Sentenza n. 265 del 1994

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SENTENZA N. 265

ANNO 1994


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente:

Prof. Gabriele PESCATORE

Giudici:

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

Avv. Massimo VARI;
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 446, primo comma, 516, 517, 519 e 520 del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 23 ottobre 1992 dal Pretore di Paola, sezione distaccata di Scalea, il 17 novembre 1992 dal Pretore di Venezia, sezione distaccata di Chioggia, il 18 maggio 1993 dal Pretore di Napoli, sezione distaccata di Sorrento, l'11 giugno 1993 dal Pretore di Caltanissetta ed il 23 settembre 1993 dal Pretore di Urbino, rispettivamente iscritte ai nn. 37, 81, 435, 576 e 719 del registro ordinanze 1993 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 7, 10, 35, 41 e 50, prima serie speciale, dell'anno 1993;

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Uditi nella camera di consiglio dell'8 giugno 1994 i Giudici relatori Ugo Spagnoli per le cause di cui ai nn. 81, 576 e 719 del registro ordinanze 1993 e Mauro Ferri per le cause di cui ai nn. 37 e 435 del registro ordinanze 1993;

Ritenuto in fatto

1. - Con ordinanza emessa il 23 ottobre 1992 (r.o. n. 37 del 1993), il Pretore di Paola, sezione distaccata di Scalea, ha sollevato, su eccezione della difesa, questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, degli artt. 446, primo comma, e 517 del codice di procedura penale.

Il giudice a quo premette in fatto che gli imputati, prima dell'apertura del dibattimento, avevano chiesto il "patteggiamento" in ordine ai due reati contestati, ma il pubblico ministero aveva negato il consenso non risultando "allo stato degli atti ( ..) la violazione di cui all'art. 20, lett. c), della legge n. 47/85". Nel corso del dibattimento, il pubblico ministero contestava ad uno degli imputati tale reato concorrente ai sensi dell'art. 517 del codice di procedura penale e, di fronte ad una nuova richiesta di applicazione di pena per i tre reati unificati nella continuazione, il pubblico ministero medesimo, pur concordando sulla determinazione della pena, negava il consenso rilevando l'inammissibilità della richiesta per tardività.

Ciò posto, il remittente, rilevato che l'art. 446, primo comma, del codice di procedura penale, nel fissare il limite dell'apertura del dibattimento per la formulazione della richiesta di applicazione della pena, non ammette deroghe né lascia spazi interpretativi in senso diverso, osserva che i principi affermati nella giurisprudenza costituzionale, che ha riconosciuto la legittimità della preclusione all'adozione dei riti speciali nelle ipotesi di contestazioni suppletive (sentenze nn. 593 del 1990 e 316 del 1992; ordinanza n. 213 del 1992) non appaiono applicabili al caso di specie. Sottolinea in proposito il giudice a quo che la richiesta di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura penale era stata tempestivamente avanzata, ma il pubblico ministero aveva dissentito, non contestando la determinazione della pena, ma l'imputazione da egli stesso formulata, che non intendeva modificare in limine litis. L'imputato, pertanto, si vede privato della possibilità di accedere al rito speciale, con riferimento al reato oggetto della contestazione suppletiva, non dalla propria libera determinazione in ordine al rito da adottare, ma dall'anomala condotta dell'organo di accusa, che, se può essere sindacata dal giudice all'esito del dibattimento ex art. 448, primo comma, del codice di procedura penale ai fini della eventuale applicazione della pena richiesta in ordine alle primitive imputazioni, determina ineluttabilmente l'effetto preclusivo della procedura pattizia relativamente al reato concorrente scaturito dalla nuova contestazione. Di qui, ad avviso del giudice a quo, la violazione sia del principio di uguaglianza, essendo una valutazione discrezionale ed insindacabile del pubblico ministero a condizionare il rito da applicare ed a privare l'interessato dei benefici connessi ai procedimenti speciali, sia del diritto di difesa, in quanto tale determinazione unilaterale dell'organo dell'accusa espropria l'imputato di una delle possibili opzioni processuali.

1.1. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l'infondatezza della questione. L'Avvocatura richiama a tal fine le pronunce della Corte costituzionale già citate nell'ordinanza di rimessione ed osserva che la peculiarità del caso in esame non ha alcuna incidenza sulle argomentazioni svolte in dette decisioni, in quanto gli interessi che sollecitano le parti ad effettuare le scelte processuali ritenute più opportune rappresentano un fenomeno normativamente indifferente, inidoneo dunque ad incidere sui rispettivi diritti o poteri processuali. Non si vede, in conclusione, osserva la difesa del Governo, come le norme denunciate possano violare il diritto di difesa, che resta inalterato sia nel caso in cui venga adottato un rito alternativo sia nell'ipotesi in cui occorra procedere con il rito ordinario.

2. - A seguito di modifica dibattimentale della imputazione, operata dal pubblico ministero ex art. 516 del codice di procedura penale, il Pretore di Venezia, sezione distaccata di Chioggia, con ordinanza del 17 novembre 1992 (r.o. n. 81 del 1993), considerato che, mancando nel processo pretorile il filtro giurisdizionale rappresentato dall'udienza preliminare e non avendo d'altro canto il giudice del dibattimento accesso agli atti delle indagini preliminari in base ai quali il pubblico ministero ha emesso il decreto di citazione a giudizio, il medesimo giudice non ha la possibilità di apprezzare se da tali atti emergano già gli elementi per una diversa imputazione, essendo così rimessa alla incontrollabile determinazione del pubblico ministero la scelta di quando operare la nuova contestazione, ha ravvisato, su eccezione della difesa, il possibile contrasto degli artt. 520 e 516 del codice di procedura penale con gli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione. Rileva il giudice a quo che il pubblico ministero potrebbe, per errore o anche volutamente, tralasciare di adeguare l'imputazione alle risultanze delle indagini nel momento in cui esercita l'azione penale, tanto che, una volta modificata l'imputazione in sede dibattimentale, l'imputato si vede preclusa in ordine alla nuova contestazione la via dei procedimenti speciali, attivabili solo entro le perentorie cadenze stabilite dal codice (entro quindici giorni dalla notifica del decreto di citazione a giudizio, quanto al rito abbreviato; non oltre la dichiarazione di apertura del dibattimento, quanto al patteggiamento). Ne deriverebbe, quindi, una irragionevole disparità di trattamento, in relazione all'esercizio del diritto di difesa, e, stante l'impossibilità per il giudice di verificare i presupposti per la modifica della imputazione, la vanificazione del precetto costituzionale di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali.

2.1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto che le censure mosse all'art. 516 cod. proc. pen. siano dichiarate infondate. La preclusione temporale posta dall'art. 560 cod. proc. pen. all'instaurazione del giudizio abbreviato - osserva l'Avvocatura - dipende dalla peculiarità di questo, che consiste nella utilizzabilità degli atti di indagine già compiuti e nella riduzione di un terzo di pena quale corrispettivo della rinuncia alla formazione della prova in dibattimento. D'altra parte, l'evenienza che, in ragione delle risultanze dell'istruzione dibattimentale, l'imputazione debba essere modificata è del tutto fisiologica e riconducibile ad un sistema processuale che riserva alla fase dibattimentale la formazione della prova: onde essa non può essere considerata imprevedibile e non suscettibile di valutazione ai fini della individuazione delle strategie di difesa. Il richiamo, poi, all'art. 111 Cost., non sarebbe pertinente perché la doglianza verte sull'impossibilità di controllo e non sulla mancata motivazione di un provvedimento. Quanto alla censura mossa all'art. 520 cod. proc. pen., essa sarebbe inammissibile, perché la norma riguarda ipotesi (nuove contestazioni ad imputato contumace od assente) del tutto diversa da quella che deve applicare il giudice remittente.

3. - Con ordinanza emessa il 18 maggio 1993 (r.o. n. 435 del 1993), il Pretore di Napoli, sezione distaccata di Sorrento, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 519 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede, quanto al rito pretorile, che nel caso di contestazione suppletiva ai sensi dell'art. 517 del codice di procedura penale, "l'imputato possa essere rimesso in termini per proporre richiesta di pena patteggiata quando la contestazione suppletiva abbia ad oggetto fatti integranti reato e circostanze già noti al Pubblico Ministero, ma per errore di questi non contestati nel decreto di citazione a giudizio".

Premesso in fatto che nel corso del dibattimento il pubblico ministero aveva provveduto, ai sensi dell'art. 517 del codice di procedura penale, a contestare all'imputato ulteriori reati (aventi ad oggetto violazioni alla legge urbanistica e a quella di tutela paesaggistica) connessi a quelli indicati nel decreto di citazione a giudizio, e che il medesimo pubblico ministero si era poi opposto alla richiesta di "patteggiamento" per la sua intempestività, osserva il remittente che la giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenze nn. 593 del 1990 e 316 del 1992; ordinanza n. 213 del 1992) non si attaglia al caso in esame, in cui ci si trova di fronte non già alla evenienza di una contestazione suppletiva originata dall'istruttoria dibattimentale, bensì ad una contestazione originata da un errore dell'organo dell'accusa, ovvero da una scelta del pubblico ministero circa la delimitazione dell'area dei fatti per i quali ha inteso esercitare l'azione penale attraverso l'emissione del decreto di citazione. Risulta, qui, pertanto, esclusa la possibilità di addossare all'imputato il "rischio" della scelta dibattimentale, in quanto tale scelta, lungi dall'essere informata alla concreta situazione processuale, si rileva piuttosto obbligata, o quantomeno modellata sulla iniziativa dell'organo dell'accusa che ha manifestato, esercitando l'azione penale in maniera incompleta, una situazione difforme da quella reale. Ciò posto, il remittente osserva che appare irragionevole la differenziazione che emerge rispetto al diverso governo che, sulla scorta della denunciata normativa, pubblico ministero ed imputato hanno circa la scelta del rito. Invero, attraverso la formulazione di un capo di imputazione incompleto rispetto alle risultanze degli atti raccolti nella fase delle indagini, il pubblico ministero influenza la scelta del rito; tale potere unilaterale di influenzare l'opzione del rito - senza alcuna possibilità di tempestivo recupero della completezza della contestazione (mediante il meccanismo di cui all'art. 423 cod. proc. pen.) trattandosi di imputazione gestita autarchicamente, senza filtro giurisdizionale preliminare, assente nel rito pretorile -, sia pure in buona fede, comporta il rischio di un patologico aggiramento del diritto di difesa, inteso non solo come interesse costituzionalmente assistito a contraddire l'ipotesi accusatoria, ma come facoltà di scegliere il quomodo difensivo previa valutazione informata e consapevole. Consentire la contestazione suppletiva di fatti di reato già conosciuti dal pubblico ministero ma non contestati con il decreto di citazione a giudizio, equivarrebbe a legittimare la situazione in cui volutamente l'organo dell'accusa lascia incomplete le indagini al fine di impedire l'accesso al rito abbreviato, ipotesi di cui si è interessata la Corte costituzionale nella sentenza n. 92 del 1992 escludendone la compatibilità con il sistema.

Del resto, conclude il remittente, alcune recentissime pronunce della Corte costituzionale appaiono muoversi inequivocabilmente nella direzione innanzi indicata (sentenze nn. 76 e 101 del 1993). In particolare nella sentenza n. 101 del 1993 la Corte ha rinviato all'istituto della restituzione in termini di cui all'art. 175 del codice di procedura penale, norma generale e applicabile anche in occasioni del tipo di quella qui in esame.

3.1. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile, per difetto di motivazione sulla rilevanza, o, in subordine, infondata sulla base delle argomentazioni svolte nelle sentenze della Corte costituzionale richiamate dallo stesso remittente.

4. - In un giudizio dibattimentale nel quale, essendo emerso che il fatto consisteva non nella contestata alterazione del contatore di energia ma nell'allacciamento abusivo a linee elettriche esterne, il pubblico ministero aveva modificato - ex art. 516 del codice di procedura penale - l'originaria imputazione (da truffa aggravata a furto aggravato), il Pretore di Caltanissetta, con ordinanza emessa l'11 giugno 1993 (r.o. n. 576 del 1993), premesso che la modifica era ascrivibile ad errore del pubblico ministero perché il fatto era fin dall'origine definibile come furto, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, una questione di legittimità costituzionale degli artt. 516 e 519 del codice di procedura penale "nella parte in cui non prevedono tra i diritti dell'imputato, una volta modificata l'imputazione, quello di essere ammesso ai riti alternativi ed, in particolare, allo speciale procedimento previsto dagli artt. 444 e segg. del c.p.p.". Malgrado che analoga questione sia stata risolta negativamente dalla Corte costituzionale con l'ordinanza n. 213 del 1992, il giudice a quo ritiene che essa possa riproporsi alla luce delle argomentazioni contenute nella successiva sentenza n. 76 del 1993, dato che nel caso di specie la modifica dell'imputazione non potrebbe definirsi come "un'evenienza per così dire fisiologica del procedimento", bensì come "una patologia processuale che, proprio perché tale, non può risolversi in un pregiudizio per l'imputato di essa non responsabile". A suo avviso, infatti, poiché le valutazioni dell'imputato circa la convenienza del rito speciale vengono a dipendere, anzitutto, dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero, impedendo all'imputato di modificare l'originaria scelta difensiva si viene non solo a comprimere illegittimamente il diritto previsto dall'art. 24, secondo comma, della Costituzione, ma anche a violare il principio d'uguaglianza, giacché rispetto a situazioni omogenee vengono ad avere un ruolo ingiustificato elementi esterni legati alla scrupolosità con cui il pubblico ministero assume le proprie determinazioni in ordine all'esercizio dell'azione penale.

4.1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata, richiamando integralmente le deduzioni svolte nel giudizio definito con la predetta ordinanza n. 213 del 1992.

5. - Con ordinanza emessa il 23 settembre 1993 (r.o. n. 719 del 1993), il Pretore di Urbino ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, degli artt. 446, primo comma, 516 e 519 del codice di procedura penale, come richiamati per il procedimento pretorile dagli artt. 549, 563, primo comma, e 567, primo comma, del codice di procedura penale, "nella parte in cui non prevedono, per l'imputato che abbia, prima dell'apertura del dibattimento di primo grado, formulato richiesta d'applicazione pena a norma degli artt. 444 e seguenti c.p.p., sulla quale il Pubblico Ministero non abbia espresso il proprio consenso, la possibilità di richiedere, in caso di modifica dell'imputazione nel corso dell'istruttoria dibattimentale, l'applicazione della pena per il reato risultante dalla nuova contestazione del Pubblico Ministero". Il giudice a quo riferisce che l'imputato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, aveva fatto richiesta di applicazione di pena in ordine al contestato reato di cui all'art. 726 del codice penale, sulla quale il pubblico ministero non aveva espresso il proprio consenso, dichiarando che all'esito del dibattimento il reato avrebbe potuto essere qualificato diversamente (art. 527 del codice penale). Nel corso del dibattimento, all'esito di un esame testimoniale, il pubblico ministero procedeva effettivamente alla nuova contestazione, modificando l'imputazione a norma dell'art. 516 del codice di procedura penale nei termini sopra indicati. L'imputato reiterava a tal punto la richiesta di applicazione di pena in ordine alla imputazione così modificata, ricevendo il consenso del pubblico ministero. Osservato che il combinato disposto degli artt. 446, 516 e 519 del codice di procedura penale, richiamati nel rito pretorile dal primo comma dell'art. 567, non consentono nel caso di specie l'accoglimento della richiesta di applicazione di pena, atteso il superamento del termine della dichiarazione di apertura del dibattimento, il Pretore ha ritenuto che tali disposizioni possano considerarsi in contrasto con i precetti costituzionali sopra indicati.

Rileva al riguardo il giudice a quo che non risolve il dubbio di costituzionalità l'ordinanza n. 213 del 1992, con la quale la Corte aveva dichiarato manifestamente infondata una questione di costituzionalità delle medesime disposizioni, poiché, nel caso in esame, diversamente da quello considerato dalla citata decisione, l'imputato aveva già presentato tempestiva richiesta di applicazione di pena, alla quale il pubblico ministero non aveva aderito.

Tale circostanza, secondo il Pretore, rende irragionevole una disciplina che, impedendo all'imputato di formulare nuova richiesta di applicazione di pena per il reato contestatogli a norma dell'art. 516 del codice di procedura penale, addossa al medesimo il rischio della nuova contestazione, atteso che la celebrazione del dibattimento non è dipesa dalle scelte processuali dell'imputato, ma dal mancato consenso del pubblico ministero.

Inoltre detto sistema normativo regolerebbe "in modo arbitrariamente diverso situazioni del tutto omogenee, imponendo di diversificare il trattamento di imputati per i quali non sia stato aperto il dibattimento, e di imputati che chiedano il "patteggiamento" per il reato risultante dalla modifica dell'imputazione fatta a norma dell'art. 516 c.p.p., qualora in precedenza, prima dell'apertura del dibattimento, il Pubblico Ministero non abbia consentito all'applicazione di pena per il reato originariamente contestato".

Infine, conclude il Pretore, le norme impugnate possono ritenersi contrastanti anche con l'art. 24 della Costituzione, ponendo ingiustificati limiti al diritto di difesa, "di cui costituisce esplicazione diretta quella di potersi avvalere dei benefici connessi al rito disciplinato dagli artt. 444 e seguenti c.p.p.".

5.1. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l'infondatezza della questione, riportandosi integralmente all'atto di intervento relativo ad altro giudizio di legittimità costituzionale (r.o. n. 37 del 1993).

Considerato in diritto

1. - Pur nella diversità delle vicende processuali e, in parte, delle disposizioni impugnate, le ordinanze attengono tutte al tema del diritto dell'imputato ai riti speciali in relazione alla evenienza di nuove contestazioni dibattimentali. Richiedendo, pertanto, una valutazione congiunta, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.

2. - I giudici a quibus ritengono che, in base ai princìpi costituzionali richiamati, non possa non essere assicurata all'imputato la facoltà di optare per i procedimenti speciali (applicazione di pena su richiesta e giudizio abbreviato) per ogni imputazione ascrittagli, a prescindere dai "tempi" di esercizio dell'azione penale. La disciplina sottoposta a scrutinio di costituzionalità, invece, stante la previsione di precisi e invalicabili limiti temporali entro i quali è possibile l'instaurazione di tali procedimenti, non soddisferebbe tale esigenza: e ciò sia nei casi in cui l'imputazione è il prodotto di nuove contestazioni dibattimentali che, in realtà, - risultando già dall'attività di indagine preliminare - avrebbero dovuto formare oggetto di enunciazione nel decreto di citazione a giudizio; sia nel caso in cui l'imputato ha tempestivamente richiesto l'applicazione di pena ex art. 444 cod. proc. pen. (preclusa dal dissenso del pubblico ministero) in ordine a una imputazione superata dalla successiva contestazione dibattimentale del fatto diverso ex art. 516 del medesimo codice. Più precisamente, tre delle quattro ordinanze che si fondano sulla "tardività" della contestazione dibattimentale, come anche l'ordinanza che si fonda sulla tempestività della richiesta di applicazione di pena, deducono unicamente la preclusione all'instaurabilità del "patteggiamento": il Pretore di Caltanissetta, in ordine alla contestazione del fatto diverso, impugnando gli artt. 516 e 519 cod. proc. pen. in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 3 Cost. (r.o. n. 576 del 1993); il Pretore di Paola, in ordine alla contestazione del reato concorrente, impugnando gli artt 446, primo comma, e 517 cod. proc. pen. in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. (r.o. n. 37 del 1993); il Pretore di Napoli, sempre in ordine alla contestazione del reato concorrente, impugnando l'art. 519 cod. proc. pen. in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost. (r.o. n. 435 del 1993); il Pretore di Urbino, in ordine alla contestazione del fatto diverso, impugnando gli artt. 446, primo comma, 516 e 519 cod. proc. pen. in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, Cost. (r.o. n. 719 del 1993). Solo il Pretore di Venezia deduce espressamente, in ordine alla "tardiva" contestazione del fatto diverso, la preclusione all'instaurabilità sia del "patteggiamento" sia del giudizio abbreviato, impugnando gli artt. 520 e 516 cod. proc. pen. in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. (r.o. n. 81 del 1993).

3. - Vanno preliminarmente rigettate le eccezioni di inammissibilità sollevate dall'Avvocatura generale dello Stato; quanto a quella che si fonda sulla inconferenza della impugnativa dell'art. 520 cod. proc. pen., risultante dall'ordinanza del Pretore di Venezia, perché tale riferimento normativo va coordinato con quello, pure contenuto nell'ordinanza, all'art. 516 del medesimo codice, ed è giustificato dalla peculiare situazione del procedimento a quo, in cui la nuova contestazione, trattandosi di imputato contumace, si è dovuta necessariamente effettuare con l'osservanza della predetta disposizione; quanto a quella relativa alla carenza di motivazione, che caratterizzerebbe l'ordinanza del Pretore di Napoli, perché, ai fini della valutazione sulla rilevanza della specifica questione sollevata, la vicenda processuale risulta nell'ordinanza sufficientemente delineata.

4. - Passando al merito, va per prima esaminata la questione di costituzionalità degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, da tutti i giudici a quibus, sia pure con riguardo ora all'uno ora all'altro articolo in relazione alla specifica fattispecie processuale. Ciò vale anche per l'ordinanza del Pretore di Napoli, che ha formalmente impugnato l'art. 519 del medesimo codice, ma riferendosi a un "caso di contestazione suppletiva ai sensi dell'art. 517". Come è stato ricordato in gran parte delle ordinanze, la Corte ha già avuto modo di pronunciarsi sul tema delle nuove contestazioni dibattimentali (artt. 516-522 cod. proc. pen.) in rapporto all'aspettativa dell'imputato di accedere ai riti speciali. Con la sentenza n. 593 del 1990, è stato affermato che l'interesse dell'imputato a beneficiare dei riti speciali può trovare tutela "solo in quanto la sua condotta consenta l'effettiva adozione di una sequenza procedimentale, che, evitando il dibattimento e contraendo la possibilità di appello, permette di raggiungere quell'obiettivo di rapida definizione del processo che il legislatore ha inteso perseguire con l'introduzione del giudizio abbreviato e più in generale dei riti speciali". D'altra parte, ha osservato ancora la Corte in successive pronunce, "rientra nelle valutazioni che lo stesso imputato deve compiere ai fini della determinazione della scelta del rito la evenienza della modificazione dell'imputazione a seguito dell'istruttoria dibattimentale, non infrequente nell'attuale sistema processuale penale il quale riserva al dibattimento la formazione della prova, mentre nella fase preliminare si raccolgono solo gli elementi sufficienti per la formulazione dell'accusa e il rinvio a giudizio" (ordinanza n. 213 del 1992); di conseguenza, "il relativo rischio rientra naturalmente nel calcolo in base al quale l'imputato si determina a chiedere o meno tale rito, onde egli non ha che da addebitare a se medesimo le conseguenze della propria scelta" (sentenza n. 316 del 1992; cfr. anche ordinanza n. 107 e sentenza n. 129 del 1993). Tuttavia, come è stato precisato in altra occasione, qualora non possa rinvenirsi "alcun profilo di inerzia dell'imputato e quindi di "addebitabilità" al medesimo delle conseguenze della mancata instaurazione del rito differenziato ( ..) sarebbe molto difficile negare che la impossibilità di ottenere i relativi benefici concreti una ingiustificata compressione del diritto di difesa" (sentenza n. 101 del 1993). Ora, nelle situazioni rappresentate dalle ordinanze che si fondano sulla "tardività" della contestazione, la libera determinazione dell'imputato verso i riti speciali risulta sviata da aspetti di "anomalia" caratterizzanti la condotta processuale del pubblico ministero. Tale anomalia deriva o dalla erroneità della imputazione (il fatto è diverso) o dalla sua incompletezza (manca l'imputazione relativa a un reato connesso). La erroneità o la incompletezza della imputazione non è qui un dato emergente dall'attività dibattimentale: esso viene apprezzato sulla base degli stessi atti di indagine (in un caso rivelato dallo stesso pubblico ministero del predibattimento). In una ordinanza si adombra addirittura, in via di ipotesi, la possibilità di comportamenti maliziosi del pubblico ministero, tendenti ad impedire o comunque ad ostacolare il ricorso ai riti speciali da parte dell'imputato. Non può dunque parlarsi, in simili vicende, di una libera assunzione del rischio del dibattimento da parte dell'imputato. Sia pure con riferimento ad altro istituto, la Corte ha avuto modo di sottolineare che "le valutazioni dell'imputato circa la convenienza del rito speciale vengono a dipendere anzitutto dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero", ditalché, quando, in presenza di una evenienza patologica del procedimento, quale è quella derivante dall'errore sulla individuazione del fatto e del titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero, l'imputazione subisce una variazione sostanziale, risulta lesivo del diritto di difesa precludere all'imputato l'accesso ai riti speciali (sentenza n. 76 del 1993; cfr. anche sentenza n. 214 del 1993). Tale affermazione è in linea con la configurazione che i procedimenti speciali hanno assunto a seguito dei noti interventi di questa Corte. In particolare, con la sentenza n. 92 del 1992, è stato ribadito in termini generali, nel solco tracciato dalle precedenti decisioni (sentenze nn. 66 e 183 del 1990, 81 del 1991, 23 del 1992), che "l'introduzione, o meno, di un rito avente automatici effetti sulla determinazione della pena non può farsi dipendere da scelte discrezionali del pubblico ministero". Il principio, affermato relativamente al giudizio abbreviato, non può non estendersi all'altra procedura pattizia. Premesso che la richiesta di applicazione di una pena da parte dell'imputato esprime una modalità di esercizio del diritto di difesa, che si estrinseca nella possibilità offerta a tale soggetto di acquisire, con libera scelta, un trattamento sanzionatorio predefinito (cfr. sentenze nn. 313 del 1990 e 101 del 1993; ordinanza n. 116 del 1992), è di tutta evidenza come in questo rito la valutazione dell'imputato sia indissolubilmente legata, ancor più che nel giudizio abbreviato, alla natura dell'addebito, trattandosi non solo di avviare una procedura che permette di definire il merito del processo al di fuori e prima del dibattimento, ma di determinare lo stesso contenuto della decisione, il che non può avvenire se non in riferimento a una ben individuata fattispecie penale.

La disciplina in esame risulta inoltre censurabile in riferimento all'art. 3 della Costituzione, venendo l'imputato irragionevolmente discriminato, ai fini dell'accesso ai procedimenti speciali, in dipendenza dalla maggiore o minore esattezza o completezza della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari operata dal pubblico ministero nell'esercitare l'azione penale alla chiusura delle indagini stesse. È bene precisare che sul thema decidendum non esplica influenza l'esistenza o meno di una fase di controllo giurisdizionale predibattimentale (udienza preliminare) sull'oggetto dell'azione penale. È vero che, se si dà ingresso a tale controllo, è possibile utilizzare il meccanismo di adeguamento delle imputazioni previsto dall'art. 423 cod. proc. pen.; ma se, nonostante tale istituto, l'oggettiva erroneità o la incompletezza del quadro accusatorio non viene sanata (perché l'art. 423 non è in concreto applicato o perché nemmeno la nuova contestazione risulterà poi aderente agli elementi che scaturiscono dagli atti di indagine), la successiva "variazione" dibattimentale ex artt. 516 e 517 ripropone comunque, negli stessi termini, il vizio di costituzionalità sopra evidenziato.

5. - Al di là delle ipotesi di contestazione "tardiva", analoghe considerazioni valgono per il caso in cui l'imputato abbia formulato tempestivamente e ritualmente la richiesta di procedimento speciale in ordine alla originaria imputazione.

Di norma, in tale situazione, ove il procedimento richiesto sia stato ingiustificatamente o erroneamente negato, all'imputato è assicurato lo stesso trattamento penale che egli avrebbe conseguito ove al rito si fosse addivenuti. Ciò deriva, quanto al "patteggiamento", dal disposto dell'art. 448, primo comma, ultimo periodo, cod. proc. pen., secondo cui, all'esito del dibattimento, il giudice applica la pena richiesta dall'imputato, previa valutazione della congruità di essa e dell'ingiustificatezza del dissenso del pubblico ministero; e, quanto al giudizio abbreviato, dalle sentenze di questa Corte nn. 66 e 183 del 1990, 81 del 1991 e 23 del 1992, con le quali risulta affidata al giudice del dibattimento la verifica della eventuale lesione delle aspettative dell'imputato in ordine a tale rito, che, ove accertata, fa conseguire la diminuzione della pena nel caso di condanna. Ma, relativamente al "patteggiamento", non è considerata l'evenienza in cui la pena richiesta dall'imputato risulti inevitabilmente incongrua, in quanto formulata con riferimento a una imputazione poi modificatasi nel corso della istruzione dibattimentale (come è il caso evidenziato nell'ordinanza del Pretore di Urbino, ove si tratta di una contravvenzione tramutata in delitto), con la conseguente inapplicabilità della regola contenuta nel citato primo comma dell'art. 448; mentre, sia per il "patteggiamento" che per il giudizio abbreviato, l'attuale disciplina non consente all'imputato di esprimere l'opzione per i suddetti riti speciali relativamente a imputazioni che, nel corso del dibattimento, si vengono ad "aggiungere" ( ex art. 517 cod. proc. pen.) a quelle originariamente contestate. Anche in tali situazioni, non dipendendo la preclusione al rito da una consapevole scelta dell'imputato, che anzi ha posto in essere tutto quello che la legge prevede per favorire la definizione del procedimento in sede predibattimentale, è da ravvisare una lesione dei princìpi costituzionali sopra richiamati.

6. - Per valutare quale sia la soluzione per ricondurre il sistema delle nuove contestazioni in sintonia con i princìpi costituzionali è necessario separare la tematica del "patteggiamento" da quella del giudizio abbreviato. Il primo, più che essere un rito speciale, è una forma di definizione pattizia del contenuto della sentenza che non richiede particolari procedure e che pertanto, proprio per tali sue caratteristiche, si presta ad essere adottata in qualsiasi fase del procedimento, compreso il dibattimento. Con la sentenza n. 101 del 1993, la Corte ha affermato che nei casi in cui la inosservanza del termine per formulare la richiesta di applicazione della pena "sia stata determinata da un evento non evitabile dall'interessato" è possibile fare applicazione dell'istituto della restituzione nel termine; e che, in tale ipotesi, "nulla impedisce che il rito speciale in esame ( ..) trovi collocazione nel corso del dibattimento", subendo, tuttavia, "un inevitabile adattamento, ricavabile dal sistema", nel senso che "sia il consenso delle parti, sia il controllo del giudice ( ..) dovranno avvenire sulla base del complesso degli atti fino allora compiuti", che restano pienamente validi e utilizzabili. Ora, deve riconoscersi che anche nelle situazioni qui considerate non sussistono ostacoli di carattere logico-sistematico a che il giudice, eventualmente anche alla ripresa del dibattimento dopo la sospensione connessa al termine per la difesa previsto dall'art. 519 cod. proc. pen., accertati i presupposti di cui si è detto, si pronunci, se del caso previa separazione dei procedimenti, sulla eventuale richiesta di applicazione di pena concordata che le parti abbiano avanzato relativamente alla nuova contestazione.

Con riferimento alla ipotesi della contestazione "tardiva", comportante una valutazione contenutistica degli atti del procedimento, non è neppure di ostacolo, ai fini della verifica dei presupposti di tale meccanismo, la limitata conoscenza degli atti di indagine da parte del giudice del dibattimento. E ciò in quanto nel vigente ordinamento processuale è in via ordinaria onere delle parti, ove ne abbiano interesse, fornire elementi di conoscenza al giudice, sia che la decisione riguardi il merito del processo ovvero fatti dai quali dipende l'applicazione delle norme processuali (artt. 187 e 190 cod. proc. pen.).

7. - Va pertanto dichiarata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., l'illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono la facoltà dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento l'applicazione di pena a norma dell'art. 444 cod. proc. pen., relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell'esercizio dell'azione penale ovvero quando l'imputato ha tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta di applicazione di pena in ordine alle originarie imputazioni.

Resta naturalmente salva, quanto alle originarie imputazioni, l'applicabilità dell'art. 448, primo comma, ultimo periodo, cod. proc. pen., alle condizioni e nei termini da esso previsti. Deve peraltro essere avvertito che tale conclusione rimane rigorosamente circoscritta alle specifiche situazioni dedotte dai giudici a quibus, che riguardano, come precisato, le contestazioni dibattimentali del fatto diverso e del reato concorrente (in quanto connesso ex art. 12, primo comma, lettera b), cod. proc. pen.). In particolare, è ad essa estranea la diversa evenienza della contestazione delle circostanze aggravanti, non devoluta all'esame di questa Corte.

8. - Resta assorbito l'ulteriore profilo di illegittimità prospettato dal Pretore di Venezia in riferimento all'art. 111 Cost.

Una volta dichiarata l'illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte sopra precisata, risultano superate le questioni relative agli artt. 519, 520 e 446, primo comma, del medesimo codice.

9. - Quanto al giudizio abbreviato, cui fa riferimento solo l'ordinanza del Pretore di Venezia, esso si realizza attraverso una vera e propria "procedura", inconciliabile con quella dibattimentale. Non potrebbe, quindi, ritenersi scelta costituzionalmente obbligata, allo stato dell'ordinamento processuale, un simile meccanismo di trasformazione del rito. A parte l'opinabilità di tale soluzione da un punto di vista tecnico-sistematico, essa si pone in termini alternativi ad altre possibili opzioni, attinenti alla sfera della discrezionalità legislativa, come ad esempio quella di attribuire al giudice, all'esito del dibattimento, il compito di verificare l'esistenza dei presupposti di cui si è detto al solo fine di applicare, nel caso di condanna, la riduzione della pena di un terzo; o quella di una preclusione, in tali casi, della nuova contestazione, con conseguente trasmissione degli atti al pubblico ministero relativamente ad essa.

La questione, per la parte concernente la preclusione al giudizio abbreviato, va pertanto dichiarata inammissibile, non diversamente da quanto deciso da questa Corte con sentenza n. 129 del 1993, riguardante un caso analogo.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

Riuniti i giudizi:

dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 del codice di procedura penale nella parte in cui non prevedono la facoltà dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento l'applicazione di pena a norma dell'art. 444 del codice di procedura penale, relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell'esercizio dell'azione penale ovvero quando l'imputato ha tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta di applicazione di pena in ordine alle originarie imputazioni;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 520 e 516 del codice di procedura penale, relativamente alla preclusione al giudizio abbreviato in ordine alle nuove contestazioni dibattimentali, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Pretore di Venezia - sezione distaccata di Chioggia - con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 giugno 1994.

Il Presidente: PESCATORE

Il cancelliere: DI PAOLA

Depositata in cancelleria il 30 giugno 1994.

Il direttore della cancelleria: DI PAOLA