SENTENZA N. 45
ANNO 2024
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da:
Presidente: Augusto Antonio BARBERA;
Giudici: Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 35 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), promosso dal Giudice di pace di Forlì nel procedimento penale a carico di T. T., con ordinanza del 12 dicembre 2022, iscritta al n. 8 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2023, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 20 febbraio 2024.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 2024 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;
deliberato nella camera di consiglio del 21 febbraio 2024.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 12 dicembre 2022, iscritta al n. 8 del registro ordinanze 2023, il Giudice di pace di Forlì ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 35 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui prevede che l’imputato possa procedere alla riparazione del danno cagionato dal reato solo prima dell’udienza di comparizione, anziché entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento.
1.1.– In punto di fatto, il rimettente riferisce di dover procedere nei confronti di una persona imputata del reato di percosse (art. 581 del codice penale), attribuito alla competenza del giudice di pace (art. 4, comma 1, lettera a, del d.lgs. n. 274 del 2000), perché a seguito di un diverbio scaturito per motivi inerenti la circolazione stradale, colpiva con un pugno al volto la persona offesa, senza che dal fatto derivasse una malattia nel corpo o nella mente.
In particolare, il Giudice di pace evidenzia che all’udienza di comparizione svoltasi il 21 giugno 2021, le parti dichiaravano che erano pendenti trattative e chiedevano un rinvio per la loro definizione; alla successiva udienza del 25 ottobre 2021, veniva confermata la pendenza delle trattative e, contestualmente, il difensore dell’imputato formulava istanza di definizione del giudizio ex art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000, riservandosi di formulare l’offerta risarcitoria. Dopo un rinvio disposto per impedimento della difesa, all’udienza del 28 febbraio 2022, prima della formale dichiarazione di apertura del dibattimento, l’imputato formulava banco iudicis l’offerta della somma di trecento euro a titolo risarcitorio, che non veniva ritenuta congrua dalla persona offesa querelante, mentre il pubblico ministero si dichiarava favorevole all’accoglimento.
Ma, prima di ogni valutazione sull’adeguatezza di tale offerta, il giudice osservava che la stessa sarebbe comunque tardiva perché formulata nel corso dell’udienza di comparizione, anziché prima; a fronte di ciò, il difensore dell’imputato eccepiva l’illegittimità costituzionale dell’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000, per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede che l’offerta risarcitoria possa essere effettuata fino al momento dell’apertura del dibattimento.
Alla successiva udienza del 12 dicembre 2022, il Giudice di pace di Forlì, in accoglimento di tale eccezione, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000, in riferimento all’art. 3 Cost.
1.2.– Ad avviso del rimettente, la disposizione censurata, nello stabilire che l’imputato debba dimostrare di aver proceduto alla condotta riparatoria prima dell’udienza di comparizione, determinerebbe la violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento tra colui che deve essere giudicato per la commissione di un reato rientrante nella competenza del giudice di pace e l’imputato che provveda alla riparazione del danno cagionato per effetto di un reato attribuito alla competenza del tribunale. In tale ultimo caso, infatti, l’analogo istituto di cui all’art. 162-ter cod. pen. (introdotto dall’art. 1, comma 1, della legge 23 giugno 2017, n. 103, recante «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario»), per i reati di competenza del tribunale, consente di accedere alla dichiarazione di estinzione del reato, se l’imputato abbia interamente riparato il danno entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento.
Per il giudice rimettente, i due istituti – introdotti in momenti diversi – presenterebbero numerose similitudini, in quanto si applicano a reati procedibili a querela; in entrambi i casi l’imputato deve dare dimostrazione di avere riparato il danno cagionato alla persona offesa e di avere eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato; inoltre, entrambe le disposizioni prevedono che il giudice debba valutare la congruità del risarcimento anche se la persona offesa non abbia accettato l’offerta risarcitoria; infine, in relazione ad entrambe le fattispecie il giudice dichiara l’estinzione del reato, in caso di esito positivo delle condotte risarcitorie.
Ciò nonostante, soltanto l’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000 richiede l’anteriorità della riparazione del danno rispetto all’udienza di comparizione, mentre nei giudizi innanzi al tribunale il termine massimo per la condotta riparatoria è quello successivo della dichiarazione di apertura del dibattimento.
Sotto tale profilo, il rimettente richiama la sentenza n. 206 del 2011 di questa Corte secondo cui lo «“sbarramento” procedimentale rappresentato dall’udienza di comparizione […] risponde non solo alla logica deflattiva, che pure caratterizza la disciplina dettata dall’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000, ma altresì alla necessità di assicurare, per riprendere un’espressione utilizzata dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., Sez. V, n. 41297 del 26 settembre 2008), la “spontaneità” della condotta dell’imputato»; aggiungendo che «[è] in questa prospettiva, del resto, che la Corte di cassazione ha letto l’analogo “sbarramento” previsto dall’art. 62, numero 6), cod. pen. (che prevede, come circostanza attenuante, la riparazione del danno prima del giudizio), ritenendo che lo stesso non dia luogo ad una “irragionevole compressione del diritto di difesa”, ma si ponga “in sintonia con la ratio dell’attenuante, che è di dare rilevanza solo a comportamenti che, precedendo gli sviluppi del giudizio e i condizionamenti derivanti dalle connesse, contingenti esigenze difensive, possano considerarsi sintomatici di ravvedimento” (Cass. pen., Sez. I, n. 3340 del 13 gennaio 1995)».
Tuttavia, afferma il rimettente, con il progressivo affermarsi dei princìpi in tema di giustizia riparativa e con la previsione anche per i reati di competenza del tribunale, attraverso l’art. 162-ter cod. pen., del medesimo istituto previsto dall’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000, il diverso termine non sarebbe più giustificabile, dando luogo ad una ingiustificata disparità, potendo solo nei procedimenti innanzi al tribunale l’imputato beneficiare di un termine più ampio per evitare la celebrazione del processo e l’inflizione della pena; mentre quello di un reato di competenza del giudice di pace per ottenere il beneficio dell’estinzione del reato deve aver provveduto alle riparazioni ancor prima dell’udienza di comparizione.
A conforto della disparità segnalata il rimettente rimarca come, in entrambi i giudizi, la spontaneità della condotta riparativa e la valutazione del sincero ravvedimento sarebbero comunque garantiti dall’anteriorità della condotta riparatoria rispetto all’espletamento dell’attività istruttoria.
Inoltre, la previsione dello sbarramento anticipato sarebbe di per sé irragionevole, in quanto in contrasto con la ratio del processo innanzi al giudice di pace, il quale risponde in via prioritaria a logiche conciliative, proprio per la minore gravità dei reati trattati.
1.3.– Quanto alla rilevanza della questione di legittimità costituzionale, il rimettente evidenzia che «l’imputato ha formulato l’offerta risarcitoria astrattamente idonea ad eliminare il danno conseguente al reato contestato, dopo la prima udienza, ma comunque prima della dichiarazione di apertura del dibattimento» con la conseguenza che la questione di legittimità costituzionale si pone come preliminare per la prosecuzione del giudizio, in rapporto alla disciplina di cui all’art.162-ter cod. pen., concernente un caso sostanzialmente identico.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, non fondata.
2.1.– In primo luogo, la difesa statale sostiene che l’ordinanza di rimessione difetterebbe di motivazione in ordine alla idoneità della condotta riparatoria dell’imputato a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione; tale accertamento sarebbe espressamente richiesto dal comma 2 dell’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000.
In punto di merito, poi, l’Avvocatura osserva come l’assunto della piena equiparazione tra la causa di estinzione di cui all’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000 e quella prevista dall’art. 162-ter cod. pen. sia destituito di fondamento, in quanto si tratta di istituti con profonde differenze strutturali: mentre, infatti, ai sensi del comma 2 dell’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000, le condotte riparative devono essere idonee a soddisfare le esigenze di prevenzione, l’art. 162-ter cod. pen. pretende l’integralità del risarcimento.
Inoltre, la citata sentenza di questa Corte n. 206 del 2011, ad avviso dell’Avvocatura, avrebbe giustificato lo sbarramento procedimentale rappresentato dall’udienza di comparizione, il quale oltre a perseguire una finalità deflattiva, connotante l’istituto in questione, risponde anche «alla necessità di assicurare, per riprendere un’espressione utilizzata dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., Sez. V, n. 41297 del 26 settembre 2008), la “spontaneità” della condotta dell’imputato».
Pertanto, la disposizione censurata – nel prevedere che l’imputato debba procedere alla riparazione del danno prima dell’udienza di comparizione – in quanto tesa a consentire al giudice di verificare la spontaneità della condotta, non si porrebbe in contrasto con il parametro costituzionale evocato, vieppiù considerando che il giudice può disporre la sospensione dell’udienza per consentire all’imputato di adottare la condotta riparativa ove non gli sia stato possibile farlo in precedenza.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 12 dicembre 2022 (reg. ord. n. 8 del 2023), il Giudice di pace di Forlì ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000, nella parte in cui prevede, per i reati rientranti nella competenza del giudice di pace, che l’imputato possa procedere alla riparazione del danno cagionato dal reato solo prima dell’udienza di comparizione, anziché entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento.
Il rimettente, premesso di procedere nei confronti di una persona imputata del reato di percosse (art. 581 cod. pen.), riferisce che nel corso dell’udienza di comparizione, svoltasi in più date per effetto di alcuni rinvii, il difensore dell’imputato formulava istanza di definizione del giudizio ex art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000 e, prima della formale dichiarazione di apertura del dibattimento, l’imputato effettuava banco iudicis l’offerta della somma di trecento euro a titolo risarcitorio, somma che non veniva ritenuta congrua dalla persona offesa.
Il rimettente, riscontrata la non tempestività dell’offerta in quanto formulata all’udienza di comparizione anziché prima, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000, nei termini sopra indicati, accogliendo l’eccezione della difesa dell’imputato.
In punto di non manifesta infondatezza, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza, in quanto, stante l’affinità tra l’istituto di cui all’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000 (rubricato «Estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie») e l’art. 162-ter cod. pen. («Estinzione del reato per condotte riparatorie») determinerebbe una disparità di trattamento tra l’imputato che provveda alla riparazione del danno cagionato per la commissione di un reato rientrante nella competenza del giudice di pace e l’imputato che provveda alla riparazione del danno cagionato per effetto di un reato attribuito alla competenza del tribunale, in relazione al quale è stabilito che vi possa adempiere entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento.
Secondo il rimettente, inoltre, sussisterebbe la violazione del medesimo parametro costituzionale anche in riferimento alla violazione del principio di ragionevolezza, in quanto l’anteriorità della riparazione del danno rispetto all’udienza di comparizione si porrebbe in contrasto con la ratio del processo innanzi al giudice di pace che risponde, in via prioritaria, a logiche conciliative per la minore gravità dei reati trattati.
Sul piano della rilevanza, il rimettente evidenzia che l’imputato aveva formulato «l’offerta risarcitoria astrattamente idonea ad eliminare il danno conseguente al reato contestato dopo la prima udienza, ma comunque prima della dichiarazione di apertura del dibattimento», con la conseguenza che la questione di legittimità costituzionale si pone come preliminare per la prosecuzione del giudizio, in rapporto alla disciplina di cui all’art. 162-ter cod. pen. concernente un caso sostanzialmente identico.
2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità della questione, per non avere il rimettente adeguatamente motivato in ordine alla idoneità della condotta riparatoria a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione, trattandosi di valutazione espressamente richiesta dal comma 2 dell’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000.
L’eccezione non è fondata.
La disposizione censurata, al comma 1, richiede che, al fine della dichiarazione di estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie, l’imputato abbia proceduto «alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento» ed abbia «eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato»; tutto ciò «prima dell’udienza di comparizione».
Deve rilevarsi, innanzi tutto, che il rimettente muove dal corretto presupposto interpretativo circa la perentorietà della preclusione temporale stabilita dalla disposizione censurata.
La formulazione letterale del comma 1 dell’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000 è chiara nello stabilire la necessità che gli adempimenti riparatori e risarcitori siano realizzati prima dell’udienza di comparizione.
Anche nella giurisprudenza di legittimità è oramai consolidato l’orientamento interpretativo che afferma la natura non prorogabile del termine, con la conseguenza che, in caso di inosservanza, non può essere dichiarata l’estinzione del reato (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 8 novembre-13 dicembre 2022, n. 47007).
Quindi, l’offerta banco iudicis, fatta dall’imputato solo all’udienza di comparizione, pur se prima dell’apertura del dibattimento, è ex se tardiva, a prescindere da (e prima ancora di) qualsivoglia valutazione di inidoneità, da parte del giudice, alla dichiarazione di estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie.
La valutazione dell’adeguatezza, o meno, dell’offerta è logicamente successiva a quella dell’operatività di tale termine, sicché la questione di legittimità costituzionale della disposizione che prevede il termine stesso è rilevante, anche solo quanto al percorso argomentativo della decisione che il giudice rimettente è chiamato ad adottare.
Infatti, la rilevanza si configura come «necessità di applicare la disposizione censurata nel percorso argomentativo che conduce alla decisione» (sentenza n. 254 del 2020); ciò che è sufficiente a fondare la rilevanza della questione sollevata (ex multis, sentenza n. 59 del 2021).
È costante la giurisprudenza di questa Corte (recentemente, sentenza n. 164 del 2023) nell’affermare che, ai fini della rilevanza delle questioni, è sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo e che la pronuncia di accoglimento possa influire sull’esercizio della funzione giurisdizionale (tra le altre, sentenze n. 247 e n. 215 del 2021), quantomeno sotto il profilo del percorso argomentativo della decisione nel processo principale (ex plurimis, sentenze n. 25 del 2024, n. 249 e n. 154 del 2021; ordinanza n. 194 del 2022).
3.– All’esame del merito della questione sollevata è opportuno premettere una sintetica ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, cui è riconducibile la disposizione oggetto di censura.
3.1.– In attuazione dell’art. 17, comma 1, lettera h), della legge 24 novembre 1999, n. 468 (Modifiche alla legge 21 novembre 1991, n. 374, recante istituzione del giudice di pace. Delega al Governo in materia di competenza penale del giudice di pace e modifica dell’articolo 593 del codice di procedura penale), l’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000, inserito nel Capo V dedicato alle «[d]efinizioni alternative del procedimento», ha introdotto, nel giudizio penale innanzi al giudice di pace, la causa di estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie o risarcitorie.
Tale disposizione stabilisce al comma 1 che il giudice di pace, «sentite le parti e l’eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il reato, enunciandone la causa nel dispositivo, quando l’imputato dimostra di aver proceduto, prima dell’udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato»; il comma 2 precisa che il giudice pronuncia la sentenza di estinzione del reato «solo se ritiene le attività risarcitorie e riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione».
Il giudice può però disporre, ai sensi del comma 3, «la sospensione del processo, per un periodo non superiore a tre mesi, se l’imputato chiede nell’udienza di comparizione di poter provvedere» ai predetti adempimenti, dovendo però dimostrare «di non averlo potuto fare in precedenza; in tal caso, il giudice può imporre specifiche prescrizioni» e, nel caso in cui venga concessa tale sospensione, secondo il disposto del comma 4, deve fissare una nuova udienza ad una data successiva al termine del periodo di sospensione (durante il quale l’effettivo svolgimento delle attività risarcitorie e riparatorie è soggetto al controllo di personale incaricato dal medesimo giudice).
Infine, se le attività risarcitorie o riparatorie hanno avuto esecuzione, è previsto, al comma 5, che «il giudice, sentite le parti e l’eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il reato enunciandone la causa nel dispositivo»; in caso contrario, ai sensi del comma 6, deve disporre la prosecuzione del procedimento.
La causa estintiva introdotta dal legislatore del 2000 ha costituito uno strumento di profonda innovazione del sistema penale, in quanto alle condotte di tipo riparatorio, fino a quel momento, era stato attribuito rilievo ai soli fini dell’attenuazione della pena per avere – «prima del giudizio» – riparato interamente il danno mediante il suo risarcimento (art. 62, numero 6, cod. pen.) o come presupposto per ottenere alcuni benefici, anche relativi alla pena, quali la sospensione condizionale (art. 165 cod. pen.) e la liberazione condizionale (art. 176 cod. pen.), ma non anche al fine del proscioglimento dell’imputato.
Successivamente, una speciale causa di estinzione del reato per aver riparato interamente il danno – «prima del giudizio» – è stata prevista dall’art. 341-bis cod. pen., come introdotto dall’art. 1, comma 8, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), con riferimento al reato di oltraggio a pubblico ufficiale.
In seguito, l’art. 168-bis cod. pen., introdotto dall’art. 3, comma 1, della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), nel prevedere la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, l’ha condizionata alla prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, al risarcimento del danno dallo stesso cagionato.
In epoca più recente è stato inserito nella parte generale del codice penale il nuovo istituto disciplinato dall’art. 162-ter cod. pen. (rubricato «Estinzione del reato per condotte riparatorie»), introdotto dall’art. 1, comma 1, della legge n. 103 del 2017, modellato proprio sulla fattispecie di cui all’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000.
3.2.– Non di meno l’istituto previsto nel processo innanzi al giudice di pace ha conservato la sua peculiarità in ragione della finalità di favorire la deflazione del carico giudiziario, coniugata all’esigenza di verifica che la condotta riparatoria sia anche idonea a soddisfare le «esigenze di riprovazione del reato» e «quelle di prevenzione».
Il fatto che l’imputato ponga in essere le condotte previste dal censurato art. 35, consistenti nella riparazione del danno mediante restituzione o risarcimento e nell’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, non è di per sé sufficiente, in quanto è necessario, per la sentenza di proscioglimento, che il giudice ne valuti anche l’idoneità a «soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 23 aprile-31 luglio 2015, n. 33864).
Il potere di sindacare la congruità e idoneità della condotta riparatoria rispetto al fatto valutato nella sua globalità e alla personalità dell’imputato è pertanto attribuito al giudice di pace, al quale spetta di valutare se gli adempimenti risarcitori e riparatori soddisfino le esigenze di riprovazione e prevenzione del reato.
La scelta del legislatore, compiuta per mezzo del d.lgs. n. 274 del 2000 è stata, dunque, quella di strutturare la causa estintiva nel senso di attribuire al giudice di pace un potere valutativo che – in linea con la ratio dell’istituto ispirato, nel suo complesso, all’obiettivo della composizione non conflittuale della controversia spesso sottostante a reati di minore gravità – non si limita alla verifica del risarcimento in termini civilistici, ma si estende alla valutazione della congruità della condotta riparatoria in rapporto anche all’interesse pubblico al perseguimento degli obiettivi di prevenzione generale e speciale del sistema penale.
Evidente è anche la finalità di alleggerimento del carico giudiziario, posto che la causa estintiva si applica a tutti i reati di competenza del giudice di pace, di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 274 del 2000, tra i quali sono ricompresi oltre i delitti procedibili a querela, anche quelli azionabili di ufficio e i reati contravvenzionali.
3.3.– Questa generale causa di estinzione del reato può, però, operare, ai sensi della disposizione censurata, solo se l’adempimento delle condotte riparatorie e risarcitorie avvenga «prima dell’udienza di comparizione» innanzi al giudice di pace, di cui all’art. 29 del d.lgs. n. 274 del 2000; udienza deputata alla verifica della ritualità della citazione a giudizio e della convocazione delle parti e, soprattutto, a promuovere la conciliazione tra le parti stesse.
All’udienza di comparizione l’imputato può anche presentare domanda di oblazione «[p]rima della dichiarazione di apertura del dibattimento», come prescrive il comma 6 del citato art. 29, in piena simmetria con l’analoga previsione, nel giudizio ordinario, degli artt. 162 e 162-bis cod. pen., quanto alle contravvenzioni punite rispettivamente con l’ammenda o con pene alternative (in entrambe le ipotesi la domanda di ammissione all’oblazione deve esser fatta «prima dell’apertura del dibattimento»).
In questa stessa fase – all’udienza di comparizione, ma prima dell’apertura del dibattimento – il giudice di pace accerta la avvenuta «riparazione del danno», ove l’imputato dimostri di averla già fatta in precedenza, e ne valuta l’adeguatezza e l’idoneità secondo i parametri suddetti.
Terminata questa fase, il giudice dichiara aperto il dibattimento, ammette le prove richieste e procede oltre.
3.4.– Invece nel giudizio ordinario, non solo gli artt. 162 e 162-bis cod. pen., quanto all’oblazione ordinaria e speciale, ma anche il successivo art. 162-ter, quanto alle condotte riparatorie, prevedono come termine ultimo per perfezionare queste fattispecie di estinzione del reato la dichiarazione di apertura del dibattimento. In particolare, l’art. 162-ter, disposizione analoga a quella censurata, stabilisce, al primo comma, che «[n]ei casi di procedibilità a querela soggetta a remissione il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato ha riparato interamente, entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato», precisando altresì che l’estinzione del reato ha luogo anche in presenza di offerta reale ai sensi dell’art. 1208 e seguenti del codice civile, «formulata dall’imputato e non accettata dalla persona offesa, ove il giudice riconosca la congruità della somma offerta a tale titolo».
Peraltro, il disallineamento quanto al dies ad quem per perfezionare le condotte riparatorie tra l’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000 (innanzi al giudice di pace) e l’art. 162-ter cod. pen. (innanzi al giudice ordinario) si ricompone parzialmente quanto alla concessione di una sorta di termine di grazia.
L’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 274 del 2000 prevede che, in via eccezionale, ove l’imputato dimostri di non aver potuto provvedere in precedenza alla riparazione del danno, il giudice di pace possa sospendere il processo per un periodo non superiore a tre mesi per consentirgli di provvedere.
Analogamente, l’art. 162-ter, secondo comma, cod. pen. stabilisce che se l’imputato «dimostra di non aver potuto adempiere, per fatto a lui non addebitabile, entro il termine di cui al primo comma, […] può chiedere al giudice la fissazione di un ulteriore termine, non superiore a sei mesi, per provvedere al pagamento, anche in forma rateale, di quanto dovuto a titolo di risarcimento» e «in tal caso il giudice, se accoglie la richiesta, ordina la sospensione del processo e fissa la successiva udienza alla scadenza del termine stabilito e comunque non oltre novanta giorni dalla predetta scadenza, imponendo specifiche prescrizioni».
4.– Passando all’esame del merito, deve innanzi tutto evidenziarsi che, diversamente da quanto sostenuto dall’Avvocatura generale dello Stato, questa Corte, con la sentenza n. 206 del 2011, non ha già valutato la compatibilità costituzionale dello sbarramento temporale, oggetto dell’odierna censura.
La pronuncia ha, infatti, riguardato la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 516 del codice di procedura penale e dell’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000, nella parte in cui non prevedono che, in caso di modifica del capo di imputazione nel corso del dibattimento – anche quando la nuova contestazione concerna un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale ovvero quando l’imputato abbia tempestivamente e ritualmente proposto la definizione anticipata del procedimento in ordine alle originarie imputazioni – l’imputato possa accedere all’istituto previsto dall’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000, in quanto tale disposizione non consente l’ammissione «oltre l’udienza di comparizione».
Nel dichiarare inammissibile la questione per vizi formali dell’ordinanza di rimessione, questa Corte ha affermato che la definizione del procedimento disciplinata dall’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000, non costituisce un rito alternativo attivabile con una richiesta dell’imputato, ma «una fattispecie estintiva complessa, basata su una condotta riparatoria, antecedente, di regola, all’udienza di comparizione (a meno che l’imputato dimostri di non averla potuta tenere in precedenza) e giudicata idonea a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione».
La pronuncia non si è espressa sulla compatibilità costituzionale del limite temporale, ma piuttosto sulla differente fattispecie dell’accesso alla causa estintiva in caso di modifica dell’imputazione nel corso del dibattimento, prospettata in analogia alla possibilità per l’imputato, nel rito ordinario, di essere ammesso, in tali casi, ai riti alternativi e, in particolare, per effetto della sentenza n. 265 del 1994, al patteggiamento.
Deve, in ogni caso, sottolinearsi come del tutto differente fosse il contesto normativo nel quale la sentenza n. 206 del 2011 è stata adottata, atteso che, come già rilevato, soltanto di recente l’ordinamento penale si è arricchito di istituti processuali e sostanziali significativamente costruiti attorno al ruolo fondamentale delle condotte risarcitorie e riparatorie, collocando il limite temporale massimo per il loro espletamento nella dichiarazione di apertura del dibattimento.
5.– Inquadrata in questo complessivo contesto normativo, evolutosi nel tempo, la sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000 è fondata in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della dedotta violazione del principio di ragionevolezza.
6.– La peculiarità del processo penale innanzi al giudice di pace, avente ad oggetto fatti di minore gravità, risiede in un approccio duttile che non è quello della necessaria applicazione della pena come inesorabile conseguenza del reato: i comportamenti illeciti addebitati all’imputato chiamano in gioco l’attività di mediazione del giudice e, ancor prima, possono essere valutati alla luce degli specifici istituti di mitigazione della risposta sanzionatoria: quello della esclusione della procedibilità per particolare tenuità del fatto (art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000) e quello dell’estinzione del reato per condotte riparatorie (art. 35, in esame).
Costituisce, poi, prescrizione generale quella che richiede che il giudice di pace favorisca, nel corso del procedimento e per quanto possibile, la conciliazione tra le parti (art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 274 del 2000).
Questa Corte, in numerose occasioni, ha evidenziato tali peculiari connotazioni del processo penale innanzi al giudice di pace.
In particolare, con la sentenza n. 120 del 2019 e con l’ordinanza n. 224 del 2021, dando continuità a precedenti pronunce, – nell’affermare che l’art. 131-bis cod. pen. non è applicabile ai reati rientranti nella competenza del giudice di pace, operando la fattispecie di cui all’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 – ha evidenziato che le ragioni che giustificano, sul piano del rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, l’alternatività tra i due regimi risiedono nelle connotazioni peculiari dei reati di competenza del giudice di pace – il quale giudica di reati di ridotta gravità, espressivi di conflitti interpersonali a carattere privato – e del procedimento che innanzi a lui si svolge, improntato a finalità di snellezza, semplificazione e rapidità.
Analoghi rilievi sono contenuti nella sentenza n. 47 del 2014, nella quale è stato affermato che «[i] tratti d’assieme dell’apparato sanzionatorio dei reati di competenza del giudice di pace, composto da sanzioni con modesto tasso di afflittività e carenti di effetti desocializzanti, da un lato; le peculiari coordinate del procedimento all’esito del quale dette sanzioni sono applicate, volte a privilegiare soluzioni deflattive e conciliative, anziché repressive, dall’altro: sono questi gli elementi che – alla luce della funzione dianzi evidenziata, intesa a dar corpo alla seconda metà della direttiva del “diritto mite ma effettivo” – impediscono di scorgere nella preclusione denunciata un vulnus al principio di uguaglianza». Ciò perché la funzione del divieto censurato è quella di evitare che le sanzioni restino prive di concreta attitudine dissuasiva e della capacità di fungere da stimolo alla collaborazione con l’opera di mediazione del giudice, sicché il divieto della sospensione condizionale «si inserisce in un sistema diversamente strutturato nel suo complesso: sistema con il quale, per quanto detto, la scelta legislativa di privilegiare l’effettività della pena – allorché alla sua irrogazione si pervenga – può essere ritenuta ragionevolmente coerente».
Anche nella sentenza n. 64 del 2009, questa Corte ha rimarcato come proprio i tratti di semplificazione e snellezza della giurisdizione innanzi al giudice di pace ne esaltano la funzione conciliativa tramite strumenti processuali volti a favorire la riparazione del danno e la conciliazione tra autore e vittima del reato, e ciò, per la natura delle fattispecie criminose devolute alla cognizione di tale giudice, «di ridotta gravità ed espressive, per lo più, di conflitti a carattere interpersonale».
Nell’ordinanza n. 228 del 2005 si è, altresì, affermato che «il decreto legislativo n. 274 del 2000 contempla forme alternative di definizione, non previste dal codice di procedura penale, che si innestano in un procedimento che concerne reati di minore gravità, con un apparato sanzionatorio del tutto autonomo, in cui il giudice deve favorire la conciliazione tra le parti (artt. 2, comma 2, e 29, commi 4 e 5) e in cui la citazione a giudizio può avvenire anche su ricorso della persona offesa (art. 21)», sicché «l'istituto del patteggiamento, così come delineato nel codice di procedura penale, mal si concilierebbe con il costante coinvolgimento della persona offesa nel procedimento davanti al giudice di pace, anche con riferimento alle forme alternative di definizione del procedimento; […] infatti, il giudice, da un lato, può escludere la procedibilità per la particolare tenuità del fatto, ex art. 34, comma 2, solo se non risulta un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento e, dall’altro, può pronunciare l’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie, ex art. 35, commi 1 e 5, solo dopo aver sentito la persona offesa».
7.– Questa marcata esigenza di favorire, per il tramite dell’attività di mediazione del giudice, la conciliazione tra le parti, anche e soprattutto mediante le condotte riparatorie dell’imputato, mostra la incoerenza del termine finale, previsto dalla disposizione censurata, per porre in essere e perfezionare tali condotte; termine che scade prima che l’imputato compaia innanzi al giudice stesso.
Il ruolo di quest’ultimo come conciliatore, il cui luogo di fisiologica esplicazione è proprio l’udienza di comparizione, risulta impedito da un termine perentorio che, previsto prima di tale udienza, frustra la stessa funzione del giudice non consentendogli di avviare le parti, imputato e persona offesa, ad un accordo sull’entità della riparazione del danno e delle restituzioni e sulle modalità di eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato. Ciò che, invece, si imporrebbe alla luce del già richiamato principio generale di cui all’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 274 del 2000, secondo cui «[n]el corso del procedimento, il giudice di pace deve favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le parti», ma anche per effetto della specifica disciplina dell’udienza di comparizione che stabilisce che, se il reato è perseguibile a querela, il giudice «promuove la conciliazione tra le parti» anche avvalendosi «dell’attività dei Centri per la giustizia riparativa presenti sul territorio» (art. 29, comma 4, del d.lgs. n. 274 del 2000).
La preclusione, che discende dalla rigida applicazione del termine recato dalla disposizione censurata, costituisce un fattore di irragionevolezza in una sequenza procedimentale che dovrebbe, invece, favorire, proprio nell’udienza di comparizione, «ove avviene il primo contatto tra le parti e il giudice» (ordinanza n. 11 del 2004), la conciliazione, della quale la condotta riparatoria rappresenta una modalità di attuazione. L’attività conciliativa e di mediazione del giudice di pace è irragionevolmente pregiudicata dalla previsione di un termine perentorio scaduto «prima dell’udienza di comparizione».
Lo sbarramento temporale censurato finisce, altresì, per determinare ricadute negative sul carico giudiziario, riducendo i casi di definizione anticipata del processo.
Al contrario, la fissazione del termine ad quem nella dichiarazione di apertura del dibattimento, auspicata dal giudice rimettente, consente di realizzare in modo più ampio la finalità deflattiva, con evidente risparmio di attività istruttorie e di spese processuali, quando – integrata la fattispecie estintiva del reato conseguente a condotte riparatorie – non ha inizio alcuna attività dibattimentale.
8.– Vi è, poi, anche un argomento a fortiori che emerge dall’esaminato sviluppo della normativa in proposito e dalla comparazione del distinto ruolo del giudice di pace con quello del giudice ordinario nell’applicazione della disposizione censurata.
Al fine del riscontro dei presupposti dell’art. 162-ter cod. pen., per l’estinzione del reato per condotte riparatorie, il giudice ordinario deve essenzialmente valutare la congruità dell’offerta fatta dall’imputato, ove questa non sia accettata dalla persona offesa.
Invece, al fine dell’integrazione dei presupposti di cui all’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000, il giudice di pace deve non solo apprezzare l’adeguatezza e la completezza della riparazione, ma anche verificare il soddisfacimento delle esigenze di riprovazione del reato e di quelle di prevenzione.
A fronte di questo ruolo più esteso, reso ancor più pregnante dall’attività di conciliazione delle parti che in generale il giudice di pace è tenuto a svolgere, vi è, contraddittoriamente, un termine più stretto – quello dell’udienza di comparizione – che stride se lo si pone a raffronto con il termine più esteso – quello dell’apertura del dibattimento – che definisce il tempo processuale in cui l’attività del giudice ordinario, di verifica della sola adeguatezza delle condotte riparatorie, può estrinsecarsi.
Nel processo davanti al giudice di pace, l’imputato, che prima dell’udienza di comparizione non sia riuscito ad ottenere l’accettazione della persona offesa della sua offerta di riparazione, non può contare sull’attività di mediazione del giudice nell’udienza di comparizione, perché è ormai già spirato il termine in esame. In mancanza di un contatto con il giudice, tanto più necessario perché deve egli comunque valutare il soddisfacimento delle esigenze di riprovazione del reato e di quelle di prevenzione, pur in presenza di accettazione della persona offesa, la prospettiva di condotte riparatorie, perfezionate già prima dell’udienza di comparizione, finisce per essere, quanto meno, non incoraggiata ed anzi resa incerta, frustrando così l’esigenza di deflazionare questi processi per reati minori.
Invece, l’imputato nel processo ordinario ha un termine più ampio che comprende quello che lo vede comparire innanzi al giudice, il quale può contestualmente valutare la congruità dell’offerta di riparazione. Il contatto e l’interlocuzione con il giudice, nell’udienza di comparizione, ma prima dell’apertura del dibattimento, non può che favorire il perfezionamento delle condotte riparatorie, senza che ne sia pregiudicata la spontaneità nella misura in cui si tratta pur sempre di una libera scelta dell’imputato per evitare il processo.
La mancanza di giustificazione di questo disallineamento dei termini tra processo innanzi al giudice di pace e processo ordinario è anche indirettamente mostrata dalla convergenza della disciplina, che vi è invece in caso di prova da parte dell’imputato di non aver potuto porre in essere in precedenza la condotta riparatoria. La previsione – in entrambe le ipotesi (sia ex art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 274 del 2000, sia ex art. 162-ter, secondo comma, cod. pen.) – della sospensione del processo per consentire la condotta riparatoria mostra in realtà la compatibilità di uno stesso termine per perfezionare la condotta riparatoria e da ciò si rinviene un argomento ulteriore della irragionevolezza della differenziazione recata dalla disposizione censurata.
9.– Non è, poi, senza rilievo che la previsione di un termine, che è già scaduto all’udienza di comparizione, è eccentrico e asistematico se si considera che il diverso termine dell’apertura del dibattimento si rinviene in numerosi altri istituti, oltre quello dell’art. 162-ter cod. pen.: nell’oblazione ordinaria (art. 162 cod. pen.) e speciale (art. 162-bis cod. pen.), nell’oblazione innanzi allo stesso giudice di pace (art. 29, comma 6, del d.lgs. n. 274 del 2000), nella richiesta di sospensione con messa alla prova (artt. 464-bis, 464-ter e 464-quater cod. proc. pen.), nonché nella diminuente del risarcimento del danno (art. 62, numero 6, cod. pen.) o del ravvedimento operoso (art. 452-decies cod. pen.) e nella riparazione del danno ex art. 341-bis cod. pen.
Peraltro, con riferimento ai reati a citazione diretta, l’art. 554-bis cod. proc. pen., recentemente introdotto dall’art. 32, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), ha inserito una udienza di comparizione predibattimentale, proprio per favorire il ricorso a strumenti di giustizia riparativa; è risultato infatti ampliato il momento in cui possono esplicarsi le attività per le quali è previsto, come termine, l’apertura del dibattimento e tra queste vi sono, appunto, le condotte riparatorie ex art. 162-ter cod. pen.
Ciò conferma che il riallineamento del termine in esame, con la sua fissazione nell’apertura del dibattimento, è in linea con il processo penale in generale ed è pienamente compatibile, in particolare, anche con quello innanzi al giudice di pace.
10.– In conclusione, la previsione della inderogabile anteriorità delle condotte riparatorie, previste dalla disposizione censurata, rispetto all’udienza di comparizione non risponde ad alcuna logica giustificazione, tenendo conto delle peculiarità che connotano la giurisdizione penale del giudice di pace.
La reductio ad legitimitatem della disposizione censurata va individuata, nel verso prospettato dal rimettente, collocando al momento dell’apertura del dibattimento il termine finale perché l’imputato possa porre in essere le condotte riparatorie idonee alla dichiarazione di estinzione del reato.
Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 35, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000, nella parte in cui stabilisce che, al fine dell’estinzione del reato, le condotte riparatorie debbano essere realizzate «prima dell’udienza di comparizione», anziché «prima della dichiarazione di apertura del dibattimento», di cui all’art. 29, comma 7, del medesimo decreto legislativo.
11.– Rimane assorbito l’ulteriore profilo della sollevata questione di legittimità costituzionale.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 35, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui stabilisce che, al fine dell’estinzione del reato, le condotte riparatorie debbano essere realizzate «prima dell’udienza di comparizione», anziché «prima della dichiarazione di apertura del dibattimento» di cui all’art. 29, comma 7, del medesimo decreto legislativo.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2024.
F.to:
Augusto Antonio BARBERA, Presidente
Giovanni AMOROSO, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 21 marzo 2024