ulteriormente a ritenere
sussistenti i presupposti per promuovere dunque, in piena adesione al secondo
precedente retro richiamato,
incidente di costituzionalità della disposizione in premessa richiamata anche
nell’odierno procedimento»;
che è
intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;
che la difesa
dello Stato prospetta deduzioni di contenuto sostanzialmente analogo a quelle
di cui all’atto di intervento nel giudizio iscritto al n. 185 del registro
ordinanze 2013;
che con ordinanza pronunciata il 3 giugno 2013 e depositata
il giorno successivo (reg. ord. n. 247 del 2013), la Corte d’appello di Reggio
Calabria, sezione civile, nella persona del giudice designato al fine di
provvedere sulla domanda di equa riparazione in caso di violazione del termine
ragionevole del processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una
domanda di equa riparazione proposta dalla parte risultata interamente
soccombente nel processo presupposto, ha sollevato, in riferimento all’art. 117
Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione di
legittimità del comma 3 dell’art. 2-bis
della legge n. 89 del 2001, «nella parte in cui limita la misura
dell’indennizzo (liquidabile in favore della parte che abbia subito un danno
per la durata irragionevole del processo presupposto) al "valore del diritto
accertato” senza alcuna ulteriore specificazione o limite, comportando in tal
modo l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione in
favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente
soccombente»;
che il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito
del ricorso, proposto il 22 maggio 2013 nei confronti del Ministero della
giustizia, con il quale G.Q. aveva chiesto l’indennizzo del danno subíto per effetto dell’irragionevole durata della
controversia civile da lei promossa, con atto di citazione notificato il 20
settembre 2001, davanti al Giudice di pace di Messina nei confronti di A.P. e
della Milano Assicurazioni s.p.a.; b) che la ricorrente nel giudizio a quo era risultata interamente
soccombente in detto processo presupposto, atteso che lo stesso era stato
definito con la sentenza del Giudice di pace di Messina 11 gennaio-1° febbraio
2012, n. 154/12, passata in giudicato il 28 marzo 2013, che aveva rigettato la
domanda dell’attrice;
che in punto
di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione, la Corte d’appello
rimettente svolge considerazioni identiche a quelle esposte nell’ordinanza
iscritta al n. 185 del registro ordinanze 2013;
che è
intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;
che la difesa
dello Stato prospetta deduzioni di contenuto sostanzialmente analogo a quelle
di cui agli atti di intervento nei giudizi iscritti ai numeri 185 e 197 del
registro ordinanze 2013;
che con «decreto» pronunciato il 22 aprile 2013 e
depositato il 26 aprile 2013 (reg. ord. n. 252 del 2013), la Corte d’appello di
Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del giudice designato al fine di
provvedere sulla domanda di equa riparazione in caso di violazione del termine
ragionevole del processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una
domanda di equa riparazione proposta dalla parte risultata interamente
soccombente nel processo presupposto, ha sollevato, in riferimento all’art. 117
Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione di
legittimità del comma 3 dell’art. 2-bis
della legge n. 89 del 2001, «nella parte in cui limita la misura
dell’indennizzo (liquidabile in favore della parte che abbia subito un danno
per la durata irragionevole del processo presupposto) al "valore del diritto
accertato” senza alcuna ulteriore specificazione o limite, comportando in tal
modo l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione in
favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente
soccombente»;
che il giudice
rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del ricorso,
depositato il 29 marzo 2013, con il quale Martella Giuseppe aveva chiesto
l’indennizzo del danno subíto per effetto
dell’irragionevole durata di un processo di cui era stato parte e nel quale era
risultato interamente soccombente; b) che la decisione con la quale tale
processo era stato concluso, emessa il 9 luglio 2012-5 ottobre 2012, era
divenuta irrevocabile; c) che la domanda di equa riparazione era ammissibile in
quanto proposta entro il termine di sei mesi dal momento di detta
irrevocabilità (art. 4 della legge n. 89 del 2001); d) che il processo
presupposto aveva avuto una durata di quattro anni, dieci mesi e quattordici
giorni in primo grado, tre anni, sei mesi e otto giorni in secondo grado, e tre
anni, due mesi e ventisette giorni in Cassazione, con la conseguenza che esso
eccedeva di cinque anni, sette mesi e diciotto giorni i termini indicati dai
commi 2-bis e 2-ter dell’art 2 della legge n. 89 del 2001; e) le spese dei primi
due gradi di tale giudizio presupposto, erano state integralmente compensate
tra le parti;
che in punto
di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione, la Corte
d’appello rimettente svolge considerazioni identiche a quelle esposte
nell’ordinanza iscritta al n. 197 del registro ordinanze 2013;
che è
intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;
che la difesa
dello Stato prospetta deduzioni di contenuto sostanzialmente analogo a quelle
di cui agli atti di intervento nei giudizi iscritti ai numeri 185, 197 e 247
del registro ordinanze 2013;
che con ordinanza pronunciata il 12 maggio 2013 e
depositata il 16 maggio 2013 (reg. ord. n. 253 del 2013), la Corte d’appello di
Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del giudice designato al fine di
provvedere sulla domanda di equa riparazione in caso di violazione del termine
ragionevole del processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una
domanda di equa riparazione proposta dalle parti risultate interamente
soccombenti nel processo presupposto, ha sollevato, in riferimento all’art. 117
Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione di
legittimità del comma 3 dell’art. 2-bis
della legge n. 89 del 2001, «nella parte in cui limita la misura dell’indennizzo
(liquidabile in favore della parte che abbia subito un danno per la durata
irragionevole del processo presupposto) al "valore del diritto accertato” senza
alcuna ulteriore specificazione o limite, comportando in tal modo
l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione in favore
della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente
soccombente»;
che il giudice
rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del ricorso,
proposto il 19 aprile 2013 nei confronti del Ministero della giustizia, con il
quale A.L.M., G.L.M., M.L.M. e A.G. hanno chiesto l’indennizzo del danno subíto per effetto dell’irragionevole durata della
controversia civile che era stata promossa dal loro dante causa S.L.M. davanti
al Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, con atto di citazione notificato l’8
ottobre 1993 al fine di ottenere il risarcimento del danno conseguente
all’illegittima occupazione di un fondo situato in Milazzo, condotto in affitto
da S.L.M.; b) che i ricorrenti nel giudizio a
quo erano risultati interamente soccombenti in detto processo presupposto –
nel quale si erano costituiti, nel corso della fase di appello, con comparsa
del 9-10 maggio 2011, a séguito del decesso di S.L.M. − atteso che detto
giudizio, articolatosi in due gradi, era stato definito con la sentenza della
Corte d’appello di Messina n. 334 del 2012 con la quale, in accoglimento
dell’impugnazione spiegata dal Comune di Milazzo avverso la sentenza n. 182 del
2007 del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto che aveva accolto la domanda
dell’attore, la stessa domanda era stata rigettata, con compensazione delle
spese di lite;
che in punto
di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione, la Corte
d’appello rimettente svolge considerazioni identiche a quelle esposte nelle
ordinanze iscritte ai numeri 185 e 247
del registro ordinanze 2013;
che è
intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;
che la difesa
dello Stato prospetta deduzioni di contenuto sostanzialmente analogo a quelle
di cui agli atti di intervento nei giudizi iscritti ai numeri 185, 197, 247 e
252 del registro ordinanze 2013;
che con ordinanza pronunciata il 24 giugno 2013 (reg. ord.
n. 254 del 2013), la Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella
persona del giudice designato al fine di provvedere sulla domanda di equa
riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo, nel
corso di un procedimento avente ad oggetto una domanda di equa riparazione
proposta dalla parte risultata interamente soccombente nel processo
presupposto, ha sollevato, in riferimento all’art. 117 Cost., in relazione
all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione di legittimità del comma 3
dell’art. 2-bis della legge n. 89 del
2001, «nella parte in cui limita la misura dell’indennizzo (liquidabile in
favore della parte che abbia subito un danno per la durata irragionevole del
processo presupposto) al "valore del diritto accertato” senza alcuna ulteriore
specificazione o limite, comportando in tal modo l’impossibilità di liquidare
in alcuna misura un’equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto,
sia risultata interamente soccombente»;
che il giudice
rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del ricorso,
proposto il 10 maggio 2013 nei confronti del Ministro della giustizia, con il
quale B.N. ha chiesto l’indennizzo del danno subíto
per effetto dell’irragionevole durata della controversia civile da lui promossa
davanti al Giudice di pace di Messina con atto di citazione notificato il 6
aprile 2005 nei confronti di Colosi Antonino e della
HDI Assicurazioni s.p.a. al fine di ottenere il risarcimento del danno patito
in conseguenza di un sinistro stradale; b) che il ricorrente nel giudizio a quo era risultato interamente
soccombente in detto processo presupposto, atteso che lo stesso, articolatosi
in un unico grado, era stato definito con la sentenza del giudice di pace di
Messina 8 novembre 2011, n. 11320, che aveva rigettato la domanda dell’attore
(ricorrente nel giudizio principale), con compensazione delle spese di lite, e
che non era stata impugnata;
che in punto
di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione, la Corte
d’appello rimettente svolge considerazioni identiche a quelle esposte nelle
ordinanze iscritte ai numeri 185, 247 e 253 del registro ordinanze 2013;
che è
intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;
che la difesa
dello Stato prospetta deduzioni di contenuto sostanzialmente analogo a quelle
di cui agli atti di intervento nei giudizi iscritti ai numeri 185, 197, 247,
252 e 253 del registro ordinanze 2013;
che, con ordinanza pronunciata il 10 giugno 2013 e
depositata il 20 giugno 2013 (reg. ord. n. 255 del 2013), la Corte d’appello di
Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del giudice designato al fine di
provvedere sulla domanda di equa riparazione in caso di violazione del termine
ragionevole del processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una
domanda di equa riparazione proposta dalla parte risultata interamente
soccombente nel processo presupposto, ha sollevato, in riferimento all’art. 117
Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione di
legittimità del comma 3 dell’art. 2-bis
della legge n. 89 del 2001, «nella parte in cui limita la misura
dell’indennizzo (liquidabile in favore della parte che abbia subito un danno
per la durata irragionevole del processo presupposto) al "valore del diritto
accertato” senza alcuna ulteriore specificazione o limite, comportando in tal
modo l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione in
favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente
soccombente»;
che il giudice
rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del ricorso,
proposto il 31 maggio 2013 nei confronti del Ministero della giustizia, con il
quale Giordano Gaetano ha chiesto l’indennizzo del danno subíto
per effetto dell’irragionevole durata della controversia civile da lui promossa
con atto di citazione notificato il 12 dicembre 2001 nei confronti del
«Condominio di Via Olimpia» al fine di ottenere il risarcimento del danno
patito in conseguenza delle lesioni riportate in conseguenza di una caduta
dalla scala condominiale; b) che il ricorrente nel giudizio a quo era risultato interamente
soccombente in detto processo presupposto che era stato definito con la
sentenza del Tribunale di Messina n. 2467/2011 la quale aveva rigettato la
domanda proposta dal Giordano, con condanna dello stesso al pagamento delle
spese di lite;
che in punto
di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione, la Corte
d’appello rimettente svolge considerazioni identiche a quelle esposte nelle
ordinanze iscritte ai numeri 185, 247 e 253 del registro ordinanze 2013;
che è
intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;
che la difesa
dello Stato prospetta deduzioni di contenuto sostanzialmente analogo a quelle
di cui agli atti di intervento nei giudizi iscritti ai numeri 185, 197, 247,
252, 253 e 254 del registro ordinanze 2013;
che con ordinanza pronunciata il 10 giugno 2013 e
depositata il 20 giugno 2013 (reg. ord. n. 256 del 2013), la Corte d’appello di
Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del giudice designato al fine di
provvedere sulla domanda di equa riparazione in caso di violazione del termine
ragionevole del processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una
domanda di equa riparazione proposta dalla parte risultata interamente
soccombente nel processo presupposto, ha sollevato, in riferimento all’art. 117
Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione di
legittimità del comma 3 dell’art. 2-bis
della legge n. 89 del 2001, «nella parte in cui limita la misura
dell’indennizzo (liquidabile in favore della parte che abbia subito un danno
per la durata irragionevole del processo presupposto) al "valore del diritto
accertato” senza alcuna ulteriore specificazione o limite, comportando in tal
modo l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione in
favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente
soccombente»;
che il giudice
rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del ricorso,
proposto il 29 maggio 2013 nei confronti del Ministero della giustizia, con il
quale A.A. ha chiesto l’indennizzo del danno subíto
per effetto dell’irragionevole durata di una controversia civile da lui
promossa davanti al Tribunale di Mistretta; b) che il ricorrente nel giudizio a quo era risultato interamente
soccombente in detto processo presupposto che era stato deciso, in primo grado,
con la sentenza del Tribunale di Mistretta 18 febbraio 2009, n. 28/09 che aveva
rigettato la domanda dell’A.A. e condannato lo stesso al risarcimento dei danni
alla controparte e, in appello, con la sentenza della Corte d’appello di
Messina 6 aprile 2012, n. 200/12, passata in giudicato il 29 dicembre 2012,
che, in parziale accoglimento dell’impugnazione presentata dall’A.A., aveva
confermato il rigetto della domanda dallo stesso proposta, riducendo l’importo
dei danni che il medesimo doveva risarcire; c) che l’indicato parziale accoglimento
dell’appello proposto da A.A. non esclude che egli sia risultato interamente
soccombente nel processo presupposto nel quale la domanda da lui proposta è
stata rigettata;
che in punto
di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione, la Corte
d’appello rimettente svolge considerazioni identiche a quelle esposte nelle
ordinanze iscritte ai numeri 185, 247, 253 e 255 del registro ordinanze 2013;
che è
intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;
che la difesa
dello Stato prospetta deduzioni di contenuto sostanzialmente analogo a quelle
di cui agli atti di intervento nei giudizi iscritti ai numeri 185, 197, 247,
252, 253, 254 e 255 del registro ordinanze 2013.
Considerato che la Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione
civile, nelle persone dei giudici designati al fine di provvedere su domande di
equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo proposte
da soggetti che erano risultati soccombenti nei rispettivi processi
presupposti, con otto ordinanze di analogo contenuto, dubita, in riferimento
all’art. 117, primo comma, della Costituzione, della legittimità dell’art. 2-bis, comma 3, della legge 24 marzo 2001,
n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine
ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura
civile) – a norma del quale: «La misura dell’indennizzo, anche in deroga al
comma 1 [che, a sua volta, stabilisce che: «Il giudice liquida a titolo di equa
riparazione una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a
1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che
eccede il termine ragionevole di durata del processo»], non può in ogni caso
essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto
accertato dal giudice» − nella parte in cui, col disporre che la misura dell’indennizzo
liquidabile a titolo di equa riparazione «non può in ogni caso essere superiore
[…] al valore del diritto accertato dal giudice» (se inferiore al valore della
causa), comporterebbe «l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione
in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente
soccombente»;
che, secondo i rimettenti, la
disposizione denunciata, così intesa, víola l’art.
117, primo comma, Cost., perché si pone in contrasto, in particolare, con l’art.
6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (di séguito: «CEDU» o «Convenzione»),
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4
agosto 1955, n. 848, il quale, nell’interpretazione che ne ha dato la Corte
europea dei diritti dell’uomo, prevede che l’equa soddisfazione (art. 41 CEDU)
per la lesione del diritto − da esso garantito − alla durata
ragionevole del processo spetta a tutte le parti di questo, indipendentemente
dal suo esito, e, in specie, anche alla parte che sia risultata soccombente;
che, in considerazione dell’identità
delle questioni proposte con le otto ordinanze di rimessione, i giudizi di
legittimità costituzionale possono essere riuniti e decisi con un’unica pronuncia;
che va preliminarmente rilevato che gli
atti introduttivi dei giudizi di legittimità iscritti ai numeri 197 e 252 del
registro ordinanze 2013 hanno la forma del decreto e non quella, stabilita
dall’art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), dell’ordinanza;
che tuttavia, secondo la giurisprudenza
di questa Corte, tale circostanza non comporta l’inammissibilità della
questione oggetto di tali giudizi, posto che, come risulta dalla lettura degli
indicati atti introduttivi degli stessi, nel sollevare la questione di
legittimità costituzionale, i giudici a quibus, dopo la positiva valutazione sulla rilevanza e
non manifesta infondatezza della stessa, hanno disposto la sospensione del
procedimento principale e la trasmissione del fascicolo alla cancelleria di
questa Corte, sicché agli stessi atti, anche se assunti con la forma del
decreto, deve essere riconosciuta la sostanziale natura di ordinanza (ex plurimis, sentenza n. 256 del
2010);
che, sempre in via preliminare, devono
essere disattese le eccezioni di inammissibilità della sollevata questione
prospettate dall’Avvocatura generale dello Stato;
che va anzitutto rigettata l’eccezione,
formulata dalla difesa dello Stato, di inammissibilità della sollevata
questione in quanto diretta ad ottenere un’indicazione interpretativa sul
significato da attribuire al limite dell’indennizzo costituto dal «valore […]
del diritto accertato dal giudice, ciò che configurerebbe l’incidente di
costituzionalità come un improprio tentativo di conseguire da questa Corte un
avallo interpretativo;
che, infatti, la questione sollevata non
mira a ottenere l’avallo di questa Corte all’interpretazione del comma 3
dell’art. 2-bis della legge n. 89 del
2001 che, tra le varie possibili, i rimettenti ritengono preferibile, ma
consiste, piuttosto, nella denuncia del contrasto tra l’unico significato
normativo che i giudici a quibus reputano attribuibile a detta disposizione −
quello secondo cui essa comporterebbe l’impossibilità di liquidare un
indennizzo a titolo di equa riparazione della violazione del diritto alla
ragionevole durata del processo in favore di chi sia risultato, nello stesso,
soccombente − e il parametro costituzionale invocato;
che deve pure essere respinta
l’eccezione, formulata dalla difesa statale, di inammissibilità della questione
sollevata perché i rimettenti avrebbero omesso di verificare la possibilità di
un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata,
non avendo, in particolare, «neppure ipotizzato» la possibilità «di liquidare
[alla parte totalmente soccombente nel processo presupposto] un importo compreso
nella forbice predeterminata dalla legge (500/1.500 euro per ciascun anno di
ritardo)» al comma 1 dell’art. 2-bis;
che, infatti, contrariamente a quanto
sostenuto dalla difesa erariale, i giudici rimettenti hanno verificato la
possibilità di un’interpretazione costituzionalmente
orientata della disposizione
denunciata, ritenendola, però, impraticabile alla luce del tenore letterale
della stessa che, a loro avviso, impedirebbe di attribuirle un significato
diverso da quello sospettato di illegittimità («ogni pur dovuto tentativo in
tale direzione [dell’interpretazione costituzionalmente adeguata] è destinato a
scontrarsi con l’insuperabile dato testuale della norma, che impedisce di
liquidare un indennizzo in misura superiore al "valore del diritto accertato”»);
che deve infine essere respinta anche
l’ulteriore eccezione, sempre formulata dall’Avvocatura generale dello Stato,
di inammissibilità della questione sollevata in quanto i rimettenti, nel
lamentare che il limite del valore del diritto accertato dal giudice,
comportando che nessun indennizzo possa essere liquidato al soccombente nel
processo presupposto, si pone in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost.,
avrebbero trascurato di considerare che, in caso di rimozione di detto limite,
allo stesso soccombente nel processo
presupposto verrebbe riservato un trattamento più favorevole di quello
spettante a chi, nello stesso processo, sia risultato, sia pure parzialmente,
vittorioso (nel senso che il diritto da lui fatto valere in giudizio è stato
affermato, almeno in parte, esistente), atteso che, solo nei confronti di
quest’ultimo, continuerebbe a trovare applicazione il limite del valore del
diritto accertato dal giudice, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost.;
che, infatti, la diversità di trattamento
che, nel caso di accoglimento della questione sollevata, si verrebbe a
determinare tra il soccombente nel processo presupposto, al quale diverrebbe
applicabile il solo, più favorevole, limite del valore della causa e il
parzialmente vittorioso nello stesso processo, al quale continuerebbe ad
applicarsi il meno favorevole limite del valore del diritto accertato dal
giudice, può fare sorgere un dubbio in ordine alla ragionevolezza di tale
diversità e all’eventuale conseguente contrasto con l’art. 3 Cost. che,
tuttavia, di per sé solo, non è suscettibile di precludere l’esame del merito
della questione sollevata e l’eventuale rimozione, in accoglimento della
stessa, del vulnus all’art. 117,
primo comma, Cost., denunciato dai rimettenti;
che, con riguardo al merito della
questione sollevata, i giudici rimettenti muovono dal presupposto
interpretativo, che è alla base della dedotta violazione del parametro
costituzionale invocato, secondo cui il limite del valore del diritto accertato
dal giudice, previsto dall’impugnato comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, comporta l’impossibilità di
liquidare un indennizzo a titolo di equa riparazione della violazione del
diritto alla ragionevole durata del processo, in favore di chi − attore o
convenuto − sia risultato, nello stesso, soccombente;
che gli stessi rimettenti pervengono a
tale interpretazione della disposizione impugnata attraverso due passaggi,
ritenendo, in particolare, che: a) il limite del valore del diritto accertato
dal giudice si applica anche nell’ipotesi di accertamento dell’inesistenza del
diritto fatto valere in giudizio, nel qual caso, poiché il diritto inesistente,
«per così dire, "vale zero”», l’indennizzo, non potendo superare tale valore,
non potrebbe essere liquidato; b) la locuzione «valore […] del diritto
accertato dal giudice» deve essere letta nel senso di «valore dell’accertamento
contenuto nella sentenza», valore il quale, considerato che nel processo
l’attore e il convenuto chiedono l’accertamento, rispettivamente, positivo e
negativo, in ordine alla sussistenza del diritto fatto valere con la domanda,
«è […] bivalente rispetto alle posizioni delle parti in lite», con la
conseguenza che, tra l’altro, nel caso di vittoria dell’attore e,
correlativamente, di soccombenza del convenuto, il valore del diritto accertato
dal giudice è, per l’attore, quello del diritto del quale egli ha chiesto, e
ottenuto, l’accertamento positivo e, per il convenuto, la cui richiesta di
accertamento negativo è stata rigettata, è, invece, pari a «zero»;
che l’indicata interpretazione dei
rimettenti è erronea perché la disposizione censurata, nella parte in cui
dispone che la misura dell’indennizzo liquidabile a titolo di equa riparazione
«non può in ogni caso essere superiore […] al valore del diritto accertato dal
giudice», deve essere intesa nel senso che essa si riferisce ai soli casi in
cui questi accerti l’esistenza del diritto fatto valere in giudizio e non
anche, come invece ritenuto dai giudici a
quibus, al caso dell’accertamento dell’inesistenza
di tale diritto ‒ e, quindi, della soccombenza (dell’attore) ‒ e
non comporta l’impossibilità di liquidare un indennizzo in favore della parte
risultata soccombente nel processo presupposto;
che tale conclusione si impone anzitutto
per la necessità di interpretare l’impugnata disposizione del comma 3 dell’art.
2-bis della legge n. 89 del 2001 in
coerenza sistematica con il comma 2-quinquies
dell’art. 2 della stessa legge, con il quale il legislatore, nel disciplinare i
casi di esclusione del diritto all’indennizzo, ha escluso dallo stesso il solo
soccombente che sia stato condannato per responsabilità aggravata ai sensi
dell’art. 96 del codice di procedura civile (lettera a), sicché, ritenere che il medesimo legislatore abbia poi negato
tale diritto in tutti i casi di soccombenza in una disposizione che disciplina
non l’an
del diritto all’indennizzo ma la misura di questo significherebbe disconoscere
ogni coerenza alla disciplina legale;
che alla stessa soluzione si giunge
anche alla stregua del canone che impone di attribuire alla legge, nei limiti
in cui ciò sia permesso dal suo testo, un significato conforme alla CEDU,
tenuto conto che la Corte europea dei diritti dell’uomo interpreta l’art. 6,
paragrafo 1, della Convenzione, nel senso della spettanza dell’equa
soddisfazione per la lesione del diritto alla durata ragionevole del processo a
tutte le parti di esso e, in particolare, anche alla parte che sia risultata
soccombente (ex aliis,
sentenza
19 febbraio 1998, Paulsen-Medalen e Svensson
contro Svezia, 149/1996/770/967);
che è erroneo, inoltre, anche il
menzionato passaggio interpretativo dei rimettenti secondo cui la disposizione
censurata farebbe riferimento al «valore dell’accertamento contenuto nella
sentenza», che «è […] bivalente rispetto alle posizioni delle parti in lite»,
atteso che il valore indicato in detta disposizione è quello del «diritto accertato
dal giudice», cioè, in tutta evidenza, quello del diritto fatto valere dalla
parte attrice, valore che costituisce un dato oggettivo, che non muta in
ragione della posizione che la parte che chiede l’indennizzo aveva nel processo
presupposto;
che gli ulteriori argomenti addotti dai
rimettenti sono incompatibili con la ricostruzione qui indicata e inidonei a
contrastarla;
che dai rilievi che precedono consegue
la manifesta infondatezza della questione sollevata per l’erroneità del
presupposto interpretativo assunto a fondamento della stessa;
che resta estranea all’oggetto del presente giudizio ogni valutazione in
ordine alla legittimità del limite del valore del diritto accertato dal giudice
con riguardo all’applicazione dello stesso nel caso in cui tale diritto sia
stato accertato in parte esistente.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo
1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 2-bis,
comma 3, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso
di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375
del codice di procedura civile), sollevata, in riferimento all’art. 117, primo
comma, della Costituzione, dalla Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione
civile, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio
2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Sergio MATTARELLA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 9 maggio 2014.