Sentenza n. 200 del 1986

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SENTENZA N. 200

ANNO 1986

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Prof. Livio PALADIN, Presidente 

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL’ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 387, terzo comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 9 maggio 1984 dalla Corte di cassazione sui ricorsi proposti da Ippolito Francesco e Luberti Francesco, iscritta al n. 928 del registro ordinanze 1984 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 287 dell'anno 1984.

Udito nella camera di consiglio del 23 aprile 1986 il Giudice relatore Giovanni Conso.

Ritenuto in fatto

Con sentenza del 25 ottobre 1983 il Giudice istruttore del Tribunale di Roma dichiarava non doversi procedere nei confronti del dott. Francesco Ippolito e dell'avv. Francesco Luberti, entrambi componenti del Consiglio Superiore della magistratura, in ordine al reato di abuso di ufficio aggravato (così modificata l'originaria imputazione di interesse privato in atti d'ufficio), "perché fatti non sono previsti dalla legge come reato sussistendo la causa di non punibilità di cui all'art. 5 della legge 1981, n. 1".

Entrambi prosciolti proponevano ricorso per cassazione avverso tale sentenza, chiedendone l'annullamento, con o senza rinvio, per molteplici motivi; in via subordinata eccepivano, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, l'illegittimità dell'art. 387, terzo comma, del codice di procedura penale, "nella parte in cui esclude il diritto dell'imputato di proporre appello avverso la sentenza del giudice istruttore che ha dichiarato non doversi procedere perché fatti non sono previsti come reato sussistendo una causa di non punibilità".

Il Procuratore Generale concludeva richiedendo il proscioglimento degli imputati perché il fatto non sussiste: sarebbe stato, infatti, possibile "correggere vizi" della sentenza impugnata così da adeguare la formula di proscioglimento alla verità processuale, donde la "perdita di rilevanza" della questione di legittimità costituzionale.

Con ordinanza del 9 maggio 1984, la Corte di cassazione, premesso che l'esame circa la fondatezza delle affermazioni contenute nella sentenza impugnata in ordine alla ritenuta sussistenza dei fatti integranti il reato di abuso d'ufficio, attenendo "in definitiva alla valutazione delle prove", doveva ritenersi precluso in sede di legittimità e che, pur tuttavia, non poteva disconoscersi "l'esigenza in sede di impugnazione di un più approfondito riesame del merito della sentenza", ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, la questione di legittimità dell'art. 387, terzo comma, del codice di procedura penale, "nella parte in cui esclude il diritto dell'imputato di proporre appello avverso la sentenza del giudice istruttore che ha dichiarato non doversi procedere perché il fatto non costituisce reato per la presenza di una causa di non punibilità (nella specie, la causa di non punibilità specifica di cui all'art. 32 - bis della legge 24 marzo 1958, n. 195)".

In punto di rilevanza, si osserva che l'accoglimento della questione di legittimità costituzionale consentirebbe agli imputati di ottenere un riesame del fatto ben più ampio di quello ammesso in sede di legittimità (con la possibilità di conseguire un provvedimento più favorevole); si aggiunge che la norma impugnata incide concretamente - data la sua natura processuale - sul corso del processo, sul compimento e sull'efficacia degli atti del medesimo, nonché sulla sfera dei poteri e dei doveri delle parti e del giudice, perché il giudizio non può proseguire se non viene prima identificato il giudice competente a conoscere dell'impugnazione avverso la sentenza istruttoria che applichi una "causa di non punibilità".

Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, la Corte di cassazione richiama la sentenza costituzionale n. 224 del 1983, cogliendo precise analogie fra l'ipotesi ivi decisa e quella della sentenza istruttoria, che "riconosciuta la presenza degli elementi positivi oggettivi e soggettivi del reato, proscioglie in virtù della presenza di una causa di giustificazione".

Dalla sentenza n. 224 del 1983, oltre che dalle sentenze n. 70 del 1975, n. 73 del 1978, n. 72 del 1979, n. 53 del 1981, con le quali la Corte ha già notevolmente circoscritto limiti all'appello dell'imputato avverso sentenze di proscioglimento per estinzione del reato, sarebbe ricavabile il principio che "vi é violazione dei diritti della difesa se all'imputato, prosciolto dopo un esame del merito che ne abbia sostanzialmente accertato la responsabilità, non é riconosciuto il diritto di appellare al fine di ottenere un completo riesame del merito, e che vi é disparità di trattamento tra l'imputato al quale l'appello non é consentito e il P.M. al quale l'appello é consentito in ogni caso". Enunciato in relazione al proscioglimento per estinzione del reato, tale principio sembrerebbe "ugualmente se non maggiormente valido anche con riferimento ad altri casi di proscioglimento caratterizzati da un previo riconoscimento di colpevolezza, come appunto nei casi in cui il giudice abbia, dopo l'esame del merito, accertato la sussistenza di tutti gli elementi di un reato, ma si sia astenuto dal rinviare a giudizio per la presenza di una causa di non punibilità": ipotesi che si é verificata nella specie, dato che il giudice istruttore, dopo una complessa istruttoria, ha ritenuto sussistente un reato diverso da quello enunciato nel mandato di comparizione, affermando testualmente che "i comportamenti di entrambi consiglieri... si prestano ad essere considerati, sul piano oggettivo... come abuso di ufficio, e sul piano soggettivo, quali rivelatori dell'intento di nuocere. Pertanto la formula decisoria... che si attaglia alle risultanze istruttorie non può essere ampiamente liberatoria bensì quella contemplata dall'art. 5 della legge 1981 n. 1 con riferimento all'ipotesi di cui all'art. 323 cod. pen.".

In conclusione, sembrerebbe innegabile anche in casi come quello di specie l'interesse dell'imputato ad ottenere il proscioglimento con una formula più favorevole. Di qui il contrasto con parametri sopra indicati conseguente alla preclusione dell'appello: infatti, la sentenza che dichiara non doversi procedere per la presenza di una causa di non punibilità presuppone necessariamente un esame ed una valutazione in senso sfavorevole del merito e l'esclusione della possibilità di proscioglimento con formula più favorevole.

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 287 del 17 ottobre 1984.

Nel giudizio non si sono costituite le parti private né ha spiegato intervento la Presidenza del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1. - L'ordinanza della Corte di cassazione sottopone a controllo di legittimità costituzionale l'art. 387, terzo comma, del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, "nella parte in cui esclude il diritto dell'imputato di proporre appello avverso la sentenza del giudice istruttore che ha dichiarato non doversi procedere perché il fatto non costituisce reato per la presenza di una causa di non punibilità".

2. - Una puntualizzazione si rende necessaria in via preliminare, per tenere nel debito conto le modificazioni apportate al codice di procedura penale dalla legge 18 giugno 1955, n. 517. Se prima di tali modificazioni in nessun caso era prevista l'appellabilità, da parte dell'imputato, della sentenza dichiarativa di non doversi procedere perché il fatto non costituisce reato per la presenza di una causa di non punibilità, dopo di esse la situazione si é presentata in termini sensibilmente diversi. Fra l'altro, l'art. 19 della legge n. 517 del 1955 ha innovato l'art. 387, terzo comma, del codice di procedura penale nel senso che, "se l'imputazione riguardava un delitto o una contravvenzione punibile con l'arresto" (limite non in discussione nella presente sede, oltretutto per ragioni di rilevanza), "l'imputato può appellare alla sezione istruttoria contro la sentenza del giudice istruttore" non solo "quando é stato dichiarato non doversi procedere per insufficienza di prove o per concessione del perdono giudiziale", ma anche quando é stato dichiarato non doversi procedere "perché trattasi di persona non imputabile o di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato, se é stata applicata o può con provvedimento successivo essere applicata una misura di sicurezza".

Pertanto, la questione dedotta ha per oggetto, più precisamente, la parte in cui il comma in esame esclude il diritto dell'imputato di proporre appello avverso la sentenza del giudice istruttore che ha dichiarato non doversi procedere "perché trattasi di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato", qualora non sia stata applicata né possa, con provvedimento successivo, essere applicata una misura di sicurezza.

3. - Una seconda puntualizzazione concerne significati e contenuti della formula di proscioglimento che contraddistingue le sentenze con le quali viene dichiarato non doversi procedere "perché trattasi di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato".

Posto che tale formula non risulta usata in modo univoco dal legislatore, occorre distinguere la portata che essa assume nell'art. 387, terzo comma, del codice di procedura penale (come negli analoghi artt. 399, primo comma, 512 n. 2 e 513 n. 2 dello stesso codice, dedicati alle impugnazioni delle sentenze di proscioglimento emanate da giudici diversi dal giudice istruttore) dalla portata, più circoscritta, che la stessa formula riveste nell'art. 378, primo comma, del codice di procedura penale (attinente, come l'analogo art. 479, primo comma, dello stesso codice, alla pronuncia delle sentenze di proscioglimento), ove si parla di "persona non punibile, perché il fatto non costituisce reato o per un'altra ragione". Dal raffronto emerge chiaramente che quanto dall'art. 378, primo comma, viene ricompreso nell'ambito del "non punibile per un'altra ragione" deve ritenersi sussunto dall'art. 387, terzo comma, nel l'ambito del "non punibile perché il fatto non costituisce reato".

Non meno significativo si rivela il raffronto con l'art. 152 del codice di procedura penale, che, nel disciplinare in via generale la "declaratoria di determinate cause di non punibilità", non contiene nei suoi due commi alcun cenno alla formula "perché il fatto non costituisce reato" (e nemmeno alla formula "perché la persona non é imputabile", normalmente affiancata ad essa), utilizzando, invece, entrambe le volte la formula "perché il fatto non é preveduto dalla legge come reato", a sua volta del tutto assente tanto negli artt. 387 (399,512 e 513) quanto negli artt. 378 (e 479). Ciò ha indotto questa Corte (sentenza n. 175 del 1971) a recepire l'interpretazione giurisprudenziale e dottrinale che con larga prevalenza attribuisce alla formula "perché il fatto non é preveduto dalla legge come reato", quale utilizzata dall'art. 152, "un significato generico, comprensivo non solo delle ipotesi del difetto di una qualsiasi norma penale cui possa ricondursi il fatto imputato, ma anche di quelle di mancanza delle condizioni di imputabilità o di punibilità rispetto a cui il fatto, pur se astrattamente previsto dalla legge penale, risulta giuridicamente irrilevante al fine dell'applicabilità di questa, e quindi del tutto equivalente all'altra".

Rispetto alle formule "perché il fatto non sussiste" e "perché l'imputato non l'ha commesso", dirette a rimarcare l'una l'insussistenza materiale del fatto storico e l'altra la totale estraneità dell'imputato, la formula "perché il fatto non costituisce reato" si caratterizza in quanto proscioglimento che, pur riconoscendo la sussistenza della materialità del fatto storico e la sua riferibilità all'imputato, esclude la punibilità per la mancanza dell'elemento soggettivo oppure per la presenza di una causa di esclusione dell'antigiuridicità o di una causa di esclusione della punibilità.

4. - Ad avviso della Corte di cassazione, il tipo di formula di proscioglimento così individuata non può mai dirsi "ampiamente liberatoria", qualunque sia la particolare causa che di volta in volta ne comporti l'adozione, compresa ovviamente quella (v. in proposito sentenza n. 148 del 1983) ravvisata nella specie dalla pronuncia istruttoria sottoposta a ricorso: "sembra perciò innegabile l'interesse dell'imputato ad ottenere" il proscioglimento con la più favorevole formula "perché il fatto non sussiste" o "perché l'imputato non l 'ha commesso". Pertanto, "la preclusione dell'appello si risolverebbe non solo in una non giustificata disparità di trattamento tra due parti del processo, P. M. e imputato (art. 3 Cost.), ma anche in un impedimento all'esercizio della difesa in ogni stato e grado del procedimento (art. 24, secondo comma, Cost.): il tutto sulla base del principio - da questa Corte più volte enunciato in relazione al proscioglimento per estinzione del reato - "che vi é violazione dei diritti della difesa se all'imputato, prosciolto dopo un esame del merito che ne abbia sostanzialmente accertato la responsabilità, non é riconosciuto il diritto di appellare al fine di ottenere un completo riesame del merito, e che vi é disparità di trattamento tra l'imputato al quale l'appello non é consentito e il P.M. al quale l'appello é consentito in ogni caso". Tale principio - che ha, fra l'altro, comportato la declaratoria di illegittimità costituzionale dello stesso art. 387, terzo comma, del codice di procedura penale, "nella parte in cui esclude il diritto dell'imputato di pro porre appello, ai fini e nei limiti di cui all'art. 152, comma secondo, cod. proc. pen., avverso la sentenza del Giudice istruttore, che lo abbia prosciolto per estinzione del reato per amnistia o prescrizione" (sentenza n. 224 del 1983) - sarebbe, ad avviso del giudice a quo, ugualmente, se non maggiormente, valido riguardo ai "casi in cui il Giudice abbia, dopo l'esame del merito, accertato la sussistenza di tutti gli elementi di un reato, ma si sia astenuto dal rinviare a giudizio per la presenza di una causa di non punibilità".

La questione é fondata.

5. - Come questa Corte ha ripetutamente affermato (sentenze n. 70 del 1975, n. 73 del 1978, n. 72 del 1979, n. 53 del 1981, n. 224 del 1983) ed ancora di recente ribadito (sentenze n. 299 del 1985, n. 110 del 1986), le norme processuali penali che negano all'imputato il diritto di proporre appello contro provvedimenti suscettibili di essere appellati dal pubblico ministero violano congiuntamente gli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, quando si tratti di provvedimenti dei quali pure l'imputato possa avere ragione di lamentarsi: la disparità di trattamento, non potendo giustificarsi né con "la peculiare posizione istituzionale e la funzione assegnata" al pubblico ministero né con "le esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia e di rilievo costituzionale" (sentenze n. 190 del 1970, n. 155 del 1974, n. 110 del 1986), "turba il necessario equilibrio del contraddittorio ed in tal senso viola anche il principio del diritto di difesa" (sentenza n. 224 del 1983). Da ciò "la necessità di ristabilire la par condicio tra imputato e pubblica accusa" (sentenze n. 62 del 1981, n. 110 del 1986), nell'ottica di "un " equo processo " fondato, tra l'altro, sulla uguaglianza delle parti, sulla "egalité des armes "" (sentenza n. 62 del 1981).

In particolare, l'interesse dell'imputato a dolersi anche per motivi di merito, con conseguente diritto ad un riesame dei fatti, più ampio di quello che può compiere il giudice di legittimità, é stato riconosciuto nei confronti delle sentenze di proscioglimento istruttorio per estinzione del reato a seguito di amnistia o di prescrizione, dato che esse "possono arrecare agli imputati pregiudizi di ordine morale e di ordine giuridico" (sentenza n. 224 del 1983).

Le stesse considerazioni e, quindi, le stesse conseguenze sarebbero estensibili, secondo il giudice a quo, alle sentenze istruttorie di proscioglimento "perché trattasi di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato", stante la loro idoneità ad arrecare pregiudizio all'imputato.

6. - Poiché l'esistenza di un concreto interesse ad impugnare é sempre il risultato di una valutazione demandata al giudice ordinario, e più precisamente al giudice investito dell'impugnazione, cui compete, fra l'altro, di dichiararne l'inammissibilità "quando risulta che l'impugnazione fu proposta da chi non vi aveva interesse" (art. 209 del codice di procedura penale, in relazione all'art. 190, quarto comma, dello stesso codice), l'avere il giudice a quo affermato l'esistenza di un interesse dell'imputato a dolersi della formula di proscioglimento in esame dovrebbe comportare l'illegittimità costituzionale della norma che non consente all'imputato di proporre nei confronti della relativa pronuncia di non doversi procedere l'appello consentito, invece, al pubblico ministero.

Si potrebbe, anzi, affermare, in termini più generali, che, ogni qualvolta la Corte di cassazione ritenga ammissibile il ricorso proposto dall'imputato contro una sentenza di primo grado appellabile soltanto dal pubblico ministero, l'implicito riconoscimento così operato di un interesse dell'imputato a dolersi del provvedimento assoggettato a ricorso dovrebbe comportare l'illegittimità costituzionale della specifica norma che non estende il diritto di appellare anche all'imputato.

Ad ulteriore conferma vi sarebbe, infine, la considerazione che, tutte le volte in cui un provvedimento di primo grado soltanto ricorribile per cassazione da parte dell'imputato sia contemporaneamente appellato dal pubblico ministero, il ricorso dell'imputato si intende convertito in appello, non potendosi di certo escludere l'interesse all'appello, una volta riconosciuto l'interesse a proporre il ricorso per cassazione e, quindi, ad impugnare.

L'ordinanza di rimessione non si é, peraltro, limitata ad affermare l'esistenza di un interesse dell'imputato a proporre appello contro la sentenza di proscioglimento "perché il fatto non costituisce reato", ma ne ha dato motivazione, ravvisando tale interesse nella possibilità di ottenere il proscioglimento con "una formula più favorevole" - quale, appunto, quella "perché il fatto non sussiste" o quella "perché l'imputato non l'ha commesso" - in grado di escludere la sussistenza materiale del fatto storico o la sua riferibilità all'imputato.

7. - Tutto ciò trova larga eco nella giurisprudenza di questa Corte: dalla più generale affermazione che la gerarchia delle formule di proscioglimento é una gerarchia "da determinare in considerazione dell'interesse dell'imputato a venire assolto con l'impiego di quella fra esse che risulti produttiva degli effetti per lui meno pregiudizievoli" (sentenza n. 175 del 1971) alla più specifica constatazione che "in tutte" le ipotesi di proscioglimento - "escluse le pronunce emesse perché il fatto non sussiste o non é stato commesso dal prevenuto", le uniche per cui manca ogni interesse ad impugnare - il legislatore "attribuisce all'imputato un fatto, o non esclude l'attribuzione di un fatto, che può non costituire reato ma tuttavia essere giudicato sfavorevolmente dall'opinione pubblica o comunque dalla coscienza sociale" (sentenza n. 151 del 1967).

Proprio sulla base del rilievo che in tali casi il proscioglimento istruttorio "può ferire la dignità del cittadino allo stesso modo d'una pronuncia di rinvio a giudizio", per giunta escludendo, diversamente da quest'ultima, "una seconda fase nella quale, entro lo stesso grado del giudizio, si possa porre immediato rimedio a quel male", la sentenza da ultimo richiamata (in proposito v. anche sentenza n. 224 del 1983) era pervenuta a dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 376 del codice di procedura penale, nonché, ex art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale degli artt. 395, quarto comma, e 398, terzo comma, dello stesso codice, nelle rispettive parti in cui non si "prevede la contestazione del fatto e l'interrogatorio dell'imputato ai fini del proscioglimento con formula diversa da quella che il fatto non sussiste o non sia stato commesso dall'imputato", l'unica "appagante l'interesse morale dell'imputato" (sentenza n. 5 del 1975). Come é stato efficacemente rimarcato anche in dottrina, soltanto nei casi di proscioglimento con formula pienamente liberatoria in fatto si potrebbe essere sicuri della mancanza di ogni pregiudizio (attuale o potenziale) per il prosciolto.

8. - Si deve, quindi, concludere nel senso dell'illegittimità costituzionale dell'art. 387, terzo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non riconosce all'imputato il diritto di proporre appello contro la sentenza del giudice istruttore che abbia dichiarato non doversi procedere "perché trattasi di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato", qualora non sia stata applicata né possa, con provvedimento successivo, essere applicata una misura di sicurezza.

La conseguente equiparazione, ai fini dell'appellabilità anche da parte dell'imputato, di tutte le sentenze istruttorie pronunciate con la formula "perché trattasi di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato", sia stata o no applicata e possa o no, con provvedimento successivo, essere applicata una misura di sicurezza, così superando la distinzione introdotta dall'art. 19 della legge 18 giugno 1955, n. 517 (v. punto 2), richiama alla memoria le prime iniziative parlamentari per l'aggiornamento del codice di procedura penale (proposta di legge d'iniziativa dei deputati Leone, Riccio, Bellavista ed Amatucci, annunziata il 13 marzo 1952, n. 2258 della legislatura; proposta di legge d'iniziativa dei deputati Leone, Riccio ed Amatucci, annunziata il 25 luglio 1953, n. 30 della II legislatura, poi trasfusa, per la parte che qui interessa, nel disegno governativo n. 3008, approvato all'unanimità in sede legislativa dalla 3à commissione della Camera dei deputati nella seduta del 25 marzo 1953, secondo il testo coordinato da un apposito comitato e concordato con il Governo). Tali iniziative avevano, infatti, perseguito la sostituzione dell'originario art. 387, terzo comma, del codice di procedura penale nel senso di stabilire, fra l'altro, che "l'imputato può appellare alla sezione istruttoria contro la sentenza del giudice istruttore... quando é stato dichiarato non doversi procedere perché trattasi... di persona non punibile perché il fatto non costituisce

reato".

Il condizionamento di tale disposto alla concomitante applicazione o alla successiva applicabilità di una misura di sicurezza fu successivamente inserito (v. disegno di legge presentato dal Ministro di grazia e giustizia De Pietro alla Camera dei deputati nella seduta del 3 agosto 1954, n. 1121 della II legislatura) per la dichiarata preoccupazione di evitare "eventuali ripercussioni sfavorevoli sui diritti dei terzi": una preoccupazione ormai comunque superata dalle pronunce di illegittimità costituzionale contenute nelle sentenze n. 55 del 1971, n. 99 del 1973 e n. 165 del 1975.

9. - Una volta dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 387, terzo comma, del codice di procedura penale nei termini dei quali si é detto, deve essere dichiarata d'ufficio, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 399, primo comma, del codice di procedura penale, quale sostituito dapprima ad opera dell'art. 19 della legge 18 giugno 1955, n. 517, e poi ad opera dell'art. 11 della legge 31 luglio 1984, n. 400, nella parte in cui, del tutto analogamente all'art. 387, terzo comma, del codice di procedura penale, riconosce all'imputato il diritto di appellare contro la sentenza istruttoria del pretore che abbia dichiarato non doversi procedere "perché trattasi di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato" soltanto "se é stata applicata o può con provvedimento successivo essere applicata una misura di sicurezza".

10. - Occorre, altresì, far luogo all'applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87: A) nei confronti dell'art. 512 n. 2 del codice di procedura penale, quale sostituito dapprima ad opera dell'art. 19 della legge 18 giugno 1955, n. 517, poi ad opera dell'art. 134 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ed infine ad opera dell'art. 3 della legge 31 luglio 1984, n. 400, nella parte in cui, del tutto analogamente all'art. 387, terzo comma, del codice di procedura penale, riconosce all'imputato il diritto di appellare contro la sentenza del pretore che al termine del giudizio l'abbia prosciolto "perché si tratta di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato" soltanto "se é stata applicata o può, con provvedimento successivo, essere applicata una misura di sicurezza".

B) nei confronti dell'art. 513 n. 2 del codice di procedura penale, quale sostituito dapprima ad opera dell'art. 19 della legge 18 giugno 1955, n. 517, poi ad opera dell'art. 135 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ed infine ad opera dell'art. 4 della legge 31 luglio 1984, n. 400, nella parte in cui, del tutto analogamente all'art. 387, terzo comma, del codice di procedura penale, riconosce all'imputato il diritto di appellare contro la sentenza del tribunale o della corte di assise che l'abbia prosciolto con la formula "perché si tratta di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato" soltanto "se é stata applicata o può, con provvedimento successivo, essere applicata una misura di sicurezza".

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 387, terzo comma, del codice di procedura penale (nel testo sostituito ad opera dell'art. 19 della legge 18 giugno 1955, n. 517), nella parte in cui riconosce all'imputato il diritto di proporre appello contro la sentenza del giudice istruttore che abbia dichiarato non doversi procedere "perché trattasi di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato" limitatamente alle ipotesi nelle quali sia stata applicata o possa, con provvedimento successivo, essere applicata una misura di sicurezza;

b) dichiara d'ufficio, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 399, primo comma, del codice di procedura penale (nel testo sostituito dapprima ad opera dell'art. 19 della legge 18 giugno 1955, n. 517, e poi ad opera dell'art. 11 della legge 31 luglio 1984, n. 400), nella parte in cui riconosce all'imputato il diritto di proporre appello contro la sentenza del pretore che abbia dichiarato non doversi procedere "perché trattasi di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato" limitatamente alle ipotesi nelle quali sia stata applicata o possa, con provvedimento successivo, essere applicata una misura di sicurezza;

c) dichiara d'ufficio, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 512 n. 2 del codice di procedura penale (nel testo dapprima sostituito ad opera dell'art. 19 della legge 18 giugno 1955, n. 517, poi ad opera dell'art. 134 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ed infine ad opera dell'art. 3 della legge 31 luglio 1984, n. 400), nella parte in cui riconosce all'imputato il diritto di proporre appello contro la sentenza del pretore che l'abbia prosciolto "perché si tratta di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato" limitatamente alle ipotesi nelle quali sia stata applicata o possa, con procedimento successivo, essere applicata una misura di sicurezza;

d) dichiara d'ufficio, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 513 n. 2 del codice di procedura penale (nel testo dapprima sostituito ad opera dell'art. 19 della legge 18 giugno 1955, n. 517, poi ad opera dell'art. 135 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ed infine ad opera dell'art. 4 della legge 31 luglio 1984, n. 400), nella parte in cui riconosce all'imputato il diritto di proporre appello contro la sentenza del tribunale o della corte d'assise che l'abbia prosciolto "perché si tratta di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato" limitatamente alle ipotesi nelle quali sia stata applicata o possa, con provvedimento successivo, essere applicata una misura di sicurezza.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 1 luglio 1986.

 

Livio PALADIN - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Renato DELL’ANDRO – Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA

 

Depositata in cancelleria il 15 luglio 1986.