SENTENZA N. 38
ANNO 2024
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da:
Presidente: Augusto Antonio BARBERA
Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 7, comma 5, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro), 77 del regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827 (Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale), convertito in legge 6 aprile 1936, n. 1155, e 52 del regio decreto 7 dicembre 1924, n. 2270 (Approvazione del regolamento per l’esecuzione del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3158, concernente provvedimenti per l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria), promosso dal Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento tra G. S. e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 12 giugno 2023, iscritta al numero 112 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2023.
Visti l’atto di costituzione dell’INPS e l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udita nell’udienza pubblica del 24 gennaio 2024 la Giudice relatrice Antonella Sciarrone Alibrandi;
uditi l’avvocato Mauro Sferrazza per l’INPS e l’avvocato dello Stato Fabrizio Urbani Neri per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 24 gennaio 2024.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 12 giugno 2023 (reg. ord. n. 112 del 2023), il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 5, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro), nonché, «ove ritenuto necessario», dell’art. 77 del regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827 (Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale), convertito, con modificazioni, in legge 6 aprile 1936, n. 1155, e dell’art. 52 del regio decreto 7 dicembre 1924, n. 2270 (Approvazione del regolamento per l’esecuzione del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3158, concernente provvedimenti per l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria), considerati lesivi degli artt. 3, primo e secondo comma, e 41, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui, «nell’interpretazione datane dal diritto vivente della Corte di cassazione», «esclud[ono] la compatibilità della indennità di mobilità ricevuta ratealmente e periodicamente con lo svolgimento di un’attività lavorativa autonoma, imponendo al lavoratore autonomo la necessità della richiesta di corresponsione anticipata, pena la perdita del diritto».
2.– Il rimettente riferisce di essere stato investito dell’opposizione proposta da G. S. avverso il decreto recante l’ingiunzione a pagare in favore dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) una somma a titolo di recupero dell’indebita percezione dell’indennità di mobilità.
L’opponente, licenziato, nel mese di novembre del 2008, per giustificato motivo oggettivo e iscritto nelle liste di mobilità, di cui alla legge n. 223 del 1991, ha goduto dell’indennità di mobilità prevista dall’art. 7 della medesima legge, dal mese di dicembre del 2008 al mese di dicembre del 2010. Dal 1° maggio 2009, e dunque in costanza di percezione con periodicità mensile della suddetta indennità, G. S. si è iscritto nella gestione commercianti come coadiutore di impresa familiare di carattere commerciale (in titolarità del coniuge), svolgendo in essa attività di collaborazione.
L’INPS ha richiesto l’emissione del decreto ingiuntivo al fine di recuperare le somme percepite da G. S. a titolo di indennità di mobilità durante la suddetta collaborazione all’impresa familiare, ritenendo che lo svolgimento di attività autonoma nel periodo di godimento dell’indennità di mobilità comporti la perdita del diritto alla prestazione. In particolare, a giudizio dell’ente previdenziale, una volta iniziato lo svolgimento dell’attività autonoma, G. S. avrebbe potuto soltanto avanzare richiesta di anticipazione dell’indennità residua, ai sensi dell’art. 7, comma 5, della legge n. 223 del 1991, in mancanza della quale avrebbe indebitamente continuato a percepire l’indennità mensile, con conseguente necessità di recuperare le somme corrisposte.
3.– Il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 5, della legge n. 223 del 1991, secondo cui «[i] lavoratori in mobilità che ne facciano richiesta per intraprendere un’attività autonoma o per associarsi in cooperativa in conformità alle norme vigenti possono ottenere la corresponsione anticipata dell’indennità nelle misure indicate nei commi 1 e 2, detraendone il numero di mensilità già godute».
Precisa, a tal proposito, che la disposizione, pur essendo stata abrogata, a decorrere dal 1° gennaio 2017, dall’art. 2, comma 71, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), è comunque applicabile, ratione temporis, alla fattispecie sottoposta al suo scrutinio.
Ciò posto, secondo il Tribunale di Ravenna, in applicazione di tale disposizione, nell’interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità, a suo giudizio configurabile alla stregua di vero e proprio diritto vivente, lo svolgimento di attività autonoma sarebbe incompatibile con la percezione dell’indennità di mobilità, salvo il solo caso in cui il beneficiario ne richieda la corresponsione anticipata, detratte le mensilità già godute.
Il giudice a quo, nel ricostruire il quadro giurisprudenziale, rileva che l’indirizzo definitivamente consolidatosi in seno alla giurisprudenza di legittimità era stato in passato contrastato da un precedente orientamento (che il rimettente ritiene compendiato da Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 1° aprile 2004, n. 6463), secondo cui tale incompatibilità era, invece, da escludersi, giacché la percezione delle somme in unica soluzione costituirebbe una semplice facoltà (e non un obbligo) concessa a chi avesse intrapreso lo svolgimento dell’attività autonoma durante l’iscrizione alle liste di mobilità.
Tuttavia, tale ricostruzione sarebbe stata abbandonata già da Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 14 agosto 2004, n. 15890, la quale avrebbe individuato la funzione dell’anticipazione in esame nel finanziamento alla cosiddetta autoimprenditorialità, in forza del rinvio, operato dal comma 12 del medesimo art. 7 della legge n. 223 del 1991, alle disposizioni in tema di disoccupazione (art. 77 del r.d.l. n. 1827 del 1935, come convertito, e art. 52 del r.d. n. 2270 del 1924), che prevedono la cessazione del sussidio quando l’assicurato «abbia trovato nuova occupazione»; di conseguenza, l’unica forma di percezione dell’indennità di mobilità compatibile con lo svolgimento di attività autonoma sarebbe quella della sua anticipazione.
Nel medesimo solco si sarebbero inserite tutte le pronunce di legittimità successive, che avrebbero individuato la finalità perseguita dalla suddetta disposizione nella riduzione della pressione sul mercato del lavoro subordinato.
Secondo il descritto indirizzo, che il rimettente considera ormai consolidato come diritto vivente, l’unica ipotesi di compatibilità tra lavoro autonomo e percezione rateale dell’indennità di mobilità sarebbe quella – diversa dal caso che ha dato origine al giudizio a quo – dello svolgimento dell’attività autonoma già da prima dell’iscrizione nelle liste di mobilità (ovviamente, nei soli casi in cui tale possibilità sia consentita dall’ordinamento al lavoratore dipendente): in tal senso, infatti, si sarebbe espressa, da ultimo, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 11 marzo 2020, n. 6943.
È proprio su tale complessiva interpretazione della disposizione, assunta come diritto vivente, che il rimettente chiede a questa Corte un controllo di compatibilità con i parametri costituzionali evocati.
4.– In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il giudice a quo espone che non è contestato tra le parti che G. S. abbia intrapreso un’attività di lavoro autonomo in seguito all’iscrizione nelle liste di mobilità, senza avere richiesto la liquidazione anticipata in un’unica soluzione dell’indennità residua, bensì continuando a ricevere quest’ultima mensilmente; sicché la domanda di restituzione dell’indebito avanzata dall’INPS dovrebbe essere accolta, proprio (e solo) in applicazione della disposizione censurata, nell’interpretazione fornita dall’illustrata giurisprudenza di legittimità.
5.– Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene che l’approdo ermeneutico a suo parere assurto a diritto vivente si ponga in contrasto con gli artt. 3, primo e secondo comma, e 41, primo comma, Cost.
5.1.– Sotto un primo profilo, la norma sarebbe «illogica e priva di ragionevolezza» e, come tale, lesiva dell’art. 3, primo comma, Cost.
Per il rimettente, sarebbe «un non senso» postulare di potere ottenere legittimamente l’anticipazione di una somma alla quale non si avrebbe diritto laddove essa fosse corrisposta ratealmente: in tal modo, si farebbe dipendere la spettanza di una prestazione da un requisito – la richiesta di anticipazione – «del tutto neutro» rispetto agli elementi costitutivi del diritto (ossia la provenienza da un esubero rispetto al lavoro dipendente e l’intrapresa di un’attività autonoma).
Né sarebbe decisivo, in senso contrario, sopravvalutare la natura di contributo finanziario che assumerebbe l’indennità solo se corrisposta in unica soluzione, giacché esistono, e sono molto diffuse, altre forme di finanziamento erogate periodicamente, sulla base dei bisogni e delle richieste del soggetto finanziato, quali «i finanziamenti su carta commerciale salvo buon fine», il factoring, l’apertura di credito oppure lo scoperto senza affidamento.
Del resto, aggiunge il rimettente, la legge non prevede alcuna forma di controllo sull’effettivo utilizzo dell’indennità in parola, e neppure una rendicontazione puntuale o scadenze di spesa, sicché anche la somma ricevuta una tantum ben potrebbe essere «spesa un poco alla volta», secondo le necessità dell’accipiens e addirittura per finalità «diverse da quelle imprenditoriali», incluse quelle legate al sostentamento della famiglia.
Ne risulterebbe confermato il carattere neutro «della tempistica dell’erogazione della somma», rispetto allo stesso scopo di finanziamento perseguito.
5.2.– L’art. 3, primo comma, Cost., sarebbe leso anche sotto il profilo dell’ingiustificata disparità di trattamento «di situazioni omogenee se non addirittura uguali».
Rispetto a due lavoratori in esubero collocati in lista di mobilità ed entrambi «intraprendenti un’attività di tipo autonomo», l’incentivo all’autoimprenditorialità sarebbe erogato solo a colui che presenti domanda di anticipazione del trattamento, e non anche a chi, «per scelta o per dimenticanza», non adempia a tale onere, nonostante l’identica necessità di finanziare la propria attività.
Del pari lesiva del principio di uguaglianza sarebbe l’ulteriore disparità di trattamento tra coloro i quali già prima dell’inserimento nelle liste di mobilità svolgevano attività autonoma unitamente a quella subordinata (ai quali l’indennità spetterebbe anche nella fruizione rateale durante la prosecuzione del lavoro autonomo) e coloro i quali, al contrario, iniziano a svolgere attività autonoma solo dopo l’inserimento nelle suddette liste (che dovrebbero, invece, sottostare all’irragionevole regola della necessaria richiesta di anticipazione della somma).
5.3.– In stretta connessione con le prime due censure, il rimettente rileva che l’interpretazione privilegiata dalla giurisprudenza di legittimità si porrebbe anche in contrasto con la «libertà di impresa» tutelata dall’art. 41, primo comma, Cost.
Sarebbe introdotto, infatti, «un vincolo all’azione dell’imprenditore», senza che a ciò corrisponda «alcuna necessità o utilità sociale, né creandosi danni alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà o alla dignità umana».
Neppure sarebbe possibile giustificare la norma censurata alla luce del terzo comma dell’art. 41 Cost., e, dunque, in «funzione antielusiva», posto che il legislatore non avrebbe previsto «barriere reddituali o patrimoniali di accesso o controlli ex post di sorta», lasciando, invece, la somma erogata «nella totale discrezionalità dell’imprenditore».
5.4.– Infine, sarebbe leso il principio di «eguaglianza sostanziale» fissato nell’art. 3, secondo comma, Cost.
Nell’interpretazione plasmata dal diritto vivente, l’art. 7, comma 5, censurato porrebbe ingiustificati ostacoli «di ordine economico e sociale» al «pieno sviluppo della persona umana», in cui si sostanzierebbe «la possibilità di divenire lavoratori autonomi», impedendo, così, agli ex lavoratori dipendenti di partecipare «all’organizzazione economica del Paese».
6.– Sulla scorta di queste premesse, il Tribunale di Ravenna ha chiesto a questa Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 5, della legge n. 223 del 1991 – ma anche, «ove ritenuto necessario», dell’art. 77 del r.d.l. n. 1827 del 1935, come convertito, e dell’art. 52 del r.d. n. 2270 del 1924 – nei termini indicati al precedente punto 1.
7.– Nel giudizio si è costituito l’INPS, parte ricorrente in monitorio, il quale, dopo aver ripercorso i passaggi salienti della motivazione dell’ordinanza di rimessione ed aver ricostruito il pertinente quadro normativo, ha eccepito l’inammissibilità di tutte le questioni sollevate o, in subordine, la loro non fondatezza.
7.1.– Sotto il primo profilo, secondo la difesa dell’ente previdenziale, l’ordinanza non indicherebbe, «in termini nitidi», le specifiche disposizioni censurate e sarebbe, altresì, viziata da un’insufficiente motivazione in punto di rilevanza.
Ancora, il Tribunale di Ravenna si sarebbe limitato ad illustrare l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, senza argomentare in maniera adeguata in ordine all’impossibilità di addivenire ad una diversa soluzione esegetica, rispettosa dei parametri costituzionali evocati. In particolare, il giudice a quo si sarebbe “rifugiato” «dietro la costruzione della fattispecie del “diritto vivente”», della cui reale esistenza, peraltro, la parte dubita, alla luce di differenti orientamenti espressi in seno alla stessa giurisprudenza di legittimità e in assenza di un intervento chiarificatore delle Sezioni unite della Corte di cassazione.
Sempre a sostegno dell’eccezione d’inammissibilità delle questioni, l’INPS deduce che il giudice a quo non avrebbe chiarito la portata dell’intervento richiesto a questa Corte, ossia se ritiene necessaria l’integrale caducazione della disposizione censurata oppure un intervento di tipo manipolativo, con conseguente incertezza ed ambiguità del petitum.
7.2.– Quanto al merito, la parte argomenta in ordine alla non fondatezza delle questioni sollevate.
7.2.1.– In ordine alla censura di violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., evidenzia l’erroneità del presupposto dal quale muove il rimettente, secondo cui sia l’indennità di mobilità corrisposta ratealmente, sia quella corrisposta una tantum e in via anticipata sarebbero utilizzabili dal beneficiario non solo per finanziare lo svolgimento di un’attività di lavoro autonomo, ma anche per altre finalità del tutto estranee a tale scopo.
Tra le due misure, a giudizio dell’INPS, vi sarebbe una profonda differenza, che sarebbe stata evidenziata anche da questa Corte nella sentenza n. 194 del 2021: la corresponsione rateale dell’indennità sarebbe una tipica misura di sicurezza sociale volta a sostenere il reddito del lavoratore in mobilità; l’anticipazione dell’indennità sarebbe volta, invece, a consentire ed incentivare l’inizio di una attività di lavoro autonomo (o di un’impresa), sicché essa non potrebbe essere utilizzata per finalità diverse rispetto a questo scopo.
Inoltre, non potrebbe considerarsi irragionevole – e neppure lesiva del principio di uguaglianza – la scelta del legislatore di concedere un determinato contributo economico a domanda dell’interessato, e di negarlo, invece, a quanti «per scelta o per dimenticanza» tale richiesta non abbiano presentato. A tal proposito, viene evidenziato che il diritto all’anticipazione dell’indennità di mobilità non sorge in maniera automatica al ricorrere dei prescritti presupposti, essendo necessario che l’interessato ne chieda il riconoscimento per il tramite della presentazione di apposita domanda amministrativa all’INPS che, in base all’art. 1, comma 2, del decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale del 17 febbraio 1993, n. 142 (Regolamento di attuazione dell’art. 7, comma 5, della legge 23 luglio 1991, n. 223, in materia di corresponsione anticipata dell’indennità di mobilità), deve essere corredata dalla documentazione necessaria ad attestare la concreta assunzione dell’iniziativa di svolgere attività di lavoro autonomo da parte dell’istante. Ciò dimostrerebbe la natura di finanziamento di scopo – e non di sostegno generico al reddito – dell’anticipazione di cui si tratta.
7.2.2.– Il sospetto di contrasto con l’art. 3, secondo comma, Cost., è ritenuto, prima ancora che non fondato, inammissibile per difetto di motivazione, essendo «solo enunciato, ma in alcun modo spiegato e, tantomeno, motivato».
Nel merito, l’INPS osserva che la censura «invade il campo delle valutazioni discrezionali riservate al legislatore», senza che sia oltrepassato il limite della manifesta irragionevolezza della previsione di un trattamento differenziato.
7.2.3.– Rispetto alla prospettata violazione dell’art. 41, primo comma, Cost., infine, l’INPS ne eccepisce in primo luogo l’inammissibilità, per difetto di motivazione sulle ragioni del contrasto con il parametro evocato.
Nel merito, osserva che non sarebbe certo la disposizione censurata ad introdurre «un vincolo all’azione dell’imprenditore», quanto il mero fatto, imputabile allo stesso interessato, di non aver esercitato il proprio diritto nelle forme e secondo le modalità previste dall’ordinamento previdenziale, dettate in relazione alle diverse «esigenze pubblicistiche» alla base delle due differenti misure messe a confronto.
8.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.
L’interveniente, ricostruiti la parabola argomentativa del rimettente e il contesto normativo di riferimento, ha chiesto di dichiarare inammissibili o non fondate tutte le questioni sollevate.
8.1.– In primo luogo, l’Avvocatura ha eccepito l’insufficiente ricostruzione della fattispecie concreta, che non consentirebbe di comprendere la rilevanza delle questioni sollevate.
Ha poi evidenziato l’intervenuta abrogazione della disposizione censurata ad opera dell’art. 2, comma 71, lettera b), della legge n. 92 del 2012, con la quale il rimettente non si sarebbe confrontato.
Infine, a parere dell’interveniente, le censure sarebbero inammissibili perché incentrate, più che sul contenuto della disposizione sospettata d’illegittimità costituzionale, «sull’interpretazione data alla medesima dal diritto vivente», dalla quale il rimettente «ben potrebbe discostarsi, con adeguata motivazione», scegliendo, tra gli orientamenti di legittimità discordanti – pure evidenziati nell’ordinanza introduttiva del giudizio – quello conforme ai parametri evocati, senza necessità di richiedere a questa Corte un inammissibile avallo interpretativo.
8.2.– Quanto al merito, anche l’Avvocatura generale dello Stato evidenzia la ratio sottesa alla liquidazione anticipata della indennità di mobilità, diretta a favorire la ricollocazione del lavoratore involontariamente inoccupato al di fuori del mercato del lavoro subordinato, secondo modalità che il legislatore avrebbe dettato esercitando la sua discrezionalità, in maniera non sproporzionata, né manifestamente irragionevole.
Ciò escluderebbe anche «qualsiasi ipotesi di trattamento disparitario tra situazioni oggettivamente diverse».
Mancando l’apposizione di «barriere reddituali» per l’accesso a tale contributo, inoltre, sarebbe manifestamente infondata anche la censura di violazione dell’art. 41, primo comma, Cost.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 5, della legge n. 223 del 1991, ai sensi del quale «[i] lavoratori in mobilità che ne facciano richiesta per intraprendere un’attività autonoma o per associarsi in cooperativa in conformità alle norme vigenti possono ottenere la corresponsione anticipata dell’indennità nelle misure indicate nei commi 1 e 2, detraendone il numero di mensilità già godute».
Censura, altresì, ma solo «ove ritenuto necessario» da questa Corte, l’art. 77 del r.d.l. n. 1827 del 1935, come convertito, il quale, in riferimento al diverso istituto dell’indennità di disoccupazione e per quanto qui interessa, prevede al comma terzo che «[n]el regolamento sono stabilite le norme per il controllo della disoccupazione, per l’accertamento delle condizioni per il diritto all’indennità e per la sospensione del diritto medesimo». La disposizione regolamentare richiamata è contenuta nell’art. 52 del r.d. n. 2270 del 1924, pure censurato «ove ritenuto necessario», il quale dispone, nella parte rilevante in questa sede: «[l]’assicurato cesserà dal percepire il sussidio: […] b) quando abbia trovato nuova occupazione; […]».
Tali disposizioni sono considerate contrastanti con gli artt. 3, primo e secondo comma, e 41, primo comma, Cost., nella parte in cui, «nell’interpretazione datane dal diritto vivente della Corte di cassazione», «esclud[ono] la compatibilità della indennità di mobilità ricevuta ratealmente e periodicamente con lo svolgimento di un’attività lavorativa autonoma, imponendo al lavoratore autonomo la necessità della richiesta di corresponsione anticipata, pena la perdita del diritto».
2.– Nel giudizio principale si controverte dell’opposizione proposta da un lavoratore, licenziato per giustificato motivo oggettivo e iscritto nelle liste di mobilità, avverso il decreto recante l’ingiunzione a restituire all’INPS gli importi percepiti mensilmente a titolo di indennità di mobilità, in un periodo nel quale l’ex dipendente avrebbe svolto attività di lavoro autonomo come coadiutore di impresa familiare di carattere commerciale in titolarità del coniuge.
A parere dell’INPS, infatti, l’unica forma possibile di erogazione dell’indennità di mobilità in favore dell’ex lavoratore subordinato che intenda intraprendere un’attività autonoma o imprenditoriale sarebbe quella anticipata in unica soluzione prevista dall’art. 7, comma 5, della legge n. 223 del 1991. Tale anticipazione una tantum, che comporta la cancellazione dalle liste di mobilità, presuppone però un’apposita domanda, in mancanza della quale sarebbe, appunto, indebita la percezione rateale degli importi proseguita durante lo svolgimento dell’attività di lavoro autonomo.
3.– Secondo il rimettente, questa lettura troverebbe ormai il solido avallo della giurisprudenza di legittimità, la quale, nonostante un iniziale contrasto, si sarebbe definitivamente assestata – assurgendo, così, al rango di diritto vivente – nel senso di ritenere lo svolgimento di attività autonoma incompatibile con la percezione dell’indennità di mobilità, salvo il solo caso (diverso da quello oggetto del giudizio a quo) dello svolgimento dell’attività autonoma già in epoca anteriore all’iscrizione nelle liste di mobilità. Al di fuori di questa limitata eccezione, l’ex lavoratore che intendesse intraprendere attività autonoma o imprenditoriale non avrebbe altra scelta che chiedere la corresponsione anticipata dell’indennità di mobilità, pena la perdita del relativo diritto.
Poiché l’illustrata ricostruzione delle disposizioni censurate si sarebbe ormai imposta all’interprete come vero e proprio diritto vivente, l’opposizione spiegata nel giudizio principale non avrebbe alcuna possibilità di essere accolta e ciò fonderebbe la rilevanza delle questioni sollevate.
4.– In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale di Ravenna ritiene che l’approdo ermeneutico assurto a diritto vivente sia lesivo dei parametri costituzionali evocati.
4.1.– La norma modellata dalla giurisprudenza di legittimità, in primo luogo, sarebbe «illogica e priva di ragionevolezza», in violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., in quanto farebbe dipendere la spettanza o meno dell’indennità di mobilità da un requisito – la richiesta di anticipazione – «del tutto neutro» rispetto agli elementi costitutivi del diritto (ossia la provenienza da un esubero rispetto al lavoro dipendente e l’intrapresa di un’attività autonoma).
Neppure potrebbe essere sopravvalutata la natura di finanziamento che l’indennità assumerebbe, solo se corrisposta in unica soluzione, esistendo altre forme di finanziamento erogate periodicamente, in base ai bisogni e alle richieste del soggetto finanziato, quali «i finanziamenti su carta commerciale salvo buon fine», il factoring, l’apertura di credito oppure lo scoperto senza affidamento.
4.2.– L’art. 3, primo comma, Cost., sarebbe leso anche sotto il profilo dell’ingiustificata disparità di trattamento, poiché risulterebbe incomprensibile la ragione per la quale l’incentivo all’autoimprenditorialità sarebbe erogato solo a colui che presenti domanda di anticipazione dell’indennità, e non anche a chi, «per scelta o per dimenticanza», non adempia a tale onere, pur a fronte dell’identica necessità di finanziare la propria attività.
Sotto altro profilo, il principio di uguaglianza sarebbe violato anche dalla riconosciuta spettanza dell’indennità di mobilità in forma rateale ai soli ex lavoratori dipendenti che abbiano continuato a svolgere attività di lavoro autonomo avviata prima dell’iscrizione nelle liste di mobilità.
4.3.– Tale interpretazione, impostasi come diritto vivente, si porrebbe in contrasto anche con la «libertà di impresa» tutelata dall’art. 41, primo comma, Cost., essendo stato introdotto «un vincolo all’azione dell’imprenditore», al di fuori delle condizioni e dei limiti dettati dall’evocato parametro.
4.4.– Infine, sarebbe leso il principio di «eguaglianza sostanziale» fissato nell’art. 3, secondo comma, Cost., dal momento che la disposizione censurata porrebbe ingiustificati ostacoli «di ordine economico e sociale» al «pieno sviluppo della persona umana», in cui si sostanzierebbe «la possibilità di divenire lavoratori autonomi».
5.– Nel giudizio si è costituito l’INPS, il quale, dopo aver ripercorso i passaggi salienti della motivazione dell’ordinanza di rimessione ed aver ricostruito il pertinente quadro normativo, ha eccepito l’inammissibilità di tutte le questioni sollevate. In subordine, ha chiesto di dichiararne la non fondatezza.
In particolare, l’ordinanza non identificherebbe chiaramente le specifiche disposizioni censurate e sarebbe viziata da un’insufficiente motivazione in punto di rilevanza, attesa l’avvenuta abrogazione dell’art. 7, comma 5, della legge n. 223 del 1991. Inoltre, dovendosi escludere la reale esistenza di un diritto vivente nei termini prospettati dal giudice a quo, il rimettente non avrebbe esplorato in modo adeguato la possibilità di adottare un’interpretazione costituzionalmente orientata.
Non sarebbe stato neppure precisamente indicato l’intervento richiesto a questa Corte, in una materia caratterizzata dall’ampia discrezionalità riconosciuta al legislatore.
Infine, eccessivamente generiche sarebbero le censure mosse al metro degli artt. 3, secondo comma, e 41, primo comma, Cost., non avendo il rimettente sufficientemente esplicitato le ragioni del presunto contrasto con i suddetti parametri costituzionali.
Nel merito, l’INPS ha chiesto a questa Corte di dichiarare non fondate tutte le questioni sollevate.
6.– Nel giudizio è intervenuto anche il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo di dichiarare inammissibili o non fondate tutte le questioni sollevate, per motivazioni largamente sovrapponibili alle difese spiegate in giudizio dall’INPS.
7.– Anche alla luce degli argomenti addotti dalle parti in causa, appare opportuna una sintetica ricostruzione del quadro normativo rilevante.
Prima dell’abrogazione disposta dall’art. 2, comma 71, lettera b), della legge n. 92 del 2012, gli artt. 7, 8 e 9 della legge n. 223 del 1991 disciplinavano l’indennità di mobilità, prevista in favore dei lavoratori occupati in imprese operanti in alcuni settori produttivi ed aventi determinati requisiti dimensionali, purché in possesso dell’anzianità aziendale fissata dalla legge. L’erogazione era prevista per il caso in cui essi avessero perso il lavoro in conseguenza dell’impossibilità da parte dell’impresa, che si fosse avvalsa dell’intervento straordinario della Cassa integrazione guadagni, di reimpiegare tutti i lavoratori sospesi (con conseguente avvio della procedura di mobilità); oppure per il caso in cui fossero stati coinvolti in un licenziamento collettivo, indipendentemente dall’intervento di integrazione salariale, per riduzione o trasformazione di attività o di lavoro. Tali (ex) lavoratori venivano iscritti in apposite liste, appunto di mobilità, compilate ai sensi dell’art. 6 della medesima legge, acquisendo diritti di precedenza e di riserva nelle successive assunzioni (anche presso le pubbliche amministrazioni) e andando a costituire un bacino di forza lavoro dal quale altri imprenditori avrebbero potuto (e, in certi casi, dovuto) “attingere” per assumere unità di personale, con il godimento di benefici fiscali e contributivi (art. 8, commi da 1 a 5).
L’indennità in parola sostituiva ogni altra prestazione di disoccupazione (art. 7, comma 8) ed era erogata dall’INPS, a fronte di una contribuzione preventiva posta a carico delle imprese rientranti nel campo di applicazione della cassa integrazione guadagni straordinaria.
Tale tutela mirava a garantire, a chi avesse incolpevolmente perso il reddito da lavoro subordinato, la percezione di un sostegno economico per contrastare il conseguente e inevitabile stato di bisogno, nel tempo ragionevolmente occorrente per la ricerca di un nuovo impiego. La regola era la corresponsione mensile di una somma per dodici mesi, termine elevato a ventiquattro mesi per i lavoratori che avessero compiuto i quaranta anni di età e a trentasei mesi per i lavoratori che avessero compiuto i cinquanta anni (art. 7, comma 1).
L’art. 8, comma 6, consentiva al lavoratore in mobilità – previa apposita comunicazione all’INPS – di svolgere attività di lavoro subordinato, ma solo a tempo parziale, oppure a tempo determinato, mantenendo l’iscrizione nella lista. Per le giornate di lavoro svolte, tuttavia, i trattamenti e le indennità venivano sospesi (art. 8, comma 7).
In ipotesi particolari, concernenti lavoratori che, in determinate aree svantaggiate e in possesso di determinati requisiti di età e contribuzione, avessero ottenuto il prolungamento della indennità di mobilità fino al pensionamento (cosiddetta mobilità lunga), il comma 9 dell’art. 9 attribuiva la facoltà di cumulare parzialmente l’indennità di mobilità con il reddito proveniente dall’attività di lavoro (non solo subordinato, ma anche) autonomo, nei limiti della retribuzione spettante al momento della messa in mobilità, rivalutata secondo gli indici ISTAT.
L’art. 9 regolava anche la cancellazione dalla lista di mobilità, con conseguente perdita del diritto all’indennità.
Il comma 1, in particolare, prevedeva cinque ipotesi di cancellazione – alle lettere a, b, c, d e d-bis) – come sanzione nei confronti di lavoratori che avessero tenuto comportamenti ritenuti non adeguati e contrari alle finalità dell’indennità di mobilità stessa, in quanto caratterizzati dalla mancanza di collaborazione rispetto a nuove opportunità di lavoro.
Il comma 6 dell’art. 9 prevedeva, poi, altre tre ipotesi di cancellazione dalle liste di mobilità, prive di carattere sanzionatorio, ma collegate a determinate evenienze, quali la successiva assunzione del lavoratore con contratto a tempo pieno e indeterminato, la scadenza del periodo di godimento dei trattamenti e delle indennità, e la corresponsione dell’indennità di mobilità in unica soluzione, ai sensi dell’art. 7, comma 5.
Quest’ultima disposizione, censurata nel presente giudizio, disciplinava uno dei principali strumenti di “riallocazione” nel mondo del lavoro, costituito dall’incentivo all’autoimprenditorialità, nella forma della corresponsione anticipata dell’indennità di mobilità in unica soluzione, detratte le mensilità eventualmente già godute.
Infine, il comma 12 dell’art. 7 disponeva un esplicito rinvio alla normativa che disciplinava l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria, «in quanto applicabile».
8.– Ciò premesso, vanno ora affrontate le eccezioni preliminari sollevate dall’INPS e dall’Avvocatura generale dello Stato.
8.1.– In primo luogo, la parte lamenta la scarsa chiarezza nell’indicazione delle disposizioni censurate, con conseguenti riflessi negativi sul percorso logico della motivazione sulla non manifesta infondatezza.
L’eccezione non può essere accolta, dal momento che risulta nitidamente come il bersaglio delle doglianze avanzate dal giudice a quo sia l’art. 7, comma 5, della legge n. 223 del 1991, nell’interpretazione – a suo dire «insuperabile» – che di tale disposizione avrebbe offerto il diritto vivente.
È pur vero che il giudice a quo rimette a questa Corte la scelta («ove ritenuto necessario») di coinvolgere nello scrutinio di legittimità anche le due disposizioni dettate in tema di indennità ordinaria di disoccupazione – l’art. 77 del r.d.l. n. 1827 del 1935, come convertito, e l’art. 52 del r.d. n. 2270 del 1924 – che il prospettato diritto vivente evoca a sostegno dell’approdo ermeneutico raggiunto. Ma tali disposizioni rappresentano, come meglio si dirà in seguito, semplici argomenti utilizzati dall’orientamento di legittimità ritenuto consolidato per sostenere le conclusioni cui è giunto, in relazione alla portata della disposizione di cui al citato comma 5 dell’art. 7, che rappresenta, dunque, l’unica fonte del vulnus lamentato dal rimettente e anche l’unico oggetto della sollevata questione di legittimità costituzionale.
Pertanto, il thema decidendum va limitato al solo comma 5 dell’art. 7 della legge n. 223 del 1991 (sentenza n. 114 del 2018).
8.2.– L’INPS lamenta poi l’insufficiente motivazione sulla rilevanza, proponendo un’eccezione che si lega a quella avanzata dall’Avvocatura generale dello Stato in punto di insufficiente descrizione della fattispecie concreta.
Entrambe le eccezioni risultano prive di fondamento.
Il Tribunale di Ravenna, in maniera sintetica, ma esaustiva, ha ricostruito la fattispecie concreta, motivando, in termini condivisibili, in ordine all’applicabilità, ratione temporis, della disposizione sospettata d’illegittimità costituzionale, trattandosi di vicende tutte anteriori all’abrogazione dell’art. 7, comma 5, della legge n. 223 del 1991 ad opera della legge n. 92 del 2012. Il rimettente, quindi, ha spiegato, in modo non implausibile, perché soltanto l’accoglimento delle questioni sollevate consentirebbe di rigettare l’opposizione spiegata contro il decreto ingiuntivo ottenuto dall’INPS.
Anche in considerazione del controllo meramente esterno spettante a questa Corte (da ultimo, sentenze n. 192, n. 164 e n. 145 del 2023), non può dubitarsi che la motivazione sulla rilevanza sia formulata correttamente e sulla base di una ricostruzione in fatto adeguata.
8.3.– Sempre a giudizio dell’INPS, il giudice a quo non avrebbe chiarito la portata dell’intervento richiesto a questa Corte, se di tipo puramente ablatorio oppure anche manipolativo.
Neanche questa eccezione merita accoglimento.
Il Tribunale di Ravenna, dopo aver dedotto, sulla base di ampia motivazione, che la disposizione censurata “vive” nell’ordinamento nei termini espressi dall’interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità, chiede, in termini molto espliciti, di dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 7, comma 5, della legge n. 223 del 1991, nella parte in cui esclude «la compatibilità della indennità di mobilità ricevuta ratealmente e periodicamente» con l’intrapresa di un’attività lavorativa autonoma, prevedendo come unica eccezione il caso della richiesta di corresponsione anticipata e una tantum.
8.4.– Va ora affrontata l’eccezione imperniata sulla presunta insufficienza dello sforzo profuso dal rimettente in ordine alla ricerca di una soluzione costituzionalmente conforme, anche alla luce del dubbio, sollevato sia dalla parte sia dall’interveniente, circa la reale esistenza di un diritto vivente nei termini prospettati dal Tribunale di Ravenna.
Secondo la giurisprudenza costituzionale, la configurabilità di un diritto vivente è condizionata dalla reiterazione e conseguente stabilità dell’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità: solo il consolidamento della ricostruzione offerta da quest’ultima permette, infatti, di ritenere certo che la norma desunta da una determinata disposizione, per l’uso ripetuto nel tempo e il grado di consenso raccolto, sia qualificabile ormai come tale (sentenza n. 54 del 2023).
Compete a questa Corte, tuttavia, soprattutto in mancanza di un arresto nomofilattico delle Sezioni unite, «verificare se decisioni, pur rese dalla Corte di cassazione, possano o meno ritenersi espressive di quella consolidata interpretazione della legge che rende la norma, che ne è stata ritratta, vero e proprio “diritto vivente” nell’ambito e ai fini del giudizio di legittimità costituzionale, atteso che la “vivenza” della norma costituisce “una vicenda per definizione aperta”» (sentenza n. 202 del 2023).
Nel caso di specie, la verifica restituisce un esito positivo, nei termini che si andranno a precisare.
Il giudice rimettente ha evidenziato che, durante il primo periodo di vigenza della disposizione censurata, nella giurisprudenza di legittimità sono emerse due letture divergenti del sistema normativo compendiato al precedente punto 7.
Un primo indirizzo – di cui è principale espressione Corte di cassazione, n. 6463 del 2004 – ha sostenuto le ragioni della piena compatibilità tra corresponsione rateale dell’indennità di mobilità e svolgimento di attività autonoma, muovendo dalla constatazione che, là dove il legislatore ha voluto sancire l’incompatibilità dell’indennità di mobilità percepita mensilmente con altro tipo di occupazione, lo ha previsto espressamente. Ciò è accaduto con l’art. 8 della legge n. 223 del 1991 che, da un lato, al comma 6, attribuisce al lavoratore iscritto nelle liste di mobilità la facoltà di svolgere lavoro subordinato a tempo parziale, ovvero a tempo determinato, mantenendo l’iscrizione nella lista; dall’altro, prevede, al successivo comma 7, la corrispondente sospensione del trattamento per le giornate di lavoro svolte al predetto titolo. Ancora, l’art. 9, comma 6, lettera a), prevede la cancellazione dalle liste di mobilità solo nel caso di assunzione con contratto a tempo pieno e indeterminato. Argomentando a contrario, secondo tale indirizzo, nel silenzio della legge, in caso di svolgimento di lavoro autonomo, il lavoratore conserverebbe il diritto all’iscrizione nella lista di mobilità e quello alla percezione della relativa indennità. La conferma sarebbe offerta proprio dalla disposizione censurata che, nell’attribuire la possibilità di ottenere, a domanda, la corresponsione anticipata di siffatta indennità, in un’unica soluzione, ai lavoratori che intendano intraprendere un’attività di lavoro autonomo, configurerebbe la mera facoltà di determinare la modalità temporale dell’erogazione.
La pronuncia appena citata ha sviluppato argomenti già abbozzati in precedenti arresti (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 20 giugno 2002, n. 9007; 21 aprile 2001, n. 5951; 27 febbraio 2001, n. 2854), secondo una linea di pensiero alimentata anche da quelle pronunce (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 21 luglio 2004, n. 13562; 28 gennaio 2004, n. 1587; 10 settembre 2003, n. 13272; 12 giugno 2003, n. 9469; 8 gennaio 2003, n. 93) che hanno escluso la necessità di presentare l’istanza di anticipazione una tantum prima dell’inizio dell’attività autonoma, ammettendo la possibilità di chiederla anche successivamente, ad attività già iniziata, ossia in costanza di iscrizione alle liste (e dunque anche di percezione rateale del trattamento economico).
Un secondo indirizzo – che trova una prima esplicita enunciazione in Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 15 maggio 2001 n. 6679 – ha valorizzato, invece, l’esistenza, nell’ordito normativo della legge n. 223 del 1991, di particolari ipotesi, legate a specifiche situazioni territoriali e condizioni anagrafiche e di anzianità contributiva, in cui il legislatore, nel prevedere un prolungamento della corresponsione dell’indennità di mobilità fino al compimento dell’età pensionabile – cosiddetta “mobilità lunga” –, ha eccezionalmente consentito lo svolgimento di attività autonoma in costanza di iscrizione alle liste di mobilità (art. 9, comma 9). Anche in tal caso argomentando a contrario, si è sostenuto che la regola generale sarebbe quella dell’incompatibilità tra lavoro autonomo e percezione rateale dell’indennità di mobilità.
La tesi è stata poi ripresa da numerose sentenze successive (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 9 febbraio 2005, n. 2566; 14 agosto 2004, n. 15890; 1° settembre 2003, n. 12757), le quali hanno specificato che, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla stessa legge, il regime delle incompatibilità è governato – in forza del rinvio operato dall’art. 7, comma 12, della legge n. 221 del 1993 – dalla normativa che disciplina l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria e, in particolare, dai principi fissati in linea generale dall’art. 77 del r.d.l. n. 1827 del 1935, come convertito, e dagli art. 52 e seguenti del r.d. n. 2270 del 1924, i quali sanciscono la cessazione del godimento della indennità di disoccupazione nel caso in cui l’assicurato abbia trovato una nuova occupazione (di qualsiasi genere).
Il contrasto, a lungo latente, ha cominciato a riassorbirsi con le sentenze della medesima sezione lavoro della Corte di cassazione 2 ottobre 2014, n. 20826 e n. 20827.
Queste ultime pronunce hanno ribadito e sviluppato gli argomenti fino ad allora esibiti dall’orientamento restrittivo, facendo leva soprattutto sulla funzione svolta dall’anticipazione una tantum dell’indennità: non più quella di aiutare l’ex lavoratore a fronteggiare lo stato di bisogno conseguente alla disoccupazione, bensì quella di riconoscergli – anche con l’obiettivo di promuovere il “decongestionamento” del mercato del lavoro subordinato – un contributo finanziario destinato a far fronte alle spese iniziali dell’attività che il lavoratore in mobilità svolgerà in proprio. Dalla disposizione in discorso, di carattere speciale, non sarebbe quindi possibile desumere un principio generale, nel senso della compatibilità della percezione dell’indennità in esame con lo svolgimento di lavoro autonomo.
A conferma dell’assunto, anche tali pronunce evidenziano il riferimento operato dall’art. 7, comma 12, della legge n. 223 del 1991 alla disciplina dettata per l’indennità di disoccupazione ordinaria, che sancisce in termini espressi l’incompatibilità della percezione rateale di quel trattamento con lo svolgimento di una qualsiasi attività suscettibile di redditività.
Tale orientamento si è andato via via consolidando negli anni successivi al 2014, tanto che non si registrano pronunce successive che abbiano ripreso espressamente il diverso e più risalente indirizzo.
Le sentenze degli ultimi dieci anni, infatti, hanno ribadito la posizione assunta dalle pronunce del 2014 (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 16 aprile 2018, n. 9321 e 1° febbraio 2018, n. 2497), sottolineando altresì l’irrilevanza del fatto che l’attività non sia prevalente o non sia retribuita (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 13 ottobre 2015, n. 20520).
A tale filone va ascritta anche Corte di cassazione, sentenza n. 6943 del 2020, che ha ribadito la regola secondo cui lo svolgimento di attività di lavoro autonomo è incompatibile con la percezione rateale dell’indennità di mobilità, pur ammettendo una deroga, nel peculiare caso di specie, in cui l’ex lavoratore dipendente si era limitato a proseguire, dopo l’iscrizione nelle liste di mobilità, un’attività autonoma che già svolgeva in precedenza, in quanto compatibile con il lavoro subordinato poi cessato.
Ciò premesso, va ricordato come questa Corte abbia già riconosciuto la sussistenza di un diritto vivente al cospetto dell’interpretazione di una disposizione affermatasi in seguito all’abbandono di un determinato approccio interpretativo – già in precedenza contrastato (sentenza n. 266 del 2006) – e attestatasi, all’attualità (ordinanza n. 128 del 1988), in termini di stabilità, uniformità e continuità su un’unica lettura (ordinanza n. 33 del 1990), secondo «una tendenza ormai uniforme da molti anni» (sentenza n. 225 del 1984).
Anche nel caso di specie l’illustrata evoluzione della giurisprudenza di legittimità dimostra come, almeno a far data dal 2014, l’indirizzo più restrittivo abbia soppiantato definitivamente l’altro, radicandosi in termini di uniformità e stabilità.
Ciò consente di enucleare un ben riconoscibile approdo interpretativo ormai consolidatosi nella giurisprudenza, quantomeno in ordine al principio generale dell’incompatibilità tra attività di lavoro autonomo avviato successivamente all’iscrizione nelle liste e percezione rateale dell’indennità di mobilità: in tali termini, dunque, può essere identificata la norma espressa dalla disposizione su cui questa Corte è chiamata a svolgere il sindacato di legittimità costituzionale.
Potendosi ritenere sorto un solido diritto vivente, il giudice a quo, pur rimanendo libero di non uniformarvisi e di proporre una sua diversa ricostruzione (sentenza n. 95 del 2020), ha perciò legittimamente esercitato la facoltà, che la giurisprudenza costituzionale costante gli riconosce in via alternativa, di assumere l’interpretazione censurata in termini di diritto vivente e, su tale presupposto, richiederne il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali evocati (sentenza n. 243 del 2022). Non può, quindi, essere censurato per avere omesso di seguire altra interpretazione, più aderente ai parametri stessi – sussistendo tale onere solo in assenza di un contrario diritto vivente (sentenza n. 180 del 2021) –, poiché la norma vive ormai nell’ordinamento in modo così tenace da essere difficilmente ipotizzabile una modifica del sistema senza l’intervento del legislatore o di questa stessa Corte (sentenza n. 141 del 2019).
8.5.– Meritano accoglimento, invece, le eccezioni con le quali si lamenta l’eccessiva genericità delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3, secondo comma, e 41, primo comma, Cost.
Le argomentazioni addotte dal rimettente a sostegno delle censure si rivelano, infatti, del tutto apodittiche e assertive, riducendosi a una sostanziale riproposizione in termini solo formalmente diversi degli enunciati contenuti nei precetti costituzionali evocati, in assenza di adeguata spiegazione in ordine alle ragioni dell’asserita violazione. Ciò impone di arrestare lo scrutinio sulla soglia dell’ammissibilità (tra le ultime, sentenze n. 186 e n. 32 del 2023, n. 136 e n. 128 del 2022).
9.– Così perimetrato il thema decidendum, le questioni residue si rivelano non fondate.
Per giungere a tale conclusione, occorre muovere da una considerazione ricorrente nella giurisprudenza costituzionale, secondo cui il diritto alla percezione dell’indennità di mobilità rappresenta soltanto una tra le molteplici conseguenze dello status che i lavoratori acquisiscono con l’iscrizione nelle relative liste. In tale momento, infatti, si radica «“un complesso di rapporti interconnessi, dei quali quello avente ad oggetto l’erogazione dell’indennità di mobilità costituisce il principale ma non l’unico”» (sentenza n. 6 del 1999; nello stesso senso, sentenza n. 402 del 1996). Basti considerare che ai lavoratori in mobilità è riconosciuto (ex art. 8, comma 1, della legge n. 223 del 1991) il diritto di precedenza nelle successive assunzioni, proprio al fine di facilitarne il reimpiego per favorire la più rapida cessazione della (onerosa) erogazione del trattamento in seguito alla cancellazione dalla lista di mobilità (sentenza n. 413 del 1995).
Ciò premesso, va evidenziato, in primo luogo, che la lettura fornita dalla giurisprudenza di legittimità assurta al rango di diritto vivente si pone in armonia con la giurisprudenza di questa Corte che ravvisa diverse funzioni negli istituti disciplinati, rispettivamente, dai commi 1 e 5 dell’art. 7 della legge n. 223 del 1991.
Quanto all’indennità di mobilità erogata in forma rateale, anche nella giurisprudenza costituzionale è costante l’affermazione secondo cui essa rientra nel più ampio genus delle assicurazioni sociali contro la disoccupazione e, in particolare, nell’ambito dei cosiddetti “ammortizzatori sociali” (sentenze n. 215 del 2014 e n. 184 del 2000), essendo finalizzata a favorire il ricollocamento del lavoratore in altre imprese in conseguenza di una crisi irreversibile del datore di lavoro. Tale indennità, quindi, deve considerarsi un vero e proprio trattamento di disoccupazione (sentenza n. 234 del 2011), rispondendo all’esigenza di provvedere ai bisogni dei lavoratori, dipendenti da imprese rientranti nel campo di applicazione dell’intervento straordinario di integrazione salariale, i quali provengano da un esubero e non possano perciò mantenere il posto di lavoro (ordinanza n. 18 del 2007).
Quanto all’incentivo all’autoimprenditorialità, invece, questa Corte – pur se con riferimento all’analogo istituto previsto dall’art. 8 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22 (Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183) – ha affermato, in sintonia con la lettura fornita dalla Corte di cassazione rispetto al precedente istituto di cui all’art. 7, comma 5, della legge n. 223 del 1991, che la finalità perseguita dal legislatore è quella di favorire il reimpiego del lavoratore “disoccupato” in un’attività diversa da quella di lavoro subordinato, allo scopo di ridurre la pressione sul relativo mercato (sentenza n. 194 del 2021). Si tratta, insomma, di una sorta di finanziamento destinato a uno scopo, quello dell’investimento in un’attività autonoma o di impresa, per far fronte alle spese iniziali dell’attività che il lavoratore in mobilità svolgerà in proprio, così fuoriuscendo dal mercato del lavoro dipendente.
In questa prospettiva, lungi dal rivestire un carattere neutro, le modalità di erogazione dell’indennità, volte a incentivare l’autoimprenditorialità, sono state non irragionevolmente modellate dal legislatore. È, infatti, solo la forma dell’anticipazione una tantum, cui di necessità si accompagna la cancellazione dalle liste, a consentire l’immediata decongestione del settore del lavoro dipendente nonché la riduzione degli oneri economici in capo all’ente previdenziale, anche in un’ottica di razionalizzazione dell’impiego delle risorse economiche pubbliche.
La soluzione adottata dal diritto vivente – che circoscrive la compatibilità dell’indennità di mobilità con lo svolgimento di attività autonoma alla sola ipotesi in cui la corresponsione della prima sia chiesta in forma anticipata e una tantum – appare quindi coerente con l’obiettivo che il legislatore, nell’esercizio della sua ampia discrezionalità in materia (sulla quale, da ultimo, sentenza n. 194 del 2021), ha inteso perseguire, ossia la riduzione del numero degli iscritti alla lista di mobilità e degli oneri economici gravanti sull’intero sistema degli ammortizzatori sociali.
Una volta intrapreso un lavoro autonomo, risulta, infatti, ingiustificata la permanenza dell’iscrizione nelle liste, dalla quale conseguono, oltre alla percezione rateale dell’indennità, numerosi altri vantaggi (come la contribuzione figurativa, nonché le preferenze e le riserve nelle assunzioni), la cui permanenza certo non riduce la pressione esercitata sul settore del lavoro dipendente.
Ne deriva la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’art. 3, primo comma, Cost., per asserita violazione del principio di ragionevolezza.
La differente funzione svolta dall’anticipazione una tantum dell’indennità di mobilità rispetto alla sua erogazione rateale, lungi dal costituire quello che il rimettente definisce un artificioso «eldorado interpretativo», giustifica appieno anche il differente trattamento riservato all’iscritto alle liste di mobilità che presenti domanda di anticipazione del trattamento, rispetto a chi, pur avendo intrapreso un lavoro autonomo, «per scelta o per dimenticanza», non abbia adempiuto a tale onere.
Le differenti rationes che caratterizzano le due forme di erogazione, cui corrispondono finalità altrettanto diverse ed entrambe legittimamente perseguite dal legislatore, rendono dunque non assimilabili le situazioni poste a confronto, consentendo di giudicare non fondata anche la questione sollevata in relazione al principio di eguaglianza presidiato dall’art. 3, primo comma, Cost. (sentenze n. 161, n. 108 e n. 67 del 2023).
La stessa conclusione si impone con riferimento alla posizione dei lavoratori che già svolgevano attività autonoma prima dell’iscrizione nelle liste di mobilità. Invero, sulla deroga al principio generale dell’incompatibilità tra percezione rateale dell’indennità di mobilità e svolgimento di attività autonoma, l’affermazione fatta da Corte di cassazione, sentenza n. 6943 del 2020, è rimasta isolata nel recente panorama giurisprudenziale. Ma ciò che più conta è che il rimettente pone a raffronto situazioni di fatto differenti, come tali non equiparabili ai fini dello scrutinio di legittimità costituzionale sollecitato ai sensi dell’art. 3, primo comma, Cost.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 5, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro), sollevate, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, e 41, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 5, della legge n. 223 del 1991, sollevate, in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 gennaio 2024.
F.to:
Augusto Antonio BARBERA, Presidente
Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Redattrice
Valeria EMMA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l’8 marzo 2024