SENTENZA N. 25
ANNO 2024
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da:
Presidente: Augusto Antonio BARBERA;
Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 95 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), promosso dal Tribunale ordinario di Marsala, sezione penale, nel procedimento a carico di A. D.V., con ordinanza del 27 giugno 2023, iscritta al n. 107 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2023.
Visti l’atto di costituzione di A. D.V., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 7 febbraio 2024 il Giudice relatore Francesco Viganò;
uditi l’avvocato Giacomo Frazzitta per A. D.V. e l’avvocato dello Stato Salvatore Faraci per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 7 febbraio 2024.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 27 giugno 2023, il Tribunale ordinario di Marsala, sezione penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 27 della Costituzione, dell’art. 95 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), nella parte in cui non consente di presentare al giudice dell’esecuzione, entro trenta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, istanza di applicazione di una delle pene sostitutive delle pene detentive brevi di cui all’art. 20-bis del codice penale «ai condannati a pena detentiva non superiore a quattro anni nei confronti dei quali, al momento dell’entrata in vigore del succitato decreto, pendeva dinanzi alla Corte di appello il termine per il deposito della sentenza».
1.1.– Il rimettente è adito, in qualità di giudice dell’esecuzione, da A. D.V., condannato con sentenza irrevocabile alla pena di un anno e cinque mesi di reclusione, il quale chiede la sostituzione di tale pena, che non è stata condizionalmente sospesa, con una delle pene detentive brevi previste dall’art. 20-bis cod. pen.
Più in particolare, il rimettente riferisce:
– che la sentenza era stata pronunciata in primo grado il 20 aprile 2022 dal Tribunale di Marsala;
– che il 9 novembre 2022 la Corte d’appello di Palermo aveva integralmente confermato la pronuncia di primo grado, fissando il termine di novanta giorni per il deposito della sentenza;
– che, in anticipo rispetto a tale termine, la sentenza di appello era stata depositata il 13 dicembre 2022;
– che il 30 dicembre 2022 era entrato in vigore il d.lgs. n. 150 del 2022;
– che il 21 gennaio 2023 il difensore del condannato aveva proposto istanza alla Corte d’appello chiedendo la sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con una delle pene sostitutive previste dal nuovo art. 20-bis cod. pen.;
– che il 13 febbraio 2023 la Corte d’appello di Palermo aveva dichiarato inammissibile tale istanza, sulla base del rilievo che il giudizio di appello si era già concluso in epoca antecedente all’entrata in vigore della riforma;
– che il 25 marzo 2023 la sentenza di primo grado, integralmente confermata in appello, era divenuta irrevocabile, non essendo stato proposto ricorso per cassazione;
– che «[e]ntro trenta giorni dal passaggio in giudicato della succitata sentenza del Tribunale di Marsala (segnatamente, in data 2.5.2023)» la difesa del condannato aveva proposto allo stesso giudice a quo, in qualità di giudice dell’esecuzione, istanza di applicazione di una pena sostitutiva, chiedendo poi – all’udienza in camera di consiglio del 15 giugno 2023 – che fosse sollevata questione di legittimità costituzionale della disciplina transitoria di cui all’art. 95 del d.lgs. 150 del 2022.
1.2.– Dopo aver sottolineato la propria qualità di “giudice” ai fini della proposizione dell’incidente di legittimità costituzionale, il rimettente osserva che – facendo stretta applicazione della disposizione censurata – egli dovrebbe pervenire a una declaratoria di inammissibilità dell’istanza.
L’art. 95 del d.lgs. n. 150 del 2022 prevede infatti una disciplina differenziata, in particolare, per i procedimenti pendenti in grado di appello e per quelli pendenti innanzi alla Corte di cassazione al momento di entrata in vigore del decreto legislativo medesimo. Nel caso di specie, peraltro, il procedimento penale a carico del condannato sarebbe stato «solo formalmente pendente in appello, poiché il giudice del gravame aveva già emesso il dispositivo (il 9 novembre 2022) e addirittura – anzitempo rispetto alla scadenza del termine per il deposito della sentenza, indicato dalla Corte in giorni novanta – redatto la relativa motivazione (depositata il 13 dicembre 2022)»; tanto che la Corte d’appello aveva respinto l’istanza di sostituzione della pena proposta dal ricorrente, proprio in quanto essa si sarebbe già spogliata del potere decisionale con la pronuncia del dispositivo. Per altro verso, però, il ricorrente non avrebbe potuto chiedere la sostituzione della pena alla Corte di cassazione, non essendo tale possibilità prevista dalla disposizione censurata. Né, infine, tale richiesta potrebbe ora essere formulata al giudice dell’esecuzione, «ostandovi la formulazione letterale della disposizione normativa in commento».
Dal che la rilevanza delle questioni prospettate.
1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle stesse, il rimettente ritiene che la disposizione censurata violi anzitutto il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., poiché – per effetto di «un’evidente lacuna normativa di tipo involontario» – precluderebbe l’applicazione di pene sostitutive agli imputati in procedimenti penali in cui, al momento dell’entrata in vigore della novella normativa, pendeva il termine per il deposito della sentenza di secondo grado da parte della Corte d’appello. Ciò senza che possano individuarsi ragionevoli giustificazioni della differenza di trattamento rispetto agli imputati i cui procedimenti fossero a quella data effettivamente pendenti in primo e secondo grado ovvero in grado di cassazione, i quali tutti avrebbero invece accesso alla possibilità di sostituzione della pena.
Tale irragionevole differenziazione si tradurrebbe, d’altra parte, in una violazione dell’art. 24 Cost. La disposizione censurata precluderebbe ad alcuni imputati soltanto la facoltà di richiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione di una sanzione sostitutiva, con un’irragionevole compromissione del loro diritto di difesa, che è inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Infine, sarebbe vulnerata la finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27 Cost., cui la riforma si ispira, poiché sarebbe impedito soltanto ad alcune categorie di condannati l’accesso a una pena non detentiva, espressione di una risposta punitiva dello Stato diversificata, oltre che maggiormente effettiva e tempestiva.
1.4.– La lacuna normativa denunciata non sarebbe, infine, colmabile in via ermeneutica, stante l’ostacolo rappresentato dalla littera legis. D’altra parte, ritenere applicabile nel processo a quo la normativa dettata per i procedimenti pendenti in cassazione al momento di entrata in vigore della norma si tradurrebbe in una interpretazione analogica dell’art. 95 del d.lgs. n. 150 del 2022, preclusa dall’art. 14 delle Preleggi, stante la natura di «norma “eccezionale” (perché di natura “intertemporale”)» della disposizione censurata.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente inammissibili, o comunque manifestamente infondate.
2.1.– Eccepisce anzitutto l’interveniente il difetto di rilevanza delle questioni. La pronuncia richiesta a questa Corte, infatti, non potrebbe avere alcuna incidenza nel giudizio a quo, in cui l’istanza dovrebbe, in ogni caso, essere rigettata per tardività: essa, infatti, è stata presentata il 2 maggio 2023, e dunque oltre il termine di trenta giorni dall’irrevocabilità della sentenza previsto a pena di decadenza dall’art. 95 del d.lgs. n. 150 del 2022.
2.2.– Le questioni sarebbero, peraltro, anche manifestamente infondate, dal momento che il rimettente non avrebbe correttamente inteso la portata della norma censurata, la quale si applicherebbe ai «giudizi pendenti in ogni grado». L’interveniente sottolinea, sul punto, la possibilità per la parte di impugnare con ricorso per cassazione la sentenza d’appello «per qualsivoglia ragione (p.es. la mancata concessione della sospensione condizionale della pena)», atteso che «la pendenza della lite (anche nell’eventualità di pronuncia di inammissibilità del ricorso per cassazione) avrebbe consentito al condannato di rivolgersi al giudice dell’esecuzione».
3.– Anche il ricorrente nel giudizio a quo si è costituito in giudizio, concludendo nel senso dell’accoglimento delle questioni prospettate.
Osserva testualmente la parte che «[i]l termine per proporre l’applicazione delle pene sostitutive di cui all’art. 20bis codice penale ai condannati a pena detentiva non superiore a quattro anni entro trenta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, dunque era il 24 marzo 2023, tuttavia il [D.V.] presenta a mezzo del proprio legale di fiducia istanza il 2 maggio 2023 e il Giudice dell’esecuzione investito della quaestio iuris fissa udienza il 15 giugno 2023 e in quella data ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale».
La difesa della parte privata sottolinea, inoltre, che investire il giudice dell’esecuzione dell’istanza di applicazione della sanzione sostitutiva «in una fase intertemporale differente» rispetto a quanto previsto dalla disposizione censurata costituirebbe l’unico strumento processuale utilizzabile per ottenere la concessione del beneficio.
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale ordinario di Marsala, sezione penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 27 Cost., dell’art. 95 del d.lgs. n. 150 del 2022, nella parte in cui non consente di presentare al giudice dell’esecuzione, entro trenta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, istanza di applicazione di una delle pene sostitutive delle pene detentive brevi di cui all’art. 20-bis cod. pen. «ai condannati a pena detentiva non superiore a quattro anni nei confronti dei quali, al momento dell’entrata in vigore del succitato decreto, pendeva dinanzi alla Corte di appello il termine per il deposito della sentenza».
Il rimettente denuncia una «lacuna involontaria» nella disciplina transitoria dettata dall’art. 95 del d.lgs. n. 150 del 2022, relativa alle nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi, disciplinate ora dall’art. 20-bis cod. pen., introdotto dall’art. 1 dello stesso d.lgs. n. 150 del 2022.
L’art. 95, comma 1, di tale decreto legislativo stabilisce, nel primo periodo, che le norme relative alle pene detentive brevi si applichino «anche ai procedimenti penali pendenti in primo grado o in grado di appello al momento dell’entrata in vigore del presente decreto». Il secondo periodo prevede poi una disciplina transitoria per i condannati a pena detentiva non superiore a quattro anni i cui procedimenti penali fossero «pendent[i] innanzi la Corte di cassazione all’entrata in vigore del presente decreto», stabilendo che – entro trenta giorni dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna – essi potessero presentare istanza di applicazione di una delle pene sostitutive al giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 666 del codice di procedura penale.
Secondo il rimettente, in sostanza, il legislatore delegato avrebbe omesso di disciplinare il caso specifico in cui il processo, alla data di entrata in vigore del decreto, fosse stato già definito dalla corte d’appello mediante la lettura del dispositivo, ma non potesse ancora ritenersi «pendente innanzi la Corte di cassazione», non essendo decorso il termine per il deposito della sentenza d’appello.
Tale omessa previsione avrebbe privato il condannato che si trovasse in questa situazione, al momento dell’entrata in vigore della riforma, della possibilità di ottenere la sostituzione della pena detentiva inflittagli con una delle pene previste dal nuovo art. 20-bis cod. pen.
Con ciò sarebbero stati violati:
– l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento rispetto a tutti i condannati espressamente contemplati dal tenore letterale della disposizione transitoria;
– l’art. 24 (recte: art. 24, secondo comma) Cost., perché la preclusione dell’accesso alle pene sostitutive avrebbe compresso irragionevolmente il suo diritto inviolabile alla difesa dell’interessato; nonché
– l’art. 27 (recte: art. 27, terzo comma) Cost., perché tale preclusione sarebbe incompatibile con la finalità rieducativa della pena, cui la riforma del 2022 complessivamente si ispira.
2.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce in via preliminare l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza.
2.1.– Secondo l’interveniente, il ricorso introduttivo del giudizio principale sarebbe stato tardivamente proposto rispetto al termine di trenta giorni dall’irrevocabilità della sentenza di condanna, stabilito dalla disposizione censurata. Ciò comporterebbe un’evidente ragione di inammissibilità del ricorso medesimo, che dovrebbe comunque essere rigettato per questa ragione dal giudice a quo; il che priverebbe di rilevanza le questioni proposte.
2.2.– Al riguardo, non può che convenirsi con l’Avvocatura generale dello Stato che il ricorso introduttivo del giudizio a quo risulta ictu oculi depositato oltre il termine di trenta giorni dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna: la stessa ordinanza di rimessione dà atto, nell’arco di poche righe, che la sentenza è passata in giudicato il 25 marzo 2023, e che il ricorso è stato depositato il 2 maggio 2023.
La costante giurisprudenza di questa Corte afferma, tuttavia, che il giudizio di rilevanza esige soltanto la dimostrazione della necessità, da parte del rimettente, di fare applicazione della norma censurata nel processo a quo, e non richiede invece la dimostrazione che l’accoglimento della questione sia effettivamente suscettibile di incidere sull’esito del processo medesimo. Ciò che è essenziale è, piuttosto, la dimostrazione che un eventuale accoglimento inciderebbe quanto meno sull’iter motivazionale che conduce alla decisione (ex multis, sentenze n. 88 e n. 19 del 2022 e n. 202 del 2021).
Ora, il presupposto interpretativo da cui muove l’odierno rimettente lo condurrebbe a rigettare il ricorso in quanto il caso concreto non è sussumibile tra quelli previsti dalla fattispecie astratta. Laddove, invece, le questioni di legittimità costituzionale fossero accolte, mediante una pronuncia additiva in grado di abbracciare anche il caso di specie, il ricorso non potrebbe più essere respinto per questa ragione; e si porrebbe, a quel punto, la diversa questione se il ricorso sia o meno inammissibile in quanto proposto oltre il termine di trenta giorni stabilito in via generale dalla disposizione censurata.
In quello scenario, l’eventuale riscontro della tardività del ricorso introduttivo del giudizio a quo darebbe dunque luogo a un suo rigetto sulla base di un iter motivazionale del tutto diverso: il che basta a garantire la rilevanza delle questioni sollevate.
L’eccezione di inammissibilità deve, dunque, essere rigettata.
3.– Nel merito, le questioni sono, tuttavia, infondate.
3.1.– Nella lettura del rimettente, la disposizione censurata sarebbe affetta da una lacuna involontaria, non avendo disciplinato l’ipotesi particolare in cui la corte d’appello – alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022 – avesse già definito il giudizio innanzi a sé mediante la pronuncia del dispositivo in udienza, ma fosse ancora pendente il termine per il deposito della motivazione. Ipotesi alla quale, peraltro, potrebbe agevolmente affiancarsi quella in cui la motivazione fosse stata depositata, ma fosse ancora pendente il termine per il ricorso in cassazione.
3.2.– Una tale lettura non può, in sé, ritenersi implausibile.
In entrambe queste ipotesi, il processo ben potrebbe ritenersi – da un punto di vista letterale – ancora “pendente in grado d’appello”, posto che i relativi atti si trovavano ancora fisicamente negli uffici della corte d’appello procedente; ma la previsione del primo periodo dell’art. 95, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2022 risulterebbe in concreto inapplicabile per ragioni sistematiche, dal momento che, secondo i principi generali del processo penale, una volta letto in udienza il dispositivo la corte d’appello non ha più alcun potere di modificare la statuizione relativa alla pena, salva l’ipotesi della correzione dell’errore materiale che qui certamente non ricorre.
Per altro verso, la disciplina del secondo periodo – che prevede la possibilità per il condannato di ottenere la sostituzione della pena mediante un incidente di esecuzione, una volta divenuta irrevocabile la sentenza di condanna – è testualmente riferita soltanto ai processi «pendenti innanzi la Corte di cassazione»: espressione che, secondo il significato letterale delle parole, non è riferibile a processi ancora non approdati presso la Corte di cassazione, e i cui atti si trovassero, al momento dell’entrata in vigore della riforma, presso la corte d’appello che ha pronunciato la sentenza.
3.3.– Ove quella assunta dal rimettente fosse l’unica interpretazione possibile della disciplina censurata, essa risulterebbe – in effetti – in evidente frizione con il principio di eguaglianza, non essendo ravvisabile alcuna ragione giustificatrice della differenza di trattamento rispetto alle altre ipotesi ivi disciplinate, e in particolare a quella in cui il processo già pendesse innanzi alla Corte di cassazione.
La lacuna di disciplina si porrebbe altresì in contrasto con il principio della retroattività della lex mitior, pur non evocato dal rimettente; principio che la costante giurisprudenza di questa Corte riconduce all’area di tutela degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (da ultimo, sentenze n. 198 del 2022, n. 238 del 2020 e n. 63 del 2019).
3.4.– Successivamente all’ordinanza di rimessione, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha tuttavia chiarito che, ai fini dell’applicabilità del regime transitorio previsto dalla disposizione censurata, deve considerarsi «pendente innanzi la Corte di cassazione» qualsiasi processo che, alla data di entrata in vigore della riforma, fosse stato definito dalla corte d’appello mediante la pronuncia del dispositivo: e, dunque, anche quei processi nei quali sia ancora pendente il termine fissato dal collegio per il deposito delle motivazioni (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 26 settembre-2 novembre 2023, n. 43975), ovvero nei quali sia pendente il termine per il ricorso per cassazione (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 28 giugno-8 settembre 2023, n. 37022 e sezione sesta penale, sentenza 21 giugno-2 agosto 2023, n. 34091).
In queste pronunce, la Corte di cassazione muove dalla constatazione che il codice di rito non contiene alcuna norma che individui il fatto o l’atto processuale che determina la “pendenza” del giudizio di impugnazione. Essa valorizza però il precedente costituito da una sentenza delle Sezioni unite sulla disciplina transitoria stabilita dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, recante «Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione», (cosiddetta “legge ex Cirielli”), che, per effetto della sentenza n. 393 del 2006, circoscriveva l’applicazione retroattiva della più favorevole disciplina in materia di prescrizione ai processi pendenti in primo grado, escludendone così dal raggio operativo quelli pendenti in grado di appello o innanzi la Corte di cassazione.
Le Sezioni unite avevano, in quell’occasione, identificato il fatto processuale che determina la pendenza in grado di appello nella pronuncia del dispositivo da parte del giudice di primo grado: da quel momento, infatti, il giudice non può più assumere ulteriori decisioni in merito all’accusa (salva la residua competenza in tema di procedimenti incidentali cautelari). Per altro verso, la pronuncia del dispositivo è anche il momento in cui prende avvio la fase dell’impugnazione, indipendentemente dal fatto che siano pendenti i termini per proporla (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 ottobre-10 dicembre 2009, n. 47008).
La soluzione era stata, allora, raggiunta sulla base dell’argomento che «non deve tanto ricostruirsi la nozione generale ed astratta di pendenza del giudizio o di pendenza del giudizio di appello, ma piuttosto l’esatto significato che la locuzione normativa assume nel particolare contesto in cui è stata introdotta, considerando gli interessi perseguiti e le condizioni per le quali l’esclusione della retroattività si palesa compatibile con la legge fondamentale. Né potrebbe giovare un richiamo dogmatico al dato testuale, posto che il concetto di pendenza non ha ricevuto definizione nel nostro sistema processual-penalistico, il che consente di adeguarlo alle caratteristiche ed alla finalità delle situazioni in cui è destinato ad incidere».
Il medesimo schema argomentativo è stato, ora, adottato dalla Corte di cassazione anche rispetto alla disciplina transitoria all’esame, la cui ratio evidente è quella di garantire a tutti gli imputati il cui giudizio sia ancora pendente la possibilità di un “recupero” della possibilità di vedersi applicata una pena sostitutiva.
3.5.– Le pronunce appena menzionate, che riflettono un orientamento sin qui unanime della Corte di cassazione, possono già essere ritenute espressive del diritto vivente relativo all’interpretazione della disposizione censurata.
Tale interpretazione – che coincide, nell’esito, con il risultato auspicato dal giudice a quo, e al contempo evita gli inconvenienti pratici della più macchinosa soluzione suggerita dall’Avvocatura generale dello Stato (punto 2.2. del Ritenuto in fatto) – si sottrae a tutte le censure di legittimità costituzionale formulate dal rimettente. Essa assicura infatti uniformità di trattamento a tutti gli imputati i cui processi fossero ancora pendenti – in qualsiasi grado di giudizio – all’epoca dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022, e consente loro di accedere alle più favorevoli pene sostitutive di cui al nuovo art. 20-bis cod. pen., spiccatamente orientate alla rieducazione del condannato, evitando al contempo qualsiasi vulnus al diritto di difesa.
3.6.– Non coglie nel segno, d’altra parte, l’argomento del giudice rimettente, secondo cui l’interpretazione in parola non sarebbe consentita dal tenore letterale della disposizione censurata, ciò che renderebbe imprescindibile un intervento di questa Corte.
Invero, la norma enucleata dal diritto vivente con riferimento all’ipotesi specifica del condannato in grado d’appello, per il quale pendesse ancora il termine per il deposito della sentenza ovvero quello per la proposizione del ricorso per cassazione al momento dell’entrata in vigore della riforma, non è estraibile dal dato letterale del secondo periodo dell’art. 95, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2022. Tuttavia, tale norma non è incompatibile con il dato testuale, inserendosi in uno spazio non regolato in maniera difforme dal legislatore; e non può pertanto ritenersi il risultato di un’interpretazione contra legem (come invece nel caso recentemente esaminato dalla sentenza n. 5 del 2024, punto 3 del Considerato in diritto). La norma in questione deve, semmai, considerarsi il frutto di una interpretazione analogica, senz’altro consentita in materia processuale a fronte di una lacuna non intenzionale della legge, in applicazione degli ordinari canoni ermeneutici.
Che la lacuna non fosse intenzionale, d’altra parte, è mostrato dalla stessa relazione illustrativa al d.lgs. n. 150 del 2022, in cui si sottolinea che «le modifiche normative che riguardano il sistema sanzionatorio hanno pacificamente natura sostanziale e, pertanto, sono soggette al principio di irretroattività in malam partem e di retroattività in bonam partem. Le disposizioni che elevano il limite della pena detentiva sostituibile sono più favorevoli al reo e devono essere applicabili retroattivamente, salvo il limite del giudicato (art. 2, co. 4 c.p.)». Ciò che mostra come la chiara intenzione del legislatore fosse quella di assicurare la possibilità di accedere alle nuove pene sostitutive a tutti i processi in corso sino alla loro definizione con sentenza irrevocabile: possibilità assicurata, anche negli interstizi non coperti dal dato letterale del prodotto legislativo, proprio dall’interpretazione ora riferita della giurisprudenza di legittimità.
Una simile interpretazione, infine, non è affatto preclusa – ai sensi dell’art. 14 Preleggi – dal carattere transitorio, e dunque asseritamente eccezionale, della disposizione censurata, come erroneamente sostiene il rimettente. La disposizione censurata è, all’opposto, espressiva di un principio generale dell’ordinamento, per di più di rango costituzionale: quello, cioè, secondo cui le norme più favorevoli in materia di sanzioni punitive devono, di regola, essere applicate retroattivamente a tutti i processi in corso. Sicché l’interpretazione analogica adottata dalla Corte di cassazione costituisce, al tempo stesso (doverosa) interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata.
3.7.– A fronte, dunque, di un diritto vivente che ha già estratto dalla disposizione censurata una norma non incompatibile con i parametri costituzionali evocati, le questioni sollevate dal rimettente debbono essere dichiarate non fondate.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 95 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 27 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Marsala, sezione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 febbraio 2024.
F.to:
Augusto Antonio BARBERA, Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2024