ORDINANZA N. 236
ANNO 2005
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Piero Alberto CAPOTOSTI Presidente
- Guido NEPPI MODONA Giudice
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Romano VACCARELLA "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Franco GALLO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 516 e 521-bis, comma 1, del codice di procedura penale, promossi, nell’ambito di diversi procedimenti penali, dal Tribunale di Monza con ordinanza del 10 ottobre 2002, dal Tribunale di Salerno con ordinanza del 27 febbraio 2004 e dal Tribunale di Pistoia con ordinanza del 19 dicembre 2003, rispettivamente iscritte al n. 881 del registro ordinanze 2003 e ai numeri 582 e 444 del registro ordinanze 2004 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2003, n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2004 e nella edizione straordinaria del 3 giugno 2004.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nelle camere di consiglio del 6 e del 20 aprile 2005 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.
Ritenuto che il Tribunale di Monza (r.o. n. 881 del 2003) ha sollevato su eccezione della difesa degli imputati, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dall’art. 516 del codice di procedura penale, nella parte in cui «non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la definizione del procedimento ai sensi degli artt. 438 e seguenti cod. proc. pen. relativamente al fatto diverso contestato in udienza, quando la novità della contestazione discende da modifica legislativa che innova la struttura della fattispecie astratta originariamente contestata, sulla cui base il pubblico ministero abbia proceduto a nuova contestazione in udienza»;
che il Tribunale premette che nel corso del dibattimento per il reato di bancarotta fraudolenta di cui all’art. 223, secondo comma, della legge fallimentare (regio decreto 16 marzo 1942, n. 267) l’originaria imputazione era stata modificata in conseguenza dell’entrata in vigore del decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61, che ha sostituito il secondo comma, numero 1, del medesimo articolo;
che gli imputati avevano formulato richiesta di giudizio abbreviato, sostenendo che l’eventuale rigetto di tale istanza, benché conforme all’attuale disposto dell’art. 516 cod. proc. pen., si sarebbe posto in contrasto con l’art. 24 Cost.;
che il rimettente richiama la sentenza n. 265 del 1994, con la quale questa Corte ha affermato che «qualora non possa rimproverarsi alcuna inerzia all’imputato, ossia nessuna addebitabilità al medesimo delle conseguenze della mancata instaurazione dei riti alternativi al dibattimento, sarebbe molto difficile negare che la impossibilità di ottenere i relativi benefici concretizzi un’ingiustificata compressione del diritto di difesa», e rileva che la Corte, con la citata decisione, ha introdotto una «sostanziale rimessione in termini» per consentire l’accesso ai riti alternativi, in quanto «la libera determinazione dell’imputato verso tali riti» era stata «sviata da aspetti di anomalia caratterizzanti la condotta processuale del pubblico ministero», quali l’incompletezza dell’imputazione a fronte di elementi già emergenti dagli atti di indagine preliminare;
che il Tribunale soggiunge che nel caso in esame la norma censurata, pur risultando l’originaria imputazione correttamente formulata in base alla fattispecie incriminatrice all’epoca vigente, si pone comunque in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto priva irragionevolmente l’imputato della possibilità di accedere al giudizio abbreviato a fronte della contestazione «di un fatto radicalmente diverso da quello originariamente descritto nel capo d’imputazione», non prevedibile nell’udienza preliminare;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata in quanto, contrariamente alla situazione presa in considerazione dalla Corte con la sentenza n. 265 del 1994, nel caso di specie la modifica dell’imputazione trae origine da una sopravvenuta modifica legislativa e cioè da un «accadimento esterno al processo ed estraneo al comportamento delle parti»;
che ad avviso dell’Avvocatura in tali casi l’ordinamento dispone, sul piano del diritto sostanziale, di specifiche regole per la successione delle leggi penali, «mentre sul piano processuale non sembra irragionevole che venga lasciato un margine di scelta in ordine alla creazione di una eventuale specifica disciplina transitoria»;
che il Tribunale di Salerno (r.o. n. 582 del 2004) ha sollevato analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 516 cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la definizione del procedimento ai sensi degli artt. 438 e seguenti cod. proc. pen. relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale»;
che il rimettente premette che in dibattimento, dopo la richiesta delle prove, il pubblico ministero aveva modificato il capo di imputazione, contestando all’imputato, «sulla base di emergenze processuali che erano già in suo possesso all’atto dell’esercizio dell’azione penale», che l’autovettura oggetto del reato di ricettazione proveniva non già dal reato di furto, come risultava nell’originaria contestazione, bensì dal reato di rapina;
che il difensore dell’imputato, munito di procura speciale, aveva chiesto che il procedimento a carico del suo assistito fosse definito con il giudizio abbreviato;
che in base all’attuale disciplina normativa la richiesta dovrebbe essere dichiarata inammissibile perché formulata dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento, oltre il limite temporale fissato dall’art. 555, comma 2, cod. proc. pen.;
che ciò premesso, il giudice a quo ritiene che l’art. 516 cod. proc. pen. viola gli artt. 3 e 24 Cost., traducendosi in una lesione del diritto di difesa, particolarmente evidente nel caso in cui - come nella specie - il pubblico ministero abbia operato la modifica dell’originaria contestazione sulla base di elementi che erano già in suo possesso nella fase delle indagini;
che, infatti, in tale ipotesi non potrebbe neppure sostenersi che l’imputato, optando per il rito ordinario, abbia implicitamente accettato il rischio di una modifica dell’imputazione a seguito dell’emergere di nuovi elementi nel corso dell’istruttoria dibattimentale;
che il giudice a quo non ignora che questa Corte, nel dichiarare con la sentenza n. 265 del 1994 l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di chiedere l’applicazione della pena in relazione al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, ha ritenuto inammissibile analoga questione relativa alla richiesta di giudizio abbreviato, ma rileva che le considerazioni allora svolte circa l’inconciliabilità tra rito ordinario e giudizio abbreviato debbano ritenersi superate, in quanto da un lato l’ordinamento ormai conosce casi in cui lo stesso giudice del dibattimento è abilitato a celebrare il giudizio abbreviato, dall’altro il principio della ragionevole durata del processo, enunciato dall’art. 111, secondo comma, Cost., sembra precludere la via della regressione del procedimento, che pure era stata adombrata dalla Corte quale possibile alternativa alla trasformazione del rito;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata, sulla base delle argomentazioni già svolte nell’atto di intervento depositato con riferimento ad analoga questione sollevata dal Tribunale di Monza con ordinanza iscritta al n. 881 del registro ordinanze del 2003;
che il Tribunale di Pistoia in composizione collegiale ha sollevato (r.o. n. 444 del 2004), in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 521-bis, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la trasmissione degli atti al pubblico ministero in tutte le ipotesi in cui, a seguito della contestazione del fatto diverso e di un reato concorrente in relazione a fatti che già risultavano dagli atti di indagine, il reato è attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica;
che lo stesso rimettente aveva già sollevato nell’ambito del medesimo procedimento identica questione di legittimità costituzionale, dichiarata manifestamente inammissibile con ordinanza n. 129 del 2003 in quanto ipotetica, non avendo l’imputato formulato alcuna richiesta di giudizio abbreviato;
che nel riproporre la questione il rimettente precisa che il difensore dell’imputato, munito di procura speciale, ha chiesto l’ammissione al giudizio abbreviato in relazione alla nuova imputazione, eccependo, ove la richiesta fosse stata dichiarata inammissibile, l’illegittimità costituzionale dell’art. 521-bis cod. proc. pen.;
che il rimettente premette in fatto che in esito all’udienza preliminare era stato disposto il giudizio davanti al tribunale in composizione monocratica in ordine al reato di bancarotta semplice (art. 217 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267) e che nel corso del dibattimento il pubblico ministero aveva modificato l’imputazione in quella di bancarotta fraudolenta documentale (art. 216, primo comma, n. 2) e aveva contestato, a titolo di reato concorrente, la bancarotta fraudolenta patrimoniale (art. 216, primo comma, n. 1), in relazione ad un fatto – distrazione di somme di denaro – già risultante dagli atti di indagine;
che, a norma dell’art. 33-septies cod. proc. pen., era stata disposta la trasmissione degli atti al tribunale in composizione collegiale, e cioè all’attuale rimettente, che, invece, individuava nell’art. 521-bis cod. proc. pen. la disposizione applicabile nel caso di specie, concernente la modifica della composizione del giudice a seguito di nuove contestazioni e non già a seguito di una originaria, erronea individuazione del giudice;
che ad avviso del giudice a quo tale disposizione, limitando i casi di trasmissione degli atti al pubblico ministero ai soli giudizi con citazione diretta, sacrifica la possibilità dell’imputato di accedere ai riti alternativi e, segnatamente, al giudizio abbreviato «nella sede appropriata (udienza preliminare) e in relazione a tutte le imputazioni, quella modificata e quella suppletiva»;
che, al riguardo, il giudice a quo richiama la sentenza n. 265 del 1994, con la quale la Corte ha dichiarato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., l’illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono la facoltà dell’imputato di chiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale;
che il rimettente dà inoltre atto che con la stessa sentenza la Corte ha dichiarato inammissibile questione analoga concernente il giudizio abbreviato, in base al rilievo che tale rito è inconciliabile con la struttura del dibattimento e comunque che la trasformazione del rito non sarebbe scelta costituzionalmente obbligata;
che, ad avviso del giudice a quo, alla luce del mutato quadro normativo «tale decisione e la relativa motivazione può essere ora riesaminata», sicché in tutti i casi in cui le nuove contestazioni trovino fondamento in elementi di prova raccolti nel corso delle indagini preliminari la restituzione degli atti al pubblico ministero consentirebbe all’imputato di presentare richiesta di giudizio abbreviato nell’udienza preliminare.
Considerato che in tutte le ordinanze viene censurata la disciplina che, nell’ipotesi di modifica dell’imputazione per diversità del fatto o di contestazione di un reato concorrente, preclude all’imputato di accedere al rito abbreviato in relazione alla nuova imputazione;
che, stante la sostanziale affinità delle questioni, va disposta la riunione dei relativi giudizi;
che, in particolare, il Tribunale di Monza (r.o. n. 881 del 2003) e il Tribunale di Salerno (r.o. n. 582 del 2004) hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 516 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la definizione del procedimento con il rito abbreviato «quando la novità della contestazione discende da modifica legislativa che innova la struttura della fattispecie astratta originariamente contestata» (r.o. n. 881 del 2003) ovvero «quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale» (r.o. n. 582 del 2004);
che nel giudizio pendente davanti al Tribunale di Monza la modifica dell’imputazione era stata determinata dalla nuova formulazione del reato di bancarotta fraudolenta di cui all’art. 223, secondo comma, numero 1, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, per effetto del decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61;
che il rimettente, pur rilevando che la modifica normativa «innova la struttura della fattispecie astratta originariamente contestata», omette di fornire qualsiasi indicazione circa la condotta e gli altri elementi costitutivi della fattispecie sottoposta al suo esame, nonché di precisare se, in relazione al fenomeno di successione di leggi penali nel tempo, interessante tale fattispecie, i fatti già contestati prima dell’entrata in vigore della riforma legislativa potevano o meno integrare la ‘nuova’ fattispecie criminosa;
che l’ordinanza di rimessione non contiene infatti alcuna motivazione sulle ragioni per cui, nel caso di ius superveniens in esame, avrebbe dovuto trovare applicazione la disciplina prevista dall’art. 516 cod. proc. pen.;
che pertanto la questione si palesa manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza;
che, quanto alla questione sollevata dal Tribunale di Salerno, il rimettente - premesso che il pubblico ministero aveva contestato in dibattimento che l’autovettura oggetto del reato di ricettazione proveniva non da furto, bensì da rapina - ritiene che tale modifica dell’imputazione integri gli estremi di una nuova contestazione ai sensi dell’art. 516, comma 1, cod. proc. pen., tale da giustificare la richiesta dell’imputato di essere ammesso al rito abbreviato;
che il giudice a quo trascura di considerare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, ai fini della responsabilità per il delitto di ricettazione non è necessario individuare l’esatta tipologia del delitto presupposto;
che nel caso in esame si deve quindi escludere di essere in presenza della contestazione di un fatto diverso ai fini e per gli effetti dell’art. 516 cod. proc. pen.;
che, pertanto, la questione è manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza;
che il Tribunale di Pistoia (r.o. n. 444 del 2004) ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 521-bis, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la trasmissione degli atti al pubblico ministero quando, a seguito della contestazione di un fatto diverso o di un reato concorrente in relazione a fatti che già risultavano dagli atti di indagine, il reato è attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica;
che il rimettente precisa che in esito all’udienza preliminare era stato disposto il rinvio a giudizio dell’imputato davanti al tribunale in composizione monocratica per il reato di bancarotta semplice e che nel corso del dibattimento il pubblico ministero aveva modificato l’imputazione in quella di bancarotta fraudolenta documentale e aveva contestato, a titolo di reato concorrente, il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, in relazione ad un fatto - distrazione di somme di denaro - che già risultava dagli atti delle indagini preliminari;
che il giudice a quo vorrebbe estendere il meccanismo dell’art. 521-bis cod. proc. pen. - che prevede la trasmissione degli atti al pubblico ministero per le sole ipotesi in cui a seguito delle nuove contestazioni il reato risulta tra quelli per cui si procede con udienza preliminare e questa non si è tenuta - a tutti i casi in cui per effetto della modifica dell’imputazione il reato è attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica, al fine di consentire all’imputato di accedere nell’udienza preliminare al giudizio abbreviato in relazione alla nuova imputazione;
che nell’esaminare una questione di legittimità costituzionale dell’art. 521-bis cod. proc. pen. questa Corte ha avuto occasione di affermare che la soluzione, allora prospettata dal rimettente, di far regredire il procedimento per consentire all’imputato di presentare richiesta di applicazione della pena nell’udienza preliminare è «eccentrica e incongrua rispetto all’attuale sistema», in cui «la ripartizione della competenza a celebrare i riti alternativi tra giudice dell’udienza preliminare e giudice del dibattimento risponde essenzialmente [...] a ragioni di speditezza processuale»; ragioni oggi assistite «dal principio costituzionale della ragionevole durata del processo» (ordinanza n. 486 del 2002);
che in tale ordinanza la Corte ha altresì affermato che non possono ritenersi «superate la ratio e la portata» delle sentenze n. 265 del 1994 e n. 530 del 1995, che avevano individuato nella restituzione nel termine per la richiesta di patteggiamento l’istituto più idoneo a eliminare la violazione del diritto di difesa dell’imputato;
che nella sentenza n. 265 del 1994 la Corte ha anche dichiarato inammissibile una questione volta a consentire all’imputato l’accesso al giudizio abbreviato in dibattimento in caso di modifica dell’imputazione, sul presupposto che, trattandosi di una «procedura inconciliabile con quella dibattimentale», la trasformazione del rito non poteva ritenersi «scelta costituzionalmente obbligata, allo stato dell’ordinamento processuale»;
che, a prescindere dall’attualità di tale soluzione alla luce delle profonde modifiche normative e di alcune recenti decisioni di questa Corte in tema di giudizio abbreviato (v. sentenze n. 169 del 2003 e n. 54 del 2002), è certo che la richiesta dell’attuale rimettente di trasmissione degli atti al pubblico ministero è comunque incongrua rispetto ad un sistema ora complessivamente improntato, per esigenze di speditezza e di economia, all’opposto principio di non regressione del procedimento;
che anche la questione sollevata dal Tribunale di Pistoia deve pertanto essere dichiarata manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 516 del codice di procedura penale sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Monza e dal Tribunale di Salerno con le ordinanze in epigrafe;
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 521-bis, comma 1, del codice di procedura penale sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Pistoia con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 giugno 2005.
Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente
Guido NEPPI MODONA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 16 giugno 2005.