Sentenza n. 333 del 2009

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SENTENZA N. 333

ANNO 2009

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-      Francesco                        AMIRANTE                                 Presidente          

-      Ugo                                 DE SIERVO                                   Giudice

-      Paolo                               MADDALENA                                    "

-      Alfio                                FINOCCHIARO                                  "

-      Franco                             GALLO                                                 "

-      Luigi                                MAZZELLA                                         "

-      Gaetano                           SILVESTRI                                          "

-      Sabino                             CASSESE                                             "

-      Giuseppe                         TESAURO                                            "

-      Paolo Maria                     NAPOLITANO                                    "

-      Giuseppe                         FRIGO                                                  "

-      Alessandro                      CRISCUOLO                                       "

-      Paolo                               GROSSI                                                "

 ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale di Pinerolo nel procedimento penale a carico di C. N. ed altra con ordinanza del 18 settembre 2008, iscritta al n. 35 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2009.

            Udito nella camera di consiglio del 7 ottobre 2009 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

         Con ordinanza emessa il 18 settembre 2008, il Tribunale di Pinerolo, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al processo concernente il reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale».

            Il giudice a quo premette di essere investito del processo nei confronti di due persone imputate di un reato urbanistico, per avere realizzato lavori edili senza permesso di costruire in zona sottoposta a vincolo paesistico. A seguito delle dichiarazioni rese da un teste nel corso dell’istruzione dibattimentale, il pubblico ministero aveva contestato in via suppletiva agli imputati, ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen., anche un reato paesaggistico connesso.

Concesso il richiesto termine a difesa, alla nuova udienza dibattimentale i difensori degli imputati avevano prodotto permesso di costruire in sanatoria, chiedendo l’immediato proscioglimento dei loro assistiti, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., in ordine alla contravvenzione urbanistica; mentre gli imputati personalmente avevano proposto istanza di definizione del procedimento relativo al reato paesaggistico mediante giudizio abbreviato, condizionata all’acquisizione di documenti contestualmente esibiti.

            Disposta la separazione dei procedimenti, il giudice a quo aveva quindi pronunciato, con riguardo all’illecito urbanistico, sentenza di non doversi procedere per essere il reato estinto per intervenuta sanatoria.

            Ciò premesso, il rimettente osserva, in punto di rilevanza della questione, che l’istanza di definizione con giudizio abbreviato del processo relativo al reato paesaggistico, contestato in dibattimento – costituente, ormai, l’unico oggetto del giudizio – andrebbe accolta, se non vi ostasse la preclusione derivante dalla disposizione combinata dell’art. 555, comma 2, cod. proc. pen. (secondo cui, nei procedimenti a citazione diretta, la facoltà di chiedere il rito alternativo deve essere esercitata, a pena di decadenza, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento) e dell’art. 517 cod. proc. pen. (che non prevede una rimessione in termini per poter effettuare la richiesta, nell’ipotesi in cui intervenga in dibattimento la contestazione di un reato concorrente).

            Nella specie, inoltre, i fatti su cui si fonda la contestazione suppletiva risultavano completamente accertati sin dalla fase delle indagini preliminari, giacché il sovrintendente del Corpo forestale dello Stato, a seguito della cui deposizione è stata effettuata detta contestazione, si è limitato a riferire degli accertamenti svolti nel corso delle indagini.

            Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo ricorda come la Corte costituzionale abbia inizialmente affermato che l’impossibilità di beneficiare dei vantaggi connessi ai riti alternativi, nel caso di modifica dell’imputazione nel corso del dibattimento, rientra nelle «regole del gioco», note alle parti processuali: sicché l’imputato, il quale non abbia optato nei termini per detti riti, «non ha che da addebitare a sé medesimo le conseguenze della propria scelta».

Successivamente, tuttavia, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimi, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale (sentenza n. 265 del 1994). In tale ipotesi, non può parlarsi «di una libera assunzione del rischio del dibattimento da parte dell’imputato»: infatti, «le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito speciale vengono a dipendere anzitutto dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero», sicché, quando, «in presenza di una evenienza patologica del procedimento, quale è quella derivante dall’errore sulla individuazione del fatto e del titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali».

            Un ulteriore, e più ampio, profilo di irragionevolezza – ricorda ancora il rimettente – è stato ravvisato dalla sentenza n. 530 del 1995, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei medesimi artt. 516 e 517 cod. proc. pen., per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevedono la facoltà dell’imputato di proporre domanda di oblazione in relazione al fatto diverso e al reato concorrente contestati in dibattimento.

            Con riguardo, invece, al rito abbreviato – aggiunge il giudice a quo – la giurisprudenza costituzionale consta, sinora, solo di pronunce di inammissibilità: e ciò sebbene già nella sentenza n. 129 del 1993 la Corte avesse auspicato un intervento del legislatore, al fine di correggere una disciplina «evidentemente ritenuta non conforme ai precetti costituzionali».

            Nella perdurante assenza di tale intervento legislativo, e tenuto conto anche delle innovazioni intervenute medio tempore nella disciplina del giudizio abbreviato, il Tribunale rimettente reputa che la questione debba essere nuovamente sollevata.

            La preclusione alla fruizione dei vantaggi connessi al rito abbreviato, nell’ipotesi in cui la contestazione dibattimentale di un reato concorrente concerna un fatto che già risultava dagli atti di indagine, implicherebbe, anzitutto, una indebita compressione del diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.). All’imputato non potrebbe essere, difatti, addebitata alcuna colpevole inerzia né potrebbero essergli addossate le conseguenze negative di un «prevedibile» sviluppo dibattimentale il cui rischio sia stato liberamente assunto.

            La norma censurata si porrebbe altresì in contrasto con l’art. 3 Cost., determinando una disparità di trattamento tra imputati che si trovino in situazioni eguali, a seconda che il pubblico ministero valorizzi integralmente – come dovrebbe – i risultati delle indagini sin dal momento dell’esercizio dell’azione penale, con la contestazione di tutti i reati ipotizzabili (consentendo così all’imputato di esercitare la facoltà di accesso al rito abbreviato); ovvero contesti inizialmente solo alcuni di tali reati, per poi ampliare l’accusa in dibattimento.

            L’art. 3 Cost. sarebbe leso anche per un ulteriore profilo: quello, cioè, dell’irragionevolezza di una disciplina processuale che, nell’ipotesi di mutamento dell’imputazione ora indicata, consente all’imputato di recuperare i vantaggi connessi ad alcuni riti speciali – il patteggiamento e l’oblazione, sulla base della normativa risultante dalle citate sentenze «additive» n. 265 del 1994 e n. 530 del 1995 – impedendo viceversa l’accesso al rito abbreviato.

            Ad avviso del rimettente, d’altronde, per rimuovere i denunciati profili di illegittimità costituzionale basterebbe dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 517 cod. proc. pen. nei termini del petitum, senza che occorra alcuna ulteriore previsione intesa a comporre le interferenze tra giudizio abbreviato e dibattimento. Il giudizio abbreviato riguarderebbe, difatti, soltanto il processo relativo al reato oggetto della nuova contestazione, con possibile separazione dei procedimenti, secondo quanto già «suggerito» nella sentenza n. 265 del 1994 in rapporto al patteggiamento: il che, peraltro, nel caso di specie è già accaduto, essendosi addivenuti addirittura alla definizione del procedimento relativo al reato urbanistico originariamente contestato. La soluzione non contrasterebbe, dunque, con il costante orientamento della Corte di cassazione, secondo cui sarebbero inammissibili richieste di giudizio abbreviato «parziali», effettuate, cioè, con riguardo ad alcune soltanto delle imputazioni cumulativamente formulate nei confronti dell’imputato: orientamento, questo, che, elaborato con riguardo a richieste di giudizio abbreviato «tempestive», ben potrebbe, peraltro – secondo il Tribunale rimettente – essere modificato in relazione alla diversa ipotesi in esame, stante la specificità della situazione.

            Il giudice a quo rimarca, infine, come l’ordinamento processuale abbia già conosciuto, sia pure solo a livello di disciplina transitoria, fattispecie nelle quali la facoltà di richiedere il giudizio abbreviato può essere esercitata in corso di dibattimento e davanti al giudice di questo (art. 223 del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, recante «Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado»; art. 4-ter del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82, recante «Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato», convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno 2000, n. 144). Ciò dimostrerebbe, da un lato, che la definizione del procedimento con il rito abbreviato conserva, anche a dibattimento iniziato, una apprezzabile finalità di economia processuale; e, dall’altro, che l’innesto del giudizio speciale in quello ordinario non crea interferenze che non possano essere risolte per via di interpretazione.

Considerato in diritto

            1. – Il Tribunale di Pinerolo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al processo concernente il reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale».

            Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe l’art. 24, secondo comma, della Costituzione, in quanto la preclusione alla fruizione dei vantaggi connessi al giudizio abbreviato, nell’ipotesi considerata, implicherebbe una lesione del diritto di difesa dell’imputato, al quale non potrebbe essere addebitata alcuna colpevole inerzia, né potrebbero essere addossate le conseguenze negative di un prevedibile sviluppo dibattimentale il cui rischio sia stato liberamente assunto.

            Risulterebbe leso, altresì, l’art. 3 Cost., sotto un duplice profilo. Da un lato, la disposizione denunciata determinerebbe una disparità di trattamento tra imputati in situazioni eguali, a seconda che il pubblico ministero valorizzi integralmente – come dovrebbe – i risultati delle indagini sin dal momento dell’esercizio dell’azione penale, con la contestazione di tutti i reati ipotizzabili (consentendo così all’imputato di esercitare la facoltà di accesso al rito abbreviato); ovvero ne contesti inizialmente solo alcuni, per poi ampliare l’accusa in dibattimento.

            Dall’altro lato, apparirebbe irragionevole che, a fronte della contestazione suppletiva ora indicata, l’imputato possa recuperare i vantaggi connessi ad alcuni riti speciali – il patteggiamento e l’oblazione, sulla base della normativa risultante dalle sentenze n. 265 del 1994 e n. 530 del 1995 della Corte costituzionale – e si veda invece inibito l’accesso al rito abbreviato.

            2. – In via preliminare, va rilevato che, nel sollevare la questione, il giudice a quo tiene conto del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in forza del quale non è ammessa la richiesta di giudizio abbreviato «parziale» (riferita, cioè, ad una parte soltanto delle imputazioni cumulativamente formulate contro la stessa persona): orientamento basato sul rilievo che, nel caso di richiesta parziale, il processo non verrebbe definito nella sua interezza, onde rimarrebbe – in tesi – ingiustificato l’effetto premiale, voluto dal legislatore al fine di ridurre il ricorso alla fase dibattimentale, secondo quanto previsto dall’art. 438 cod. proc. pen., per ciascun «processo», ancorché cumulativo, relativo al singolo imputato, e non per ciascun reato.

            Il rimettente osserva, difatti, per un verso, come tale indirizzo giurisprudenziale non abbia rilievo nel processo a quo, nel quale – a seguito dell’avvenuta separazione dei processi e della definizione con sentenza di non doversi procedere di quello relativo all’imputazione originaria – la regiudicanda si esaurisce ormai nel solo reato concorrente contestato in dibattimento. Adombrando, inoltre, una prospettiva ermeneutica non implausibile, il giudice a quo rileva che, in ogni caso, l’orientamento in discorso, «elaborato con riguardo a richieste di giudizio abbreviato “tempestive”», ben potrebbe non valere per la peculiare fattispecie che dà adito al problema di costituzionalità. Si tratta, invero – come meglio si osserverà poco oltre – di ipotesi nella quale la contestazione suppletiva assume connotati di “anomalia”, essendo diretta, non già ad adeguare l’imputazione a nuove risultanze dibattimentali, ma a rimediare ad un’incompletezza già apprezzabile sulla base degli stessi atti di indagine. In simile frangente, emerge, in effetti, l’esigenza di garantire all’imputato la facoltà di accesso al giudizio abbreviato limitatamente al reato contestato in dibattimento – reato che, a causa di quella incompletezza, non avrebbe potuto formare oggetto di una richiesta tempestiva del rito alternativo – senza che possa ipotizzarsi un recupero globale della facoltà stessa (esteso, cioè, anche al reato originariamente contestato, rispetto al quale l’imputato ha consapevolmente lasciato spirare il termine di proposizione della richiesta).

            Si deve dunque escludere che ricorra, nel caso in esame, il motivo di inammissibilità precedentemente rilevato da questa Corte con riguardo ad analoga questione, legato alla circostanza che il giudice a quo non avesse preso in considerazione, «anche solo per contestarne, eventualmente, la riferibilità all’ipotesi di specie», l’orientamento della giurisprudenza di legittimità dianzi ricordato (ordinanza n. 67 del 2008).

            3. – Nel merito, la questione è fondata.

            3.1. – La fattispecie che dà origine al dubbio di costituzionalità è quella della cosiddetta contestazione suppletiva “tardiva”.

La disciplina delle nuove contestazioni dibattimentali – tanto del fatto diverso (art. 516 cod. proc. pen.), che del reato concorrente o delle circostanze aggravanti (art. 517 cod. proc. pen.: non rileva, ai presenti fini, la contestazione del fatto nuovo, di cui all’art. 518, che presuppone il consenso dell’imputato) – è coerente, in linea di principio, con l’impostazione accusatoria del vigente codice di rito. In un sistema nel quale la prova si forma ordinariamente in dibattimento, detta disciplina mira, infatti, a conferire un ragionevole grado di flessibilità all’imputazione, consentendone l’adattamento agli sviluppi e agli esiti dell’istruzione dibattimentale, quando alcuni profili di fatto, pur pertinenti o strettamente collegati all’oggetto dell’imputazione, risultino nuovi o diversi rispetto a quelli emersi dagli elementi a suo tempo acquisiti nelle indagini e valutati dal pubblico ministero per l’esercizio dell’azione penale. La formula dei citati artt. 516 e 517 – alla luce della quale la diversità del fatto, il reato concorrente e le circostanze aggravanti debbono emergere «nel corso dell’istruzione dibattimentale» – riflette tale finalità dell’istituto, evocando, primo visu, i soli mutamenti dell’imputazione imposti dall’evoluzione istruttoria e consente di qualificarlo come speciale e derogatorio con riguardo alle ordinarie cadenze processuali relative all’esercizio dell’azione penale e al suo controllo giudiziale.

Malgrado tale dato letterale e tale ratio, la giurisprudenza predominante – con l’avallo delle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 28 ottobre 1998-11 marzo 1999, n. 4) – è dell’avviso che le nuove contestazioni previste dagli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. possano essere basate anche sui soli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. Tale soluzione ermeneutica si fonda – oltre che su argomenti ritenuti desumibili dalla direttiva n. 78 della legge delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale (legge 16 febbraio 1987, n. 81) – precipuamente sul rilievo che, impedendo la nuova contestazione dibattimentale nell’ipotesi considerata, si produrrebbero risultati incongrui. Da un lato, infatti, nel caso di reato concorrente, il procedimento dovrebbe retrocedere alla fase delle indagini preliminari, con conseguente vulnus ai principi di immediatezza e concentrazione del dibattimento; dall’altro lato, nel caso di circostanza aggravante, la mancata contestazione nell’imputazione originaria risulterebbe irreparabile, non potendo l’aggravante formare oggetto di un autonomo giudizio penale, con correlata contrazione dell’ambito di esercizio dell’azione penale, in asserita frizione con l’art. 112 Cost.

Sennonché, in tale lettura estensiva, anche a prescindere da ogni giudizio sugli argomenti che la sorreggono, l’istituto delle nuove contestazioni viene a proporsi, non più soltanto come uno strumento – come detto, speciale e derogatorio – di risposta ad una evenienza pur “fisiologica” al processo accusatorio (quale l’emersione di nuovi elementi nel corso dell’istruzione dibattimentale), ma anche come possibile correttivo rispetto ad una evenienza “patologica”: potendo essere utilizzato pure per porre rimedio, tramite una rivisitazione degli elementi acquisiti nelle indagini preliminari, ad eventuali incompletezze od errori commessi dall’organo dell’accusa nella formulazione dell’imputazione.

Secondo la giurisprudenza di legittimità che adotta l’indirizzo interpretativo in questione, esso non comporterebbe comunque una lesione del diritto di difesa, tenuto conto, da un lato, della generale facoltà, accordata all’imputato dall’art. 519 cod. proc. pen., di chiedere un termine a difesa di misura non inferiore a quello a comparire previsto dall’art. 429 cod. proc. pen., e, dall’altro, dell’ampliamento delle garanzie in tema di ammissione di nuove prove, operato da questa Corte con la sentenza n. 241 del 1992.

Diverse valutazioni si impongono, tuttavia, con riguardo al tema oggetto dell’odierno scrutinio: vale a dire alla perdita, da parte dell’imputato, della facoltà di accesso ai riti alternativi, conseguente al fatto che la nuova contestazione interviene quando il termine ultimo di proposizione della relativa richiesta (si vedano attualmente gli artt. 438, comma 2, 446, comma 1, e 555, comma 2, cod. proc. pen.) risulta ormai decorso.

3.2. – Come ricorda il giudice rimettente, nei primi anni successivi all’entrata in vigore del nuovo codice di rito, questa Corte – avendo riguardo alle nuove contestazioni “fisiologiche” – ritenne che la preclusione alla fruizione dei vantaggi connessi al giudizio abbreviato e all’applicazione della pena su richiesta, che si determina nei confronti dell’imputato nelle ipotesi previste dagli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., non fosse censurabile sul piano della legittimità costituzionale (sentenze n. 129 del 1993, n. 316 del 1992 e n. 593 del 1990; ordinanze n. 107 del 1993 e n. 213 del 1992).

Si osservò, infatti, che l’interesse dell’imputato ai riti alternativi trova tutela solo in quanto la sua condotta consenta l’effettiva adozione di una sequenza procedimentale che, evitando il dibattimento, permetta di raggiungere l’obiettivo di una rapida definizione del processo. La modifica dell’imputazione o la contestazione suppletiva, d’altronde, è una eventualità non infrequente, in un sistema processuale imperniato sulla formazione della prova in dibattimento, e non imprevedibile, anche quando si tratti di contestazione suppletiva di reato concorrente, dato lo stretto rapporto che intercorre tra imputazione originaria e reato connesso, tanto più che, ai fini della contestazione suppletiva, concorrente è solo il reato connesso ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, vale a dire in concorso formale o in continuazione con quello oggetto dell’imputazione. Il relativo «rischio» rientra, perciò, nel «calcolo» che l’imputato effettua allorché si determina a chiedere o meno i riti semplificati: «onde egli non ha che da addebitare a sé medesimo le conseguenze della propria scelta» (sentenza n. 129 del 1993).

3.3. – Con la successiva sentenza n. 265 del 1994, questa Corte ha escluso, tuttavia, che le considerazioni ora ricordate possano valere anche nell’ipotesi della contestazione dibattimentale “tardiva”.

Le valutazioni dell’imputato in ordine alla convenienza dei riti alternativi al dibattimento – si è rilevato – vengono, infatti, a dipendere «anzitutto dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero»: sicché, quando, in conseguenza «di una evenienza patologica del procedimento, quale è quella derivante dall’errore sulla individuazione del fatto e del titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero», l’imputazione subisce «una variazione sostanziale», risulta «lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali». In tale ipotesi, la libera scelta dell’imputato verso il rito alternativo – scelta che rappresenta una delle modalità di espressione del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 219 e n. 148 del 2004) – risulta «sviata da aspetti di “anomalia” caratterizzanti la condotta processuale del pubblico ministero», collegati all’erroneità dell’imputazione (il fatto è diverso) o alla sua incompletezza (manca l’imputazione relativa a un reato connesso), riscontrabili già sulla base degli elementi acquisiti dall’organo dell’accusa nel corso delle indagini.

La preclusione dei riti alternativi nella situazione considerata è stata ritenuta contrastante anche con l’art. 3 Cost., «venendo l’imputato irragionevolmente discriminato, ai fini dell’accesso ai procedimenti speciali, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari operata dal pubblico ministero nell’esercitare l’azione penale alla chiusura delle indagini stesse».

Con riguardo all’applicazione della pena su richiesta delle parti, tali considerazioni hanno quindi determinato la dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento detta applicazione, relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.

3.4. – Diverso esito ha avuto lo scrutinio, operato dalla medesima sentenza, dell’omologa questione di legittimità costituzionale relativa al giudizio abbreviato: essendosi ritenuto che, rispetto a tale rito, la scelta tra le varie alternative ipotizzabili per porre rimedio al vulnus costituzionale – egualmente ravvisabile – restasse affidata in via esclusiva al legislatore, con conseguente declaratoria di inammissibilità della questione stessa.

La Corte ha osservato, in specie, che, a differenza del “patteggiamento” – il quale si traduce in un semplice accordo sulla pena, con effetti di immediata definizione del processo, donde l’assenza di ostacoli ad una sua collocazione in corso di dibattimento – il rito abbreviato «si realizza attraverso una vera e propria “procedura”, inconciliabile con quella dibattimentale». In quest’ottica, l’adozione di un meccanismo di trasformazione del rito non poteva dunque «ritenersi scelta costituzionalmente obbligata». Al di là, infatti, dell’«opinabilità di tale soluzione da un punto di vista tecnico-sistematico», essa si sarebbe posta «in termini alternativi rispetto ad altre possibili opzioni, rientranti nella discrezionalità legislativa»: quali, ad esempio, l’applicabilità della riduzione della pena di un terzo da parte del giudice all’esito del dibattimento, ovvero la preclusione, nei casi considerati, della nuova contestazione, con conseguente trasmissione degli atti al pubblico ministero relativamente ad essa.

La decisione si è posta, sul punto, in linea di continuità con la precedente sentenza n. 129 del 1993, che aveva dichiarato parimenti inammissibile, per assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata (oltre che per il carattere ancipite della formulazione del quesito), una questione di costituzionalità finalizzata a restituire all’imputato la facoltà di accesso al giudizio abbreviato in una diversa ipotesi di perdita “incolpevole” della stessa (quella, cioè, in cui la relativa richiesta, ritualmente proposta dall’imputato, fosse stata rigettata dal giudice per le indagini preliminari con decisione ritenuta ingiustificata dal giudice dibattimentale). In tale occasione – come rimarca l’odierno rimettente – la Corte aveva specificamente invitato il legislatore a realizzare «un appropriato congegno normativo che compon[esse]», per fattispecie quali quella considerata, «le interferenze tra giudizio abbreviato e giudizio dibattimentale»; «sempreché», peraltro – si era precisato – «la disciplina del giudizio abbreviato non [fosse stata] modificata secondo le indicazioni della sentenza n. 92 del 1992»: ossia tramite l’introduzione di un meccanismo di integrazione probatoria, inteso ad evitare che l’accesso al rito abbreviato venisse a dipendere – in rapporto all’originario presupposto della definibilità del processo allo stato degli atti – dalla completezza o meno delle indagini preliminari condotte dal pubblico ministero.

3.5. – Le considerazioni poste a base delle declaratorie di inammissibilità di cui alle citate sentenze n. 265 del 1994 e n. 129 del 2003 – le quali avevano come termine di riferimento l’originaria disciplina del giudizio abbreviato – vanno, peraltro, necessariamente riviste alla luce delle rilevanti modifiche successivamente introdotte dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479. Tale novella, infatti, da un lato ha svincolato il rito alternativo dai presupposti della definibilità del processo allo stato degli atti e del consenso del pubblico ministero; dall’altro, ha introdotto quel meccanismo di integrazione probatoria la cui mancanza aveva indotto questa Corte (sentenza n. 129 del 1993) a ritenere necessario – allo scopo di restituire all’imputato la facoltà di accesso al rito semplificato, nel caso di perdita “incolpevole” della stessa – un intervento legislativo volto a comporre le interferenze tra giudizio abbreviato e giudizio dibattimentale.

A fronte dell’attuale assetto dell’istituto, il giudizio abbreviato non può più considerarsi incompatibile con l’innesto nella fase del dibattimento.

In questo senso la Corte si è, del resto, già espressa, allorché ha dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 438, comma 6, 458, comma 2, e 464, comma 1, secondo periodo, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono che, in caso di rigetto della richiesta di giudizio abbreviato subordinata ad una integrazione probatoria, l’imputato possa rinnovare la richiesta prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado e il giudice di quest’ultimo – ove ritenga ingiustificato il rigetto – possa disporre il giudizio abbreviato (sentenza n. 169 del 2003). Nell’occasione, si è infatti rilevato come, a fronte del nuovo assetto conseguente alla citata legge n. 479 del 1999, una soluzione che ricalchi pedissequamente quella già adottata, nel vigore dell’originaria disciplina, dalla sentenza n. 23 del 1992, risulterebbe incongrua, non dovendo l’eventuale riesame del provvedimento che nega l’accesso al rito abbreviato essere necessariamente collocato in esito al dibattimento (in questo senso, anche la sentenza n. 54 del 2002). Alla luce dell’odierno quadro normativo, «non vi è d’altro canto alcun ostacolo a che […] sia lo stesso giudice del dibattimento […] a disporre e celebrare il giudizio abbreviato. Anzi, tale soluzione è conforme alle finalità di economia processuale che connotano il giudizio abbreviato quale rito alternativo al dibattimento». E, «del resto, l’ordinamento già prevede che sia lo stesso giudice del dibattimento a celebrare il rito abbreviato nelle ipotesi di cui agli artt. 452, comma 2, e 555, comma 2, cod. proc. pen. (giudizio direttissimo e citazione diretta a giudizio)».

Tali rilievi risultano estensibili, mutatis mutandis, anche alla fattispecie che qui interessa. L’accesso al rito alternativo per il reato oggetto della contestazione suppletiva “tardiva”, difatti, anche quando avvenga in corso di dibattimento, risulta comunque idoneo a produrre un effetto di economia processuale, giacché consente – quantomeno – al giudice del dibattimento di decidere sulla nuova imputazione allo stato degli atti, evitando il possibile supplemento di istruzione previsto dall’art. 519 cod. proc. pen. (quale risultante a seguito della sentenza n. 241 del 1992 di questa Corte).

Pronunciando, inoltre, proprio sul tema oggetto dell’odierno scrutinio, la Corte ha avuto modo di affermare che anche la soluzione della restituzione degli atti al pubblico ministero – già indicata dalla sentenza n. 265 del 1994 quale possibile alternativa alla trasformazione del rito, per evitare la perdita della facoltà di accesso al giudizio abbreviato in rapporto al reato “tardivamente” contestato – va ritenuta «eccentrica e incongrua rispetto all’attuale sistema», improntato «all’opposto principio di non regressione del procedimento» (ordinanza n. 236 del 2005; in senso analogo, ordinanza n. 486 del 2002). Con ciò sostanzialmente individuando, quale unico rimedio percorribile, quello della rimessione nei termini.

Si deve dunque concludere che l’ostacolo, precedentemente ravvisato da questa Corte, all’intervento additivo invocato dal rimettente è venuto meno. Tale intervento si impone, oltre che per rimuovere i profili di contrasto con gli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost. già rilevati dalla sentenza n. 265 del 1994 e dianzi ricordati, anche per eliminare la differenza di regime, in punto di recupero della facoltà di accesso ai riti alternativi di fronte ad una contestazione suppletiva “tardiva”, a seconda che si discuta di “patteggiamento” o di giudizio abbreviato: differenza che, nell’attuale panorama normativo, si rivela essa stessa fonte d’una discrasia rilevante sul piano del rispetto dell’art. 3 Cost. (e ciò anche a prescindere dalla disciplina valevole per l’oblazione, oggetto della sentenza n. 530 del 1995, in rapporto alla quale il tema presenta aspetti peculiari).

4. – Va dichiarata, pertanto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente oggetto di contestazione dibattimentale, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale.

Come rilevato dalla sentenza n. 265 del 1994, i profili di violazione degli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., riscontrabili con riferimento all’ipotesi di contestazione nel corso del dibattimento di un reato concorrente, sussistono, allo stesso modo, anche in rapporto alla parallela ipotesi in cui la nuova contestazione dibattimentale consista, ai sensi dell’art. 516 cod. proc. pen., nella modifica dell’imputazione originaria per diversità del fatto (negli stessi termini, con riguardo alla facoltà di proporre domanda di oblazione, la sentenza n. 530 del 1995).

Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, va, dunque, dichiarata l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 516 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

            dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale;

dichiara, in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 dicembre 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 dicembre 2009.