SENTENZA N.
181
ANNO 2011
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo MADDALENA Presidente
- Alfio FINOCCHIARO Giudice
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo
Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO
"
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi
di legittimità costituzionale dell’articolo 5-bis, commi 3 e 4 del decreto-legge
11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza
pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359,
nonché dell’articolo 16, commi quarto e quinto (recte: commi quinto e sesto)
della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia
residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità;
modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962,
n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi
straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e
convenzionata), come sostituiti dall’articolo 14 della legge 28 gennaio 1977,
n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli), promossi dalla Corte d’appello
di Napoli, con ordinanze del 7 aprile e del 19 marzo 2010 e dalla Corte
d’appello di Lecce con ordinanza dell’8 ottobre 2010, rispettivamente iscritte
ai nn. 305, 351 e 399 del registro ordinanze 2010 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn.
42 e 47, prima serie speciale, dell’anno 2010 e n. 1, prima serie speciale,
dell’anno 2011.
Visti gli atti di
costituzione di F. L., di F. N. W., del Comune di Salerno, nonché gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza
pubblica del 10 maggio 2011 e nella camera di consiglio dell’11 maggio 2011 il
Giudice relatore Alessandro Criscuolo;
uditi gli
avvocati Giorgio Stella Richter per F. L., Edilberto Ricciardi per il Comune di Salerno e l’avvocato dello Stato
Giacomo Aiello per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto in
fatto
1. — La Corte di appello di Napoli, con ordinanza
depositata il 19 marzo 2010 (r. o. n. 351 del 2010), ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3, 42, terzo comma, e 117, primo comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, del decreto-legge 11
luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica),
convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, nonché
dell’art. 16, commi quarto e quinto (recte: commi quinto e sesto) della legge 22 ottobre 1971, n.
865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla
espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17
agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed
autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia
residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti dall’art. 14 della
legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli).
2. — La Corte territoriale riferisce di
essere chiamata a pronunziarsi in un giudizio, promosso dalla signora N. W. F.
nei confronti del Comune di Montoro Superiore e
diretto ad ottenere la condanna di quest’ultimo al pagamento (tra l’altro)
dell’indennità di espropriazione e dell’indennità di occupazione legittima,
relative all’esproprio di un suolo, appartenente all’attrice, situato nel
territorio del detto ente. In una prima fase del processo il consulente di
ufficio aveva rilevato che il terreno, pur se classificato come agricolo nel
piano di fabbricazione adottato dal Comune di Montoro
Superiore, era ubicato a ridosso del centro cittadino, in una zona in possesso
di tutte le caratteristiche dei suoli edificatori, e sicuramente appetibile
anche in vista di un suo possibile sfruttamento per fini diversi
dall’edificazione, sicché lo aveva valutato in lire 55.851 al mq., con
riferimento al dicembre 1982; successivamente era stata disposta una nuova
consulenza, volta a verificare se, alla data del decreto di esproprio (20 marzo
1985), il suolo de quo avesse valore
agricolo o edificabile e a determinare l’importo delle due indennità. Il
consulente aveva accertato che il terreno in questione era classificato nel
catasto terreni del Comune di Montoro Superiore come
"seminativo arborato” e che, in base al programma di
fabbricazione vigente nel Comune dal 30 ottobre 1972 al 12 maggio 1997, era,
per la sua maggiore estensione, destinato ad uso pubblico per servizi vari, per
una parte minore inserito in zona B di completamento e per una terza parte
interessato alla realizzazione di una strada. Tuttavia, in base alle
prescrizioni del programma di fabbricazione, nella zona B dell’area espropriata
era precluso ogni tipo di edificazione e non era consentita neppure la
costruzione in aderenza con l’edificio, di proprietà dell’attrice, con essa
confinante, soggetto,nel piano di recupero del Comune, soltanto ad interventi
di restauro e di risanamento conservativo.
Una volta accertata la non edificabilità
del suolo, il consulente aveva applicato i criteri di liquidazione delle
indennità stabiliti dagli artt. 16 e 20 della legge n. 865 del 1971, cui rinvia
l’art. 5-bis, comma 4, del d.l. n.
333 del 1992 e, rilevato che il Comune di Montoro
Superiore ricadeva nella regione agraria n. 8 della Provincia di Avellino e
che, nel 1985, in tale regione il valore agricolo medio di un terreno
seminativo arborato era di lire 1.200 a mq., aveva
determinato l’indennità di espropriazione spettante all’attrice in complessivi
euro 588,76 (lire 1.140.000) e quella di occupazione in complessivi euro 49,06.
Tanto premesso, la Corte rimettente,
chiamata a decidere unicamente della misura delle indennità di espropriazione e
di occupazione spettanti all’attrice, dubita della legittimità costituzionale
dell’art. 5-bis, comma 4, d.l. n. 333
del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, nonché
dell’art. 16, quinto e sesto comma, della legge n. 865 del 1971, come
sostituiti dall’art. 14 legge n. 10 del 1977, «che, secondo il diritto vivente,
sono tuttora in vigore esclusivamente con riguardo alle aree non aventi
destinazione edilizia».
Ad avviso della rimettente tali
disposizioni, non suscettibili di un’interpretazione diversa da quella
letterale, stabiliscono un criterio di determinazione dei suoli agricoli e dei
suoli non edificabili del tutto disancorato dal loro effettivo valore di
mercato.
Invero – la Corte di merito prosegue –
«ancorché non possa escludersi che valore di mercato e valore agricolo medio
(V.A.M.) di tali categorie di immobili siano talvolta, in concreto,
coincidenti, non v’è dubbio che assai spesso il primo valore risulti (anche
notevolmente) superiore al secondo, in quanto l’appetibilità di un terreno sul
mercato non dipende solo dalla sua edificabilità, ma da molteplici altri
fattori, primi fra tutti la sua posizione e le concrete possibilità di suo
sfruttamento per fini diversi dalla coltivazione».
La questione sarebbe rilevante nel
presente giudizio. Infatti, sarebbe rimasto accertato che il valore di mercato
del terreno in questione era stato calcolato in lire 65.000 al mq., con
riferimento al gennaio 1986 (previa rivalutazione a tale data del valore di
lire 55.851 al mq., riferito al dicembre 1982), mentre il valore agricolo medio
della coltura in atto sul suolo era, nel 1985, di appena lire 1.200 al mq. o,
al più, di lire 6.200 al mq. (volendo ritenere erronea la determinazione del
C.T.U. per non aver considerato che, trattandosi di terreno compreso in un
centro edificato, l’indennità si sarebbe dovuta commisurare al valore agricolo
medio della coltura più redditizia tra quelle che, nella regione agraria,
coprivano una superficie superiore al 5 per cento di quella coltivata nella
regione stessa).
Inoltre, il suolo di proprietà della F.
era certamente inedificabile, avuto riguardo alla natura conformativa
(e non espropriativa) dei vincoli su di esso gravanti, all’inesistenza di un
presunto giudicato sull’edificabilità di fatto del suolo, alla costante
giurisprudenza della Corte di cassazione, integrante un vero e proprio diritto
vivente, alla stregua della quale il sistema introdotto dall’art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992 si
caratterizza per una rigida dicotomia, con esclusione di un "tertium genus”, tra
"aree edificabili” ed "aree agricole” o "non classificabili come edificabili”.
Al criterio dell’edificabilità di fatto,
dunque, potrebbe farsi riferimento in via complementare ed integrativa, agli
effetti della determinazione del concreto valore di mercato dell’area
espropriata, soltanto nelle ipotesi (estranee al caso in esame) in cui
sussistano cause idonee a ridurre o escludere le possibilità reali di
edificazione o in cui difetti una classificazione del suolo da parte della
pianificazione urbanistica.
Si dovrebbe, perciò, concludere che,
trattandosi di giudizio in corso alla data di entrata in vigore della legge n.
359 del 1992, l’indennità di esproprio andrebbe liquidata alla stregua dei
criteri dettati dalle norme censurate, con la conseguenza che la somma spettante
alla parte privata per tale titolo risulterebbe irrisoria.
In questo quadro, sarebbe ravvisabile,
in primo luogo, violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto
delle dette norme con l’art. 1 del primo protocollo addizionale della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
ratificata dalla legge n. 848 del 1955.
Il giudice a quo riassume, al riguardo, i principi affermati da questa Corte
con le sentenze n.
348 e n. 349
del 2007, richiama il dettato della citata norma convenzionale e sottolinea
che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha interpretato tale norma in
numerose sentenze, «dando vita ad un orientamento ormai consolidato, formatosi
anche in processi concernenti la disciplina ordinaria dell’indennità di
espropriazione, secondo il quale una misura che costituisce un’ingerenza nel
diritto al rispetto dei beni di una persona fisica o giuridica deve realizzare
un "giusto equilibrio” tra le esigenze di interesse generale della comunità ed
il principio della salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali».
La necessità di salvaguardare detto
equilibrio riguarderebbe, secondo la Corte europea, tutto il contenuto
dell’art. 1 del primo protocollo.
Al fine di stabilire se le misure
adottate da uno Stato, nell’interesse generale, garantiscano un giusto
equilibrio e non riversino sul proprietario un peso sproporzionato, andrebbero
prese in considerazione le modalità d’indennizzo previste dalle leggi interne.
A questo proposito la Corte di Strasburgo avrebbe osservato che, senza il
versamento di una somma ragionevole in rapporto al valore del bene, la
privazione della proprietà che si realizza attraverso l’esproprio costituisce
normalmente un’ingerenza eccessiva in violazione dell’art. 1 del primo
protocollo, aggiungendo che, in caso di espropriazione isolata di un terreno,
soltanto un indennizzo integrale può essere considerato ragionevole, mentre la
mancanza di un tale indennizzo può giustificarsi soltanto in presenza di
obiettivi legittimi di pubblica utilità, volti a perseguire misure di riforma
economica o di giustizia sociale.
Ad avviso della Corte territoriale la
normativa censurata, prevedendo un criterio di determinazione dell’indennità di
esproprio, per i suoli agricoli e per quelli non edificabili, astratto e
predeterminato (qual è quello del valore agricolo medio della coltura in atto o
di quella più redditizia nella regione agraria di appartenenza dell’area da
espropriare), quindi del tutto svincolato dal valore di mercato dei suoli
stessi, non sarebbe in grado di assicurare all’avente diritto un indennizzo
integrale o almeno "ragionevole”, così ponendosi in contrasto con l’art. 1 del
primo protocollo, nell’interpretazione data dalla Corte europea.
Andrebbe escluso, poi, che tale
interpretazione si ponga in conflitto con la tutela di interessi
costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.
Infatti, anche l’art. 42, terzo comma, Cost. sarebbe stato interpretato da
questa Corte nel senso che, per quanto il legislatore non sia tenuto ad
individuare un unico criterio di determinazione dell’indennità, valido in ogni
fattispecie espropriativa o idoneo ad assicurare l’integrale riparazione della
perdita subita dal proprietario espropriato, l’indennità medesima non deve mai
essere meramente simbolica o irrisoria, ma deve rappresentare un serio ristoro
(è richiamata la sentenza
di questa Corte n. 5 del 1980).
È vero che, con sentenza n. 261 del
1997, questa Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità
costituzionale della normativa censurata, sollevata in riferimento agli artt.
3, primo comma, 24 e 42, terzo comma, Cost. La questione, però, in quella sede
sarebbe stata affrontata in base a rilievi diversi, sicché la Corte si sarebbe
limitata ad osservare che la soluzione adottata dal legislatore per
semplificare il calcolo indennitario, ancorché non
obbligata, non era irragionevole o arbitraria, in quanto di per sé non pregiudicava
il serio ed effettivo ristoro del proprietario espropriato.
In questa sede, invece, verrebbe in
evidenza l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo all’art. 1 del primo
protocollo addizionale, in base alla quale non potrebbe ritenersi ragionevole
qualsiasi criterio di determinazione dell’indennità che prescinda dal dato di
partenza, costituito dal valore di mercato del bene espropriato, «non dovendosi
più valutare se la norma interna di per sé "non pregiudichi” il serio ed
effettivo ristoro della perdita del bene ma, piuttosto, se essa sia in grado di
assicurare tale ristoro in ogni fattispecie in cui debba trovare applicazione e
non solo in via occasionale, in virtù di fattori casuali e contingenti, legati
alla specifica situazione del terreno ablato».
In tale prospettiva – prosegue la Corte
territoriale – «è la stessa dicotomia immaginata dal legislatore al fine di
semplificare il calcolo dell’indennizzo – e non già la mancata previsione di
una terza tipologia di aree, intermedia tra quelle agricole e quelle
edificabili – che appare priva di giustificazione».
La considerazione, del resto, sarebbe in
linea con quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 5 del
1980, poi ribadito nella sentenza n. 348 del
2007, ovvero che, affinché possa realizzarsi un serio ristoro «occorre far
riferimento, per la determinazione dell’indennizzo, al valore del bene in relazione
alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale
utilizzazione economica di esso, secondo legge» e che «il principio del serio
ristoro è violato quando per la determinazione non si considerino le
caratteristiche del bene da espropriare ma si adotti un diverso criterio che
prescinda dal valore di esso».
Tali principi, ancorché enunciati da
questa Corte solo con riguardo ai terreni edificabili, dovrebbero ritenersi
validi ed operanti anche in relazione ai terreni agricoli e, a maggior ragione,
a quelli privi di possibilità legali ed effettive di edificazione, ai primi
equiparati dalla legge n. 359 del 1992, perché nell’attuale contesto storico ed
economico l’interesse del privato all’acquisto di tali categorie di terreni
sarebbe determinato dalle possibilità di sfruttarli per fini diversi da quello
di impiantarvi una coltivazione, sicché non sarebbe più predicabile una
corrispondenza tra il loro valore agricolo medio e il loro valore di mercato.
Per le medesime ragioni, la questione di
legittimità costituzionale delle norme censurate per violazione dell’art. 42,
terzo comma, Cost. non sarebbe manifestamente infondata.
Infine, non sarebbe manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992,
e all’art. 16, commi quinto e sesto, della legge n. 865 del 1971, per
violazione dell’art. 3 Cost.
Invero, rileva la rimettente, per
effetto della sentenza
di questa Corte n. 348 del 2007, risultano rimosse dall’ordinamento le
disposizioni secondo le quali l’indennità di esproprio dei suoli edificabili
andava determinata in misura pari alla media tra il valore venale e il reddito
dominicale rivalutato degli ultimi dieci anni.
Per le espropriazioni ancora in corso (e
per quelle future) è intervenuto l’art. 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244
(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
– legge finanziaria 2008), il cui comma 89, lettera a), ha sostituito l’art. 37, comma 1, decreto del Presidente della
Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità. Testo A), e
successive modificazioni, statuendo che l’indennità di espropriazione di
un’area edificabile è determinata in misura pari al valore venale del bene e
che, quando l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma
economico-sociale, l’indennità è ridotta del 25 per cento. Per i giudizi ancora
in corso, in cui è in contestazione la misura dell’indennità di esproprio,
trova applicazione il criterio del valore venale del bene, previsto dall’art.
39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità
pubblica). In sostanza, quindi, fatta salva l’ipotesi di espropriazione
finalizzata alla attuazione d’interventi di riforma economico-sociale (per i
quali, comunque, è prevista una riduzione dell’indennità del solo 25 per
cento), l’indennità di esproprio per i suoli edificabili è oggi corrispondente
al valore di mercato del bene.
L’adozione del diverso criterio,
astratto e predeterminato, previsto, per i suoli agricoli e per quelli non
edificabili, dalle norme della cui legittimità costituzionale si dubita crea
una ingiustificata disparità di trattamento tra i proprietari, non essendo
ravvisabile alcuna plausibile ragione in base alla quale il diritto a ricevere
un indennizzo commisurato al valore di mercato dell’area espropriata non debba
essere riconosciuto anche a coloro che abbiano un terreno privo di vocazione
edilizia.
3. — Nel giudizio di cui alla citata ordinanza n. 351
del 2010 si è costituita, con memoria depositata il 13 dicembre 2010, la
signora W. F., parte privata nel giudizio de
quo chiedendo che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale della
normativa censurata.
Dopo avere premesso che il terreno
espropriato costituiva il retrostante "giardino-orto murato” del fabbricato di
famiglia nel territorio di Montoro Superiore, che
tale ente già dal 1997, con il piano regolatore generale, aveva eliminato i
vincoli imposti con il programma di fabbricazione del 1972, classificando il
fondo come edificabile, e che nel 2008 aveva alienato parte del suolo
espropriato (mq.819), per l’importo di euro 86.256,00, la parte privata rileva
che, con la sentenza
n. 348 del 2007, questa Corte ha affermato il principio secondo cui, al
fine di ritenere costituzionalmente legittima la norma che disciplina
l’indennità di espropriazione, è necessario che questa costituisca un "serio
ristoro” e che sussista un ragionevole legame tra l’indennizzo e il valore
venale del bene, come prescritto dalla Corte di Strasburgo.
La mancanza del "ragionevole legame” tra
l’indennizzo e il valore di mercato, rileva, ad avviso della deducente, anche con riguardo alle aree non edificabili, in
quanto il valore agricolo medio risulterebbe di molto inferiore al detto valore
di mercato (sono richiamati i dati emergenti dalle consulenze espletate durante
il lungo iter del processo).
Pertanto, la normativa censurata con l’ordinanza di rimessione contrasterebbe
con i parametri costituzionali evocati in tale provvedimento, anche alla luce
dei principi affermati da questa Corte con la sentenza n. 5 del
1980.
4. — La Corte di appello di Napoli, con
ordinanza depositata il 7 aprile 2010 (r. o. n. 305 del 2010), dubita della
legittimità costituzionale delle norme già censurate con l’ordinanza di cui si
è trattato in precedenza, in riferimento ai medesimi parametri da questa
evocati.
La Corte territoriale premette di essere
chiamata a pronunciarsi in un giudizio vertente tra F. L. e il Comune di
Salerno, avente ad oggetto la domanda di pagamento delle indennità di
espropriazione e di occupazione temporanea, relative ad alcuni terreni di
proprietà dell’attrice, espropriati dal Comune (con decreti del 10 febbraio
1998 e del 22 giugno 1999) per la realizzazione del parco del Mercatello.
Dopo avere esposto il complesso iter processuale della vicenda, la
rimettente rileva che, con sentenza non definitiva, emessa in sede di rinvio
dalla Corte di cassazione, il Collegio ha accertato: a) che il suolo era
incluso dall’originario piano regolatore generale del Comune di Salerno,
approvato con decreto del Presidente della giunta regionale in data 4 febbraio
1965, in zona intensiva C tipologia 9 a formazione lineare e semiaperta; e che
una successiva variante, adottata con delibera della stessa amministrazione n.
71 del 18 dicembre 1989, definitivamente approvata dal Presidente della giunta
regionale della Campania con decreto n. 7265 del 13 luglio 1994, aveva
individuato una zona B (Pastena) omogenea già satura
in cui l’aveva inclusa, con destinazione a standard
urbanistici consistenti in spazi pubblici o riservati ad attività collettive,
al verde pubblico, a parcheggi, a servizi pubblici, o attrezzature pubbliche
d’interesse generico; b) che, sulla base dei criteri enunciati dalla Corte di
cassazione, e cioè sulla base dell’esame dei requisiti oggettivi, di natura e
struttura, che presentavano i vincoli contenuti nella variante, doveva
ritenersi sussistente il carattere conformativo di
essa (che consentiva di tenerne conto ai fini indennitari);
c) che la natura inedificabile del suolo emergeva con chiarezza proprio dal
disposto dell’art. 7, ultimo comma, della variante, secondo cui «Tutte le aree
attualmente libere ricadenti nelle zone omogenee B, anche se comprese nei piani
di recupero, a servizio o pertinenze (cortili, giardini e comunque spazi liberi
a qualsiasi uso destinati) di fabbricati o gruppi di fabbricati, sono assolutamente
inedificabili anche in sede di recupero, ristrutturazione o ricostruzione di
manufatti esistenti».
Ciò posto, la Corte napoletana osserva
che, per la determinazione delle indennità di espropriazione e di occupazione
temporanea, dovrebbe applicarsi il criterio del valore agricolo medio, ai sensi
dell’art. 16 legge n. 865 del 1971 (art. 5-bis,
comma 4, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 359 del 1992, che richiama appunto, per le aree agricole, le norme di cui al
titolo II della legge n. 865 del 1971). Essa, però, dubita della legittimità
costituzionale del citato art. 5-bis,
comma 4 (applicabile ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della
legge che lo ha introdotto), nonché della legittimità costituzionale dell’art.
16, commi quinto e sesto, della legge n. 865 del 1971, come sostituiti
dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977, in quanto tali norme contemplano un
criterio di determinazione delle indennità per i suoli agricoli e per quelli
non edificabili del tutto disancorato dal loro effettivo valore di mercato.
La rimettente segnala che la questione è
rilevante in quel giudizio. Infatti essa, con sentenza non definitiva, ha
accertato la natura non edificabile del suolo e il valore agricolo medio per le
colture prevalenti (agrumeto e frutteto), riportate nei dati catastali. In
particolare, espone che il detto valore, all’epoca dei decreti di esproprio
(anni 1998 e 1999), era per il frutteto di lire 8.670 a mq. e, per l’agrumeto,
di lire 13.770 a mq. per il 1998, ridotte poi a lire 12.000 a mq. nel 1999, a
fronte di un valore di mercato (emergente dagli atti di comparazione acquisiti
dal consulente di ufficio) pari a lire 59.524 per il 1996 (desunto da un atto
notarile di compravendita) ed a lire 188.580 per il 1997 (desunto da un atto
notarile di chiusura espropriativa).
A sostegno della non manifesta
infondatezza, poi, svolge argomentazioni analoghe a quelle addotte nell’ordinanza depositata il 19 marzo 2010.
5. — Nel giudizio di legittimità
costituzionale, con atto depositato il 4 novembre 2010, è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente
infondata.
L’interveniente ripercorre l’iter normativo e giurisprudenziale,
riguardante l’indennità di espropriazione, prendendo le mosse dall’art. 39
della legge n. 2359 del 1865. Richiama alcune leggi speciali, pone l’accento
sulla legge n. 865 del 1971, come modificata dalla legge n. 10 del 1977, e
rileva che con tale disciplina l’indennità fu commisurata al valore agricolo,
ovvero allo stato dei luoghi relativo alle colture effettivamente praticate.
Questa impostazione, ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, fu determinata dal
passaggio da un sistema di pianificazione edilizia di tipo autorizzatorio
ad un sistema concessorio, in forza del quale lo jus aedificandi
non fu più considerato una facoltà compresa nel diritto di proprietà del suolo
ma una situazione giuridica attribuita a seguito di concessione. Tale
normativa, però, non superò il vaglio di legittimità costituzionale (è
richiamata la sentenza
n. 5 del 1980), poiché questa Corte affermò che «l’indennizzo espropriativo
deve costituire un "serio ristoro”, e pertanto deve essere riferito al valore
del bene ricavabile dalle sue caratteristiche essenziali e dalla sua potenziale
utilizzazione economica».
Dopo una normativa transitoria, ritenuta
a sua volta costituzionalmente non legittima (sentenza n. 223 del
1983), il legislatore intervenne di nuovo con l’art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla
legge n. 359 del 1992, prevedendo due differenti criteri, il primo per i suoli
edificabili (commi 1 e 2), il secondo per le aree agricole o, comunque, non
edificabili (comma 4). Questi criteri, ritenuti costituzionalmente legittimi (è
richiamata la sentenza
n. 283 del 1993), furono in sostanza riprodotti dagli artt. 37 e 40, commi
1 e 2, d.P.R. n. 327 del 2001, recante il T.U. delle
espropriazioni per pubblica utilità.
Sul tema, però, intervenne la Corte
europea dei diritti dell’uomo che, con decisione
del 29 marzo 2006 (in causa Scordino contro Italia), definì non ragionevole
e iniqua l’indennità contemplata in applicazione del criterio di cui all’art.
5-bis, stabilendo, tra l’altro, che,
pur sussistendo al riguardo un ampio potere discrezionale dello Stato, senza
una somma ragionevolmente proporzionale al valore venale del bene, una
privazione di proprietà costituisce generalmente un pregiudizio eccessivo,
nonché chiarendo che un’assenza totale di indennizzo può giustificarsi, sotto
il profilo dell’art. 1 (del protocollo addizionale), solo in circostanze eccezionali,
ancorché detta norma non garantisca sempre il diritto ad una riparazione
integrale.
L’indirizzo espresso dalla Corte europea
– prosegue la difesa dello Stato – fu poi condiviso da questa Corte che, con sentenza n. 348 del
2007, dichiarò fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.
5-bis del d.l. n. 333 del 1992,
sollevata in relazione ai commi 1 e 2 di detta norma, estendendo la declaratoria
all’art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 327 del 2001.
La Corte, infatti, «ha ritenuto che i
criteri per la determinazione dell’indennità di espropriazione debbano aver
riguardo della base di calcolo rappresentata dal valore del bene, quale emerge
dal suo potenziale sfruttamento non in astratto, ma secondo le norme e i
vincoli degli strumenti urbanistici vigenti nei diversi territori», pur non
essendo necessario un ristoro integrale.
Quanto fin qui riportato, ad avviso
dell’Avvocatura erariale, farebbe interamente riferimento alle aree
edificabili. In ordine all’indennità espropriativa concernente le aree non
edificabili (art. 5-bis, comma 4, del
d.l. n. 333 del 1992, ora sostituito dall’art. 40, commi 1 e 2, d.P.R. n. 327 del 2001), oggetto del presente giudizio,il
giudice a quo si sarebbe limitato ad
effettuare un parallelismo con la diversa vicenda relativa ai terreni non
edificabili, senza alcuna motivazione sul punto. Infatti, non avrebbe spiegato
per quali ragioni, nel caso di specie, non vi sarebbe una determinazione
dell’indennità commisurata all’effettivo valore del bene.
Invece, andrebbe posto in evidenza che,
con riguardo alla disciplina previgente, questa Corte già avrebbe rilevato che
le norme concernenti la determinazione dell’indennità «sono, pertanto, tuttora
applicabili all’espropriazione di aree con destinazione agricola,in relazione
alle quali non è stato riconosciuto sussistente alcun profilo di
incostituzionalità, stante il collegamento della liquidazione dell’indennità
con le effettive caratteristiche e la destinazione economica del bene» (sentenza n. 1022
del 1988).
La difesa dello Stato richiama l’art. 16
della legge n. 865 del 1971, cui l’art. 5bis,
comma 4 cit., rinvia, nonché l’art. 40 del d.P.R. n.
327 del 2001, rilevando che da entrambe le norme si potrebbe evincere come il
valore dell’indennità sia legato al concreto valore del fondo, determinato dal
valore agricolo e dai manufatti legittimamente realizzati, ed afferma che le
vicende relative ai terreni agricoli mai avrebbero evidenziato problematiche
particolari in ordine all’effettivo ristoro determinato dall’indennità
espropriativa. Per le aree edificabili, invece, i problemi maggiori sarebbero
stati collegati al passaggio «da un sistema di licenza edilizia a un sistema concessorio», diretto in sostanza ad equiparare, ai fini
della quantificazione dell’indennizzo, aree edificabili ad aree non
edificabili, sul presupposto che la possibilità di costruire su un terreno non
sarebbe una facoltà insita nel diritto di proprietà sullo stesso, ma dovesse
costituire oggetto di una specifica concessione da parte dell’Amministrazione.
Ciò non sarebbe avvenuto con riguardo
all’indennità per l’espropriazione delle aree non edificabili, della cui
legittimità la giurisprudenza mai avrebbe dubitato. Infatti, basare
l’indennizzo sulla coltura praticata sul terreno, o, in mancanza, sul tipo di
coltura praticata nella zona, tenuto conto del valore dei manufatti legittimamente
realizzati, costituirebbe un criterio adeguato per la determinazione del "serio
ristoro”.
Inoltre, andrebbe considerata la
possibilità del sindacato giurisdizionale sulle tabelle formate dalle
commissioni amministrative per il calcolo dell’indennizzo, giungendo fino alla
relativa disapplicazione. Ancora, andrebbe ricordato che sia la decisione
della Corte europea nella causa Scordino contro lo Stato italiano, sia la sentenza di questa
Corte n. 348 del 2007, avrebbero ritenuto non idonea l’indennità a causa
della decurtazione del 40 per cento del valore, qualora non si fosse pervenuti
alla cessione volontaria. Mai si sarebbe postulata una determinazione precisa e
puntuale del valore del bene – quasi che l’indennizzo fosse un risarcimento dei
danni – ma anzi si sarebbe sottolineato come «il ristoro possa non essere
integrale purché faccia riferimento al valore del bene determinato in ragione
del suo effettivo e potenziale utilizzo», proprio come stabilito dall’art. 16
legge n. 865 del 1971 e dall’art. 40 d.P.R. n. 327
del 2001.
Nessuna decurtazione sarebbe stata
prevista per le aree non edificabili, sicché il giudice a quo si sarebbe limitato a tracciare un astratto parallelismo con
la disciplina dettata per l’indennità espropriativa dei suoli edificabili,
senza tener conto delle concrete differenze tra le due fattispecie.
6. — Nel giudizio di legittimità
costituzionale, con memoria depositata il 5 novembre 2010, si è costituita la
parte privata L. F., aderendo alle argomentazioni esposte nell’ordinanza di
rimessione e concludendo per la declaratoria di fondatezza della questione.
7. — Con memoria depositata l’8 novembre
2010 si è costituito anche il Comune di Salerno, in persona del Sindaco legale
rappresentante pro tempore (previa
delibera della Giunta municipale n. 1130 del 15 ottobre 2010).
L’ente territoriale, dopo aver
richiamato le vicende che hanno scandito la controversia in corso tra le parti,
ricorda che la tesi sostenuta nell’ordinanza di rimessione ha già formato
oggetto di esame da parte di questa Corte con sentenza n. 261 del
1997, che dichiarò non fondata la questione di legittimità costituzionale
della normativa in questa sede censurata, sollevata in riferimento agli artt.
3, primo comma, 24 e 42, terzo comma, Cost.
Il Comune richiama i principi affermati
dalla menzionata sentenza, rimarcando che essa, nell’escludere la possibilità
di introdurre nell’ordinamento un "tertium genus” tra aree edificabili e quelle non edificabili,
ha ritenuto la detta disciplina non irragionevole e non arbitraria, e comunque
non idonea a pregiudicare il serio ristoro del proprietario espropriato; ed
afferma che «il Collegio distrettuale, mentre non ha potuto sostenere che, in
ogni caso, il valore di mercato e il V. A. M. sono sempre notevolmente
differenziati, attraverso i riferimenti alle ipotesi elencate a titolo di
esempio si è collocato pur sempre nell’ottica di un utilizzo del suolo agricolo
privo di attitudine edificatoria quale complemento di insediamenti edilizi e,
quindi, mirando alla valorizzazione, ai fini della determinazione
dell’indennità di espropriazione, di quel tertium genus dei beni ablati»,
per l’appunto escluso dalla sentenza n. 261 del
2007.
La Corte rimettente avrebbe ritenuto di
poter superare la preclusione derivante da tale sentenza, evocando come
parametro costituzionale violato l’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto
con le norme internazionali convenzionali e, in particolare, col primo
protocollo addizionale della CEDU.
Ad avviso dell’ente, le argomentazioni
al riguardo svolte nell’ordinanza non sarebbero rilevanti ai fini del tema in
questione, perché non vi sarebbe alcuna norma o direttiva comunitaria (cui
peraltro la materia espropriativa è estranea) in contrasto con il criterio di
calcolo dell’indennità di espropriazione delle aree non edificabili, come
disciplinato dalle disposizioni oggi in esame, mentre tutte le decisioni della
Corte di Strasburgo avrebbero avuto riguardo a suoli con destinazione
edificatoria, per i quali il meccanismo fissato dalla normativa, poi dichiarata
illegittima, avrebbe comportato una sensibilissima decurtazione del valore di
mercato.
In particolare, le decisioni del giudice
di Strasburgo, pronunziate contro lo Stato italiano, avrebbero ritenuto
incompatibile con il dettato dell’art. 1 dell’allegato 1 alla Convenzione la
privazione di un terreno in forza della cosiddetta "occupazione
acquisitiva”(sono richiamate varie decisioni della Corte europea), ed avrebbe
chiarito che «benché lo Stato contraente goda di un margine di discrezionalità
nel determinare l’indennizzo in dipendenza di un’espropriazione legittima,
l’art. 5 bis legge n.359/1992, parametrando l’indennità di espropriazione ad un valore
largamente inferiore a quello di mercato del bene espropriato, senza prendere
in considerazione la tipologia dell’esproprio, determina una rottura del
"giusto equilibrio” tra le esigenze dell’interesse generale e gli imperativi
della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo, violando l’art. 1
del Protocollo n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Infatti,
alla stregua della giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo è
consentita una quantificazione dell’indennizzo inferiore al valore commerciale
nei soli casi di espropriazione correlata a riforme economiche, sociali o
politiche o in presenza di particolari circostanze di pubblica utilità» (è
richiamata la sentenza
della Corte europea in causa Scordino contro Italia).
1. L’ente territoriale rileva che tale indirizzo è stato confermato da questa Corte con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007.
Osserva, poi, che non sarebbe
determinante, ai fini del giudizio di legittimità costituzionale in esame, la
comparazione operata dalla rimettente tra il valore agricolo medio per le
colture prevalenti (agrumeto o frutteto), riportate nei dati catastali, e il
valore di mercato del suolo come emergente dagli atti acquisiti dal consulente
di ufficio. Infatti, andrebbe rilevato che il procedimento di formazione delle
tabelle del valore agricolo medio, disciplinato dall’art. 16 legge n. 865 del
1971, sarebbe realizzato da esperti particolarmente qualificati, sicché non
sarebbe possibile contestare in linea di principio la congruenza e la
correttezza delle stime eseguite atte ad individuare i dati per i calcoli
necessari.
In particolare, la cadenza annua fissata
per la compilazione delle tabelle comporterebbe un aggiornamento periodico
delle stime e, quindi, garantirebbe l’aderenza di queste ai dati reali, a
differenza della normativa dettata per le aree edificabili. Ed andrebbe,
altresì, sottolineato, come chiarito di recente anche dalla Corte di
cassazione, che l’indennità di espropriazione per i terreni agricoli «deve
essere determinata secondo i criteri di cui alla L. n. 865 del 1971, artt. 15 e
16, richiamata dalla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 4, ovvero commisurata al valore agricolo medio, secondo
i tipi di coltura effettivamente in atto, contemplati dalle tabelle redatte
dalle competenti commissioni, disapplicabili dal giudice per vizi di
legittimità, e non sostituendo ad esse, per ragioni di opportunità, le proprie
autonome valutazioni» (è richiamata la sentenza della Corte di cassazione,
Sezioni Unite Civili, n. 22753 del 2009).
Inoltre, a prescindere dal rilievo che
manca qualsiasi prova circa la natura dei suoli individuati nell’ordinanza di
rimessione quali parametri di riferimento, sarebbe erronea la presunzione della
Corte di merito, secondo cui si potrebbe valutare la legittimità costituzionale
della normativa in esame con riguardo ad un singolo caso.
Ad avviso del Comune, la questione di
legittimità costituzionale della normativa censurata andrebbe dichiarata
inammissibile, perché esporrebbe argomenti già respinti da questa Corte, e
comunque infondata, anche in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.,
perché formulata sull’indimostrato presupposto che la determinazione
dell’indennità secondo i criteri tabellari conduca in ogni caso alla
liquidazione di un indennizzo in misura irrisoria o, comunque, molto inferiore
al valore di mercato del bene.
Non vi sarebbe dubbio, invece, che un
esproprio compiuto per realizzare una variante generale al piano regolatore di
una città, al fine di garantire il rispetto degli standard urbanistici prescritti dal legislatore nazionale, e che ha
comportato una nuova zonizzazione dell’intero territorio comunale o di parte di
esso, sia sicuramente finalizzata ad una profonda modifica urbanistica "di
pubblica utilità”, per la quale «è consentita una quantificazione
dell’indennizzo inferiore al valore commerciale».
La tesi esposta nell’ordinanza di
rimessione sarebbe basata sul dato apodittico che il valore agricolo medio,
maggiorato attraverso i correttivi dettati dal legislatore, determini
un’indennità meramente simbolica o arbitraria.
Il Comune, poi, contesta i rilievi mossi
dalla Corte territoriale alla sentenza di questa
Corte n. 261 del 1997, richiamando il principio affermato da detta
sentenza, secondo cui «la scelta legislativa non presenta caratteri di
irragionevolezza o di arbitrarietà tali da far riscontrare un vizio sotto i
profili denunciati, né comunque pregiudica di per sé il serio ed effettivo
ristoro del proprietario espropriato». Pertanto, sarebbe privo di pregio
l’assunto che «è la stessa dicotomia immaginata dal legislatore al fine di
semplificare il calcolo dell’indennizzo – e non già la mancata previsione di una
terza tipologia di aree, intermedia tra quelle agricole e quelle edificabili –
che appare priva di giustificazione».
Infatti, come già sottolineato, il
criterio di calcolo dell’indennità di espropriazione per i suoli agricoli o non
aventi attitudini edificatorie contemplerebbe una serie di parametri correttivi
in aumento, proprio allo scopo di giungere ad una individuazione del valore del
bene espropriato prossimo a quello di mercato.
In questo quadro andrebbe dichiarata la
manifesta inammissibilità o la manifesta infondatezza, e in subordine
l’inammissibilità o l’infondatezza, delle questioni sollevate.
8. — La Corte di appello di Lecce, con
ordinanza depositata l’8 ottobre 2010, ha sollevato, in riferimento agli artt.
3 e 117 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, commi 3 e 4, del d.l. n. 333 del
1992, convertito, con modificazioni, dal d.l. n. 333 del 1992, e dell’art. 40,
commi 1 e 2, del d.P.R. n. 327 del 2001.
La Corte distrettuale premette di dover
pronunciare nella controversia promossa da M. G. P. e M. A. (quali eredi di I.
M. C.) nei confronti del Comune di Francavilla Fontana, concernente (tra
l’altro) la determinazione dell’indennità di espropriazione relativa ad un
suolo, già oggetto di cessione volontaria con acconto e riserva di conguaglio e
qualificato non edificatorio dalla medesima Corte di appello con sentenza non
definitiva n. 611 del 2010, pronunciata a seguito di rinvio disposto dalla
Corte di cassazione.
La rimettente ricorda che l’indennità di
espropriazione per i suoli agricoli e, come nella specie, per quelli gravati da
vincolo di inedificabilità va determinata, ai sensi
della normativa vigente all’epoca della cessione, sulla base del «valore
agricolo medio del terreno, a prescindere dalla sua destinazione economica,
quale si determina in base alla media dei valori, nell’anno solare precedente
il provvedimento ablativo, dei terreni ubicati nell’ambito della medesima
regione agraria, nei quali siano praticate le medesime colture in opera nel
fondo espropriato». Ciò per consolidata giurisprudenza della Corte di
cassazione, in applicazione degli artt. 15 e 16 legge n. 865 del 1971 e
successive modificazioni, che devolvono alla commissione provinciale
l’individuazione del valore agricolo medio.
La giurisprudenza avrebbe altresì
puntualizzato, sempre con orientamento univoco, «che il parametro di
riferimento non coincide con il prezzo di mercato del fondo e con il suo valore
venale».
Ad avviso della rimettente,
l’ordinamento si starebbe «evolvendo in senso divergente». In particolare, per
le aree edificabili, a seguito della declaratoria di illegittimità
costituzionale, adottata da questa Corte con la sentenza n. 348 del
2007 e relativa all’art. 5-bis,
commi 1 e 2, d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 359 del 1992, nonché all’art. 37, commi 1 e 2, d.P.R.
n. 327 del 2001, si applicherebbe il criterio del valore di mercato del bene:
ai sensi dell’art. 39 legge n. 2359 del 1865 «nei giudizi di espropriazione in
corso soggetti al regime pregresso»; ai sensi dell’art. 2, comma 89, lettera a), legge n. 244 del 2007, «nei
procedimenti espropriativi in corso».
Pertanto, prima il giudice delle leggi,
poi il legislatore e la giurisprudenza formatasi a seguito dei relativi
interventi, avrebbero preso come "punto di arrivo” – quanto alle aree
edificabili – il valore di mercato del bene; e ciò starebbe a significare che
oggi, per i giudizi in corso, sempre in relazione alle aree predette, il "serio
ristoro”, richiamato in numerose sentenze di questa Corte, sarebbe fatto
coincidere con il prezzo di mercato.
Già sotto questo profilo, la diversa
disciplina di cui alla normativa censurata, disancorata dal prezzo di mercato o
valore venale, applicabile ai suoli agricoli e a quelli (come nella specie)
raggiunti da vincoli di inedificabilità, apparirebbe
irragionevole e, quindi, di dubbia costituzionalità, ai sensi dell’art. 3 Cost.
Il valore agrario, previsto di fatto in
via automatica, potrebbe non rivelarsi un "serio ristoro” e, plausibilmente,
non si rivelerebbe tale nella presente vicenda, avuto riguardo alla qualità e
alla localizzazione del suolo (alla periferia del paese).
Sotto altro aspetto, la questione di
legittimità costituzionale della normativa censurata si porrebbe con riguardo
all’art. 117, primo comma, Cost., costituente il parametro in base al quale
questa Corte pronunciò la declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 348 del
2007.
La rimettente, poi, richiama la
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e il dettato dell’art.
1 del primo protocollo addizionale alla Convenzione europea, rimarcando che
l’osservanza degli obblighi internazionali che ne discendono esigerebbe piena
riparazione del pregiudizio derivante dall’esproprio, anche nel caso di suoli
agricoli o equiparati, mediante la commisurazione dell’indennità al loro valore
di mercato.
9. — Nel giudizio di legittimità
costituzionale è intervenuto, con atto depositato il 19 gennaio 2011, il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente
infondata, sulla base di considerazioni analoghe a quelle esposte con l’atto
d’intervento depositato nel giudizio r. o. n. 305 del 2010 (punto 5, che
precede).
10. — Nei giudizi contrassegnati con i
n. r. o. 305 e del 2010., in prossimità dell’udienza di discussione, il Comune
di Salerno e la parte privata (quest’ultima, però, fuori termine) hanno
depositato memorie illustrative.
Considerato in diritto
1. — La Corte di appello di Napoli
(sezione prima civile, in diversa composizione), con le due ordinanze indicate
in epigrafe, ha sollevato – in riferimento agli articoli 3, 42, terzo comma, e
117, primo comma, della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 5-bis, comma 4,
decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della
finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n.
359, nonché dell’art. 16, commi quarto e quinto (recte: commi quinto e sesto),
legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale
pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche e
integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29
settembre 1964, n.847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari
nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), come
sostituiti dall’art. 14 legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la
edificabilità dei suoli).
A sua volta la Corte di appello di
Lecce, con l’ordinanza del pari indicata in epigrafe, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale del citato art. 5-bis, commi 3 e 4, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, nonché dell’art. 40, commi 1 e 2, d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per
pubblica utilità – Testo A), in riferimento agli artt. 3 e 117 Cost.
Ad avviso delle rimettenti, la normativa
censurata, prevedendo un criterio di determinazione dell’indennità di
esproprio, per i suoli agricoli e per quelli non edificabili, astratto e
predeterminato (qual è quello del valore agricolo medio della coltura in atto o
di quella più redditizia nella regione agraria di appartenenza dell’area da
espropriare), del tutto svincolato dalla considerazione dell’effettivo valore
di mercato dei suoli medesimi e tale da non assicurare all’avente diritto il
versamento di un indennizzo integrale o, quanto meno, "ragionevole”, si
porrebbe in contrasto con l’art. 1, primo protocollo, allegato alla Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
cui è stata data esecuzione con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed
esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e Protocollo
addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), nella
interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, così violando
l’art. 117, primo comma, Cost., rispetto al quale la disposizione convenzionale
opererebbe come norma interposta.
Inoltre, sarebbe violato l’art. 42,
terzo comma, Cost., in quanto, benché il legislatore non sia tenuto ad
individuare un unico criterio di determinazione dell’indennità di esproprio,
valido in ogni fattispecie espropriativa, o ad assicurare l’integrale
riparazione della perdita subita dal proprietario, l’indennità non può mai
essere simbolica o irrisoria, ma deve rappresentare un "serio ristoro”. Per
realizzare tale risultato si dovrebbe fare riferimento «al valore del bene in
relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale
utilizzazione economica di esso», secondo il principio affermato da questa
Corte con la sentenza
n. 5 del 1980 e ribadito con la sentenza n. 348 del
2007, in relazione ai terreni edificabili, ma applicabile, ad avviso delle
rimettenti, anche con riguardo ai terreni agricoli e a quelli non edificabili.
Infine, sarebbe configurabile anche
violazione dell’art. 3 Cost., perché il criterio dettato per i suoli agricoli e
per quelli non edificabili creerebbe una ingiustificata disparità di
trattamento tra i proprietari di questi ultimi e i proprietari di suoli
edificabili, per i quali l’indennizzo va commisurato al valore di mercato (o
venale) dell’area oggetto dell’ablazione.
2. — I tre giudizi di legittimità
costituzionale, per l’identità dell’oggetto e dei parametri evocati, vanno
riuniti e decisi con la medesima sentenza.
3. — L’ordinanza della Corte di appello
di Lecce censura (tra l’altro) l’art. 5-bis,
comma 3, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 359 del 1992.
Detta norma dispone che «Per la
valutazione della edificabilità delle aree, si devono considerare le
possibilità legali ed effettive di edificazione esistenti al momento
dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio».
Come il dettato normativo rivela, si
tratta di disposizione diretta ad individuare i criteri per la valutazione di
edificabilità delle aree. Nel caso di specie, è pacifico, ed emerge
dall’ordinanza di rimessione, che il suolo de
quo, oggetto di cessione volontaria con acconto e riserva di conguaglio, è
stato dichiarato non edificatorio dalla Corte di appello di Lecce con sentenza
non definitiva n. 611 del 2010. Pertanto la Corte rimettente non deve fare
applicazione della norma suddetta, in ordine alla quale, del resto, non si
rinviene nell’ordinanza una specifica motivazione diretta a spiegare le ragioni
della sua evocazione.
Ne deriva che la questione, sollevata
con riferimento al citato art. 5-bis,
comma 3, deve essere dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza.
4. — Ai fini dell’identificazione del thema decidendum,
con riguardo alle norme censurate e ai parametri invocati, si deve osservare
che le due ordinanze della Corte di appello di Napoli, nei rispettivi
dispositivi, censurano (tra l’altro) l’art. 16, commi quarto e quinto, della
legge n. 865 del 1971, come sostituiti dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977.
Peraltro, come emerge in modo chiaro dalle motivazioni delle ordinanze, le
disposizioni impugnate sono quelle dettate dall’art. 16, commi quinto e sesto,
il cui tenore è anche trascritto nelle ordinanze medesime, sicché nessun dubbio
può nutrirsi circa l’oggetto delle questioni, in forza del noto criterio
secondo cui il dispositivo va interpretato in riferimento alla motivazione (sentenza n. 236 del
2009).
A sua volta, l’ordinanza della Corte di
appello di Lecce nel dispositivo solleva la questione di legittimità
costituzionale con riferimento al citato art. 5-bis, comma 4, e all’art. 40, commi 1 e 2, del d.P.R.
n. 327 del 2001, senza menzionare la legge n. 865 del 1971, al cui titolo II il
medesimo art. 5-bis rinvia. Nella
motivazione, però, sono richiamati gli artt. 15 e 16 della legge n. 865 del
1971 e successive modificazioni, «che devolvono alla Commissione provinciale
l’individuazione del valore agricolo medio», mentre le argomentazioni svolte
rendono palese che oggetto delle censure è, per l’appunto, il criterio del
valore agricolo medio, o "valore agrario”, «previsto di fatto in via automatica
e, come tale, non influenzabile da quello venale». Anche in tal caso, dunque,
in base allo stesso principio dianzi indicato, l’oggetto della questione è
agevolmente identificabile.
5. — Le ordinanze di rimessione (a parte
l’accenno contenuto in quella della Corte di appello di Lecce) non coinvolgono
nello scrutinio di legittimità costituzionale l’art. 15 legge n. 865 del 1971,
nel testo sostituito dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977, concernente la
determinazione dell’indennità di espropriazione non accettata nel termine di
cui all’art. 12, primo comma, della medesima legge n. 865 del 1971. Ai sensi di
tale disposizione, su richiesta del presidente della giunta regionale, la
commissione competente per territorio di cui al successivo art. 16 determina
l’indennità, sulla base del valore agricolo con riferimento alle colture
effettivamente praticate sul fondo espropriato, anche in relazione
all’esercizio dell’azienda agricola. Il dettato letterale della norma, dunque,
non richiama il valore agricolo medio. Tuttavia la giurisprudenza della Corte
di cassazione, con indirizzo ormai configurabile come diritto vivente, ha
ripetutamente affermato che gli artt. 15 e 16 della legge n. 865 del 1971 (nel
testo sostituito dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977) vanno letti in
collegamento l’uno con l’altro, sicché il valore agricolo menzionato nell’art.
15, primo comma, secondo periodo, è per l’appunto il valore agricolo medio
contemplato dal combinato disposto delle due norme (ex multis: Cass., sentenza n. 17679 del
2010; Cass., Sezioni Unite Civili, sent. n. 22753 del 2009; Cass., sent. n.
17394 del 2009; Cass., sent. n. 8243 del 2006).
Del resto, anche le ordinanze di
rimessione trattano unitariamente i suoli agricoli e quelli non edificabili,
sicché lo scrutinio di legittimità costituzionale deve essere esteso anche al
citato art. 15, primo comma, secondo periodo, unico essendo per i detti suoli
il criterio di determinazione dell’indennità di espropriazione.
6. — Nel merito, le questioni sono
fondate.
6.1. — In premessa, si deve ricordare
che, ai sensi dell’art. 57 del d.P.R. n. 327 del 2001
«Le disposizioni del presente testo unico non si applicano ai progetti per i
quali, alla data di entrata in vigore dello stesso decreto, sia intervenuta la
dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza. In tal caso
continuano ad applicarsi tutte le normative vigenti a tale data» (fissata al 30
giugno 2003: art. 59 del citato d.P.R.). Nelle
controversie a quibus,
come si evince dalle date dei decreti di esproprio e (quanto all’ordinanza
della Corte di appello di Lecce) dalla data di stipula dell’atto di cessione
volontaria con riserva di conguaglio, le suddette dichiarazioni erano
intervenute in epoca molto risalente, sicché trova applicazione la normativa
censurata, non già l’art. 40, commi 1 e 2, del d.P.R.
n. 327 del 2001, evocato dalla Corte di appello di Lecce, norma della quale
detta Corte non deve fare applicazione.
6.2. — La normativa censurata è dettata
dall’art. 5-bis, comma 4, del d.l. n.
333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992 che,
per la determinazione dell’indennità di espropriazione relativa alle aree
agricole ed a quelle non suscettibili di classificazione edificatoria, rinvia
alle norme di cui al titolo secondo della legge n. 865 del 1971, successive
modificazioni e integrazioni. In particolare, il rinvio è all’art. 16, commi
quinto e sesto, di detta legge, come sostituiti dall’art. 14 della legge n. 10
del 1977.
La norma, per la parte oggetto di
censura, stabilisce che l’indennità di espropriazione, per le aree esterne ai
centri edificati di cui all’art. 18, è commisurata al valore agricolo medio
annualmente calcolato da apposite commissioni provinciali, valore
corrispondente al tipo di coltura in atto nell’area da espropriare (comma quinto);
ed aggiunge che, nelle aree comprese nei centri edificati, l’indennità è
commisurata al valore agricolo medio della coltura più redditizia tra quelle
che, nella regione agraria in cui ricade l’area da espropriare, coprono una
superficie superiore al 5 per cento di quella coltivata della regione agraria
stessa (comma sesto).
Tale disciplina, ad avviso delle
rimettenti, si porrebbe in contrasto con l’art. 1 del primo protocollo
addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali (d’ora in avanti, CEDU), nell’interpretazione datane dalla
Corte europea dei diritti dell’uomo, e quindi violerebbe l’art. 117, primo
comma, Cost., nel testo introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001,
n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).
6.3. — In via preliminare, si deve
ricordare che questa Corte, con le sentenze n. 348 e 349 del 2007,
ha chiarito i rapporti tra il citato art. 117, primo comma, Cost. e le norme
della CEDU, come interpretate dalla Corte europea. I principi metodologici
illustrati nelle menzionate sentenze devono ritenersi in questa sede richiamati.
Alla luce di essi, si deve, dunque, verificare: a) se vi sia contrasto, non
suscettibile di essere risolto in via interpretativa, tra la disciplina
censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed
assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro costituzionale; b) se
le norme della CEDU, invocate come integrazione del parametro (cosiddette norme
interposte), nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano
compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano (sentenza n. 348 del
2007 citate).
Orbene, la Corte europea, con decisione
della Grande Camera in data 29 marzo 2006, ha preso le mosse dal dettato
dell’art. 1 del protocollo n. 1, secondo cui: «Ogni persona fisica o giuridica
ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua
proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste
dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale. Le precedenti
disposizioni non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in
vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in
modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte
o di altri contributi oppure di ammende»
Ha poi stabilito (tra gli altri) i
seguenti principi: a) le tre norme di cui si compone l’art. 1 del protocollo n.
1 sono tra loro collegate, sicché la seconda e la terza, relative a particolari
casi di ingerenza nel diritto al rispetto dei beni, devono essere interpretate
alla luce del principio contenuto nella prima norma (punto 75); b) l’ingerenza
nel diritto al rispetto dei beni deve contemperare un "giusto equilibrio” tra
le esigenze dell’interesse generale della comunità e il requisito della
salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (punto 93); c) nello
stabilire se sia soddisfatto tale requisito, la Corte riconosce che lo Stato
gode di un ampio margine di discrezionalità, sia nello scegliere i mezzi di
attuazione sia nell’accertare se le conseguenze derivanti dall’attuazione siano
giustificate, nell’interesse generale, per il conseguimento delle finalità
della legge che sta alla base dell’espropriazione (punto 94); d) la Corte,
comunque, non può rinunciare al suo potere di riesame e deve determinare se sia
stato mantenuto il necessario equilibrio in modo conforme al diritto dei
ricorrenti al rispetto dei loro beni (punto 94); e) come la Corte ha già
dichiarato, il prendere dei beni senza il pagamento di una somma in ragionevole
rapporto con il loro valore, di norma costituisce un’ingerenza sproporzionata e
la totale mancanza d’indennizzo può essere considerata giustificabile, ai sensi
dell’art. 1 del protocollo n. 1, soltanto in circostanze eccezionali, ancorché
non sempre sia garantita dalla CEDU una riparazione integrale (punto 95); f) in
caso di "espropriazione isolata”, pur se a fini di pubblica utilità, soltanto
una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole con il
bene (punto 96); g) obiettivi legittimi di pubblica utilità, come quelli
perseguiti da misure di riforma economica o da misure tendenti a conseguire una
maggiore giustizia sociale, potrebbero giustificare un indennizzo inferiore al
valore di mercato (punto 97). I principi, stabiliti dalla Corte di Strasburgo
con la menzionata decisione, hanno poi trovato conferma nella giurisprudenza
successiva di detta Corte, che ad essa si è richiamata (tra le più recenti: sentenza
del 19 gennaio 2010, in causa Zuccalà contro Italia;
sentenza
dell’8 dicembre 2009, in causa Vacca contro Italia; sentenza
della Grande Camera del 1°aprile 2008, in causa Gigli Costruzioni s.r.l. contro
Italia).
6.4. — Nella giurisprudenza di questa
Corte è costante l’affermazione che l’indennizzo assicurato all’espropriato
dall’art. 42, terzo comma, Cost., se non deve costituire una integrale
riparazione per la perdita subita – in quanto occorre coordinare il diritto del
privato con l’interesse generale che l’espropriazione mira a realizzare – non
può essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica, ma
deve rappresentare un serio ristoro (ex multis: sentenze n. 173 del 1991;
sentenza n. 1022
del 1988; sentenza
n. 355 del 1985; sentenza n. 223 del
1983; sentenza
n. 5 del 1980). Quest’ultima pronuncia ha chiarito che, per raggiungere
tale finalità, «occorre fare riferimento, per la determinazione
dell’indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche
essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso,
secondo legge. Solo in tal modo può assicurarsi la congruità del ristoro
spettante all’espropriato ed evitare che esso sia meramente apparente o
irrisorio rispetto al valore del bene».
Ad analoghe conclusioni è giunta la già
citata sentenza
n. 348 del 2007, la quale ha ribadito che «deve essere esclusa una valutazione
del tutto astratta, in quanto sganciata dalle caratteristiche essenziali del
bene ablato» (principio già affermato dalla sentenza n. 355 del
1985).
Si deve rilevare, a questo punto, che le
suddette statuizioni riguardano suoli edificabili. Ciò non significa, tuttavia,
che esse non siano applicabili anche ai suoli agricoli ed a quelli non
suscettibili di classificazione edificatoria.
Invero, l’art. 1 del primo protocollo della
CEDU, nelle sue proposizioni, si riferisce con previsione chiaramente generale
ai beni, senza operare distinzioni in ragione della qualitas rei. E non a caso la Corte europea ha posto in risalto proprio
tale previsione generale, stabilendo che alla luce di essa (prima proposizione)
vanno interpretati i disposti della seconda e della terza (sentenza
Scordino contro Italia, punto 78). Del resto, non è ravvisabile alcun
motivo idoneo a giustificare, sotto il profilo qui in esame, un trattamento
differenziato, in presenza di un evento espropriativo, tra i suoli di cui si
tratta (edificabili, da un lato, agricoli o non suscettibili di classificazione
edificatoria, dall’altro). Come la sentenza n. 348 del
2007 ha posto in luce, «sia la giurisprudenza della Corte costituzionale
italiana sia quella della Corte europea concordano nel ritenere che il punto di
riferimento per determinare l’indennità di espropriazione deve essere il valore
di mercato (o venale) del bene ablato». E tale punto
di riferimento non può variare secondo la natura del bene, perché in tal modo
verrebbe meno l’ancoraggio al dato della realtà postulato come necessario per
pervenire alla determinazione di una giusta indennità.
Con ciò non si vuol negare che le aree
edificabili e quelle agricole o non edificabili abbiano carattere non omogeneo.
Si vuole dire che, pure in presenza di tale carattere, anche per i suoli
agricoli o non edificabili sussiste l’esigenza che l’indennità si ponga «in
rapporto ragionevole con il valore del bene».
In senso contrario non varrebbe
richiamare la sentenza
di questa Corte n. 261 del 1997, con la quale fu dichiarata non fondata la
questione di legittimità costituzionale della normativa censurata, in
riferimento agli artt. 3 e 24 e 42, terzo comma, Cost.
Infatti, quella pronuncia è anteriore
alla riforma attuata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3
(Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), sicché nella
fattispecie in essa trattata non poteva essere evocato come parametro
costituzionale il nuovo testo dell’art. 117, primo comma Cost., attualmente
vigente.
7. — Alla luce di detto parametro, in
relazione all’art. 1 del primo protocollo addizionale della CEDU
nell’interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nonché
dell’art. 42, terzo comma, Cost., si deve ora verificare il criterio di calcolo
dell’indennità di espropriazione contemplato dalla normativa censurata, la
quale prevede che, per i suoli agricoli e per quelli non edificabili, la detta
indennità sia commisurata al valore agricolo medio del terreno, secondo la
disciplina dettata dall’art. 16 della legge n. 865 del 1971 e successive
modificazioni. Tale valore è determinato ogni anno, entro il 31 gennaio,
nell’ambito delle singole regioni agrarie, dalle apposite commissioni
provinciali, con le modalità di cui alla norma da ultimo citata (dianzi
richiamate).
Orbene, il valore tabellare così
calcolato prescinde dall’area oggetto del procedimento espropriativo, ignorando
ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del bene. Restano così
trascurate le caratteristiche di posizione del suolo, il valore intrinseco del
terreno (che non si limita alle colture in esso praticate, ma consegue anche
alla presenza di elementi come l’acqua, l’energia elettrica, l’esposizione), la
maggiore o minore perizia nella conduzione del fondo e quant’altro può incidere
sul valore venale di esso. Il criterio, dunque, ha un carattere inevitabilmente
astratto che elude il «ragionevole legame» con il valore di mercato,
«prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del
resto, con il "serio ristoro” richiesto dalla giurisprudenza consolidata di
questa Corte» (sentenza
n. 348 del 2007, citata, punto 5.7 del Considerato
in diritto).
E’ vero che il legislatore non ha il
dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di
mercato del bene ablato e che non sempre è garantita
dalla CEDU una riparazione integrale, come la stessa Corte di Strasburgo ha
affermato, sia pure aggiungendo che in caso di "espropriazione isolata”, pur se
a fini di pubblica utilità, soltanto una riparazione integrale può essere
considerata in rapporto ragionevole con il valore del bene. Tuttavia, proprio
l’esigenza di effettuare una valutazione di congruità dell’indennizzo
espropriativo, determinato applicando eventuali meccanismi di correzione sul
valore di mercato, impone che quest’ultimo sia assunto quale termine di
riferimento dal legislatore (sentenza n. 1165
del 1988), in guisa da garantire il "giusto equilibrio”tra l’interesse
generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli
individui.
Sulla base delle esposte considerazioni
deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale della normativa
censurata, perché in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione
all’art. 1 del primo protocollo addizionale della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, e con l’art. 42, terzo
comma, Cost.
Gli ulteriori profili dedotti in
riferimento all’art. 3 Cost. restano assorbiti.
8. — Ai sensi dell’art. 27 della legge
11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale, in via
consequenziale, dell’art. 40, commi 2 e 3, del d.P.R.
n. 327 del 2001, recante la nuova normativa in materia di espropriazione. Detta
norma, che apre la sezione dedicata alla determinazione dell’indennità nel caso
di esproprio di un’area non edificabile, adotta per tale determinazione, con
riguardo ai commi indicati, il criterio del valore agricolo medio
corrispondente al tipo di coltura prevalente nella zona o in atto nell’area da
espropriare e, quindi, contiene una disciplina che riproduce quella dichiarata
in contrasto con la Costituzione dalla presente sentenza.
La Corte non ritiene di estendere tale
declaratoria anche al comma 1 del citato art. 40. Detto comma concerne
l’esproprio di un’area non edificabile ma coltivata (il caso di area non
coltivata è previsto dal comma 2), e stabilisce che l’indennità definitiva è
determinata in base al criterio del valore agricolo, tenendo conto delle
colture effettivamente praticate sul fondo e del valore dei manufatti edilizi
legittimamente realizzati, anche in relazione all’esercizio dell’azienda
agricola.
La mancata previsione del valore
agricolo medio e il riferimento alle colture effettivamente praticate sul fondo
consentono una interpretazione della norma costituzionalmente orientata,
peraltro demandata ai giudici ordinari.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, del decreto-legge 11
luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica),
convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, in combinato
disposto con gli articoli 15, primo comma, secondo periodo, e 16, commi quinto
e sesto,della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento
dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica
utilità; modifiche e integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile
1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per
interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e
convenzionata), come sostituiti dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10
(Norme per la edificabilità dei suoli);
dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953,
n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale,
dell’articolo 40, commi 2 e 3, decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno
2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di espropriazione per pubblica utilità);
dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 5-bis, comma
3, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359
del 1992, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 117 della Costituzione,
dalla Corte di appello di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno
2011.
F.to:
Paolo MADDALENA, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 giugno 2011.