SENTENZA N. 236
ANNO 2020
Commento alla decisione di
Vincenzo Sciarabba
“Neighbourhood Watch” o “Neighbourhood Support”?
negli Studi 2020/II di questa
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Mario Rosario MORELLI;
Giudici: Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Veneto 8 agosto 2019, n. 34 (Norme per il riconoscimento ed il sostegno della funzione sociale del controllo di vicinato nell’ambito di un sistema di cooperazione interistituzionale integrata per la promozione della sicurezza e della legalità), e, in via subordinata, degli artt. 1, 2, commi 2, 3 e 4, 3, comma 2, lettera b), 4, comma 1, lettera a), e 5 della medesima legge regionale, promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato l’8-11 ottobre 2019, depositato in cancelleria il 15 ottobre 2019, iscritto al n. 107 del registro ricorsi 2019 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di costituzione della Regione Veneto;
udito nell’udienza pubblica del 20 ottobre 2020 il Giudice relatore Francesco Viganò;
uditi l’avvocato dello Stato Leonello Mariani per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Andrea Manzi per la Regione Veneto;
deliberato nella camera di consiglio del 21 ottobre 2020.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato l’8-11 ottobre 2019 e depositato il 15 ottobre 2019, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato – tanto nella sua interezza che, in via subordinata, negli artt. 1, 2, commi 2, 3 e 4; 3, comma 2, lettera b); 4, comma 1, lettera a); e 5 – la legge della Regione Veneto 8 agosto 2019, n. 34 (Norme per il riconoscimento ed il sostegno della funzione sociale del controllo di vicinato nell’ambito di un sistema di cooperazione interistituzionale integrata per la promozione della sicurezza e della legalità), assumendone complessivamente il contrasto con gli artt. 117, secondo comma, lettere g) e h), e 118, terzo comma, della Costituzione.
1.1.– Il ricorso dà conto, anzitutto, del contenuto della legge regionale impugnata.
L’art. 1 impegna la Regione a stimolare la collaborazione fra amministrazioni statali, istituzioni locali e società civile «al fine di sostenere processi di partecipazione alle politiche pubbliche per la promozione della sicurezza urbana ed integrata, di incrementare i livelli di consapevolezza dei cittadini circa le problematiche del territorio e di favorire la coesione sociale e solidale».
Tali finalità vengono perseguite dalla legge regionale in questione mediante il riconoscimento e il sostegno del «controllo di vicinato», definito dal comma 2 dell’art. 2 come «quella forma di cittadinanza attiva che favorisce lo sviluppo di una cultura di partecipazione al tema della sicurezza urbana ed integrata per il miglioramento della qualità della vita e dei livelli di coesione sociale e territoriale delle comunità, svolgendo una funzione di osservazione, ascolto e monitoraggio, quale contributo funzionale all’attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio», precisandosi altresì che «[n]on costituisce comunque oggetto dell’azione di controllo di vicinato l’assunzione di iniziative di intervento per la repressione di reati o di altre condotte a vario titolo sanzionabili, nonché la definizione di iniziative a qualsivoglia titolo incidenti sulla riservatezza delle persone».
Il successivo comma 3 dell’art. 2 precisa che «[i]l controllo di vicinato si attua attraverso una collaborazione tra Enti locali, Forze dell’Ordine, Polizia Locale e con l’organizzazione di gruppi di soggetti residenti nello stesso quartiere o in zone contigue o ivi esercenti attività economiche, che, in conformità alla presente legge, integrano l’azione dell’amministrazione locale di appartenenza per il miglioramento della vivibilità del territorio e dei livelli di coesione ed inclusione sociale e territoriale», mentre il comma 4 attribuisce alla Giunta regionale il compito di promuovere «la stipula di accordi o protocolli di intesa per il controllo di vicinato con gli Uffici Territoriali di Governo da parte degli enti locali in materia di tutela dell’ordine e sicurezza pubblica, nei quali vengono definite e regolate le funzioni svolte da soggetti giuridici aventi quale propria finalità principale il controllo di vicinato, secondo la definizione di cui alla presente legge. Ove ricorrano le condizioni, viene sostenuto il coinvolgimento dei soggetti giuridici di cui al presente comma, nelle forme previste nei Patti per la Sicurezza Urbana», di cui al decreto-legge 20 febbraio 2017 n. 14, convertito, con modificazioni, nella legge 18 aprile 2017 n. 48.
L’art. 3 della legge regionale impugnata affida nuovamente alla Giunta regionale il compito di «favorire la conoscenza, lo sviluppo e il radicamento nel territorio del controllo di vicinato e delle relative iniziative», mediante la definizione di programmi di intervento in una serie di ambiti, tra cui: «attività di ricerca, documentazione, comunicazione ed informazione circa le azioni realizzate e di analisi sui risultati conseguiti, con particolare riguardo al livello di impatto sulla sicurezza nel contesto di riferimento» (comma 2, lettera b).
Per l’attuazione di tali interventi di promozione e sostegno del controllo di vicinato, l’art. 4, comma 1, lettera a), prevede che la Giunta regionale si confronti «con gli enti locali e con soggetti giuridici aventi quale propria finalità statutaria principale il controllo di vicinato, individuati prioritariamente tra i gruppi di controllo che collaborano all’attuazione dei protocolli di intesa tra le amministrazioni comunali e gli Uffici territoriali di Governo».
L’art. 5, rubricato «Analisi del sistema di controllo di vicinato», prevede, infine, che la Giunta regionale, «al fine di incentivare e sostenere la diffusione del controllo di vicinato», promuova «altresì la creazione di una banca dati, che raccolga le misure attuative dei protocolli di intesa e dei patti per la sicurezza urbana sottoscritti nel territorio regionale che prevedano forme di coinvolgimento di vicinato. Tale banca dati consentirà la gestione degli elementi informativi sul sistema provenienti dagli enti locali che svolgono attività di controllo di vicinato; a tal fine, la Giunta regionale stipula intese con gli enti locali e con i soggetti istituzionali competenti in materia di ordine e sicurezza pubblica» (comma 1). «La banca dati consentirà la definizione di analisi sull’evoluzione dell’efficacia del controllo di vicinato e sulla situazione concernente le potenziali tipologie di reati ed il loro impatto sul sistema territoriale» (comma 2).
1.2.– Come anticipato, il Presidente del Consiglio dei ministri impugna anzitutto l’intero testo della legge regionale n. 34 del 2019, ritenendolo incompatibile con:
– l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., che preclude in radice al legislatore regionale la disciplina dell’ordine pubblico e della sicurezza;
– l’art. 118, terzo comma, Cost., che riserva il coordinamento in detta materia al legislatore statale e, conseguentemente, preclude al legislatore regionale l’introduzione di regole di coordinamento interistituzionale;
– l’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., che riserva al legislatore statale l’ordinamento e l’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali e, conseguentemente, preclude al legislatore regionale di disporre delle competenze e delle attribuzioni di organi e di uffici pubblici statali.
Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la legge dovrebbe essere dichiarata nella sua interezza costituzionalmente illegittima, stante la sua unitarietà e organicità nel disciplinare il controllo di vicinato e la collaborazione interistituzionale in materia, che la Regione non avrebbe competenza alcuna a disciplinare.
Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, la materia della sicurezza, «a prescindere dalle forme nelle quali essa viene declinata: sicurezza integrata o sicurezza urbana», formerebbe «oggetto, al pari dell’ordine pubblico, di riserva di legislazione statale (art. 117, comma 2, lettera h, Cost.): tant’è vero che […] del tutto coerentemente la stessa Costituzione riserva allo Stato la disciplina delle forme di coordinamento dell’attività dei pubblici poteri – regioni comprese – nella suddetta materia (art. 118, comma 3, Cost.)».
Il ricorso illustra poi la «cornice normativa» statale entro cui si collocherebbe la disciplina del controllo di vicinato oggetto della legge regionale impugnata, soffermandosi sul già citato d.l. n. 14 del 2017, come convertito, adottato espressamente in attuazione dell’art. 118, terzo comma, Cost., quale esercizio del potere statale di disciplinare «forme di coordinamento fra Stato e regioni» nella materia dell’«ordine pubblico e sicurezza». Tale decreto-legge avrebbe provveduto a regolamentare sia la materia, sia le forme di coordinamento nella stessa, circoscrivendo, «con assoluta precisione, il ruolo dei vari attori istituzionali – e, tra questi, e in primis, quello delle regioni».
Analizzati i contenuti salienti del d.l. n. 14 del 2017, con speciale riguardo ai moduli collaborativi ivi delineati in riferimento alla «sicurezza integrata», l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che le misure regionali di sostegno al controllo di vicinato di cui alla legge regionale impugnata non possano rientrarvi. Ciò sia perché il controllo di vicinato sarebbe estraneo ai settori ivi elencati, sia «perché una regolamentazione per via legale del fenomeno contrasta, per il suo carattere autoritativo ed unilaterale, con il modulo convenzionale che informa l’intera materia sia, infine, perché la “legificazione” del controllo di vicinato eccede certamente l’ambito delle misure di sostegno che, in base alla legge statale ed agli accordi che sono a questa seguiti, le autonomie locali sono legittimate ad adottare in un ambito […] per principio precluso al legislatore regionale».
Né la disciplina regionale del controllo di vicinato potrebbe farsi rientrare nel concetto di «sicurezza urbana» e nei moduli cooperativi per essa stabiliti dallo stesso d.l. n. 14 del 2017.
Il controllo di vicinato atterrebbe invece alla materia della sicurezza, come reso evidente dalla sua definizione da parte della legge regionale impugnata, che lo qualifica come strumento di prevenzione generale e controllo del territorio, e, dunque, quale strumento di prevenzione, anche criminale. Esso avrebbe pertanto potuto, eventualmente, trovare riconoscimento e disciplina «nell’ambito degli accordi e dei patti previsti dalla normativa statale in materia di sicurezza», come delineata dal d.l. n. 14 del 2017, ma certo non per mano del legislatore regionale, «essendo [il] coordinamento riservato alla legislazione statale la quale, con il decreto-legge più volte citato, ha appunto previsto un complesso di azioni e di interventi» da parte dei diversi soggetti istituzionali, tutti orientati «all’attuazione di un sistema unitario ed integrato di sicurezza per il benessere delle comunità locali».
La legge regionale n. 34 del 2019 violerebbe infine la competenza legislativa esclusiva statale in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., posto che, secondo la giurisprudenza costituzionale, «le forme di collaborazione e di coordinamento che coinvolgono compiti e attribuzioni di organi dello Stato non possono essere disciplinate unilateralmente e autoritativamente dalle regioni, nemmeno nell’esercizio della loro potestà legislativa: esse debbono trovare il loro fondamento o il loro presupposto in leggi statali che le prevedano o le consentano, o in accordi tra gli enti interessati» (sentenza n. 134 del 2004).
1.3.– In via subordinata, il Presidente del Consiglio dei ministri impugna singole disposizioni della legge regionale in questione.
In particolare, assume l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, dell’art. 2, commi 2, 3 e 4, nonché dell’art. 4, comma 1, lettera a), per avere il legislatore regionale definito in tali norme il controllo di vicinato «quale contributo funzionale all’attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio», stabilendo che detta forma di controllo «si attua attraverso una collaborazione tra Enti locali, Forze dell’ordine, Polizia locale» e società civile, e attribuendo a tal fine alla Giunta regionale il potere di promuovere moduli negoziali tra Uffici territoriali di Governo ed enti locali, previo confronto con questi ultimi e con le associazioni aventi per finalità statutaria principale il controllo di vicinato. In questo modo, il legislatore regionale avrebbe violato:
– l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., in quanto, trasformando «il controllo di vicinato in uno strumento di politica criminale», tali disposizioni determinerebbero un’interferenza – non solo potenziale – «nella disciplina statale di prevenzione e repressione dei reati»;
– l’art. 118, terzo comma, Cost., in quanto tali norme introdurrebbero regole di coordinamento interistituzionale riservate al legislatore statale; nonché
– l’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., in quanto le stesse disposizioni prevedono, «anche se al solo fine di promuoverli, la stipula di accordi dai quali deriveranno obblighi a carico dei titolari e dei preposti ad organi ed uffici pubblici dello Stato», così interferendo «nell’organizzazione amministrativa dello Stato e dei suoi apparati».
Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna poi l’art. 3, comma 2, lettera b), della legge regionale in esame, dal momento che tale disposizione, prevedendo programmi regionali nell’ambito delle attività di «ricerca, documentazione, comunicazione ed informazione circa le azioni realizzate e di analisi sui risultati conseguiti, con particolare riguardo al livello di impatto sulla sicurezza nel contesto di riferimento», violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. perché interferirebbe, anche solo potenzialmente, sull’attività di organi statali competenti all’«analisi strategica interforze dei fenomeni criminali ai fini del supporto dell’Autorità nazionale di pubblica sicurezza».
Infine, oggetto di impugnazione è altresì l’art. 5, che, prevedendo la creazione di una banca dati in cui confluiscano, previa intesa con i soggetti istituzionali competenti in materia di ordine e sicurezza pubblica, anche dati finalizzati all’analisi dell’efficacia del controllo di vicinato e della «situazione concernente le potenziali tipologie di reati ed il loro impatto sul sistema territoriale», violerebbe ancora l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., in ragione della «sovrapposizione» o quantomeno della «interferenza con le banche dati formate e tenute dal Centro elaborazione dati (CED) interforze istituito presso il Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’interno ai sensi dell’art. 7, comma 1, della legge n. 121/1981». La norma regionale mirerebbe infatti a promuovere la costituzione «di una “banca dati” parallela, alimentata dagli elementi informativi forniti da enti locali che svolgono attività di controllo di vicinato, suscettibile, ancora una volta, di interferire con l’attività degli organi statali competenti». La stessa banca dati, del resto, «dovrebbe assolvere anche all’ulteriore funzione di consentire “la definizione di analisi… sulla situazione concernente le potenziali tipologie di reati ed il loro impatto sul sistema territoriale”» (art. 5, comma 2), con ciò determinandosi, «in modo eclatante», l’invasione della competenza esclusiva statale «in tema di prevenzione dei reati», discostandosi, peraltro, «da altre esperienze regionali che, nel rispetto del riparto di competenze fissato dalla Costituzione e dalle leggi ordinarie, hanno, invero, previsto la mera possibilità per le polizie locali di collegarsi alla banca dati del CED interforze».
Né sarebbe possibile un’interpretazione della disposizione impugnata compatibile con il rispetto delle competenze esclusive statali in materia, tesa a ridurre lo scopo della banca dati in questione al solo monitoraggio delle attività svolte dagli enti locali in attuazione dei protocolli di intesa e dei patti per la sicurezza e verificarne gli effetti, posto che ciò risulterebbe precluso dalla funzione attribuita alla banca dati dalla norma censurata «di consentire analisi “sulla situazione concernente le potenziali tipologie di reati ed il loro impatto sul sistema territoriale”».
La difesa erariale conclude, sul punto, osservando come le linee guida approvate dall’accordo in sede di Conferenza unificata del 26 luglio 2018 prevedano già «la possibilità di costituire, nei comuni sedi di circoscrizioni di decentramento amministrativo di cui all’art. 17 del T.U.E.L. – decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 – appositi Tavoli di Osservazione (TdO), regolamentati nei Patti per la sicurezza, coordinati da dirigenti delle Prefetture e composti dai presidenti delle circoscrizioni e dai responsabili delle articolazioni delle Forze di polizia e delle polizie locali», con la finalità di individuare «azioni di prevenzione e di contrasto da porre in essere con le risorse disponibili, anche attraverso momenti di confronto con i comitati civici e gli altri soggetti esponenziali degli interessi e dei bisogni delle “realtà di quartiere”». Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, in tali tavoli di osservazione troverebbero espressione anche le istanze espresse da gruppi di privati, con conseguente inutilità della dalla banca dati prevista dall’art. 5 impugnato.
2.– Con memoria dell’8 novembre 2019, depositata il 12 novembre 2019, si è costituita in giudizio la Regione Veneto, la quale ha chiesto che venga dichiarata l’inammissibilità o, comunque, l’infondatezza del ricorso appena illustrato, sia nella parte in cui è impugnata l’intera legge regionale n. 34 del 2019, sia nella parte in cui sono impugnate le singole disposizioni sopra indicate.
2.1.– La difesa regionale eccepisce, anzitutto, l’inammissibilità delle censure dirette contro l’intera legge regionale, limitandosi il ricorso governativo «ad asserire tautologicamente la violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di ordine pubblico e sicurezza e in materia di organizzazione amministrativa statale, senza enucleare specifici motivi di censura che involgano gli effetti precettivi della legge regionale, considerata nella sua interezza ed unitarietà». Dall’inadeguatezza e genericità delle motivazioni del ricorso, deriverebbe l’inammissibilità del primo motivo di impugnazione (è citata la sentenza di questa Corte n. 137 del 2019).
2.2.– Nel merito, la difesa regionale ritiene il ricorso infondato.
La legge regionale impugnata sarebbe infatti diretta ad attuare il d.l. n. 14 del 2017, il quale, all’art. 3, comma 2, consente alle Regioni di sostenere iniziative e progetti volti ad attuare interventi di promozione della sicurezza integrata «anche sulla base degli accordi» tra Stato e Regioni (e Province autonome) previsti dallo stesso articolo, con ciò implicitamente ammettendo che un tale sostegno possa avvenire anche al di fuori di tali accordi, pur sempre nell’esercizio di competenze di spettanza regionale.
Inoltre, la medesima legge regionale mirerebbe a promuovere la sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, ultimo comma, Cost., sostenendo l’autonoma iniziativa dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale, quale, in particolare, l’interesse a garantire vivibilità e decoro dei luoghi in cui si vive, interesse afferente alle «numerose competenze [regionali] in ambito sociale, culturale ed economico». La necessità di disciplinare il controllo di vicinato sorgerebbe, in particolare, in quanto esso costituirebbe «fenomeno sociale e culturale che già caratterizza diverse realtà territoriali», anche in Veneto, come confermato dal progetto di legge di iniziativa parlamentare alla Camera (A.C. n. 1250) che considera in termini analoghi il controllo di vicinato.
La legge regionale n. 34 del 2019 si limiterebbe d’altronde a considerare «gli aspetti eminentemente sociali e culturali del fenomeno […], senza intervenire in merito agli aspetti di ordine pubblico [o alle] politiche relative alla sicurezza integrata impostate con il D.L. 14/2017».
2.3.– Quanto poi alle specifiche disposizioni impugnate in via subordinata dal ricorso statale, la Regione Veneto ne sostiene in parte la non fondatezza, e in parte l’inammissibilità.
Per quanto riguarda l’art.2, comma 2, esso avrebbe mera natura definitoria, come tale inidonea a interferire con la disciplina statale. Così come definito dalla disposizione in parola, d’altronde, il controllo di vicinato non costituirebbe uno strumento di politica criminale, ma una delle forme e dei sistemi coordinati e integrati di vigilanza e sicurezza locale e di quartiere di cui alla legge della Regione Veneto 7 maggio 2002, n. 9 (Interventi regionali per la promozione della legalità e della sicurezza), rappresentando esercizio di competenza «esclusivamente nell’ambito della “promozione della legalità”, quale materia-valore tesa alla diffusione di valori di civiltà e pacifica convivenza su cui si regge la Repubblica, che, di per sé, non costituisce, né può costituire, una attribuzione monopolistica in capo allo Stato».
In merito poi all’impugnazione dei commi 3 e 4 dell’art. 2, in tema di modalità attraverso cui attuare il controllo di vicinato e di promozione regionale di accordi o protocolli di intesa per il controllo di vicinato, si tratterebbe di disposizioni da cui non derivano obblighi in capo agli organi statali, senza alcuna violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., essendo la stipula degli accordi rimessa alla libera scelta delle parti, nel rispetto dei limiti imposti dalla legislazione statale. Gli accordi in questione sarebbero, d’altronde, quelli già previsti dall’art. 3, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, cui rinvierebbe l’art. 2, comma 4, della legge regionale impugnata; e la Regione, lungi dal dar luogo a soluzioni unilaterali e autoritative, opererebbe solo come «catalizzatore in funzione della promozione di soluzioni di controllo di vicinato», «nel solco già tracciato dalle linee generali e dalle linee guida» previste dal d.l. n. 14 del 2017.
La censura concernente l’art. 3, comma 2, lettera b), della legge regionale impugnata sarebbe poi inammissibile, non avendone il ricorso mostrato l’interferenza con i compiti svolti dalle autorità di pubblica sicurezza statali nell’ambito dell’analisi strategica dei fenomeni criminali, il monitoraggio regionale vertendo in realtà solo sugli effetti delle misure regionali.
Infine, l’art. 5, impugnato in ragione dell’interferenza che la banca dati regionale ivi prevista causerebbe rispetto all’attività di monitoraggio e raccolta dati delle forze dell’ordine statali, avrebbe, in realtà, il solo scopo di «monitorare l’efficacia delle misure attuative del controllo di vicinato», mentre la funzione ulteriore di «analisi dell’impatto sul territorio regionale delle diverse tipologie di reato» sarebbe subordinata «alla sottoscrizione di un’apposita convenzione con il Ministero dell’Interno». Non vi sarebbe, pertanto, alcuna interferenza o sovrapposizione con le banche dati del CED interforze di cui all’art. 7, comma 1, della legge 1 aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza), avendo la banca dati regionale il solo scopo di monitorare le attività svolte dagli enti locali «in attuazione dei protocolli di intesa e dei patti per la sicurezza e di verificarne gli effetti con la fornitura, proprio da parte dello stesso Ministero degli Interni, dei dati sull’andamento dell’attività repressiva dei reati».
3.– In prossimità dell’udienza, l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato memoria, contestando gli argomenti della Regione e ribadendo le tesi già articolate nel ricorso introduttivo.
In particolare, la difesa statale osserva che dal progetto di legge statale sul controllo di vicinato (A.C. n. 1250, citato dalla stessa difesa regionale) emergerebbe una perfetta sovrapponibilità con i contenuti della legge regionale impugnata, la quale finirebbe, così, per introdurre «differenziazioni su base regionale, che potrebbero pregiudicare la stessa efficacia dell’intervento legislativo dello Stato». Lungi dal «considerare solo gli aspetti di relazione associativa del fenomeno», anche la legge regionale – al pari del progetto di legge statale – recherebbe infatti «una disciplina organica del controllo di vicinato, anticipando – di fatto – l’approvazione dell’iniziativa parlamentare e interferendo – in questo modo – con l’esercizio delle attribuzioni statali in materia».
D’altra parte, osserva l’Avvocatura generale dello Stato nella propria memoria, la disciplina del controllo di vicinato non rientrerebbe tra gli ambiti di intervento demandati alle Regioni dal d.l. n. 14 del 2017, il cui art. 3 limiterebbe gli interventi regionali «ad iniziative – di carattere amministrativo – volte alla promozione e al sostegno – anche finanziario – delle politiche di sicurezza integrata», e pertanto sarebbe «del tutto inidone[o] a legittimare un intervento legislativo […] che di fatto introduce, nell’ordinamento regionale, la disciplina organica di un nuovo strumento di contrasto alla micro-criminalità urbana».
Con riguardo poi alle singole disposizioni impugnate, l’art. 2, comma 2, della legge regionale in esame non potrebbe dirsi, come sostenuto dalla Regione, norma priva di capacità lesiva: delimitando l’ambito di applicazione oggettivo della legge regionale impugnata e precisando i caratteri e le funzioni del controllo di vicinato, tale disposizione chiarirebbe infatti espressamente che tra le sue funzioni vi è quella di contribuire «all’attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio», con ciò offrendo una nozione regionale del «controllo di vicinato» che pregiudicherebbe «quelle imprescindibili esigenze di uniformità, che solo la legge dello Stato potrebbe garantire mediante l’elaborazione di una definizione valevole su tutto il territorio nazionale».
Non risponderebbe, poi, al vero che l’art. 2, commi 3 e 4, e l’art. 4, comma 1, della legge regionale impugnata non interferirebbero con le competenze statali, in quanto limitate a prevedere la stipulazione dei protocolli di intesa di cui all’art. 3, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017. Gli accordi in materia di sicurezza integrata cui tale norma statale rimanda, infatti, non potrebbero vertere nella materia del controllo di vicinato; né le norme regionali impugnate richiamerebbero in alcun modo le garanzie procedurali stabilite nelle linee generali cui il d.l. n. 14 del 2017 rinvia «a tutela delle attribuzioni istituzionali dei soggetti coinvolti nelle politiche di sicurezza integrata». Lo stesso art. 2, comma 4, della legge regionale impugnata contemplerebbe del resto il ricorso agli accordi tra Stato e Regione come mera ipotesi residuale, praticabile qualora ricorrano «condizioni» non meglio precisate; sicché le norme regionali in questione finirebbero per introdurre «strumenti innovativi e ulteriori rispetto a quelli previsti dal citato decreto legge, il cui obiettivo specifico è quello di garantire l’attuazione del “controllo di vicinato”, inteso […] come istituto di rafforzamento del controllo del territorio», con ciò invadendo le competenze esclusive statali di cui ai parametri invocati.
Non condivisibile sarebbe anche l’interpretazione dell’art. 3, comma 2, della legge regionale impugnata offerta dalla difesa regionale. Tale norma infatti non si limiterebbe a prevedere l’analisi dei risultati delle azioni di controllo di vicinato, senza interferire con l’attività di monitoraggio spettante alle forze di polizia dello Stato, posto che alla lettera b) disciplina espressamente la raccolta di dati e informazioni «sulla sicurezza nel contesto di riferimento», con ciò eccedendo il mero monitoraggio del controllo di vicinato e interferendo con i compiti di raccolta dati e informazioni sull’ordine e la sicurezza demandati al Ministero dell’interno dall’art. 6 della legge n. 121 del 1981.
D’altronde, tale interferenza sarebbe ulteriormente provata dall’art. 5 della legge regionale impugnata, ove si prevede «la creazione di una banca dati» regionale finalizzata, tra l’altro, all’analisi «sulla situazione concernente le potenziali tipologie di reati ed il loro impatto sul sistema territoriale» regionale; con il che si dimostrerebbe che il monitoraggio regionale non riguarderebbe solo l’efficacia degli interventi a favore del controllo di vicinato, bensì anche «l’analisi del tipo di criminalità presente sul territorio e l’impatto che essa ha in ambito regionale», trattandosi, in proposito, delle medesime funzioni attribuite dalla legge n. 121 del 1981 alla banca dati del CED, la cui disciplina – rientrando nella competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordine e sicurezza pubblica – apparirebbe in radice preclusa all’intervento del legislatore regionale.
Considerato in diritto
1.– Con il ricorso indicato in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato la legge della Regione Veneto 8 agosto 2019, n. 34 (Norme per il riconoscimento ed il sostegno della funzione sociale del controllo di vicinato nell’ambito di un sistema di cooperazione interistituzionale integrata per la promozione della sicurezza e della legalità), assumendone il contrasto complessivamente con gli artt. 117, secondo comma, lettere g) e h), e 118, terzo comma, della Costituzione.
1.1.– In via principale, la legge è impugnata nella sua interezza, in quanto contraria, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri:
– all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., che preclude in radice al legislatore regionale la disciplina dell’ordine pubblico e della sicurezza;
– all’art. 118, terzo comma, Cost., che riserva il coordinamento in detta materia al legislatore statale e, conseguentemente, preclude al legislatore regionale l’introduzione di regole di coordinamento interistituzionale;
– all’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., che riserva al legislatore statale l’ordinamento e l’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici e, conseguentemente, preclude al legislatore regionale di disporre delle competenze e delle attribuzioni di organi ed uffici pubblici statali.
1.2.– In via subordinata, sono impugnate le seguenti singole disposizioni della medesima legge regionale:
– gli artt. 1, 2, commi 2, 3 e 4, e 4, comma 1, lettera a), con riferimento a tutti e tre i parametri costituzionali menzionati;
– gli artt. 3, comma 2, lettera b), e 5, con riferimento al solo art. 117, secondo comma, lettera h), Cost.
2.– La Regione ha eccepito l’inammissibilità delle censure riferite all’intera legge impugnata, in quanto meramente assertive e generiche.
L’eccezione è infondata.
La legge regionale n. 34 del 2019 detta un’articolata disciplina relativa al controllo di vicinato, definito all’art. 2, comma 2, e al quale si riferiscono tutte le altre disposizioni, con la sola eccezione dell’art. 1, che enuncia generici obiettivi di promozione della civile e ordinata convivenza nelle città e nel territorio, da attuarsi mediante la collaborazione tra istituzioni e società civile nonché attraverso la partecipazione di quest’ultima alle politiche pubbliche. Tali obiettivi sono poi declinati dalla parte restante della legge con riferimento esclusivo – appunto – al controllo di vicinato.
La legge regionale ha, dunque, un contenuto fortemente omogeneo, che ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri impinge nella sua globalità in competenze esclusive dello Stato, la cui allegata invasione è oggetto di puntuale analisi da parte dell’Avvocatura generale dello Stato: dal che l’ammissibilità dell’impugnativa dell’intera legge (si vedano, analogamente, le sentenze n. 143 e n. 128 del 2020 e n. 194 del 2019).
3.– Nel merito, il ricorso è fondato rispetto all’intera legge, con riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera h), e 118, terzo comma, Cost.
3.1.– L’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. sancisce l’esclusiva competenza statale in materia di ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale; mentre l’art. 118, terzo comma, Cost. riserva alla legge statale la disciplina delle forme di coordinamento fra Stato e Regioni in questa materia.
Il thema decidendum consiste dunque nel determinare se, come ritiene la difesa statale, la legge regionale impugnata incida effettivamente sulla materia dell’ordine pubblico e della sicurezza; e se, in caso affermativo, essa sia riconducibile a forme di coordinamento fra Stato e Regioni in materia di ordine pubblico e sicurezza già contemplate da una disciplina statale adottata ai sensi dell’art. 118, terzo comma, Cost.
3.2.– La recente sentenza n. 285 del 2019 ha ricapitolato la giurisprudenza di questa Corte relativa alla nozione di ordine pubblico e sicurezza, approdando a esiti che meritano in questa sede di essere integralmente confermati.
L’endiadi contenuta nella lettera h) dell’art. 117, secondo comma, Cost. allude al complesso di «funzioni primariamente dirette a tutelare beni fondamentali, quali l’integrità fisica o psichica delle persone, la sicurezza dei possessi ed ogni altro bene che assume primaria importanza per l’esistenza stessa dell’ordinamento» (sentenza n. 290 del 2001). Tali funzioni, ha osservato questa Corte nella sentenza n. 285 del 2019, costituiscono una «materia in senso proprio, e cioè […] una materia oggettivamente delimitata», rispetto alla quale la prevenzione e repressione dei reati costituisce uno dei nuclei essenziali; materia che, peraltro, «non esclude l’intervento regionale in settori ad essa liminari», dovendosi in proposito distinguere tra un «nucleo duro della sicurezza di esclusiva competenza statale», definibile quale «sicurezza in “senso stretto” (o sicurezza primaria)», e una «sicurezza “in senso lato” (o sicurezza secondaria), capace di ricomprendere un fascio di funzioni intrecciate, corrispondenti a plurime e diversificate competenze di spettanza anche regionale».
Conseguentemente, «[a]lle Regioni è […] consentito realizzare una serie di azioni volte a migliorare le condizioni di vivibilità dei rispettivi territori, nell’ambito di competenze ad esse assegnate in via residuale o concorrente, come, ad esempio, le politiche (e i servizi) sociali, la polizia locale, l’assistenza sanitaria, il governo del territorio» (ancora, sentenza n. 285 del 2019), rientranti per l’appunto nel genus della “sicurezza secondaria”.
In coerente applicazione di questi principi, recenti pronunce di questa Corte hanno ad esempio ritenuto costituzionalmente legittime normative regionali che promuovono «azioni coordinate tra istituzioni, soggetti non profit, associazioni, istituzioni scolastiche e formative per favorire la cooperazione attiva tra la categoria professionale degli interpreti e traduttori e le forze di polizia locale ed altri organismi, allo scopo di intensificare l’attività di prevenzione nei confronti dei soggetti ritenuti vicini al mondo dell’estremismo e della radicalizzazione attribuibili a qualsiasi organizzazione terroristica» (sentenza n. 208 del 2018), che mirano a contrastare il cyberbullismo attraverso programmi di promozione culturale e finanziamenti regionali nell’ambito dell’educazione scolastica (sentenza n. 116 del 2019), o ancora ad istituire osservatori sulla legalità, con compiti consultivi e funzioni di studio, ricerca e diffusione delle conoscenze sul territorio, nonché a promuovere e sostenere la stipula di “protocolli di legalità” tra prefetture e amministrazioni aggiudicatrici per potenziare gli strumenti di prevenzione e contrasto dei fenomeni corruttivi e delle infiltrazioni mafiose (sentenza n. 177 del 2020).
Sono state invece dichiarate costituzionalmente illegittime normative regionali suscettibili di produrre interferenze, anche solo potenziali, nell’azione di prevenzione e repressione dei reati in senso stretto, considerata attinente al nucleo della “sicurezza primaria” di esclusiva competenza statale (si vedano, ad esempio, la già citata sentenza n. 177 del 2020, che ha annullato una disposizione regionale istitutiva di una banca dati dei beni confiscati alla criminalità organizzata esistenti sul territorio regionale, in ragione della sua interferenza con i compiti della Banca dati nazionale unica per la documentazione antimafia; la sentenza n. 35 del 2012, relativa a una normativa regionale in materia di tracciabilità dei flussi finanziari per prevenire infiltrazioni criminali; la sentenza n. 325 del 2011, relativa a una legge regionale che istituiva un’agenzia avente compiti sostanzialmente sovrapponibili a quelli dell’Agenzia statale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata).
Deve essere infine segnalato che lo stesso legislatore statale – con il decreto-legge 20 febbraio 2017 n. 14 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città), convertito, con modificazioni, nella legge 18 aprile 2017, n. 48 – ha dettato, in attuazione dell’art. 118, terzo comma, Cost., un’articolata disciplina volta a coordinare l’intervento dello Stato e delle Autonomie territoriali nella materia della “sicurezza integrata”, da intendersi come «l’insieme degli interventi assicurati dallo Stato, dalle Regioni, dalle Province autonome di Trento e Bolzano e dagli enti locali, nonché da altri soggetti istituzionali, al fine di concorrere, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze e responsabilità, alla promozione e all’attuazione di un sistema unitario e integrato di sicurezza per il benessere delle comunità territoriali» (art. 1, comma 2, d.l. n. 14 del 2017).
«Nel disegno del legislatore statale» – come rileva ancora la più volte menzionata sentenza n. 285 del 2019 – «l’intervento regionale dovrebbe assicurare le precondizioni per un più efficace esercizio delle classiche funzioni di ordine pubblico, per migliorare il contesto sociale e territoriale di riferimento, postulando l’intervento dello Stato in relazione a situazioni non altrimenti correggibili se non tramite l’esercizio dei tradizionali poteri coercitivi».
3.3.– La legge regionale in questa sede impugnata mira essenzialmente a promuovere la «funzione sociale del controllo di vicinato come strumento di prevenzione finalizzato al miglioramento della qualità di vita dei cittadini» (art. 2, comma 1), favorendo altresì la stipula di accordi o protocolli di intesa in materia tra gli uffici territoriali di governo e le amministrazioni locali (art. 2, comma 4), sostenendone in vario modo l’attività (artt. 3 e 4), e istituendo una banca dati per il monitoraggio dei relativi risultati (art. 5).
Tutto questo complesso di interventi ruota attorno alla nozione di «controllo di vicinato», definita dall’art. 2, comma 2, come «quella forma di cittadinanza attiva che favorisce lo sviluppo di una cultura di partecipazione al tema della sicurezza urbana ed integrata per il miglioramento della qualità della vita e dei livelli di coesione sociale e territoriale delle comunità, svolgendo una funzione di osservazione, ascolto e monitoraggio, quale contributo funzionale all’attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio. Non costituisce comunque oggetto dell’azione di controllo di vicinato l’assunzione di iniziative di intervento per la repressione di reati o di altre condotte a vario titolo sanzionabili, nonché la definizione di iniziative a qualsivoglia titolo incidenti sulla riservatezza delle persone».
Ritiene questa Corte che – nonostante l’esplicita esclusione dai compiti del controllo di vicinato della possibilità di intraprendere iniziative per la «repressione di reati» o comunque incidenti sulla riservatezza delle persone – l’espressa menzione, nella disposizione appena citata, della «attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio», lungi dall’alludere a mere «precondizioni per un più efficace esercizio delle classiche funzioni di ordine pubblico» (sentenza n. 285 del 2019) riconducibili alla nozione di “sicurezza secondaria”, non possa che riferirsi alla specifica finalità di “prevenzione dei reati”, da attuarsi mediante il classico strumento del controllo del territorio.
Tale finalità costituisce il nucleo centrale della funzione di pubblica sicurezza, certamente riconducibile – assieme alla funzione di “repressione dei reati” – al concetto di “sicurezza in senso stretto” o “sicurezza primaria”, di esclusiva competenza statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost.
In secondo luogo, il successivo comma 4 del citato art. 2 impegna la Giunta regionale a promuovere la stipula di accordi o protocolli di intesa tra Uffici territoriali di Governo ed enti locali «in materia di tutela dell’ordine e sicurezza pubblica»: con conseguente, ed esplicitamente rivendicata, interferenza del legislatore regionale in una materia in cui l’intervento regionale è in radice precluso, al di fuori delle ipotesi disciplinate espressamente dal legislatore statale ai sensi dell’art. 118, terzo comma, Cost. (ipotesi che, come subito si dirà, non ricorrono nella specie).
Ancora, la previsione all’art. 5 della legge regionale impugnata, di una banca dati regionale finalizzata anche all’analisi della «situazione concernente le potenziali tipologie di reati ed il loro impatto sul sistema territoriale» – banca dati che la stessa difesa regionale afferma dovrebbe essere alimentata, previa intesa con il Ministero dell’interno, con i «dati sull’andamento dell’attività repressiva dei reati» – mira ad affermare un ruolo della Regione nello specifico e ristretto ambito della sicurezza “primaria” riservata allo Stato, costituita dall’attività di prevenzione dei reati in senso stretto.
Tutto ciò, peraltro, senza che risulti chiaro quali siano i precisi ambiti materiali, distinti appunto dall’ordine pubblico e dalla sicurezza, e in ipotesi riconducibili alla sfera di competenza regionale, interessati dalla disciplina all’esame.
3.4.– Né, d’altra parte, le previsioni della legge regionale impugnata appaiono riconducibili a forme di coordinamento fra Stato e Regioni in materia di ordine pubblico e sicurezza già contemplate dalla legge statale ai sensi dell’art. 118, terzo comma, Cost.
Il d.l. n. 14 del 2017 ha fissato il quadro generale delle procedure e strumenti pattizi entro il quale lo Stato e le Autonomie territoriali possono collaborare per realizzare interventi congiunti aventi ad oggetto la «sicurezza integrata» – che presuppone essenzialmente il coordinamento e lo scambio di informazioni tra forze di polizia statali e polizia urbana – e la «sicurezza urbana» – definita dalla legge statale come «il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire anche attraverso interventi di riqualificazione, anche urbanistica, sociale e culturale, e recupero delle aree o dei siti degradati, l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, in particolare di tipo predatorio, la promozione della cultura del rispetto della legalità e l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile […]» (art. 4 d.l. n. 14 del 2017).
Tuttavia, il d.l. n. 14 del 2017 certo non conferisce alle Regioni la possibilità di legiferare con specifico riferimento alla promozione e organizzazione del coinvolgimento di «gruppi di soggetti residenti nello stesso quartiere o in zone contigue o ivi esercenti attività economiche» impegnati in attività di «osservazione, ascolto e monitoraggio» funzionali alla «prevenzione generale» e al «controllo del territorio» (art. 2, commi 2 e 3, della legge regionale impugnata): attività, tutte, inscindibilmente connesse con la funzione di prevenzione dei reati svolta dalle forze di polizia, e assai distanti da quelle espressamente menzionate dal decreto legge, che appaiono invece agevolmente riconducibili alla tutela della “sicurezza secondaria”, nell’accezione sopra precisata.
Il d.l. n. 14 del 2017 prevede, inoltre, che la collaborazione interistituzionale tra Stato, Regioni ed enti locali da esso disciplinata si svolga mediante precise scansioni procedimentali; scansioni in concreto realizzatesi, dopo l’entrata in vigore del decreto-legge, mediante l’adozione, con l’accordo del 24 gennaio 2018 in sede di Conferenza unificata, delle linee generali delle politiche pubbliche per la promozione della sicurezza integrata, in attuazione delle quali è previsto che possano essere stipulati tra singole Regioni (o Province autonome) e lo Stato specifici accordi, i quali a loro volta disciplinano gli interventi di promozione della sicurezza integrata nel territorio di riferimento. Per la sicurezza urbana, d’altro canto, il citato decreto-legge attribuisce alla Conferenza Stato-città ed autonomie locali il compito di adottare – in coerenza con le menzionate linee generali – delle linee guida (effettivamente approvate il 26 luglio 2018), alla stregua delle quali possono essere sottoscritti patti per l’attuazione della sicurezza urbana tra il prefetto e il sindaco (art. 5 d.l. n. 14 del 2017).
La legge regionale impugnata disciplina invece direttamente, al di fuori del quadro istituzionale menzionato, forme di collaborazione tra Stato ed enti locali con il sostegno della Regione, in una materia di esclusiva competenza statale, in cui l’intervento del legislatore regionale è ammissibile soltanto nel rispetto delle procedure e dei limiti sostanziali stabiliti dal legislatore statale ai sensi dell’art. 118, terzo comma, Cost. (in senso conforme, sentenza n. 134 del 2004, richiamata poi dalle sentenze n. 322 del 2006 e n. 167 del 2010).
3.5.– Da tutto ciò consegue la fondatezza della censura, spiegata in via principale dal ricorrente, di illegittimità costituzionale dell’intera legge regionale impugnata: e ciò sia con riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., per avere la stessa invaso una sfera di competenza esclusiva statale; sia con riferimento all’art. 118, terzo comma, Cost., per avere la legge regionale disciplinato forme di coordinamento tra Stato ed enti locali in materia di ordine pubblico e sicurezza, con il sostegno della stessa Regione, al di fuori dei casi previsti dalla legge statale, e con modalità non consentite da quest’ultima.
4.– Resta assorbita la doglianza formulata dalla difesa statale con riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., nonché quella presentata in via subordinata sugli artt. 1, 2, commi 2, 3 e 4, 3, comma 2, lettera b), 4, comma 1, lettera a), e 5 della medesima legge regionale n. 34 del 2019.
5.– La presente pronuncia di illegittimità costituzionale riposa esclusivamente sulla ritenuta invasione, da parte della Regione, delle competenze riservate dalla Costituzione al legislatore statale. Resta ferma naturalmente la possibilità, per la legge statale stessa, di disciplinare il controllo di vicinato, eventualmente avvalendosi del contributo delle stesse Regioni, come possibile strumento – funzionale a una piena attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, quarto comma, Cost. (sentenza n. 131 del 2020) – di partecipazione attiva e responsabilizzazione dei cittadini anche rispetto all’obiettivo di una più efficace prevenzione dei reati, attuata attraverso l’organizzazione di attività di ausilio e supporto alle attività istituzionali delle forze di polizia. Strumento, quello menzionato, che ben potrebbe essere ricondotto all’ampia nozione di sicurezza urbana fornita dal d.l. n. 14 del 2017, e che è del resto già oggetto, nel territorio nazionale, di numerosi protocolli di intesa stipulati dagli Uffici territoriali di Governo con i Comuni.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Veneto 8 agosto 2019, n. 34 (Norme per il riconoscimento ed il sostegno della funzione sociale del controllo di vicinato nell’ambito di un sistema di cooperazione interistituzionale integrata per la promozione della sicurezza e della legalità).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 ottobre 2020.
F.to:
Mario Rosario MORELLI, Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 12 novembre 2020.