Sentenza n. 220 del 2015

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SENTENZA N. 220

ANNO 2015

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                  Presidente

-           Giuseppe                     FRIGO                                               Giudice

-           Paolo                           GROSSI                                                    ”

-           Giorgio                        LATTANZI                                              ”

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

-           Giuliano                       AMATO                                                    ”

-           Silvana                         SCIARRA                                                ”

-           Daria                            de PRETIS                                                ”

-           Nicolò                          ZANON                                                    ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), aggiunto dall’art. 21 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), promosso dal Tribunale ordinario di Verona nel procedimento penale a carico di B.V. con ordinanza del 7 agosto 2014, iscritta al n. 5 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 ottobre 2015 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza depositata il 7 agosto 2014, il Tribunale ordinario di Verona, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), aggiunto dall’art. 21 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nella parte in cui – nel disporre che «Al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto a norma degli articoli 5 e 6 della presente legge si applicano le pene previste dall’art. 570 del codice penale» – non stabilisce, per tale reato, la procedibilità a querela.

Il giudice a quo premette di essere investito del processo penale nei confronti di una persona imputata di violazione continuata degli artt. «12-sexies e 6 della legge n. 898 del 1970, in relazione all’art. 570, comma 2, n. 2, c.p.», per essersi sottratto all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto a titolo di contributo al mantenimento, all’istruzione e all’educazione della figlia minore, posto a suo carico con sentenza del 14 gennaio 2010 in sede di pronuncia della cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Riferisce, altresì, che il procedimento penale era stato avviato a seguito di querela sporta dal coniuge divorziato. Successivamente, peraltro, quest’ultimo aveva rimesso la querela e l’imputato aveva accettato la remissione.

Al riguardo, il giudice a quo osserva che, in base ad un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità, il reato di omessa corresponsione dell’assegno divorzile deve ritenersi procedibile d’ufficio e non già a querela della persona offesa. Il rinvio all’art. 570 cod. pen., operato dall’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970, si riferisce, infatti, esclusivamente al regime sanzionatorio del delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare e non anche al relativo regime di procedibilità.

La conclusione risulterebbe avvalorata, secondo il giudice rimettente, dalla considerazione che l’art. 570 cod. pen. stabilisce, al suo interno, un regime di procedibilità differenziato: sempre a querela per le ipotesi previste dal primo comma e d’ufficio solo per alcune delle ipotesi più gravi previste dal secondo comma. Con la conseguenza che apparirebbe problematico anche individuare quale regime, tra questi, sarebbe stato eventualmente richiamato dalla norma denunciata.

La remissione della querela e la sua accettazione, intervenute nel caso di specie, rimarrebbero pertanto irrilevanti.

Secondo il giudice a quo, tuttavia, la mancata previsione della perseguibilità a querela del reato in esame porrebbe la norma censurata in contrasto con l’art. 3 Cost., generando irragionevoli disparità di trattamento di situazioni analoghe.

La sperequazione denunciata si riscontrerebbe, anzitutto, in rapporto alla figura criminosa di cui all’art. 388, secondo comma, cod. pen., che punisce la mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice concernente l’affidamento di minori: compreso, quindi, il provvedimento adottato con la pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio. Ai sensi dell’ultimo comma del medesimo art. 388, tale reato è, infatti, perseguibile a querela.

Il diverso regime di procedibilità delle due ipotesi criminose apparirebbe, peraltro, privo di ogni razionale giustificazione. Con riguardo al medesimo provvedimento giudiziale, il legislatore avrebbe, infatti, rimesso alla volontà dei privati coinvolti la perseguibilità delle condotte illecite che incidono sull’affidamento dei minori (materia normalmente sottratta al potere dispositivo delle parti), rendendo, invece, perseguibili d’ufficio quelle che investono i soli aspetti patrimoniali (soggetti, di norma, al predetto potere dispositivo).

La procedibilità officiosa del reato di cui all’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970 non potrebbe essere, dunque, spiegata con la maggiore gravità dei comportamenti repressi da detta disposizione. Al contrario, sarebbe il reato previsto dalla norma del codice penale a risultare più grave, non soltanto sul piano dei beni tutelati, ma anche in relazione alla condotta e al trattamento sanzionatorio.

La norma denunciata reprime, infatti, la mera inottemperanza al provvedimento del giudice, mentre l’art. 388, secondo comma, cod. pen. colpisce solo le più insidiose condotte elusive di quel provvedimento.

Con la sentenza 31 gennaio-31 maggio 2013, n. 23866, le sezioni unite della Corte di cassazione hanno, d’altra parte, chiarito che la pena applicabile per la violazione dell’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile è quella prevista dal primo comma dell’art. 570 cod. pen.: pena inferiore – quanto al massimo della pena detentiva alternativa – a quella stabilita per il reato di cui all’art. 388, secondo comma, cod. pen.

Una discrasia similare sarebbe ravvisabile in rapporto al reato previsto dall’art. 6 della legge 4 aprile 2001, n. 154 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari), che punisce con la pena indicata dall’art. 388, primo comma, cod. pen. «Chiunque elude l’ordine di protezione previsto dall’articolo 342-ter del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio». Anche in questo caso, infatti, richiamando l’ultimo comma dello stesso art. 388 cod. pen., il legislatore ha reso il reato procedibile a querela.

La perseguibilità è, dunque, rimessa alla libera determinazione delle parti persino nel caso di elusione del provvedimento con cui il giudice abbia disposto l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha tenuto una condotta gravemente pregiudizievole per l’integrità fisica o morale, ovvero per la libertà dell’altro coniuge o convivente. Il che renderebbe ancora più evidente l’incongruenza di un sistema che sottrae, invece, a tale libera determinazione la perseguibilità dell’inottemperanza al provvedimento del giudice, reso anche nel medesimo ambito, che stabilisce meri obblighi pecuniari.

Da ultimo, anche il raffronto con il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare, previsto dall’art. 570 cod. pen. – dal quale quello in esame riprende la risposta punitiva – evidenzierebbe irrazionali dissimmetrie.

Verrebbero in rilievo, al riguardo, le considerazioni sulla cui base la sesta sezione penale della Corte di cassazione, in una sentenza del 2004, aveva ritenuto, in via interpretativa, che il reato di cui all’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970 mutuasse dall’art. 570 cod. pen. anche il regime di procedibilità. A sostegno dell’assunto si era, in particolare, osservato come la sostituzione della perseguibilità d’ufficio con la procedibilità a querela di parte – operata dal legislatore, salve alcune eccezioni, rispetto al delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare con l’art. 90 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) – rispondesse all’idea che quel regime, «nella attuale realtà storica e giuridica della famiglia, si atteggia come limite all’intervento coercitivo statale all’interno dei rapporti familiari, segnando una svolta che si indirizza verso la privatizzazione del diritto di famiglia» (Corte di cassazione, sezione sesta, sentenza 2 marzo-7 maggio 2004, n. 21673).

Ancorché la predetta soluzione interpretativa non abbia – giustamente, secondo il rimettente – trovato seguito nella giurisprudenza di legittimità più recente, venendo disattesa anche dalle sezioni unite, gli «argomenti di sistema» svolti a suo supporto resterebbero comunque pienamente validi. Essi risulterebbero, anzi, rafforzati nel momento in cui si ritenga – come hanno fatto le sezioni unite – che il regime sanzionatorio richiamato dall’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970 sia quello previsto dal primo comma dell’art. 570 cod. pen., posto che a quel regime sanzionatorio il legislatore ha raccordato la procedibilità a querela.

Ne segue che ove il coniuge, in costanza del vincolo del matrimonio, si sottragga agli obblighi di assistenza materiale verso i figli – senza far mancare radicalmente loro i mezzi di sussistenza (ipotesi che, nel caso di figli minori, rientrerebbe nella previsione dell’art. 570, secondo comma, numero 2, cod. pen.) – la sua condotta illecita resta perseguibile a querela. Di contro, se a violare detti obblighi di assistenza è il coniuge divorziato, omettendo di versare l’assegno stabilito dal giudice civile, si procede d’ufficio.

Tale distonia non potrebbe essere giustificata con il rilievo che il coniuge divorziato viola con il suo comportamento un provvedimento giurisdizionale, giacché per la violazione dei provvedimenti giurisdizionali – attinenti pure alla famiglia e «ad aspetti anche più seri e rilevanti» – la procedibilità è sempre rimessa alla volontà privata.

2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.

La difesa dello Stato rileva come la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 423 del 1999, abbia già dichiarato manifestamente inammissibile una questione di legittimità analoga, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 29 Cost.

Relativamente all’art. 3 Cost. – unico parametro invocato dall’odierno rimettente – la Corte ha in particolare rilevato che la questione prospettata coglieva, «nelle situazioni poste a raffronto, solamente l’aspetto della diversa procedibilità del reato, senza considerare altri elementi di diversità della disciplina, relativi anche alle condotte penalmente sanzionate, rispettivamente, dall’art.12-sexies della legge n. 898 del 1970 e dall’art. 570 cod. pen.». Sicché – come già affermato dalla Corte stessa in precedenti occasioni (sentenza n. 325 del 1995, ordinanza n. 209 del 1997) – «l’intervento richiesto non renderebbe omogenee le discipline poste a raffronto, ma […] toccherebbe esclusivamente uno degli elementi che diversificano le fattispecie considerate».

Tali rilievi, riferiti al delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare, sarebbero estensibili, secondo la Presidenza del Consiglio, anche alle ulteriori figure criminose evocate dall’odierno rimettente come tertia comparationis.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Verona dubita della legittimità costituzionale dell’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), aggiunto dall’art. 21 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nella parte in cui – nel disporre che «Al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto a norma degli articoli 5 e 6 della presente legge si applicano le pene previste dall’art. 570 del codice penale» – non stabilisce, per tale reato, la procedibilità a querela.

La norma censurata violerebbe, in parte qua, l’art. 3 della Costituzione, determinando irragionevoli disparità di trattamento di situazioni analoghe.

La sperequazione denunciata emergerebbe, anzitutto, dal raffronto con l’ipotesi disciplinata dall’art. 388, secondo comma, cod. pen., che punisce la mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice concernente l’affidamento di minori, compreso, quindi, il provvedimento reso in sede di divorzio: reato – secondo il rimettente – più grave tanto sul piano degli interessi tutelati, quanto su quello della condotta, quanto ancora in rapporto al trattamento sanzionatorio, e in relazione al quale è, nondimeno, prevista la perseguibilità a querela.

Una discrasia analoga si riscontrerebbe, altresì, rispetto al reato di inosservanza degli ordini di protezione contro gli abusi familiari, delineato dall’art. 6 della legge 4 aprile 2001, n. 154 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari): figura criminosa posta anch’essa a presidio di interessi di maggior rilievo.

Verrebbe in considerazione, da ultimo, il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare, previsto all’art. 570 cod. pen. In base a tale disposizione, il coniuge che, in costanza di matrimonio, si sottrae agli obblighi di assistenza materiale verso i figli, senza far mancare loro radicalmente i mezzi di sussistenza, è perseguibile a querela; di contro, se a violare detti obblighi è il coniuge divorziato, omettendo di versare l’assegno, si procede – ingiustificatamente – d’ufficio.

2.– Nell’approccio al thema decidendum, giova ricordare come la norma incriminatrice di cui all’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970 tragga origine dalla ravvisata opportunità di colmare una lacuna di tutela, emersa a seguito dell’introduzione nell’ordinamento italiano dell’istituto del divorzio: vale a dire, l’assenza di presidi penalistici rafforzativi dell’obbligo di corrispondere l’assegno periodico fissato dal giudice civile, ai sensi dell’art. 5 della stessa legge n. 898 del 1970, in favore del coniuge divorziato più “debole”.

Smentendo il precedente indirizzo giurisprudenziale – secondo il quale poteva farsi ricorso, a determinate condizioni, alla previsione dell’art. 570, secondo comma, numero 2), cod. pen., nella parte in cui puniva chi facesse mancare i mezzi di sussistenza al coniuge anche legalmente separato, purché «non per sua colpa» – le sezioni unite della Corte di cassazione avevano, infatti, escluso che la citata norma del codice penale si prestasse a qualificare penalmente l’omessa corresponsione dell’assegno divorzile. Ciò, per l’assorbente ragione che, a seguito della sentenza di divorzio, l’avente diritto perdeva la qualità di «coniuge», richiesta dalla norma nel soggetto passivo del reato (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 26 gennaio-2 aprile 1985, n. 3038).

Tale presa di posizione induceva il legislatore ad intervenire al fine di accordare una esplicita tutela penale anche agli obblighi di assistenza economica nei confronti del coniuge divorziato. In luogo, tuttavia, di modificare l’art. 570 cod. pen., includendo nella sua sfera applicativa anche detto soggetto, il legislatore preferiva coniare, con la legge n. 74 del 1987, una norma incriminatrice autonoma (per l’appunto, il censurato art. 12-sexies), strutturata in modo sensibilmente diverso – e, cioè, specificamente imperniata sull’omessa corresponsione dell’assegno – facendo rinvio alla disposizione codicistica solamente quoad poenam. Inoltre, sebbene la lacuna di tutela riguardasse unicamente il coniuge divorziato – apparendo indubbia la perdurante operatività dell’art. 570 cod. pen. nel caso di violazione degli obblighi di assistenza del genitore divorziato nei confronti dei figli – il legislatore reputava opportuno inglobare nella nuova previsione punitiva, accanto all’assegno di divorzio, anche l’assegno per il mantenimento dei figli previsto dall’art. 6 della legge n. 898 del 1970, così da assicurargli una tutela ulteriore rispetto a quella apprestata dalla norma del codice penale. In analoga prospettiva, la sfera applicativa della norma veniva successivamente estesa dall’art. 3 della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli) anche all’assegno per il mantenimento dei figli di coniugi separati.

L’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970 non reca, peraltro, alcuna previsione in ordine alla procedibilità del reato: e ciò a differenza dell’art. 570 cod. pen., il cui terzo comma – aggiunto dall’art. 90 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) – rende invece perseguibile a querela il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare, fatta eccezione per i casi previsti dal numero 1) e, quando il reato è commesso nei confronti dei minori, dal numero 2) del secondo comma.

A fronte di tale dato normativo, la giurisprudenza di legittimità, dopo qualche oscillazione, appare allo stato consolidata nel ritenere che il reato previsto dalla norma censurata sia perseguibile d’ufficio. Tale soluzione interpretativa – recentemente avallata anche dalle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 31 gennaio-31 maggio 2013, n. 23866) – poggia sul rilievo che il richiamo all’art. 570 cod. pen., operato dall’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970, è finalizzato unicamente a determinare il trattamento sanzionatorio e non può, dunque, reputarsi comprensivo del regime di perseguibilità a querela previsto dalla norma richiamata.

Questa stessa Corte, d’altra parte, aveva dato per presupposta la perseguibilità officiosa del reato in esame nelle precedenti occasioni in cui era stata chiamata a verificarne la legittimità costituzionale (sentenza n. 325 del 1995; ordinanze n. 423 del 1999 e n. 209 del 1997).

Di conseguenza, non può dubitarsi che la premessa ermeneutica da cui muove l’odierno rimettente risponda effettivamente al “diritto vivente”.

3.– Ciò posto, la questione non è peraltro fondata.

Nella giurisprudenza di questa Corte è assolutamente costante l’affermazione che la scelta del regime di procedibilità dei reati «coinvolge la politica legislativa e deve, quindi, rimanere affidata a valutazioni discrezionali del legislatore, presupponendo bilanciamenti di interessi e opzioni di politica criminale spesso assai complessi, sindacabili in sede di giudizio di legittimità costituzionale solo per vizio di manifesta irrazionalità» (ordinanze n. 324 del 2013, n. 178 del 2003, n. 91 del 2001 e n. 354 del 1999; in senso analogo, altresì, sentenze n. 274 del 1997 e n. 7 del 1987).

Si è, altresì, precisato che il modo di perseguibilità non è necessariamente connesso alla maggiore o minore gravità del reato, quale si rivela con la misura della pena (sentenza n. 7 del 1987, ordinanza n. 91 del 2001), potendo correlarsi anche alla particolarità della fattispecie e del bene che con la condotta criminosa venga offeso (ordinanza n. 27 del 1971).

L’opzione per il regime della perseguibilità a querela non postula, inoltre, immancabilmente il carattere disponibile del diritto tutelato dalla norma penale e la natura meramente privatistica dell’interesse offeso. A spiegare l’istituto della querela concorrono, infatti, sia l’interesse pubblico sia l’interesse privato: la scelta di tale modo di procedibilità, in casi nei quali pure è innegabile la presenza di un interesse della collettività, deriva dal fatto che il legislatore, nella tenuità dell’interesse pubblico, ha preferito, per ragioni di politica criminale e di opportunità, rendere rilevante, come presupposto della perseguibilità del reato, la volontà del privato (ordinanza n. 204 del 1988).

Di tali principi la Corte ha fatto ripetute applicazioni al fine di disattendere questioni di legittimità costituzionale dirette, come l’attuale, a rendere perseguibili a querela – tramite la deduzione di ritenute ingiustificate disparità di trattamento fra ipotesi in assunto omogenee – reati per i quali il legislatore aveva previsto la perseguibilità d’ufficio (sentenze n. 7 del 1987, n. 189 del 1976 e n. 42 del 1975; ordinanze n. 324 del 2013, n. 91 del 2001, n. 354 del 1999 e n. 27 del 1971).

4.– Questa Corte è già stata chiamata, d’altra parte, in più occasioni a pronunciarsi sulla procedibilità d’ufficio del reato previsto dall’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970: regime la cui legittimità costituzionale era stata contestata dai giudici rimettenti proprio in ragione della sua distonia rispetto alla perseguibilità a querela del delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 cod. pen.), ritenuta foriera di ingiustificate disparità di trattamento tra i coniugi divorziati e i loro figli, da un lato, e i coniugi conviventi o separati e i loro figli, dall’altro.

Nella circostanza, la Corte ha riconosciuto che le due previsioni sanzionatorie poste a raffronto avevano una «radice comune», specie in rapporto alla posizione dei figli, essendo «evidente il comune fondamento delle prestazioni inerenti al loro mantenimento da parte dei genitori, prestazioni che possono atteggiarsi con modalità diverse, ma che sono comunque espressione di un medesimo dovere, indipendentemente dalla convivenza, dalla separazione o dal divorzio dei genitori» (sentenza n. 325 del 1995).

Le questioni sono state dichiarate, nondimeno, inammissibili (e, indi, manifestamente inammissibili), sul duplice rilievo che i rimettenti avevano denunciato disarmonie normative la cui ricomposizione rimaneva affidata al legislatore, sulla base di una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, e che, per altro verso, le fattispecie considerate differivano anche per elementi ulteriori rispetto al regime di procedibilità, così che l’accoglimento delle questioni non sarebbe comunque valso ad assicurare l’omogeneità delle discipline (sentenza n. 325 del 1995; ordinanze n. 423 del 1999 e n. 209 del 1997).

5.– Con riguardo alla questione oggi in esame, occorre preliminarmente rilevare come nel giudizio a quo si discuta dell’omesso versamento dell’assegno dovuto dall’imputato a titolo di contributo al mantenimento di un figlio minore.

È su tale ipotesi che va, pertanto, focalizzata l’attenzione: eventuali disparità di trattamento concernenti le inadempienze agli obblighi di assistenza economica nei confronti del coniuge divorziato non rileverebbero rispetto all’oggetto del processo principale (per un approccio similare, con riferimento a questioni relative allo stesso art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970, sentenza n. 472 del 1989, ordinanza n. 48 del 1990).

6.– Ciò puntualizzato, si deve osservare come i nuovi tertia comparationis evocati dall’odierno rimettente presentino elementi differenziali rispetto all’ipotesi regolata dalla norma censurata tali da impedire un loro utile raffronto ai presenti fini, o, comunque, da non consentire di ritenere valicato il limite all’ampia discrezionalità di cui il legislatore fruisce nella materia considerata.

Il discorso vale, in primo luogo, per il reato previsto dall’art. 388, secondo comma, cod. pen., nella parte in cui reprime l’inosservanza dolosa di un provvedimento del giudice concernente l’affidamento dei minori (reato perseguibile a querela in forza dell’ultimo comma del medesimo articolo). Al di là del (possibile) comune collegamento a provvedimenti adottati in sede di divorzio, la citata norma incriminatrice salvaguarda, infatti – per il tramite della protezione del bene “strumentale-intermedio” dell’imperatività delle decisioni giudiziarie – interessi “finali” distinti da quello tutelato dall’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970 (come, del resto, lo stesso rimettente riconosce e sottolinea).

L’assunto del rimettente, per cui gli interessi inerenti all’affidamento dei figli minori, cui ha riguardo la norma del codice – da intendere, secondo una corrente esegesi, come interessi relativi ai rapporti personali con il minore – dovrebbero considerarsi senz’altro “poziori” rispetto all’interesse al mantenimento dei figli stessi, presidiato dalla norma della legge speciale, si risolve, d’altra parte, in un giudizio di valore. Che si tratti di giudizio non privo di margini di opinabilità – segnatamente in relazione ai corollari che se ne dovrebbero trarre in punto di regime di perseguibilità – lo dimostra, peraltro, la stessa disciplina del delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare. Nell’ambito di quest’ultima, infatti, la procedibilità d’ufficio è prevista unicamente in rapporto a violazioni degli obblighi di assistenza materiale – in specie, per quanto qui interessa, quella consistente nel far mancare i «mezzi di sussistenza» ai figli minori o inabili al lavoro (art. 570, secondo comma, numero 2, cod. pen.) – e non anche a violazioni, pur gravi, degli obblighi di assistenza morale, che restano comunque perseguibili a querela.

In tale prospettiva, non può quindi ritenersi che trasmodi nell’irrazionalità manifesta e nell’arbitrio la scelta legislativa di prevedere, nelle situazioni di crisi o dissoluzione del rapporto coniugale – divorzio, ma anche separazione, in virtù della citata norma estensiva di cui all’art. 3 della legge n. 54 del 2006 – la perseguibilità d’ufficio delle inosservanze dei provvedimenti giudiziali che incidono sull’interesse al mantenimento dei figli minori, pur a fronte della perseguibilità a querela di quelle relative al loro affidamento.

Parimenti opinabile – prima ancora che non significativa, alla luce dei dirimenti rilievi che precedono – appare l’asserita maggiore gravità della condotta di «elusione» del provvedimento giudiziale, richiesta dall’art. 388, secondo comma, cod. pen., rispetto a quella di «sottrazione» all’obbligo di corrispondere l’assegno, cui si riferisce l’art. 12-sexies (suscettibile di essere integrata, per comune opinione, dalla mera inadempienza). Con riguardo all’inosservanza dei provvedimenti concernenti l’affidamento dei minori, la giurisprudenza di legittimità risulta, infatti, largamente orientata a ritenere penalmente rilevanti anche i comportamenti omissivi, escludendo, in ogni caso, che l’elusione dell’esecuzione del provvedimento debba essere necessariamente operata tramite una condotta subdola o con l’uso di particolari accorgimenti, come parrebbe invece supporre il giudice a quo.

Quanto, infine, al raffronto tra le pene edittali dei due reati, si è già ricordato come, per costante giurisprudenza di questa Corte, si tratti di elemento inidoneo, di per sé, a dimostrare l’irrazionalità del regime di perseguibilità adottato dal legislatore. Ciò, tanto più nel caso in esame, nel quale la previsione, per il delitto di cui all’art. 388, secondo comma, cod. pen., di una pena detentiva alternativa più elevata nel massimo rispetto a quella che – secondo la soluzione adottata dalle sezioni unite della Corte di cassazione con la citata sentenza 31 gennaio-31 maggio 2013, n. 23866 – connota il delitto in esame, può giustificarsi anche alla luce dell’ampia varietà di situazioni alle quali è applicabile la norma incriminatrice del codice penale (la quale reprime non soltanto l’inosservanza della generalità dei provvedimenti giurisdizionali relativi all’affidamento di persone minori o incapaci, ma anche di quelli che prescrivano misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito).

7.– Considerazioni similari possono formularsi anche in rapporto al reato di inosservanza degli ordini di protezione contro gli abusi familiari, di cui all’art. 6 della legge n. 154 del 2001 (che mutua dall’art. 388 cod. pen. tanto la risposta punitiva che il regime di perseguibilità a querela): delitto la cui eterogeneità rispetto alla figura criminosa in esame si presenta ancora più marcata.

L’ordine di protezione è, infatti, una misura civilistica – temporalmente circoscritta (art. 342-ter, terzo comma, cod. civ.) – contro la violenza delle relazioni familiari, che si affianca alla misura cautelare penale dell’allontanamento dalla casa familiare, prevista dall’art. 282-bis del codice di procedura penale (aggiunto dall’art. 1 della medesima legge n. 154 del 2001). Il suo presupposto, ai sensi dell’art. 342-bis cod. civ., è rappresentato da una «condotta del coniuge o di altro convivente» che sia «causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente».

In presenza di essa, il giudice, su istanza di parte, può ordinare la cessazione della condotta pregiudizievole e disporre l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che se ne è reso responsabile, prescrivendogli, altresì, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall’istante (art. 342-ter, primo comma, cod. civ.).

Appare, dunque, evidente come il provvedimento giudiziario salvaguardato dalla sanzione penale – ancorché adottato nell’ambito del procedimento di divorzio, secondo quanto previsto dall’art. 8, comma 1, della legge n. 154 del 2001 – abbia presupposti e finalità ben diversi da quelli del provvedimento che impone al coniuge divorziato di corrispondere un assegno a titolo di contributo al mantenimento dei figli minori: circostanza che impedisce nuovamente di far discendere dalla comparazione tra le due figure criminose l’esigenza costituzionale di rendere perseguibile a querela il reato di cui all’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970.

8.– Il giudice a quo torna, da ultimo, a denunciare la disparità di trattamento rispetto al delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 cod. pen.): tema sul quale, come accennato, la Corte si è già ripetutamente pronunciata nella seconda metà degli anni ’90 dello scorso secolo.

La censura formulata dal rimettente assume, peraltro, carattere di novità, connettendosi alla ricostruzione della sfera applicativa della fattispecie operata dalla Corte di cassazione con la sentenza 31 gennaio-31 maggio 2013, n. 23866, già più volte citata ad altri fini.

Nell’occasione, il giudice della nomofilachia ha affermato che – contrariamente a quanto sino ad allora ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità – l’indistinto richiamo dell’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970 alle «pene previste dall’art. 570 del codice penale» deve intendersi riferito alle pene alternative previste dal primo comma di tale articolo, e non a quelle congiunte comminate dal secondo comma.

A fianco di argomenti di ordine storico e sistematico, le sezioni unite hanno posto a fondamento di tale conclusione una significativa rivisitazione dello spettro di tutela dell’art. 570, primo comma, cod. pen. Secondo la tradizionale lettura giurisprudenziale – avuta di mira anche da questa Corte nelle precedenti decisioni dianzi ricordate – la violazione degli obblighi di assistenza materiale connessi alla qualità di coniuge o di genitore doveva ritenersi punita esclusivamente dal secondo comma dell’art. 570 cod. pen., attenendo la previsione punitiva del primo comma ai soli obblighi di assistenza morale. Proprio da tale premessa la giurisprudenza desumeva unanimemente che la pena applicabile per il delitto in esame fosse quella, più grave, prevista dal secondo comma dell’art. 570 cod. pen.: ciò, in ragione del fatto che l’art. 12-sexies sanziona la violazione di un obbligo di assistenza economica, e non già morale, con conseguente assimilabilità della figura criminosa per l’appunto alle ipotesi del secondo comma dell’art. 570 cod. pen., piuttosto che a quelle del primo. Prospettiva nella quale, peraltro, la fattispecie codicistica finiva per risultare, anche sul piano oggettivo, marcatamente asimmetrica – e più angusta – rispetto a quella delineata dalla legge speciale: la rilevanza penale della violazione degli obblighi di assistenza materiale nei confronti del coniuge convivente o separato, ovvero del figlio di coniugi conviventi, risultava, infatti, subordinata ad un estremo – far mancare i mezzi di sussistenza all’avente diritto (art. 570, secondo comma, numero 2, cod. pen.) – non richiesto nell’ipotesi regolata dall’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970.

Ad avviso delle sezioni unite, tuttavia, l’assunto per cui il primo comma dell’art. 570 cod. pen. sanzionerebbe la violazione dei soli obblighi di assistenza morale non può essere condiviso. Una nozione “allargata” dell’assistenza familiare – comprensiva anche degli obblighi di tipo materiale ed economico – sarebbe, infatti, imposta dalla normativa civilistica, nonché dal consolidato indirizzo della giurisprudenza civile, secondo il quale l’obbligo di assistenza «va ben al di là dell’obbligo di non far mancare al coniuge e ai figli i mezzi di sussistenza, ossia ciò che è indispensabile per farli vivere» (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 31 gennaio-31 maggio 2013, n. 23866). In questa diversa prospettiva, la figura criminosa descritta dall’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970 – imperniata sul semplice inadempimento dell’obbligo di corrispondere l’assegno stabilito dal giudice civile – si avvicinerebbe maggiormente, nella sostanza, a quella delineata dal citato primo comma dell’art. 570 cod. pen., che non a quella, più circoscritta, del secondo comma, costruita attorno alla privazione dei mezzi di sussistenza e, perciò, alla presenza di uno stato di bisogno del soggetto passivo.

Secondo il rimettente, il nuovo quadro interpretativo determinato dalla pronuncia delle sezioni unite imporrebbe di riconsiderare le conclusioni cui questa Corte era in precedenza pervenuta. La fattispecie disciplinata dal primo comma dell’art. 570, cod. pen., dalla quale il reato in discussione ripete – in base al nuovo arresto giurisprudenziale – la risposta punitiva, è infatti perseguibile a querela (diversamente da quella di cui al secondo comma, numero 2, ove commessa in danno di minori). Ciò renderebbe del tutto irrazionale l’adozione di un diverso regime di procedibilità nell’ipotesi che interessa: non comprendendosi per quale ragione si proceda a querela, ove a violare gli obblighi di assistenza economica verso i figli (pur senza far loro mancare i mezzi di sussistenza) sia il genitore coniugato, e si proceda invece d’ufficio ove la medesima violazione sia ascrivibile al genitore divorziato.

La tesi non può essere, peraltro, seguita.

Anche attribuendo alla ricostruzione delle sezioni unite il rango di (nuovo) “diritto vivente”, in considerazione del ruolo nomofilattico dell’organo da cui promana, permangono comunque tra le fattispecie in comparazione elementi differenziali, tali da non rendere “automatica” – sul piano dell’esigenza di ripristino del principio di eguaglianza – la richiesta estensione del regime di perseguibilità a querela alla figura criminosa prevista dalla legge speciale.

Diversamente, infatti, dall’art. 570, primo comma, cod. pen. – che punisce in modo generico chi si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale (oltre che alla qualità di coniuge) – l’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970 richiede l’inosservanza di uno specifico provvedimento giurisdizionale, che abbia disposto a carico del coniuge divorziato l’obbligo di corrispondere l’assegno.

Né giova obiettare che in altri casi – quali quelli disciplinati dall’art. 388, secondo comma, cod. pen. e dall’art. 6 della legge n. 154 del 2001 – il legislatore ha optato per la perseguibilità a querela di reati che postulano l’inosservanza di provvedimenti giurisdizionali parimenti attinenti alle relazioni familiari, giacché in tali casi – per quanto si è visto – l’imperatività delle decisioni giudiziarie è finalizzata alla salvaguardia di interessi distinti da quello protetto dalla norma censurata.

9.– Quale notazione conclusiva, non si può misconoscere che il sistema delle incriminazioni relative ai rapporti familiari risulti, nel suo complesso, frammentario e disarmonico.

Come già affermato in precedenza da questa Corte, peraltro – in assenza di discrasie qualificabili in termini di manifesta irrazionalità – il compito di ricomporre le predette disarmonie, sulla base di una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, resta affidato al legislatore.

La questione va dichiarata, dunque, non fondata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), aggiunto dall’art. 21 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Verona con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 ottobre 2015.

F.to:

Alessandro CRISCUOLO, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 5 novembre 2015.