Sentenza n. 154 del 2021

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SENTENZA N. 154

ANNO 2021

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SANGIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 8 del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari), promosso dal Tribunale ordinario di Sassari, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento instaurato da P. C. contro la Società cooperativa ecologia ambiente Sardegna (SCEAS), con ordinanza del 13 maggio 2020, iscritta al n. 171 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 giugno 2021 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

deliberato nella camera di consiglio del 10 giugno 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 13 maggio 2020, iscritta al n. 171 del registro ordinanze 2020, il Tribunale ordinario di Sassari, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 38, 47 e 76 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale «in particolare» dell’art. 8 del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari), «nella parte in cui, stravolgendo lo spirito complessivo della delega parlamentare con cui era stato previsto un meccanismo di bilanciamento delle posizioni e dei poteri delle parti, a tutto danno ingiustificato del lavoratore ha omesso di prevedere strumenti idonei a garantire una adeguata, piena ed efficace tutela del diritto di quest’ultimo all’adempimento dell’obbligo di contribuzione incombente sul datore di lavoro».

1.1.– In punto di rilevanza, il giudice a quo muove dal presupposto che solo il lavoratore possa agire in giudizio nei confronti del datore di lavoro che non corrisponda al fondo di previdenza complementare i contributi e gli accantonamenti riguardanti il trattamento di fine rapporto (TFR). Il legislatore avrebbe delineato «un rapporto trilaterale tra datore di lavoro, lavoratore e Fondo, con conseguente litisconsorzio necessario fra le tre parti».

Nel caso di specie, il lavoratore, con ricorso per ingiunzione, avrebbe chiesto di condannare il datore di lavoro al versamento delle quote di TFR al fondo di previdenza complementare. Il lavoratore non avrebbe potuto rivendicare il pagamento in proprio favore del TFR, in quanto il diritto sorgerebbe «soltanto al momento della cessazione del rapporto di lavoro», e non avrebbe potuto agire neppure il fondo di previdenza complementare, che la giurisprudenza reputa sprovvisto di «legittimazione attiva».

Il rimettente espone di dovere respingere la domanda monitoria, in ragione del litisconsorzio necessario tra lavoratore, datore di lavoro e fondo. Nello speciale procedimento per ingiunzione, difatti, non si potrebbe integrare il contraddittorio e, per altro verso, l’art. 81 del codice di procedura civile impedirebbe di far valere in nome proprio «un diritto altrui, o un diritto anche altrui (cioè, anche del Fondo), come nel caso di specie».

1.2.– In merito alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente osserva che la scelta di una diversa interpretazione esporrebbe la decisione di accoglimento del ricorso a una probabile riforma e che, tuttavia, la «pacifica interpretazione giurisprudenziale» condurrebbe al rigetto della domanda e si risolverebbe «in una denegata giustizia», in contrasto con molteplici princìpi costituzionali.

Secondo il giudice a quo, al lavoratore si dovrebbe accordare la facoltà di ingiungere al datore di lavoro il pagamento del TFR conferito a un fondo di previdenza complementare, «senza la necessità della partecipazione al giudizio del Fondo medesimo», allorché il fondo non vanti «un interesse meritevole di tutela a partecipare al giudizio».

1.2.1.– Il rimettente, in primo luogo, prospetta il contrasto con l’art. 76 Cost. La disciplina censurata non attribuirebbe la «legittimazione attiva del Fondo previdenziale ad agire in giudizio contro il datore di lavoro per ottenere l’accertamento e quindi l’esecuzione dell’obbligo di versamento delle quote di TFR spettanti al lavoratore» e neppure introdurrebbe «alternativi strumenti idonei a garantire una adeguata, piena ed efficace tutela del diritto del lavoratore all’adempimento dell’obbligo di contribuzione incombente sul datore di lavoro». La mancata attuazione della delega con riguardo a tali aspetti ne stravolgerebbe «lo spirito complessivo».

1.2.2.– L’esclusione della tutela monitoria, che rappresenta «la forma di tutela di merito più veloce ed efficace prevista dall’ordinamento», sarebbe lesiva, inoltre, degli artt. 3, 24, 38 e 47 Cost.

Ad avviso del rimettente, «solo un diritto soggettivo che sia possibile difendere in giudizio con tutti gli strumenti forniti dall’ordinamento può ritenersi effettivamente tutelato dalla normazione primaria, e il diritto al Tfr del lavoratore, istituto che vale a garantirgli un trattamento di tutela per la vecchiaia ex art. 38 Cost., ed è comunque un mezzo di risparmio ex art. 47 Cost., deve ritenersi violato dal complesso delle norme con cui il Governo ha dato attuazione alla delega legislativa».

1.2.3.– In particolare, con «grave violazione dell’art. 3 Cost.», sussisterebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra il lavoratore che abbia aderito a un fondo di previdenza complementare, escluso dalla tutela monitoria, e «qualunque altro creditore sol che vanti un credito liquido e dimostrato per tabulas», ammesso, per contro, a beneficiare di tale tutela.

1.2.4.– Il rimettente denuncia, infine, il contrasto con l’art. 24 Cost. Il mancato riconoscimento della tutela monitoria, che darebbe luogo a una procedura «celere, semplice e meno costosa», renderebbe il diritto «“monco”», e lo priverebbe «di una parte rilevante della tutela giurisdizionale che l’ordinamento appresta invece ad ogni altro diritto patrimoniale».

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare inammissibili o comunque infondate le questioni sollevate.

2.1.– Le questioni sarebbero inammissibili sotto molteplici profili.

2.1.1.– Il rimettente non avrebbe svolto una argomentazione adeguata in ordine alle ragioni del contrasto della disciplina censurata con i parametri costituzionali evocati.

Sarebbero meramente assertive le osservazioni sullo stravolgimento della legge delega.

Apodittiche sarebbero anche le argomentazioni in merito alla violazione degli artt. 38 e 47 Cost.

2.1.2.– Il giudice a quo non avrebbe esplorato la praticabilità di una interpretazione adeguatrice e, in particolare, non avrebbe chiarito se le parti abbiano pattuito la cessione di un credito futuro o una delegazione di pagamento. Il fondo di previdenza complementare, ove fosse delegatario, sarebbe legittimato ad agire contro il datore di lavoro. Tale inquadramento consentirebbe dunque di superare i dubbi di legittimità costituzionale prospettati nell’odierno giudizio.

Peraltro, il lavoratore potrebbe sempre far valere il diritto al versamento delle quote di TFR trattenute dal datore di lavoro, quale che sia la qualificazione giuridica più appropriata dell’operazione attuata dalle parti.

2.2.– Le questioni, nel merito, non sarebbero fondate.

2.2.1.– Non sussisterebbe alcuna violazione dell’art. 76 Cost.

La scelta discrezionale di non attuare le previsioni della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria) in merito alla legittimazione del fondo non avrebbe stravolto lo spirito complessivo della delega, diretta essenzialmente a incrementare il finanziamento alle forme pensionistiche complementari.

2.2.2.– Non sarebbe fondata neppure la censura di violazione dell’art. 3 Cost.

Nel caso di specie, non sarebbero omogenee le fattispecie oggetto di comparazione. Il rimettente, nell’istituire il raffronto con la «generale categoria dei creditori», avrebbe trascurato la peculiarità del rapporto trilaterale che intercorre tra datore di lavoro, lavoratore e fondo di previdenza. Tale rapporto si esprimerebbe, sul versante processuale, nel litisconsorzio necessario, anche in un’ottica di più efficace tutela del lavoratore.

Lo stesso litisconsorzio necessario caratterizzerebbe, nell’ambito della previdenza obbligatoria, l’azione promossa dal lavoratore per ottenere la condanna del datore di lavoro a versare all’ente previdenziale i contributi omessi.

2.2.3.– La disciplina censurata, infine, non pregiudicherebbe il diritto alla tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost.

L’impraticabilità della tutela monitoria, peraltro affermata da «un orientamento giurisprudenziale» e non dalla «lettera della legge», non precluderebbe la facoltà di agire con il giudizio ordinario di cognizione.

Né si potrebbero invocare, in senso contrario, la lunga durata e gli oneri più gravosi di tale giudizio, non solo perché si tratterebbe di rilievi dal «mero valore metagiuridico», ma anche perché sulla stessa procedura monitoria si potrebbe innestare un giudizio ordinario di cognizione.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Sassari, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza iscritta al n. 171 del reg. ord. 2020, dubita della legittimità costituzionale «in particolare» dell’art. 8 del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari), per violazione degli artt. 3, 24, 38, 47 e 76 della Costituzione.

Le censure si indirizzano verso tale disposizione, in quanto applicabile nel giudizio principale, riguardante il conferimento del trattamento di fine rapporto (TFR) a un fondo di previdenza complementare.

1.1.– La disposizione censurata violerebbe, anzitutto, l’art. 76 Cost.

Non sarebbe stata attuata la previsione della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria), che al legislatore delegato affidava il compito di stabilire la legittimazione del fondo di previdenza complementare ad agire contro il datore di lavoro «per ottenere l’accertamento e quindi l’esecuzione dell’obbligo di versamento delle quote di TFR spettanti al lavoratore». Il legislatore delegato non avrebbe neppure introdotto strumenti alternativi, volti a «garantire una adeguata, piena ed efficace tutela del diritto del lavoratore all’adempimento dell’obbligo di contribuzione incombente sul datore di lavoro». Sarebbe stato così stravolto «lo spirito complessivo della delega parlamentare con cui era stato previsto un meccanismo di bilanciamento delle posizioni e dei poteri delle parti».

1.2.– L’esclusione della tutela monitoria per il lavoratore che pure «disponga della prova cartolare e immediata dell’omesso versamento del datore di lavoro al Fondo» contrasterebbe anche con gli artt. 3, 24, 38 e 47 Cost.

Secondo il rimettente, soltanto «un diritto soggettivo che sia possibile difendere in giudizio con tutti gli strumenti forniti dall’ordinamento» sarebbe «effettivamente tutelato». La disposizione censurata, nel precludere la tutela monitoria e nell’imporre l’instaurazione di un giudizio ordinario di cognizione, lederebbe «il diritto al Tfr del lavoratore, istituto che vale a garantirgli un trattamento di tutela per la vecchiaia ex art. 38 Cost., ed è comunque un mezzo di risparmio ex art. 47 Cost.».

1.3.– Il rimettente denuncia, inoltre, l’arbitraria disparità di trattamento tra il lavoratore che, dopo aver conferito le quote di TFR a un fondo di previdenza complementare, non potrebbe beneficiare della «celere, semplice e meno costosa procedura monitoria» e «qualunque altro creditore», che potrebbe ricorrere a tale tutela quando «vanti un credito liquido e dimostrato per tabulas». Ne deriverebbe una «grave violazione dell’art. 3 Cost.»

1.4.– La disposizione censurata entrerebbe in conflitto, infine, con l’art. 24 Cost., in quanto riconoscerebbe «un diritto “monco”, illegittimamente sfornito di una parte rilevante della tutela giurisdizionale che l’ordinamento appresta invece ad ogni altro diritto patrimoniale». La violazione sarebbe ancor più grave, in quanto molteplici sarebbero le ipotesi di adesione tacita ai fondi di previdenza complementare.

Né la lesione dell’art. 24 Cost. potrebbe essere esclusa per il sol fatto che sia possibile richiedere il sequestro conservativo dei beni del datore di lavoro inadempiente (art. 671 del codice di procedura civile), in quanto il ricorrente dovrebbe dimostrare «dati di fatto ulteriori», riguardanti il fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito.

2.– Le questioni, nei termini in cui sono state prospettate, sono inammissibili.

2.1.– La difesa dello Stato ha eccepito, in linea preliminare, l’inammissibilità delle questioni per le insuperabili lacune descrittive dell’ordinanza di rimessione. Un più accurato inquadramento della fattispecie controversa avrebbe consentito di superare – con gli strumenti dell’interpretazione adeguatrice – il dubbio di costituzionalità.

L’eccezione è fondata, nei termini che saranno precisati.

Il giudice a quo ha l’onere di identificare i contenuti della controversia, in termini tali da dimostrare la rilevanza del dubbio di costituzionalità e, dunque, l’applicabilità della disposizione censurata nel percorso argomentativo che conduce alla decisione (fra le molte, sentenza n. 263 del 2020, punti 2.1. e 2.2. del Considerato in diritto).

Nel caso di specie, il rimettente ha descritto in maniera lacunosa la fattispecie concreta sottoposta al suo esame, tanto da non consentire a questa Corte di esprimersi circa la non implausibilità delle motivazioni addotte. Non è chiaro, infatti, quali siano le condizioni di adesione del lavoratore al fondo, né in che modo si possa configurare la contitolarità del diritto a esigere le prestazioni attese.

La mancata attuazione delle previsioni della legge delega in ordine alla contitolarità, in capo ai fondi pensione e agli iscritti, del diritto alla contribuzione e del diritto al TFR (art. 1, comma 2, lettera e, numero 8, della legge n. 243 del 2004) impone di ricostruire in modo puntuale la volontà delle parti (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 15 febbraio 2019, n. 4626) e di accertare di volta in volta se il conferimento del TFR sottenda la cessione di un credito futuro (art. 1260 del codice civile) o una delegazione di pagamento (art. 1268 cod. civ.).

Su tale qualificazione, che incide sulla titolarità del diritto e sulla conseguente legittimazione a dedurlo in causa, il rimettente trascura di soffermarsi. Le argomentazioni si esauriscono nel generico richiamo a una «convenzione trilaterale avente ad oggetto il conferimento del Tfr al Fondo», che non consente di far luce sulla volontà delle parti coinvolte in questa forma di mutualità. Altrettanto fugace è la menzione di «un diritto anche altrui (cioè, anche del Fondo)», senza alcun cenno al fondamento della descritta contitolarità e di una necessaria legittimazione congiunta.

2.2.– Anche la motivazione in merito alla non manifesta infondatezza incorre nei profili di inammissibilità eccepiti dall’Avvocatura generale dello Stato.

Il rimettente ha l’onere di svolgere una adeguata e autonoma illustrazione delle ragioni del contrasto con i parametri costituzionali evocati (fra le molte, sentenza n. 87 del 2021, punto 3.1. del Considerato in diritto), onere che in questo caso non è stato assolto.

2.2.1.– Il rimettente, difatti, prospetta lo snaturamento della delega nella sua interezza, senza, tuttavia, dar conto delle più ampie finalità impresse alla riforma, volta a incrementare i flussi di finanziamento destinati alle forme pensionistiche complementari e a garantire una più elevata copertura previdenziale, in modo da affiancare il sistema obbligatorio pubblico, in attuazione dei princìpi enunciati dall’art. 38 Cost. (sentenze n. 218 del 2019, n. 393 del 2000 e n. 421 del 1995; Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 9 giugno 2021, n. 16084).

Nel richiamare la giurisprudenza di questa Corte sulla violazione dell’art. 76 Cost., il giudice a quo non spiega per quale ragione l’incompleta attuazione della delega con riguardo a un aspetto circoscritto (la legittimazione ad agire del fondo pensione) si ripercuota sull’intero disegno riformatore, tanto da vanificarne gli obiettivi.

2.3.– Ulteriori ragioni di inammissibilità, da rilevare d’ufficio, risiedono nella formulazione del petitum.

Esso si presenta contraddittorio e, per altro verso, richiede a questa Corte un intervento dall’elevato coefficiente manipolativo.

2.3.1.– Nel censurare il contrasto con l’art. 76 Cost., il rimettente sollecita l’individuazione di una contitolarità dei diritti in capo ai fondi pensione e ai lavoratori e l’attribuzione ai fondi della legittimazione ad agire.

Il giudice a quo osserva che l’auspicata pronuncia di accoglimento potrebbe anche delineare «alternativi strumenti idonei a garantire una adeguata, piena ed efficace tutela del diritto del lavoratore all’adempimento dell’obbligo di contribuzione incombenti sul datore di lavoro».

Il rimettente non solo non illustra le peculiarità di tali strumenti, ma demanda a questa Corte il compito di sciogliere l’alternativa tra un meccanismo incentrato sulla legittimazione ad agire dei fondi pensione e una tutela declinata secondo diverse e indeterminate modalità.

2.3.2.– Nel concludere l’illustrazione delle censure, il giudice a quo reputa sufficiente – al fine di porre rimedio al vulnus denunciato – una pronuncia additiva che integri la previsione dell’art. 81 cod. proc. civ.

In questa prospettiva, si dovrebbe consentire al lavoratore iscritto al fondo di «domandare al giudice la condanna o l’ingiunzione del datore di lavoro, avente ad oggetto il versamento del Tfr al Fondo, senza la necessità della partecipazione al giudizio del Fondo medesimo». Il litisconsorzio non sarebbe più necessario quando non siano contestate le somme già versate e quelle ancora da versare al fondo pensione e quando il fondo non vanti «un interesse meritevole di tutela a partecipare al giudizio».

Tale soluzione, nell’attribuire al lavoratore la legittimazione ad agire, si discosta da quella che presuppone la compiuta attuazione della delega e il riconoscimento della legittimazione ad agire del fondo.

2.3.3.– L’addizione che il rimettente prefigura, a prescindere dalla correttezza della premessa interpretativa da cui muove, estenderebbe le ipotesi di sostituzione processuale (art. 81 cod. proc. civ.), che solo il legislatore può prevedere. Si dovrebbe così accordare al lavoratore, nelle vesti di sostituto, la facoltà di far valere in nome proprio un diritto altrui.

A tale nuova ipotesi di sostituzione processuale farebbe riscontro una singolare configurazione del litisconsorzio necessario. Il rapporto inscindibile che – sul versante sostanziale – il rimettente ravvisa tra lavoratore, datore di lavoro e fondo di previdenza complementare darebbe adito a un litisconsorzio necessario nelle sole ipotesi – che spetterebbe a questa Corte enucleare, in difetto di indicazioni univoche – in cui il fondo sia interessato a partecipare al giudizio.

L’auspicato intervento additivo attiene alla conformazione di istituti, come la sostituzione processuale e il litisconsorzio necessario, in cui ampio è l’apprezzamento discrezionale riconosciuto al legislatore, e si ripromette di delinearli secondo soluzioni caratterizzate da un alto tasso di manipolatività.

Anche queste considerazioni convergono nel rendere inammissibili le questioni sollevate (fra le molte, sentenza n. 219 del 2019, punto 7 del Considerato in diritto).

3.– Questa Corte non può, tuttavia, non osservare che la materia, assai rilevante sul piano delle attese sinergie fra mutualità volontaria e regime pensionistico pubblico, dovrebbe essere oggetto di una più attenta sistemazione da parte del legislatore, chiamato a risolvere le aporie che pur emergono dalle questioni oggi scrutinate.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 38, 47 e 76 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Sassari, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 giugno 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Silvana SCIARRA, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 15 luglio 2021.