SENTENZA N. 206
ANNO 2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo MADDALENA Presidente
- Alfio FINOCCHIARO Giudice
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 35 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), in combinato disposto con l’art. 516 del codice di procedura penale, promosso dal Giudice di pace di Agrigento nel procedimento penale a carico di N. S. con ordinanza del 23 settembre 2010, iscritta al n. 400 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Udito nella camera di consiglio dell’11 maggio 2011 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.
Ritenuto in fatto
1. – Il Giudice di pace di Agrigento, con ordinanza del 23 settembre 2010, pervenuta a questa Corte il 29 novembre 2010 (r.o. n. 400 del 2010), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del «combinato disposto» dell’art. 516 del codice di procedura penale e dell’art. 35 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui non prevedono «che, in caso di modifica del capo di imputazione nel corso del dibattimento, anche quando la nuova contestazione concerna un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale ovvero quando l’imputato abbia tempestivamente e ritualmente proposto la definizione anticipata del procedimento in ordine alle originarie imputazioni, l’imputato possa usufruire di quello che può essere considerato un vero e proprio rito alternativo, in quanto l’art. 35 del decreto legislativo n. 274 del 2000 non consente l’ammissione al rito alternativo oltre l’udienza di comparizione».
Il rimettente era investito del processo nei confronti di un imputato accusato del reato di cui agli artt. 81, secondo comma, e 582 del codice penale, per aver cagionato alla persona offesa lesioni giudicate guaribili in cinque giorni. Il giudice a quo aveva rigettato la richiesta di definizione anticipata del procedimento a norma dell’art. 35 del d. lgs. n. 274 del 2000 avanzata dall’imputato, ritenendo la somma corrisposta alla persona offesa «non adeguata, allo stato, a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato» per i motivi indicati nell’ordinanza letta nell’udienza del 24 dicembre 2009, alla quale il rimettente si era riportato.
Dopo l’apertura del dibattimento, l’ammissione delle prove e l’esame di due testimoni, il pubblico ministero aveva proceduto, ai sensi dell’art. 516 cod. proc. pen., alla modifica dell’imputazione, contestando all’imputato lesioni giudicate guaribili in quindici giorni. La difesa dell’imputato aveva però eccepito l’inammissibilità della modifica dell’imputazione, in quanto la certificazione medica posta a base della stessa, oltre a essere stata rilasciata dal medico curante e non dal personale sanitario di una struttura pubblica, era già allegata all’atto di querela ed era quindi ben nota al pubblico ministero, laddove l’art. 516 cod. proc. pen. fa riferimento a fatti nuovi emersi nel corso dell’istruzione dibattimentale. Il giudice a quo si era riservato di decidere sulla questione e, a quanto risulta dall’ordinanza di rimessione, in una successiva udienza «scioglieva la riserva, ritenendo ammissibile la contestazione, con ordinanza cui (…) si riporta[va] integralmente».
La difesa dell’imputato, richiamate le sentenze n. 265 del 1994 e n. 530 del 1995 di questa Corte, chiedeva di essere rimessa in termini allo scopo di effettuare l’offerta risarcitoria finalizzata all’estinzione del reato a norma dell’art. 35 del d. lgs. n. 274 del 2000. Il giudice, presone atto e considerato che l’art. 35 del d. lgs. n. 274 del 2000 esclude che ai fini dell’estinzione del reato la condotta riparatoria possa avvenire dopo l’udienza di comparizione, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale sopra indicata.
Il rimettente osserva che l’imputato ha chiesto di essere rimesso in termini per effettuare l’offerta risarcitoria e che, qualora venga dichiarata l’illegittimità delle norme censurate, consentendo così «l’ammissione al rito alternativo in caso di riparazione del danno a mezzo risarcimento, anche oltre l’udienza di comparizione», egli conseguirebbe la dichiarazione di estinzione del reato, un esito più conforme alla ratio del procedimento dinanzi al giudice di pace, caratterizzato dalla celerità del rito e, ove possibile, dalla conciliazione tra le parti.
La disciplina censurata sarebbe, secondo il rimettente, in contrasto con l’art. 3 Cost., poiché, consentendo di accedere alla procedura alternativa solo nel caso in cui il fatto venga contestato fin dall’emissione dell’atto di citazione, irragionevolmente farebbe dipendere da un soggetto – il pubblico ministero – diverso dall’imputato la possibilità di pervenire alla definizione anticipata del procedimento, con conseguenze sanzionatorie certe e un trattamento più favorevole di quello conseguente a una condanna. La disciplina censurata sarebbe dunque irragionevole, «essendo una valutazione discrezionale ed insindacabile del p.m. o, meglio, anche la sola scrupolosità con cui quest’ultimo assume le proprie determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale a condizionare il rito da applicare e a privare l’interessato dei benefici connessi ai procedimenti speciali».
L’istituto previsto dall’art. 35 del d. lgs. n. 274 del 2000, che si fonda sull’interesse dello Stato alla definizione dei procedimenti relativi a reati di minore importanza con risparmio di tempo e di spese e sull’interesse dell’imputato a evitare l’ulteriore corso del procedimento e l’eventuale condanna, ha come effetto tipico l’estinzione del reato, sicché – aggiunge il rimettente – la relativa domanda esprime una modalità di esercizio del diritto di difesa. Considerate, quindi, la natura e la funzione dell’istituto, la preclusione dell’accesso ad esso nel caso in cui un reato suscettibile di estinzione a norma dell’art. 35 del d. lgs. n. 274 del 2000 «costituisca oggetto di contestazione nel corso dell’istruzione dibattimentale per modifica ai sensi dell’art. 516 cod. proc. pen., risulta – secondo il rimettente – priva di razionale giustificazione»; infatti, l’avvenuto superamento del limite temporale rappresentato dall’udienza di comparizione (la cui ratio è quella di evitare che l’imputato possa vanificare l’attività processuale a seconda degli esiti del dibattimento) nel caso in esame non sarebbe riconducibile a una libera scelta dell’imputato, ossia a un’inerzia allo stesso addebitabile.
Secondo il rimettente, la disciplina censurata sarebbe lesiva dell’art. 3 Cost. anche sotto il profilo della disparità di trattamento di situazioni identiche, tra chi abbia commesso un certo reato e possa chiedere la definizione anticipata del procedimento e chi si veda preclusa la richiesta perché la relativa contestazione è intervenuta solo nel corso del dibattimento. Inoltre, aggiunge il giudice a quo, nel caso di specie non è ravvisabile alcuna inerzia nella condotta processuale dell’imputato, che aveva già optato per una definizione anticipata del processo, sicché sussiste una disparità di trattamento tra imputati per i quali non sia aperto il dibattimento e imputati che chiedano la definizione anticipata del processo per il reato risultante dalla modifica dell’imputazione a norma dell’art. 516 cod. proc. pen., nel caso di richiesta avanzata nell’udienza di comparizione per il reato originariamente contestato nell’atto di citazione a giudizio e non accolta.
Le norme censurate risulterebbero altresì lesive dell’art. 24 Cost., non essendo assicurato l’esercizio del diritto di difesa a fronte della modifica dell’imputazione, in quanto «la determinazione unilaterale dell’organo dell’accusa, il quale, pur a conoscenza del fatto diverso, omette la contestazione nell’atto di citazione a giudizio, priva l’imputato di una delle possibili opzioni processuali». Nel caso di specie, sottolinea il rimettente, precludendo all’imputato di «ridelineare la propria strategia difensiva in seguito alla modificazione dell’imputazione», le norme censurate finiscono per far ricadere sull’imputato stesso gli effetti dell’errore commesso dal pubblico ministero. La modifica dell’imputazione non determinata da un’evenienza fisiologica del procedimento (ossia dall’istruttoria dibattimentale, sicché il relativo rischio rientrerebbe nei calcoli dell’imputato), ma da una patologia processuale (ossia da un errore o da una scelta del pubblico ministero) «non può risolversi in un pregiudizio per l’imputato di essa non responsabile, il quale ha il diritto di prediligere la propria strategia difensiva, previa valutazione informata e consapevole», tanto più che la presunzione di legalità dell’operato del pubblico ministero e il principio di completezza delle indagini preliminari comportano un legittimo affidamento sulle scelte compiute da tale organo.
Risulterebbe infine violato, secondo il rimettente, il principio del giusto processo, che implica «la lealtà processuale delle parti, dal momento che la normativa di cui si denuncia la censurabilità pone le parti su un piano di assoluta disparità, rispetto al dettato di cui all’art. 111 della Costituzione».
Considerato in diritto
1. − Il Giudice di pace di Agrigento ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del «combinato disposto» dell’art. 516 del codice di procedura penale e dell’art. 35 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui non prevedono «che, in caso di modifica del capo di imputazione nel corso del dibattimento, anche quando la nuova contestazione concerna un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale ovvero quando l’imputato abbia tempestivamente e ritualmente proposto la definizione anticipata del procedimento in ordine alle originarie imputazioni, l’imputato possa usufruire di quello che può essere considerato un vero e proprio rito alternativo, in quanto l’art. 35 del decreto legislativo n. 274 del 2000 non consente l’ammissione al rito alternativo oltre l’udienza di comparizione».
Secondo il rimettente, le norme censurate sarebbero lesive dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevolezza, in quanto, consentendo all’imputato di procedere alla riparazione del danno cagionato dal reato ai fini della sua estinzione solo quando il fatto sia contestato fin dall’emissione dell’atto di citazione, condizionerebbero la definizione anticipata del procedimento a una valutazione discrezionale e insindacabile del pubblico ministero o anche alla sola scrupolosità delle sue determinazioni riguardo all’esercizio dell’azione penale.
L’art. 3 Cost. sarebbe altresì violato sotto il profilo della disparità di trattamento di situazioni identiche, con riferimento all’imputato che può chiedere la definizione anticipata del procedimento per un certo reato, rispetto a quello al quale la stessa richiesta è preclusa perché la contestazione del medesimo reato è avvenuta solo nel dibattimento; analoga violazione sussisterebbe in relazione all’imputato per il quale non sia stato aperto il dibattimento rispetto all’imputato che chieda la definizione anticipata del processo per il reato risultante dalla modifica dell’imputazione a norma dell’art. 516 cod. proc. pen., qualora tale richiesta sia stata rigettata nel corso dell’udienza di comparizione per il reato oggetto dell’originaria imputazione.
Le norme censurate sarebbero, inoltre, in contrasto con l’art. 24 Cost., in quanto, in forza di esse, «la determinazione unilaterale dell’organo di accusa, il quale, pur a conoscenza del fatto diverso, omette la contestazione nell’atto di citazione a giudizio», priva l’imputato di «una delle possibili opzioni processuali». Sussisterebbe infine la violazione dell’art. 111 Cost., in quanto, in contrasto con «la lealtà processuale» prescritta dal principio del giusto processo, le norme censurate porrebbero «le parti su un piano di assoluta disparità».
2. − La questione è per più ragioni inammissibile.
3. – Il giudice rimettente muove dall’idea che l’istituto introdotto dall’art. 35 del d. lgs. n. 274 del 2000 sia assimilabile ai procedimenti speciali previsti dal codice di procedura penale e sia qualificabile come «un vero e proprio rito alternativo».
In realtà, i procedimenti speciali previsti dal codice di procedura penale, e in particolare l’applicazione della pena su richiesta delle parti, si distinguono dalla definizione del procedimento disciplinata dall’art. 35 del d. lgs. n. 274 del 2000; quest’ultima, infatti, non è un rito alternativo, attivabile con una richiesta dell’imputato (che nel caso di modificazione dell’imputazione potrebbe avvenire anche nel corso del dibattimento), ma una fattispecie estintiva complessa, basata su una condotta riparatoria, antecedente, di regola, all’udienza di comparizione (a meno che l’imputato dimostri di non averla potuta tenere in precedenza) e giudicata idonea a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione.
Anche a queste esigenze si ricollega lo “sbarramento” procedimentale rappresentato dall’udienza di comparizione, che risponde non solo alla logica deflattiva, che pure caratterizza la disciplina dettata dall’art. 35 del d. lgs. n. 274 del 2000, ma altresì alla necessità di assicurare, per riprendere un’espressione utilizzata dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., Sez. V, n. 41297 del 26 settembre 2008), la «spontaneità» della condotta dell’imputato. E’ in questa prospettiva, del resto, che la Corte di cassazione ha letto l’analogo “sbarramento” previsto dall’art. 62, numero 6), cod. pen. (che prevede, come circostanza attenuante, la riparazione del danno prima del giudizio), ritenendo che lo stesso non dia luogo ad una «irragionevole compressione del diritto di difesa», ma si ponga «in sintonia con la ratio dell’attenuante, che è di dare rilevanza solo a comportamenti che, precedendo gli sviluppi del giudizio e i condizionamenti derivanti dalle connesse, contingenti esigenze difensive, possano considerarsi sintomatici di ravvedimento» (Cass. pen., Sez. I, n. 3340 del 13 gennaio 1995).
D’altra parte, il perfezionamento delle condotte riparatorie non dipende normalmente dal contenuto dell’imputazione, come è dimostrato dal rilievo che esse ben possono essere realizzate anche prima dell’esercizio dell’azione penale, benché talvolta una dipendenza ci possa essere, come nel caso in cui l’insufficiente determinazione del danno da risarcire sia stata determinata dalla descrizione del fatto contenuta nell’originaria imputazione, diversa da quella emergente in seguito alle nuove contestazioni.
4. – Ciò premesso, una prima ragione di inammissibilità della questione deriva dalla carente descrizione della fattispecie concreta da parte del rimettente, laddove si limita a dare atto che la richiesta di definizione anticipata del procedimento a norma dell’art. 35 del d. lgs. n. 274 del 2000, inizialmente avanzata dall’imputato, era stata rigettata in quanto la somma corrisposta alla persona offesa era stata ritenuta «non adeguata, allo stato, a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato».
Nell’ordinanza di rimessione non si precisa per quale ragione la somma era stata ritenuta inadeguata e, in particolare, se ciò era stato in qualche modo determinato dal contenuto dell’originaria imputazione, mentre il rimettente avrebbe dovuto chiarire se l’inidoneità della condotta riparatoria dell’imputato dipendeva da lacune o da inesattezze dell’imputazione originaria rispetto a quella modificata nel corso del dibattimento.
5. – Una seconda ragione di inammissibilità della questione deriva dal carattere indeterminato e oscuro della sua formulazione, operata dal rimettente facendo riferimento al «combinato disposto» dell’art. 516 cod. proc. pen. e dell’art. 35 del d. lgs. n. 274 del 2000, laddove non è previsto «che, in caso di modifica del capo di imputazione nel corso del dibattimento, anche quando la nuova contestazione concerna un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale ovvero quando l’imputato abbia tempestivamente e ritualmente proposto la definizione anticipata del procedimento in ordine alle originarie imputazioni», l’imputato possa avvalersi dell’istituto estintivo previsto dall’art. 35 del d. lgs. n. 274 del 2000.
Il rimettente prospetta, dunque, due censure (legate, nell’ordinanza di rimessione, ora con la disgiuntiva «ovvero», ora con la formula «e/o») senza interrogarsi sulle rationes dell’una e dell’altra, che appaiono diverse per presupposti: la prima, infatti, fa leva sul carattere “tardivo” della nuova contestazione, e prescinde dalla realizzazione, nel termine di legge, di una condotta riparatoria, mentre la seconda è incentrata sulla tempestività della condotta riparatoria, pur ritenuta inidonea a integrare la fattispecie estintiva del reato, e prescinde dal carattere “fisiologico” o meno della modifica dell’imputazione.
Né a rendere ragione dell’articolazione della questione nelle due censure indicate giova il riferimento alla sentenza di questa Corte n. 265 del 1994 (richiamata dalla successiva sentenza n. 333 del 2009), che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. «nella parte in cui non prevedono la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale ovvero quando l’imputato ha tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta di applicazione di pena in ordine alle originarie imputazioni».
Con riferimento all’ipotesi della contestazione “tardiva”, la sentenza n. 265 del 1994 ha messo l’accento sul rilievo che, nell’applicazione della pena su richiesta delle parti, la valutazione dell’imputato è «indissolubilmente legata» alla natura dell’addebito, trattandosi «non solo di avviare una procedura che permette di definire il merito del processo al di fuori e prima del dibattimento, ma di determinare lo stesso contenuto della decisione, il che non può avvenire se non in riferimento a una ben individuata fattispecie penale»; con riguardo all’ipotesi della reiterazione della richiesta di applicazione della pena, la stessa sentenza ha invece richiamato il disposto dell’art. 448, comma 1, ultimo periodo, cod. proc. pen., che non considera «l’evenienza in cui la pena richiesta dall’imputato risulti inevitabilmente incongrua, in quanto formulata con riferimento a una imputazione poi modificatasi nel corso della istruzione dibattimentale». Entrambi gli argomenti non sono immediatamente riferibili alla definizione del procedimento disciplinata dall’art. 35 del d. lgs. n. 274 del 2000, in quanto in essa, per un verso, la condotta riparatoria, come si è visto, non è necessariamente condizionata dall’imputazione e, per altro verso, manca una regola analoga a quella dettata dall’art. 448, comma 1, ultimo periodo, cod. proc. pen.
Deve quindi concludersi che la formulazione delle diverse censure mosse dal rimettente e il rapporto tra le stesse presentano aspetti di indeterminatezza e di oscurità, che anche sotto questo profilo fanno ritenere la questione inammissibile.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del «combinato disposto» dell’art. 516 del codice di procedura penale e dell’art. 35 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Giudice di pace di Agrigento con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio 2011.
F.to:
Paolo MADDALENA, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 luglio 2011.